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Nietzsche e la danza di Shiva – Umberto Bianchi

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A guardarlo sembrava uno dei tanti libri lì confusamente ammassati, all’interno degli angusti locali della libreria Europa. Conosco Miguel Serrano e quel titolo “Nietzsche e la Danza di Shiva” aveva istintivamente, attratto la mia attenzione. Ad un superficiale sguardo, avrebbe potuto esser confuso con uno dei tanti manualetti per iniziandi alla militanza politica. Ma sin dall’inizio della sua lettura, questo testo mi trascinava via via, in un vortice da cui non riuscivo a riemergere. Tesi fondante di Serrano, è il parallelismo tra i due pilastri ideologici di Nietzsche, Volontà di Potenza ed Eterno ritorno e l’Induismo della filosofia Samkhya e del Tantra Yoga. Tutto il testo è praticamente un inno a quel pensiero Vitalista che in Nietzsche trova la propria più pregante espressione, nell’idea di “Volontà di Potenza”, che rappresenta l’anelito primordiale dell’universo tutto e della miriade di esseri viventi che lo compongono. Tutti egualmente spinti ed animati da quella Volontà, che porta l’uomo a cercare di superare i propri angusti limiti per farsi Super/Oltre-Uomo, in un crescente anelito di tensione. Strumento principe per arrivare a questa trasmutazione di valori o, se vogliamo parlare in termini esoterici, al raggiungimento di questo superiore stato di coscienza, è l’accettazione dell’Eterno Ritorno, ovverosia dell’idea della circolarità del tempo. Ma, badate bene, qui Serrano è molto chiaro, Nietzsche da bravo Vitalista “fin de siecle”, non è un metafisico, tutt’altro. Egli concepisce la realtà come un immenso Chaos, o Essere-in Potenza, attraverso le correnti del quale, l’uomo dovrà sapersi destreggiare, cogliendo qualunque “opportunità” vada via via, presentandosi. Manifestandosi la realtà tutta, all’interno di un tempo circolare e ciclico ed essendo costitutivamente finita, ad ogni ciclico alternarsi, essa dovrà tornare a manifestarsi identica a come si era  precedentemente manifestata. L’accettare con spirito leggiadro, quasi fosse una danza, il continuo ripetersi di gioie e dolori, il nascere, vivere e morire, per poi rinascere dopo un istante, è ciò che predispone l’uomo a far di sé un Oltre/Super-Uomo. Ma il riuscire a fruire dell’Eterno Ritorno, all’interno del Cerchio, non è cosa da tutti.

Prendendo le mosse dalla filosofia Samkhya , Serrano ci dice che a poter vivere dell’Eterno Ritorno è il Jvanmukti, il “liberato”, colui che dall’umano stato di Jvan, passa ad uno superiore, in virtù del fatto di essersi riuscito a liberare dall’illusione ingenerata da Prakriti/Materia, per ricongiungersi a quello di Purusha/Essere. In ambito tantrico, a mutare sono i nomi dei soggetti del dramma cosmico, laddove, nella filosofia Samkhya si parla di Purusha e di Prakriti, nel Tantra si parla di Shiva e di Shakti, ovverosia dell’ordine cosmico maschile e della sua distruttrice forza vitale femminile Shakti. Al fine di contenere Shakti, Shiva o Nataraja,  danza su una collana di fuoco, contemperando, al medesimo tempo, creazione  e distruzione. E così, nel nome dell’eterna contraddizione che caratterizza il ciclo dell’Essere tutto, Shakti andrà assumendo la valenza di Ishvara-Shiva, o Creatore femminile, mentre Shiva assumerà l’androgina valenza di Parama-Shiva, nel ruolo di principio neutro emanatore dell’Essere. In tal modo ogni possibile dualismo, è superato, ogni aspetto molteplice della realtà finisce con il coincidere in un principio unico, a sua volta però, capace di assumere una infinita molteplicità di aspetti.

Colui che sa osservare la danza dei mondi dal di fuori, ha recepito appieno e fatto suo il principio primo di Volontà Assoluta, che anima la Shakti, è un Vira/Eroe che addiviene allo stato di Shudibudishvabhaba/Trasmutato. Attraverso il rituale Panchatattva, egli andrà a conquistare Icchacuddi o Volontà Assoluta, che ne farà un semidio o un nume, una vera e propria incarnazione dell’ideale di quell’Oltre/Super Uomo, in grado di accettare il cerchio dell’Eterno Ritorno. Forse l’unica discrepanza ravvisabile nel testo del Serrano, sta nel fatto che l’intero Arya Dharma, (il complesso religioso e ideologico che accomuna Induismo, Buddhismo e Jainismo…) si fonda sul fatto che vero Moksa/Nirvana/ Liberazione è l’uscita dal Cerchio ciclico del Samsara, mentre per Nietzsche, vera liberazione è la permanenza in tale cerchio, attraverso la gioiosa accettazione del continuo ripetersi del ciclo delle esistenze, ovverosia di quel continuo “ek-sistere”, ovverosia oscillare tra l’Essere ed il Nulla, la qual cosa fa sì che l’uomo possa porsi nella condizione di andare, attraverso uno sforzo eroico, oltre i propri umani limiti.

Nietzsche, al pari di altri autori di quell’ambito romantico e vitalista, che va dal 18° sino alle soglie del 20° secolo, guardò ad Oriente con un occhio di interesse ed ammirazione. La sua visione incentrata sulla gioiosa accettazione della natura ciclica  della realtà e di tutte le sue conseguenze, non va, in verità, considerata quale laico ed ateo ripiegamento in favore di un quanto mai arido opportunismo scientista, quanto nell’ottica dell’esaltazione di quel Selbst/Sé o “Io” potenziato la cui “ipseità” va proprio rafforzandosi grazie ai continui stimoli offerti dalla circostante realtà. E questo spiega i postumi interessi di Nietzsche verso le scienze esatte, così come manifestati in scritti quali “La gaia Scienza” o nei frammenti de “La Volontà di Potenza”. Lo stesso Serrano ce lo fa capire, citando spesso e volentieri uno studioso come C.G.Jung, le cui ricerche sulla dimensione più profonda del Sé, ci portano ad una visione di introspettivo potenziamento dell’ “Io” e delle sue connessioni con l’Essere attraverso  la dimensione del simbolismo archetipico.

Quella di Nietzsche, a detta del Serrano, potrebbe esser considerata una versione occidentale, “iperborea”, dell’orientale principio di metempsicosi, proprio a causa del continuo avvicendarsi di cicli vitali che vedono avvicendarsi altrettanti “io”, tutti identici a sé stessi, ma aperti alla possibilità, attraverso l’Eterno Ritorno, di potenziarsi, spalancando a quei medesimi “io” la possibilità di divenire altro e meglio di sé. E così la personalità diviene solo una maschera, dietro alla quale rimane quel Selbst, quell’ ”Io-Archetipo”, aperto, tra una pausa dell’Essere all’altra, seguendo la ruota del Samsara, all’autoperfezionamento. Coerentemente con lo spirito che anima tutta la sua opera, quella dell’Eterno Ritorno di Nietzsche, non può esser considerata una costruzione definitiva, ma solamente il momento di un percorso di continuo auto perfezionamento, legato ad un doppio principio di Volontà-Casualità. A tal proposito, il Serrano muove una decisa critica ad Heidegger ed alla sua accusa a Nietzsche, di essere un “metafisico”, proprio a causa, a dire di questi, del suo presunto tentativo di porre dei paletti ontologici, addivenendo, tramite motivo come Volontà di Potenza ed Eterno Ritorno, ad una nuova costruzione metafisica.

La qual cosa, potrebbe nuovamente dar l’impressione di allontanare ambedue le visioni, quella nicciana e quella Hindu, le quali però, sebbene lontane per epoca e contesto, oltre ai motivi di cui abbiamo poc’anzi parlato, sono accomunate da un’altra fondamentale e primeva, intuizione. Una delle vicende portanti del poema Hindu Bhagavad Gita, ci narra della eroica figura di Arjuna (dalla radice sanscrita “Ar”-quale Virtù, Valore, Coraggio, da cui il greco “Aretè/Virtù”, il celtico Eire, l’avestico Iran-“Spazio Ario”, etc., sic!) che, preso dallo sconforto di fronte all’idea di dover combattere contro gli zii ed i cugini Pandava, viene rincuorato dal dio Krishna che, lo invita a riprendere le armi, non prima di porsi “al di là del bene e del male”, nel nome della virtù, mantenendo l’imperturbabile spirito di un vero praticante di Yoga. Così, quella che fu la primordiale intuizione delle tribù Indo Arie nella notte dei tempi, si è fatta Archetipo vivente ed è tornata a manifestarsi agli albori di una Modernità, della quale ha sparigliato, sin dal primo momento, le coordinate. Resta la conclusione che l’accettazione dell’Eterno Ritorno, attraverso una Volontà di Potenza, alla base della quale non può che stare il principio del superamento delle usali coordinate morali di Bene e Male, nel nome di una superiore “virtus”, non è cosa da tutti. E questo, sia che vi si voglia arrivare da una prospettiva di puro e laico vitalismo nicciano, che da quella offerta dal Tantra Yoga che, altresì, da quella offerta dalle Occidentali Scienze Ermetiche.

La realizzazione di un Uomo Nuovo, che sappia porsi al di là degli angusti limiti nei quali, oggi sempre più, è astretto e costretto un individuo occidentale sempre più omologato ai desiderata di una disumana tecno-economia, va oggi facendosi nobile sforzo e tentativo, di creare un esempio che possa porsi quale stella polare, per un quanto mai alienato e confuso genere umano.

“Buddhiyukto jahati ‘ha ubhe sukrtaduskrte tasmad yogaya yujyasva yogah karmasu kausalam"

 ("Colui che ha raggiunto l’equilibrio dell’intelligenza aggiogata elimina anche in questo mondo tutti e due, il bene e il male. Lotta dunque per realizzare lo yoga; lo yoga è abilità nell’agire”)

(Bhagavad Gita)

Umberto Bianchi

Il “bene” come parodia: il progresso secondo Flavio Ferraro – Luca Valentini

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Questa perdita del centro,

da parte di un mondo che è uscito dai suoi cardini,

si può scorgere anche nel paesaggio

e persino nei volti degli uomini” (1)

Quanto la deriva del più cieco economicismo  abbia ormai depauperato ogni dimensione spirituale dell’uomo contemporaneo, è costatazione che collima molto con un’ovvietà, ma quando la stessa sfera del Sacro si sia snaturata, falsificando se stessa e concedendosi a forme di parodia ovvero di perfetta inversione non solo formale, ma soprattutto sostanziale, è il tema su cui poco si rifletta, proprio perché è il tema primario che caratterizza la fase finale dell’Età del Lupo, come le saghe nordiche rappresentavano l’età oscura, in cui fatalmente ci si ritrova a vivere. L’uomo, ridotto alla sua pura animalità, vive per sopravvivere e con la solidificazione del manifestato alle sue spalle, sembra essersi volto ormai alla realizzazione del Quinto Stato, un gradino più in basso del mero materialismo, un viatico che perdurerà fino a quando sarà realizzata “la grande parodia”, immagine speculare e, quindi, invertita della polare Tradizione Primordiale,

affinché tutte le possibilità contenute nel Principio, anche le più basse, possano avere il loro compimento sul piano della manifestazione” (2).

Tutto ciò si configura come l’avvento di una spiritualità alla rovescia, seguendo il significato simbolico di Satana come scimmia di Dio, in cui si sono spalancate le porte alle influenze infere dell’infraumano, cioè all’omologazione planetaria e la distruzione del carattere interno di una massa alienata di uomini senza forza interiore:

…il passaggio allo stato libero e caotico di forze individuali e collettive, materiali, psichiche e spirituali che in precedenza erano state in vario modo vincolate da una legge dall’alto e da influenze d’ordine superiore” (3).

In ciò si manifestano le cosiddette “Fenditure della Grande Muraglia”, citate dal metafisico francese Renè Guenon (4), quale l’estinzione dell’Io che si determina non come una sua sublimazione, ma come con un suo annichilimento, nelle oscure contrade della palude psichica. Tutto ciò, recentemente, è stato brillantemente evidenziato in un sintetico ma ricco saggio di Flavio FerraroLa malvagità del bene. Il progressismo e la parodia della Tradizione – per Irfan Edizioni. Al giovane autore, curatore anche delle Odi del poeta britannico John Keats, può essere tributo il merito di aver inteso come il processo dissolutivo in atto debba essere considerato nella sua organicità, non sezionando la sfera economicistica dall’ontologia smarrita dell’anima, essendo lo psichismo, la medianità, il trans umanesimo forze oscure “democraticamente” e sinercigamente agenti insieme a quei processi di rimodulazione statutaria e sociale, che le immigrazioni di massa e le indotte crisi finanziarie, mirano, ormai non più occultamente a realizzare. Un principio, nel testo, è stato, dal nostro punto di vista, eccellentemente compreso. La stabilità interiore si realizza ove le acque inferiori si possono gelare o addirittura essiccare, ove la fissità di un’identità possa concretizzarsi. Al contrario,

quest’individuo fluido, inafferrabile, non conosce pace…La società globalista odia la fissità…” (5).

Flavio Ferraro descrive come l’impersonalità deviata collochi proprio in queste sinistre regioni il proprio regno, glorificando ad idoli immortali la passività, la soggezione, la promiscuità nei riguardi di un mondo che nel Caos ha il suo centro ordinatore. Nell’azione di tali forze infere,  ritroviamo raffigurati nella tradizione indù i demoni Koka e Vikokae nel Corano, le « orde di Gog e Magog » nella famosa Sura della Caverna (6).  L’esistenza di ciò che Vasile Lovinescu (Geticus) denominava le “Sette Torri del Diavolo” ed a cui l’autore dedica una specifica appendice (7), si connetterebbero con determinate localizzazioni geografiche in cui agirebbero della reali congreghe stregoniche, che avrebbero anche una duplice connessione simbolica sia con il petrolio e la sua estrazione, in qualità di Oro Nero – al di là di analisi finanziarie o geopolitiche – sia con la figura mitica del Dio dalla Testa d’Asino, il Seth degli Egizi.

Il testo, in linea con la parte migliore degli autori della Sophia Perennis, infine, risulta essere un agile e piacevole testo, atto ad una precisa presa di coscienza. Se l’Eudaimonìa per gli Antichi era intesa come affermazione del buon daimon personale, quale parte aurea della nostra personalità da riscoprire, indi scevra dai vincoli del materialismo quanto dello psichismo isterico e collettivo,  è d’uopo comprendere quanto il mondo del Bene attuale sia l’inversione di quel Bene che mirava e contemplava un Platone…

Note:

1 – Flavio Ferraro, La malvagità del bene, Irfan Edizioni, 2019, p. 11;

2 – Presentazione di Pietro Corvo in A. Bonatesta, La Sinarchia Universale, Edizioni Il Cinabro, Catania 1986, p. 6;

3 – J. Evola, Cavalcare la Tigre, Edizioni Mediterranee, Roma 1995, p. 24;

4 – . Guènon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Edizioni Adelphi, Milano 1995, p. 167:

5 - Flavio Ferraro, op. cit., p. 21;

6 – Corano, Al – Kahf,  Sura XVIII

7 - Flavio Ferraro, op. cit., p. 64ss.

 

Luca Valentini

Il senso della parola – Marco Calzoli

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La parola è stata definita come un guado nel passato. La vita umana in questa dimensione terrena è per natura breve e transeunte. I giorni dell’uomo si accavallano l’uno sull’altro in fretta e presto dileguano del tutto. Gli anziani dicono che la loro vita è stata come un soffio. Allora la parola scritta che rimane nel tempo può testimoniare della vicenda di persone oltre il limite fisico dei loro giorni. Cosa pensava un medioevale? Il basilisco, il rapporto con Dio, le concezioni del tempo di allora sono ancora testimoniate nelle opere. Cosa pensava un antico? Il fato, Zeus capo degli dei, la morte di Pan sono tutti racchiusi in quegli scrigni meravigliosi che sono le opere dell’antichità. Di solito nelle scuole italiane si approfondisce la storia dei greci e dei romani. Siamo grossomodo nel I millennio a. C. Gli strumenti che lo storico ha per ricostruire quel lontano passato sono i dati archeologici e le fonti scritte assunti secondo metodi di ricerca ben formalizzati. Gli ittiti sono una popolazione di lingua indoeuropea stanziata in Anatolia dal II millennio a. C. Ricostruire una civiltà più antica è un lavoro minuzioso portato avanti dagli storici con metodi diversi rispetto al passato greco e a quello romano. Anche gli ittiti hanno lasciato testimonianze scritte, per esempio nelle tavolette in cuneiforme. È per certi versi terribilmente straordinario riuscire a capire mediante queste testimonianze l’antica lingua di quella antica popolazione. Per esempio l’ittita fa luce su fenomeni linguistici che il vedico non ha. È vero che la scrittura ittita è imperfetta, ma ci sono certi fenomeni più antichi del sanscrito vedico. Ad esempio, la vocale a sanscrita oscilla tra ō, ŏ, ĕ. Anche Pāṇini, il grande formalizzatore del sanscrito classico, diceva che la a sanscrita non era pronunciata come una vera a. Ora, l’ittita fa oscillare, in maniera del tutto evidente foneticamente, la pronuncia di questa vocale tra due vocali: a, e.

Già nella letteratura ittita vi sono temi ricorrenti nelle civiltà del Mediterraneo. Pensiamo solo all’ossequio verso la parola (in una Bilingue un certo Zāzalla viene detto “oratore imbattibile”, mekki memiškatalla- come forma di esaltazione in quanto alle sue parole nessuno del consiglio degli anziani di Ebla osava avanzare obiezioni) e al motivo dell’abbandono del neonato, della sua salvezza prodigiosa e quindi della sua ascesa al potere (molto diffuso nelle tavolette ittite, pensiamo al Testo di Zalpa), presente, quest’ultimo, da Mosè a Romolo. E così via. Ma gli ittiti non sono all’origine di questo patrimonio di temi, che deriva invece dalla letteratura mesopotamica. “Questi esempi offrono innumerevoli prove della intertestualità presente nella letteratura ittita; tale fenomeno è il frutto del sapere degli scribi, che, conoscendo più lingue, erano in grado di riprendere e rielaborare motivi ricorrenti nella letteratura accadica o hurrita”[1]. La decifrazione dell’ittita ha rivoluzionato gli studi di indoeuropeistica. Oggi la linguistica storica è basata anche sulla ipotesi indoeuropea, che spiega somiglianze tra lingue distanti geograficamente senza giustificazione storica documentata. Se parole sanscrite somigliano a parole latine, ipotizza la teoria, è perché in una fase preistorica vi era una lingua comune di cui non ci è rimasta traccia, il cosiddetto indoeuropeo, dalla quale sarebbero nate molte altre lingue, come il sanscrito e il latino. Ricordiamo che l’indoeuropeistica è totalmente su base congetturale, in quanto l’indoeuropeo non ci è giunto. È possibile ricostruirlo, cioè ipotizzarlo, con il confronto tra le lingue che sarebbero da esso derivate. Se in sanscrito “fuoco” si dice agni e in latino ignis, è ricostruibile una forma analoga della parola per “fuoco” in indoeuropeo. Ma la ricostruzione dell’indoeuropeo lascia molti dubbi irrisolti. Per esempio, l’indoeuropeo avrebbe consonanti sorde, sonore e sonore aspirate. Ora, di norma in un sistema linguistico l’elemento marcato implica che il sistema stesso abbia anche l’elemento non marcato. Quindi l’indoeuropeo dovrebbe avere anche le sorde aspirate. Come colmare questa evidente lacuna? C’è chi ha proposto la teoria delle consonanti glottali (Gamkrelidze, Ivanov, e poi Hopper), secondo la quale il sistema consonantico  tripartito riconosciuto nell’indoeuropeo sarebbe l’evoluzione di una situazione originaria diversa[2]. In ogni modo molti studiosi, attraverso la ricostruzione linguistica, cercano di capire anche società e Urheimat (luogo di origine) degli indoeuropei. Nelle vaie lingue che si ritengono figlie dell’indoeuropeo c’è una buona attestazione del termine “padre” (molto usato in linguistica), questo significherebbe una cosa molto importante: la figura paterna era alla base della società indoeuropea.

Come il cinese si basa sul monosillabo, il semitico sulla radice triconsonantica[3], l’indoeuropeo si basa  su un modello di radice CVC, consonante-vocale-consonante. La definizione della teoria della radice indoeuropea la abbiamo con Benveniste, è stata poi reinterpretata da Miller, e in seguito sviluppata da nomi come Maurer, Ammer, Magnusson, Jucquois. In ogni modo la scoperta della lingua ittita ha evidenziato molti altri fenomeni fonetici prima non conosciuti. Se l’idea classica era che la radice indoeuropea non inizi mai per vocale, l’anatolico potrebbe far ipotizzare altrimenti[4]. L’ittita presenta “l’assenza di una distinzione tra maschile e femminile; un’economia di coniugazione abbastanza particolare, dove gli stessi elementi formali identificati altrove si presentano in rapporti diversi; la conservazione di certi fonemi, che considerazioni di tipo algebrico, in assenza di effettiva documentazione, avevano indotto ad anteporre nella ricostruzione”[5]. Tutto questo induce gli studiosi a riconsiderare molti elementi della indoeuropeistica classica oppure a intendere l’ittita come una lingua a sé.

Secondo il Modello dell’Albero, storicamente le lingue si differenziano come i rami di una pianta, cioè c’è una lingua madre, che dà altre lingue, ognuna di queste produce ulteriori lingue. Oggi gli studiosi riconoscono che questo modello sia troppo semplicistico e vi sostituiscono la Teoria delle Onde, per la quale l’evoluzione linguistica è come un’onda che si propaga in uno stagno. Se si lancia un sasso in acqua, si produce un’onda, cioè da una causa si produce un mutamento linguistico, una legge fonetica. Ma se lanciamo altri sassi, ci sono altre onde che producono a loro volta altri mutamenti linguistici. Queste onde si possono intersecare e produrre quindi mutamenti tra loro complessissimi, tanto che non si possono identificare con precisione. Già Ascoli, il padre della linguistica italiana, diceva che quando qualcosa non avviene è perché ha agito un’altra legge fonetica che non conosciamo. In questa situazione che deve essere complessissima, per alcuni si pone la diversità dell’ittita: devono essere successi tanti e tali mutamenti che non conosciamo e che così giustificano questa “stranezza”. Qual è la lingua più antica dell’umanità? Per molto tempo si è creduto che sia il sanscrito vedico, con il quale sono espressi i Veda, i testi sacri dell’induismo. Oggi molti però fanno anteporre l’ittita al vedico: sarebbe l’ittita la lingua indoeuropea di più antica attestazione. Quindi bisogna andare ancora più indietro nel tempo. Le civiltà più antiche dotate di scrittura (o perlomeno di segni grafici coerenti) si collocherebbero attorno al III millennio a.C. e sarebbero tre: quella egiziana, quella sumerica e quella della Valle dell’Indo. Il primo scrittore della storia di cui si abbia il nome è una donna, Enheduanna, figlia di Sargon, re degli Accadi, sacerdotessa a Ur, vissuta nel XXIV secolo a. C. Il suo componimento più famoso è in sumerico ed è conosciuto come L’esaltazione di Inanna. Già in quei tempi remoti ci sono alcune linee guida che saranno comuni fino all’uomo d’oggi, anche se nello specifico le differenze sono più rilevanti delle somiglianze. Il concetto di dio e il suo culto. La scrittura. La tecnica magico-scientifica per influenzare la realtà. L’uomo nella comunità. Il concetto di fato e destino. Quest’ultimo è alquanto diverso da quello di dio. Prendiamo l’esempio della Mesopotamia. Il fato non è oggetto di culto e non ha un nome proprio, ma viene genericamente definito shimptu in accadico. È qualcosa di impersonale. E questo è evidente soprattutto nel concetto mesopotamico di ME, termine sumerico intraducibile che indica le forze impersonali che costituiscono la realtà, che la guidano e che è possibile controllare mediante tecniche particolari da parte degli dei ma anche da parte degli uomini. Nella concezione mesopotamica gli dei hanno la possibilità di dirigere il fato e in pratica lo rendono operativo e efficace[6]. Gli accadi hanno mutuato il concetto sumerico di me e hanno anche semiticizzato la parola facendola diventare mŭ (la desinenza –u ne fa una forma semitica) o la hanno tradotta parsu, “ordine dei riti”. Ma si è persa la tradizione fino ai giorni nostri, quindi ogni tentativo odierno di comprensione adeguata del concetto di me è vana[7].

Altre parole intraducibile della religione sumerica che hanno a che fare in qualche modo con la nostra idea di forza impersonale sono: nam (la regalità è detta nam-lugal: come se il re fosse scelto proprio dal fato?) e giš-hur (letteralmente “disegno, piano”)[8]. La lingua di più antica vita sarebbe l’egiziano, che vanterebbe una storia di 5000 anni, cioè fino ad oggi: il copto è l’ultima fase dell’egiziano ed è ancora oggi la lingua usata nella liturgia di certe chiese cristiane orientali. Il copto è espresso in un alfabeto derivato da quello greco con alcuni segni mutuati dalla scrittura demotica. I Testi delle Piramidi sono scritti in antico egiziano, mentre l’egiziano classico è la fase successiva, detta medio egiziano, la lingua di Ramses II. Segue il neoegiziano, una lingua profondamente diversa, quella di Amenofi IV. Poi viene il demotico. Solo il copto ha un sistema di scrittura alfabetico, mentre antico egiziano, medio egiziano e neoegiziano sono espressi in geroglifico, ieratico e demotico. Champollion nell’Ottocento riuscì a decifrare il geroglifico. Egli era un profondo conoscitore della lingua copta e della scrittura copta e studiando la Stele di Rosetta entrò nella storia con questa grande scoperta. La bibliografia sulla lingua egiziana e in genere sull’egittologia è di inusitata vastità. Gli studiosi hanno esaminato ogni aspetto del lessico, della morfologia, della sintassi, della semantica, della storia e della scrittura di questa lingua così affascinante ma anche così difficile. Sono necessari molti anni di impegno per saper decifrare e capire un testo in geroglifico. Poi gli studi sono così numerosi che un egittologo si specializza in un certo periodo della storia dell’antico Egitto[9]. L’egittologia moderna nasce con la riscoperta dell’Egitto con le campagne napoleoniche. Quegli antichi manufatti sono carichi di un mistero sacrale che affascina ancora oggi gli specialisti come il grande pubblico. Sin da bambini abbiamo visto nei film il rituale della imbalsamazione, il quale però è poco conservato nella vastissima letteratura egiziana che ci è giunta (il manuale egiziano di imbalsamazione più antico in nostro possesso è il Papiro Louvre-Carlsberg), mentre ne parlano diffusamente gli storici classici (pensiamo a Erodoto o a Diodoro Siculo). L’imbalsamazione del corpo era il prerequisito per la sua sopravvivenza dopo la morte, che poi nemmeno esisteva per il faraone e i suoi dignitari, era un passaggio ai mondi superiori. Non tutti sanno che i geroglifici presenti nella tomba o i papiri sepolti assieme al corpo avevano la funzione magica di assicurarne il passaggio. A volte la mummia è ricoperta non solo di stoffa ma anche di strisce di papiro scritte con parole magiche, che gli studiosi riescono a leggere dopo millenni mediante tecniche sofisticate. È significativo che il termine egiziano per “parola” è medu, espresso dal geroglifico del bastone, come a dire che la parola è lo strumento mediante il quale avviene il viaggio tra le stelle per raggiungere il mondo dei beati. Quelle antiche piramidi che svettano dal deserto erano le tombe di personaggi illustri destinati alla immortalità, non per nulla il termine egiziano per “piramide” è mer, in sostanza “amore”, ma che andrebbe tradotto meglio con “attrazione”, perché indica l’unione tra poli opposti. La piramide quindi è l’incontro tra terra e cielo, tra il mondo materiale e quello spirituale in un abbraccio inscindibile.

Nei confronti delle divinità l’uomo si trova in una duplice modalità. Da una parte deve abbandonare ciò che Paolo chiama “uomo vecchio”: deve abbandonare la sua condizione meramente terrena, le sue pulsioni solo carnali. In ebraico la radice PLL indica la preghiera ed è etimologicamente collegata con l’arabo falla, “intaccare, rompere”, quindi la radice potrebbe indicare che chi prega mortifica la propria natura inferiore e solo così si eleva fino a Dio. Ma, dall’altra parte, l’uomo che incontra Dio porta a compimento la propria natura che, scevra della sola materialità, viene sublimata in qualcosa di superiore. È ciò che Paolo chiama “uomo nuovo”, per cui l’umano in Dio non viene annientato ma portato alla perfezione. Tommaso d’Aquino ha un passaggio che racchiude in sé il senso dell’intero cristianesimo: … cum enim gratia non tollat naturam sed perficiat, “poiché infatti la grazia non toglie la natura ma la porta a compimento” (Summa Theologiae I, 1, 8 ad 2). Sono state le eresie a voler eliminare del tutto la materia, invece il vero senso cristiano dell’uomo è che il suo ambito materiale venga non annientato ma portato a sviluppo in un ambito superiore. Per cui l’amore non va cancellato ma trasposto dalle creature al Creatore. Il sumerico è considerato una lingua isolata, come l’etrusco, il basco, il giapponese. In Mesopotamia dopo sorse anche l’accadico, che invece è la lingua semitica di più antica attestazione. Anche l’egiziano viene considerato da molti come una lingua isolata: ha notevoli somiglianze con le lingue semitiche e altrettante somiglianze con le lingue camitiche.

In Egitto tutto era sacro. La scrittura e l’arte erano funzionali alla trasmissione e alla esaltazione della religione. I sacerdoti egiziani erano a servizio degli dei e del faraone, considerato una divinità, figlio di Ra, il dio supremo del pantheon egiziano. Questi sacerdoti rispondevano ad un archetipo antichissimo per cui il sacro è collegato alla conoscenza. Erano loro i depositari della scienza egiziana, alquanto progredita, infatti i medici, che esercitavano entro i templi, facevano anche operazioni chirurgiche al cervello. Secondo la testimonianza di Porfirio (Sull’astinenza IV, 6), il filosofo stoico romano Cheremone diceva che i sacerdoti egiziani erano anche filosofi e si erano scelti i templi egiziani come luogo per praticare la filosofia. Nei Testi delle Piramidi appare come la parola sia usata anche in senso magico per cui le allitterazioni tra le parole egiziane e i giochi di parole conferivano al testo una particolare efficacia magica. Questo uso sacrale della parola compare anche nella Bibbia per cui i richiami fonici possono conferire forza magica al testo: in Ezechiele 21, 13 ss c’è il canto della spada, ove si dà forza magica alla spada mediante alcuni giochi di parole[10]. Questa concezione tipicamente orientale della parola si ritrova anche ai nostri giorni nella magia della Cabala. La Cabala ebraica è suddivisa in scuole anche molto diverse tra loro. Secondo certi maestri è possibile ottenere l’unione con il divino anche attraverso le 22 lettere dell’alfabeto ebraico.

La lingua ebraica è una lingua semitica attestata dal I millennio a. C.. E’ la lingua nella quale è scritta buona parte dell’Antico Testamento, la prima parte della Bibbia. All’inizio l’ebraico era scritto in caratteri fenici, poi dal IV secolo a. C in una scrittura derivata da quella aramaica e detta “ebraico quadrato”. I 22 segni dell’ebraico quadrato sono stati e sono tuttora oggetto di lavoro esoterico da parte della Cabala. Con essi è stata compiuta la creazione da parte di Dio, quindi le 22 lettere dell’alfabeto ebraico sono la chiave per capire tutto ciò che esiste, non solo ma anche lo strumento per risalire, dalla creazione, fino a Dio. Recitando la lingua ebraica è possibile contemplare l’Onnipotente. Ogni lettera ebraica ha un valore numerico, quindi zimmer, “cantare”, ha valore numerico di 247. Lo stesso valore numerico ha in ebraico la frase “Noè trovò grazia” (Genesi 6, 8). Allora i cabalisti concludono che chi canta la lingua ebraica è benedetto da Dio Onnipotente. Nel Salmo 81, 17 si legge: “Lo nutrirai con grano, lo sazierai con miele dalla roccia”. I cabalisti ebrei vedono in questo versetto un messaggio criptato di Dio Onnipotente. Grano, miele, roccia sono tre parole magiche che indicano l’evoluzione dell’uomo dalla schiavitù della materia all’incontro personale con Dio.

Grano è in ebraico chittà e ha valore numerico di 22, quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Come il grano permette il sostentamento dell’uomo materiale, così le lettere ebraiche permettono all’anima di vivere perché collegano l’uomo a Dio. Roccia è in ebraico tzur. Questa parola ebraica può permutarsi in rutz, “corri”: attraverso le lettere ebraiche si corre verso Dio, cioè si procede verso l’infinita sua onnipotenza, liberandosi dalla schiavitù dell’Egitto (la dimensione materiale) e quindi ottenendo l’unione mistica con Lui. Miele è in ebraico devash, che ha valore numerico 306, come la parola ebraica isha, “donna”. Quindi il miele allude all’incontro mistico con Dio. Come la donna permette l’estasi sessuale, la declamazione delle lettere ebraiche permette l’estasi spirituale con Dio, la salvezza, la liberazione dal mondo materiale e il ritorno nella Gerusalemme ultima. L’importanza enorme tributata alla parola si riscontra particolarmente nelle civiltà orientali. C’è un hapax in Qoelet 12, 9: “Qoelet oltre ad essere sapiente, insegnò anche la scienza al popolo e ‘yzen molte sentenze”. Il verbo ebraico ‘yzen ricorre una sola volta e quindi non si sa con certezza cosa significhi. Gli studiosi ipotizzano il significato “pesò” per via della connessione etimologica con la medesima radice araba. “Pesare le sentenze” equivale a dire misurarle metricamente, quindi proferirle?[11] In ogni modo sembra che questo verbo indichi la grande attenzione degli ebrei nei confronti della parola (“soppesata” attentamente), come è tipico di una civiltà orale, nella quale tra l’altro in un giudizio la testimonianza orale valeva molto di più di quella scritta. Se la parola è una entità importante e potente, allora può operare efficacemente nella realtà. L’ebraico dabar significa sia “parola” sia “cosa” sia “azione” sia “progetto”. Secondo una teoria, l’ebraico dabar avrebbe la stessa radice dell’arabo dubr, “schiena”: chi accetta questa connessione sostiene che in ambito semitico la parola significhi una entità dinamica di movimento (dal dietro in avanti) tesa a realizzare qualche cosa. Il Dio della Bibbia crea con la parola. Isaia 55, 11: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano più senza aver irrigato la terra ... così sarà la parola che esce dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver realizzato quanto volevo e senza aver compiuto ciò per cui l’ho inviata”. In base a questo campo semantico, la parola può anche nuocere assai gravemente, può fare male. In CD 10, 17 risulta che ai membri della comunità di Qumran era vietato di sabato “dire una parola stolta o cattiva o empia”, ‘l jdbr ‘jš dbr nbl wrq. Nella iscrizione aramaica di Panamuwa I a Hadad si legge questa frase: w’nk ḥrb w-lšn, “eliminai la spada e la lingua” dalla casa regale. Il verbo w’nk è una integrazione di Tropper: questa parola della iscrizione si legge male e ogni integrazione è congetturale. Il sostantivo aramaico antico lšn è “lingua”, quindi il significato della frase è che il re Panamuwa ha eliminato intrighi e maldicenze all’interno del palazzo. Del resto, altrove in aramaico e anche in ebraico lšn ha altresì un uso metaforico nel senso di “calunnia”. È significativo che la lingua venga messa sullo stesso piano della spada, ḥrb, e quindi della sedizione e della guerra (in siriaco ḥarbā significa sia “spada” sia “guerra”). La lingua tagliente o velenosa, come diciamo noi oggi, può fare molto male perché in sé è potente[12].

Quando pensiamo al mondo vicino orientale, ebraico, aramaico, mesopotamico, e così via, la letteratura e i diversi usi della parola non erano qualche cosa di privato, ma avevano sempre una funzione sociale, e per di più assai rilevante. Questo aspetto della parola era presente in parte anche nell’antica Grecia e nell’antica Roma. Nella Dedica in greco a Erode il Grande a Sī’ (Auranitide,  regione della Transgiordania settentrionale che costituì la provincia greco-romana ricordata con questo nome da Giuseppe Flavio) si può leggere: “Al Re Erode Signore, io Obaisatos figlio di Saodos posi la statua a mie spese”[13]. Il termine che abbiamo tradotto con “signore” è nell’originale greco della Dedica: kurios. All’inizio, per i sovrani orientali, come era Erode, il titolo “signore” non aveva valenza religiosa, come dimostrato a sufficienza da Cerfaux. In seguito venne applicato alle divinità per indicare la loro sovranità sulle persone: e diventerà quindi anche un termine tecnico del Nuovo Testamento riferito al Cristo. Nell’età antica con le parole e i titoli non si andava per la leggera. Appellare Cristo “signore” proprio con quel termine significava, in una società della parola, eleggerlo a tutti gli effetti davanti a tutti gli ebrei: capo politico. Quindi il potere effettivo romano non gradiva. Ad una attenta analisi dei vangeli, risulterebbe che Cristo sia stato ucciso come terrorista antiromano, cioè come zelota: fu crocifisso in mezzo a due “malfattori”, che era un termine di allora per indicare questa categoria di oppositori del potere romano. Non solo la Cabala, ma anche la tradizione musulmana ha sviluppato una autentica mistica della parola. In Corano 51, 56 è scritto: “E’ solo perché mi adorassero che ho creato i demoni e gli uomini”, wamā khalaqtu l-jina wal-insa illāliya’budūni. Quindi il fine ultimo della esistenza degli uomini poggia nella adorazione di Dio. In Corano 2, 30-32 è scritto che Dio diede alle cose i nomi e all’uomo la conoscenza di questi nomi delle cose. La tradizione islamica ha iniziato a vedere in questo celebre passo coranico un senso ulteriore: Dio insegnò all’uomo non solo la conoscenza dei nomi delle cose, ma anche dei Nomi di Dio (asma’ al-haqq). Se all’apertura del Corano si dice “In nome di Dio Clemente e Misericordioso” e non solo “In Dio”, questo significa che Dio ha dato al suo Nome un particolare valore. In Corano 77, 1 è scritto: “Glorifica il Nome del tuo Signore, l’Altissimo!”. La parola araba “glorificazione”, tasbih, è sinonimo di tanzih, che significa anche “trascendenza”: quindi la glorificazione del Nome di Dio è l’atto mediante il fedele riconosce la Trascendenza assoluta di Dio rispetto a tutte le creature[14]. Nella tradizione mistica islamica è sorta anche una scienza delle lettere, ‘ilm al-huruf, all’interno del sufismo[15]. Ci sono infiniti commenti riguardo al valore di certe lettere isolate che compaiono all’inizio di alcune sure del Corano. Ad esempio in apertura della sura seconda ci sono queste tre lettere isolate: A, L, M. Secondo un sapiente islamico, esse nascondono un senso segreto: il Nome di Dio, Ana ALlaH a’laM, “Io, Dio, Il Più Sapiente”. Ricordiamo che l’arabo Allah non è il nome proprio di una divinità, come Zeus o Atena, ma significa genericamente Dio. È formato infatti dalla radice semitica della divinità (‘el/’al) assieme all’articolo determinativo arabo al-, quindi Allah di per sé vuol dire “il Dio”, “Iddio”, nel senso di Dio Supremo. Secondo un’altra etimologia, Allah deriva dalla voce siriaca alaha, “divinità”. È una possibile etimologia degna di nota, in quanto l’arabo coranico presenta molti prestiti dalla lingua siriaca. Anche i vari maestri della Cabala parlano abbondantemente del valore mistico del Nome di Dio, che per gli ebrei è: YHWH. In Esodo 3, 14 Dio si rivela come “Io sono Colui che sono”, ‘Ehyeh asher ‘Ehyeh. Ma non solo la Cabala: tutta la tradizione ebraica si è soffermata sul mistero ineffabile del Nome di Dio. Ci sarebbe un collegamento tra Dio e le middot dell’uomo, cioè le sue azioni. Dio può essere percepito a seconda di quanto l’uomo è capace di percepirlo. Dio si manifesta severo con i peccatori e misericordioso con i giusti. Su questa linea un midrash recita: “Io sono chiamato ‘Ehyeh asher ‘Ehyeh secondo le mie azioni”.   Dio si manifesta secondo l’azione dell’uomo. Per i chassidim del XVIII secolo, un’altra corrente mistica ebraica, Dio regola il comportamento a seconda di quello dell’uomo. Quindi Shem Tov spiega il Nome di Dio ‘Ehyeh asher ‘Ehyeh sulla base del Salmo 121, 5 in cui si rivela: “Dio è la tua ombra”[16].

Ma da un punto di vista strettamente filologico la locuzione ebraica ‘Ehye asher ‘Ehyeh può essere intesa in diversi modi:

  1. La traduzione greca dei LXX la rendono come “Io sono colui che è”, vale a dire “Io sono l’Esistente”, in greco egō eimi o ōn.
  2. La traduzione italiana “Io sono colui che sono” pone l’attenzione su un modo di essere di Dio. Mosè chiede a Dio chi sia e Dio risponde in questo modo, dicendo di essere indicibile e incomprensibile per l’uomo.
  3. Nell’Antico Testamento il verbo essere all’imperfetto, prima persona, compare 65 volte assieme al passo di Esodo 3, 14: prescindendo dalle 22 attestazioni con W consecutivo e da alcuni passi dubbi, il verbo coniugato in questo modo ha sempre un significato futuro (o perlomeno ottativo), quindi andrebbe tradotto “Sarò colui che sarò”. Già le versioni antiche di Aquila e Teodozione rendono in greco esomai os esomai.  Il senso sarebbe uguale all’espressione “sarò con te”, ‘ehyeh ‘im, che compare poco sopra (Esodo 3, 12).

Il nome YHWH deriva dalla radice consonantica ebraica “essere, diventare” (nella sua forma arcaica) con un prefisso di terza persona maschile. Non presenta la vocalizzazione, quindi non sappiamo pronunciarlo. Gli ebrei ancora oggi non lo pronunciano e nei passi biblici in cui ricorre pronunciano al suo posto la parola Adonai, “Signore”. È evidente che YHWH sia collegato al nome “Io sono colui che sono” di Esodo 3, 14. I maestri della Cabala insegnano che meditando il Nome di Dio YHWH si può entrare in estasi e incontrare il Creatore. È significativo che nella Torah (i primi cinque libri della Bibbia) questo Nome compare 1820 volte, un  numero che è pari a 70 volte 26. Il numero 26 è pari al valore numerico delle lettere del Nome: Y (10), H (5), W (6), H (5). Mentre 70 è il valore numerico della parola ebraica sod, “segreto”. Come abbiamo detto, esistono differenti scuole di Cabala ebraica. Essa è stata rivisitata anche dai cristiani in modi assai diversi, esiste altresì un pensiero cabalistico ermetico. Ci sono anche sistemi iniziatici occidentali che si rifanno alla Cabala. Secondo uno di essi, esistono corrispondenze tra le Sephirot della Cabala e i chakra. Le 10 Sephirot assieme a Daat si dispongono in una configurazione detta Albero della Vita. Daat corrisponde al chakra della gola, invece Yesod al chakra dei genitali. Se si rovescia l’Albero della Vita e si sovrappone ad uno regolare, avvengono dei fenomeni indicativi di verità esoteriche. Daat si sovrappone a Yesod. Questo significa che il culmine della iniziazione è una Parola energizzata dalle energie sessuali. Daat (gola) viene energizzata da Yesod (genitali)[17]. È la Parola Ritrovata dopo averla Perduta. È il superamento del Peccato Originale. È il Resurrezione Cristica. La nuova creazione. Il Risveglio della Kundalini con l’apertura del Terzo Occhio. Altresì le concezioni indiane pongono in essere una vera e propria mistica del suono. I molteplici mondi emanano dal Principio divino mediante il suono AUṂ, quindi ripetendo questo mantra fondamentale è possibile risalire i mondi e ritornare alla Divinità primordiale. Allora gli dei, gli uomini e le cose derivano da quella vibrazione originaria, la quale costituisce tanto la loro essenza spirituale quanto il loro nome, ragion per cui conoscendo il nome degli dei, degli uomini e delle cose si ha un grandissimo potere su di essi. Il sanscrito ha 54 lettere, che costituiscono le 54 manifestazioni della Potenza divina, detta Shakti. Queste 54 lettere sono altrettanti parti del corpo di Shakti sparse nel mondo e presenti sia in vari territori dell’India meta di pellegrinaggio sia all’interno del corpo sottile dell’essere umano, il lingasharira, come centri di potenza, e alcuni di essi costituiscono i sette chakra[18].

Nella mitologia vedica si parla di un nome segreto all’origine della creazione. Ṛg-Veda X, 55, 2: mahat tan nāma guhyam puruspṛg yena bhūtaṃ janayo yena bhavyam, “questo è il grande, molto desiderato nome segreto dal quale hai generato tutto ciò che è divenuto e per cui (creerai) tutto ciò che sta per divenire”. Atharva-Veda XVII, 1, 29: mā mā prāpat pāpmā mota mṛtyur antar dadhe ‘haṃ salilena vācaḥ, “non mi colpisca né il maligno né la morte. Io vi interpongo l’oceano della parola”. Ci sarebbe quindi in filigrana una connessione tra il nome e l’elemento acquoreo: questo binomio sarebbe all’origine della creazione[19]. Per la mitologia indiana il principio assoluto della realtà è il Brahman e la sua prima manifestazione è Vāc, Parola.  Invece per la Scuola dello spanda, al principio di tutto vi sarebbe spanda (vibrazione, movimento). Secondo il trattato Yogavāsiṣṭha, c’è sì una entità assoluta che però emette una vibrazione (spanda) e questa determina svatā. Attraverso un processo graduale, come un accumulo di vibrazioni, si forma l’intero universo. Si tratta di una serie di vibrazioni o movimenti del pensiero di questa entità suprema, detti bhāvanā, propri del manas, la sua mente. È insomma un po’ come la divinità suprema del mazdeismo, Ahura Mazda, il cui nome significa “Signore che crea con il pensiero”. Questo trattato indiano sembra intendere lo spanda come il prāṇa dei śivaiti, il quale per l’appunto vibra. Questa energia che vibra dà origine alla mente dell’uomo e, dato che i pensieri umani sono a loro volta all’origine del mondo fenomenico, dà origine anche alle percezioni[20].

Qualcosa di analogo è presente pure nella mitologia norrena. L’abisso primordiale prima della creazione è detto Ginnungagap. In esso ad un certo punto emergono tre vibrazioni, tre camere sonore, rappresentate da tre esseri mitologici che formano il triangolo Valknut. Sono il suono collettivo da cui emersero le linee oscillanti, stav, della vibrazione sonora che ha creato l’universo[21]. Schneider si spinge a dire che nelle varie culture sempre all’inizio c’è vibrazione, suono, parola, musica. Ecco le sue parole: “La fonte dalla quale emana il mondo è sempre una fonte acustica. L’abisso primordiale, la bocca spalancata, la caverna che canta, il singing o supernatural ground degli Eschimesi, la fessura nella roccia delle Upanisad o il Tao degli antichi Cinesi, da cui il mondo emana ‘come un albero’, sono immagini dello spazio vuoto o del non essere, da cui spira il soffio appena percepibile del creatore. Questo suono, nato dal Vuoto, è il frutto di un pensiero che fa vibrare il Nulla e, propagandosi, crea lo spazio. È un monologo il cui corpo sonoro costituisce la prima manifestazione percepibile dell’Invisibile. L’abisso primordiale è dunque un ‘fondo di risonanza’, e il suono che ne scaturisce deve essere considerato come la prima forza creatrice, che nella maggior parte delle mitologie è personificata negli dei-cantori. Nei miti, la materializzazione di questi dei, nella forma di un musicista, di una caverna nella roccia o di una testa (umana o animale) che grida è, evidentemente, soltanto una concessione fatta al linguaggio più concreto e immaginoso del mito[22].

Il problema di Dio è stato affrontato da tutte le grandi civiltà. Per Girard tutte le religioni nascono dalla paura della morte. Eliade osservava che nelle civiltà antiche lo spazio di una città era organizzato secondo una precisa simbolica del centro, cioè attorno al tempio. Tuttavia sin dai tempi più remoti vediamo che gli dei e gli antenati erano venerati anche dentro la propria abitazione, pensiamo al culto dei numi tutelari presso i romani. L’abitazione richiama l’idea della famiglia e del clan di appartenenza. Tutti gli avvenimenti importanti di una famiglia romana avvenivano alla presenza delle effigi di questi numi tutelari, come se fossero realmente presenti. Come la divinità protegge dalla morte, così il parentado ha una funzione antropologica di sopravvivenza. Anticamente vi era un confine più sottile di oggi tra il mondo divino e la funzione familiare. Non per nulla nei popoli primitivi il linguaggio della parentela ha stretti collegamenti con il linguaggio del corpo, forse come se la parentela sia qualcosa di costitutivo della vita fisica e quindi della sua sopravvivenza[23]. Nell’antica Grecia vari ambienti della abitazione erano santuari dedicati a qualche divinità: per esempio le stanze negli angoli del salone (muchoi) erano dedicate a quelle divinità che proteggevano il guadagno, al quale la famiglia doveva la propria sussistenza. La stessa funzione di aiutare nella sussistenza ha, sul piano materiale, la famiglia e il clan. Anticamente presso i greci gli Eroi avevano la stessa funzione dei Lari romani, protettori: per Nietzsche il greco ērōes deriverebbe da sarv, servare, “proteggere”, pertanto la S iniziale cade con acquisizione dello spirito aspro, quindi abbiamo erFōes, il F cade e per allungamento di compenso otteniamo la forma ērōes[24]. Per altri la trascendenza è una tendenza innata in ogni uomo e quindi di riflesso in ogni civiltà. Per Tommaso d’Aquino l’uomo possiede una naturale tendenza a vedere Dio. In tutte le cose l’uomo cerca un Oltre. Ha una intelligenza che vuole arrivare alle cause delle cose, quindi in ultima istanza vuole arrivare a Dio. Ha una volontà intesa come appetitus boni, tendenza al bene, cioè in definitiva a Dio, che è il Sommo Bene. L’uomo lo cerca in tutto ciò che fa, ma nella materia non lo trova e non può mai giungere con le proprie forze a vedere Dio, anche vi tende sempre. L’incontro con Dio è, per Tommaso d’Aquino, una grazia concessa dall’Onnipotente. Esiste una vaga spiritualità in ogni persona, che è il rispetto per il bello, per il bene, per la grandezza. È l’amore per l’arte, l’amore per una donna o un figlio. C’è in tutto questo sempre qualcosa di sacro. La religione fa un passo in più e formalizza il sacro in una Persona divina, che vuole determinati riti. Il Dio di una religione chiede segni esteriori: andare in sinagoga per gli ebrei, andare a Messa per i cristiani, partecipare alla preghiera del venerdì per i musulmani. In ebraico “segno” si dice ‘ot, parola formata dalla prima lettera dell’alfabeto ebraico (Aleph) e dall’ultima (Tav). Quindi il segno esteriore deve essere, per l’uomo, il sigillo che accompagna tutta la vita, dall’inizio alla fine, come prova di fedeltà entro il rapporto sponsale tra Dio e l’uomo, sulla falsariga della rivelazione del profeta Osea.

Non stupisce quindi che nelle religioni ogni atto importante dell’uomo viene assunto come simbolo per l’unione con Dio. Nella Messa si offre pane e vino, elementi essenziali della vita umana. Nei culti di Shiva si rappresenta un grande fallo, segno della generazione umana. Tutte le religioni hanno nel culto l’elemento della parola, tratto distintivo dell’uomo rispetto agli animali: il testo sacro, il rito orale. Abbiamo visto la Cabala, che esalta la parola come strumento di unione con Dio. Spesso nei miti fondatori di una religione gli dei creano mediante la parola. Nell’antica Mesopotamia l’Enuma Elish è un’opera in accadico che mostra la creazione dell’universo come una grande battaglia tra potenze divine. Il testo era molto importante, quindi veniva declamato durante l’Akitu, il capodanno babilonese. L’uomo viene creato dagli Annunaki[25], esseri provenienti dal cielo mediante dei veicoli volanti. Il dio Marduk crea le costellazioni del cielo parlando. Su questa base babilonese forse è sorto il racconto della Bibbia ebraica per cui Dio nomina le cose e queste acquisiscono esistenza. All’inizio del Vangelo di Giovanni si dice che in principio era il Logos, cioè la Parola, e mediante il Logos tutto è stato fatto. Ma il potere creativo della parola è presente anche nel dio creatore egiziano Ptah e, se vogliamo risalire forse all’archetipo, in un famosissimo inno sumerico, dove la divinità è invocata come Lugal-an-ki, cioè Signore (lugal) del cielo (an) e della terra (ki), il quale è definito Parola Efficace (inim kal), in quanto dalla sua parola si squadernano e si accrescono tutte le cose esistenti. I filosofi stoici usavano il termine Logos per indicare il principio creatore; per il neoplatonismo era un essere reale; del Logos ne parlava anche Filone.

Spesso nei racconti mitici dei popoli antichi si parla dell’origine del mondo come di una battaglia tra dei, presente anche per affermare la supremazia nell’ambito della regalità divina. Pensiamo altresì al grande ciclo epico hurrita del dio Kumarbi, di cui abbiamo una versione ittita oggetto di indagine meticolosa da parte degli ittitologi. Una sua sezione è il  Canto di Ullikummi, nel quale si fronteggiano questo dio e il dio Tarhunta. Quest’ultimo chiede aiuto al dio Ea, il quale riesce a sconfiggere Ullikummi. Il testo ittita è molto chiaro. Ea informa: “Ecco, ho stroncato (hullanun) Ullikummi, il Basalto. Andate e continuate a colpirlo (zahhisketten) ulteriormente”. Sembra che sia il contrasto bellico tra il Caos, rappresentato da Ullikummi, e l’Ordine, infatti Ea è definito in ittita hattannas hassus, “re della sapienza”[26]. Quindi qualche fatto legato alla violenza pare essere presente anche nei racconti della creazione indoeuropei.  Lo sostiene pure Lincoln, il quale ipotizza sulla base delle testimonianze mitiche che il mito originario indoeuropeo della creazione prevedeva questo: il primo sacerdote officiò il primo sacrificio uccidendo suo fratello (e primo re) e il primo bovino. Pensiamo solo al Ṛg-Veda X, 30, 11-14, nel quale si narra che il mondo nasce dallo smembramento dell’Uomo Cosmico o Puruṣa[27]. Nel mondo antico la divinità concede i benefici all’umanità attraverso il sovrano, che è il suo rappresentante in terra. La Giustizia non è mai concepita come una entità laica, ma attiene alla sfera religiosa. La giustizia è un attributo della divinità, la quale mantiene l’ordinamento sociale, dispensa ogni tipo di beneficio alla comunità, rende a chiunque ciò che si merita. Nell’antico Egitto la dea Maat ha il nome che in egiziano significa “ordinamento, giustizia, verità”. In accadico la “giustizia” è detta misarum, da una radice semitica ben attestata in queste lingue: per esempio nella iscrizione fenicia di Ieḥimilk compare l’espressione mlk jšr, “re giusto”, ma è altrettanto significativo che nella Bibbia Samuele, uomo Dio, vuole guidare i connazionali be-derek haṭṭoba we-haješāra (1 Samuele 12, 23), “nella via buona e giusta” (si tratta sicuramente di una endiadi).

In questo senso la preghiera verso le divinità ha necessariamente un intermediario di primo livello: il sacerdote. Ma altresì un altro intermediario: il sovrano, che realizza quanto vuole la divinità, quando la divinità non interviene in maniera diretta. Nella Cina antica l’Imperatore nel corso dell’anno compiva una circumambulazione in senso solare attorno al Ming-Tang, il Tempio della Luce, ove egli risiedeva. Anticamente la Cina era costituita di 9 Province, simbolo dell’Universo, quindi la Cina era Terra Santa. Questa figura dell’universo era presente anche nel Ming-Tang. Ragion per cui l’Imperatore, evolvendosi attorno al Tempio della Luce, era il reggitore dell’armonia dell’universo[28]. La Bibbia demitizza la figura dei sovrani, riconoscendo un’unica divinità, il Dio di Israele, YHWH. Il re Davide viene considerato da molti il primo personaggio reale della letteratura: gli autori della Bibbia lo presentano con le sue mancanze, caratterizzandolo come una persona e come tale un personaggio sottomesso a Dio. La critica artistica degli ultimi tempi riconosce nell’arte un invito costante a trasformare il fruitore, nello specifico nella letteratura a trasformare il lettore. In senso religioso tale trasformazione si chiama conversione. Anche la letteratura biblica vuole convertire il fedele, quindi il fine ultimo della Bibbia non è quello di fare una cronaca della figura storica di Davide, ma di mostrare come Dio si serva dei suoi servitori umani per illuminare, guidare e salvare il popolo eletto e tutta l’umanità. Pertanto anche nella Bibbia i sovrani sono gli intermediari di Dio, pur mantenendosi questa differenza con le letterature vicine. I re della Bibbia, infatti, venivano unti, cioè consacrati per la missione.

Nella letteratura storica un autore informa su alcuni fatti storici, invece nella letteratura d’arte presenta una storia per far sorgere delle intuizioni nel lettore. Quando le intuizioni si accumulano, avviene la trasformazione. Quindi la figura di Davide viene presentata dalla Bibbia per far vedere come Dio agisce nella storia pubblica cosicché il lettore abbia l’intuizione di come Dio agisca nella storia personale. Il faraone egiziano era celebrato quale dio vivente sulla terra con rituali compiuti da sacerdoti a questo preposti. Rituali per il re erano presenti anche nel mondo ittita. Sono i rituali detti “per il labarna-re”. Un testo ittita così recita: “Soltanto lui è labarna. Ed il pane suo, del labarna re, noi mangiamo e la sua acqua beviamo. Puro vino noi berremo sempre dall’aura coppa. Il labarna re di Hattusa sia la nostra fortezza …”. Queste benedizioni sono state interpretate come collegate agli editti. Questi ultimi sono l’atto normativo, il quale trova forza nella celebrazione del re quale entità divina[29]. Mora ipotizza tre livelli nella organizzazione dell’impero ittita: I (Gran Re e principe); II (re di Kargamiš, al quale il Gran re diede particolari privilegi con lo scopo di aiutarlo nel potere); III (re vassalli)[30]. Anche l’Egitto faraonico aveva una struttura piramidale, con il faraone al vertice della piramide e i dignitari decrescendo. Strutture del potere così gerarchizzate presuppongono sempre una adorazione o quasi del capo umano, considerato in grado di comunicare con il potere divino, che così giustifica quello in terra.

La preghiera è nelle religioni antiche spesso ad alta voce, quella silenziosa è recente e deriva dalla ruminatio dei monaci Medioevali, cioè dalla lettura silenziosa del testo sacro. In 1Samuele 1, 13-14 Anna prega sotto voce e per questo il sacerdote pensa che si sia ubriacata. Le dice: “Liberati dal vino che hai bevuto!”, che nell’originale ebraico suona più icastico, hasiri ‘et ienek mechalayik. Il termine Corano deriva dal verbo arabo qara’a, “leggere, recitare”, probabilmente un calco dall’aramaico qeryana, usato sia dagli ebrei che dai cristiani dell’Arabia per indicare la lettura liturgica solenne ad alta voce dei testi sacri, che però i fedeli dovevano solo mormorare, ritualità espressa in arabo con un termine onomatopeico: zamzama. L’antico egiziano al mattino esprimeva verso il Creatore tutta la sua gioia mediante delle invocazioni ben attestate nei templi. Ci soffermiamo su una espressione tipica dei templi tolemaici, che in egiziano suona: hy hnw, espressione intraducibile che unisce parola e gesto nella espressione della gioia verso Dio. Indica l’esprimere preghiere a voce accompagnate da gesti di adorazione per dire a Dio quanto si è gioiosi di essersi svegliati e stare alla sua presenza. Nello specifico hy indica il grido di gioia, la preghiera cantata, mentre hnw è un moto di giubilo nel quale il saluto a Dio si coniuga con la musica e una gestualità tipica, nelle raffigurazioni vediamo un uomo con un ginocchio a terra, la mano sinistra chiusa a pugno sul petto, mentre il braccio destro con il pugno chiuso descrive un arco di cerchio sopra la testa. A File, nella stanza ipostila che si affaccia sul cortile da dove entra la luce dell’alba, è scritto nei confronti di Iside: “Signora della stoffa rossa, nbt ins, felicità e gesti gioiosi di hnw in Hut-Khenet e a File, hy hnw m ht-knt iw-rk”. L’espressione egiziana hy hnw che unisce parola e gesto per esprimere la gioia a Dio si è conservata ancora oggi nel sufismo, che è una corrente mistica dell’Islam. Precisamente nella nozione di zikr, dall’arabo dikr, che ripete in qualche modo quella antica cerimonia egiziana e indica nell’Egitto contemporaneo l’evocazione del nome del Creatore e la ripetizione ritmica di un gesto con l’obiettivo di accrescere il cuore e di riempirlo della luce divina assieme al volto[31].

Non esiste un solo Islam, così come non esiste un solo ebraismo. Si dice spesso che le tre religioni monoteiste sono ebraismo, cristianesimo e Islam[32]. Agli inizi gli ebrei credevano a più dei, traccia di questa concezione si trova nel termine ebraico per “Dio” che è Elohim, che è di per sé un plurale maschile. Il monoteismo negli ebrei sorse solo in seguito e fu ripreso dai cristiani. Nell’Arabia pre-islamica vi era tutto un pantheon di molteplici divinità: nel suo insieme questi culti sono tacciati dai musulmani come jāhiliyya, “ignoranza”: Maometto rivelò la vera fede nei confronti del Dio unico, in arabo Allah ahadun.  In ogni modo anche le varie correnti islamiche credono in entità intermedie come angeli, demoni e ginn. Nei molti secoli di storia del pensiero e delle pratiche musulmane il concetto di dikr è vastissimo, indicando la presenza di Dio nel cuore, le molteplici pratiche devozionali, e altro. Il primo trattato completo relativo al dikr lo abbiamo con un’opera di Ibn Ata’ Allah (morto nel 1309) intitolata Chiave della salvezza e lampada degli spiriti. Questo importante autore musulmano dà un taglio onnicomprensivo alla nozione di dikr non intendendo solo le infinite pratiche devozionali del sufismo ma anche la costante presenza di Dio nel cuore del musulmano. Chiunque ha nel cuore Dio, pratica dikr, quindi anche il teologo, il giurisperito, l’insegnante, il mufti, il predicatore, chiunque mediti sulla gloria di Dio. Ma per questo autore la gloria e unicità di Dio non sono in contrapposizione con le varie esistente create, che non vanno intese quali illusione, esistendo realmente, proprio perché create da Dio. Il mistico con la preghiera deve perdersi dapprima in Dio annullando tutto ciò che lo separa da Lui e poi ridiscendere nel mondo creato per trovare in esso la traccia sempre presente di Dio. È il concetto islamico di fana’, “estinzione” in Dio. Ma la piena realizzazione si chiama baqa’, caratteristica di chi non resta assorbito del tutto nella contemplazione di Dio ma ridiscende nel mondo con cuore e occhi nuovi, trovando in esso Dio[33].

Harnack definisce l’Islam una trasformazione della religione ebraica, già trasformata nel giudeo-cristianesimo gnostico, che si compie nell’arabismo. In certe correnti islamiche si trova qualcosa dello gnosticismo giudeo-cristiano, specialmente nella gnosi ismaelita. Gli ismaeliti sono una corrente dell’Islam sciita. La visione di Dio non è qualcosa di esterno, ma è una visione che avviene dentro l’anima, che quindi varia al variare della maturità dell’anima che vede. Per questo Origene diceva che Cristo è uomo per gli uomini, angelo per gli angeli. Un’anima di basso profilo vede cose materiali, e più si innalza nella purezza più vede cose spirituali. Esiste un solo Dio, ma la qualità della visione dipende dal grado di maturità dell’entità che vede. Nello gnosticismo cristiano il Dio cristiano si rivela, in questo senso, attraverso varie forme: Enoch, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Gesù. Sono i sette pilastri del mondo, le Sette Colonne della Casa della Saggezza. Insieme con Adamo sono gli otto Cristo tra gli uomini menzionati dal profeta Michea, ossia le otto visioni che gli uomini hanno di Dio o Adamo-Christos. Il manicheismo ha una analoga successione. Il Corano presenta una successione di Profeti, ma dal numero diverso. Si tratta di concezioni analoghe. Ma è la gnosi ismaelita che si collega meglio con la gnosi cristiana riguardante la visione di Dio: questo avviene precisamente nella dottrina ismaelita della  successione dei grandi Imam della storia. La successione degli Imam che è stata percepita nella storia non dipende da incarnazioni divine (holūl, tajassod) diverse, ma si tratta di un’unica incarnazione divina che è stata percepita dalle anime in maniera differente nel tempo, vale a dire in quanto maẓhar, Forma epifanica (come uno specchio in cui è sospesa l’immagine)[34]. Queste linee di pensiero non sono accettate dal cristianesimo non iniziatico, ma si tratta di tesi gnostiche. Il culmine della visione gnostica di Cristo lo abbiamo con la identificazione di Cristo e l’Arcangelo Gabriele. Il cristianesimo non iniziatico, invece, dà valore reale alla incarnazione di Dio in Cristo perché la realtà è realmente esistente per volontà di Dio. Invece le correnti esoteriche del cristianesimo tendono a eliminare la materia e a volerla trasfigurare in qualcosa di spirituale. La profetologia coranica diciamo così costituita dagli ortodossi non accetta in toto la visione ismaelita: i vari Profeti hanno una esistenza storica e non sono visioni diverse di Dio. A detta delle correnti più ortodosse dell’islam, il Corano presenta una visione reale della storia, perché la realtà è la creazione voluta da Dio.

Esistono differenti tipi di preghiere e di riti, da quelli per chiedere qualcosa a quelli per ringraziare. Il rito principale del cristianesimo è la Santa Messa, nel quale il pane e il vino si transustanziano nel corpo e nel sangue di Cristo. Cristo si offre “vittima” di questo sacrificio, è tale il significato latino della parola “ostia”. Poi Cristo risorge da morte. Si pronunciano queste parole: “Mistero della fede! Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Dal sacrificio della Santa Messa si riversano sulla chiesa e sul mondo intero tutte le grazie offerte da Dio. Pertanto la Santa Messa ha il duplice significato di richiesta di grazie e di ringraziamento per averle ricevute. La parola Eucaristia deriva dal greco con il significato di “ringraziamento”: il suo parallelo è la preghiera ebraica detta Berakà. Giovanni al capitolo 6 del suo vangelo usa una espressione significativa: “pane di vita”, che in greco suona artos tēs zōēs. Dato che, come proclama Paolo, Dio ha scelto di ricapitolare in Cristo tutte le cose, nel Santo Pane e nel Santo Sangue consacrati vi sarebbe per alcuni la quintessenza stessa di tutto quanto esiste. La liturgia della chiesa pellegrinante sulla terra si unisce a quella della chiesa salvata in Cielo, quindi un altro mistero della fede cristiana è quello per cui la Vergine Santissima, gli angeli e i santi si uniscono dal Cielo alle nostre voci qui sulla terra.

Secondo la teologia, Cristo è la Parola di Dio, quindi l’Eucaristia, essendo il corpo di Cristo, è anche Parola di Dio. È buona cosa, anche se non tassativa, partecipare alla comunione eucaristica dopo aver udito il vangelo della santa Messa. Maria ha concepito la Parola di Dio prima nella fede e poi nel suo grembo. La Parola di Dio prima di divenire carne, è stata il messaggio pronunciato dall’Angelo. La tradizione cristiana orientale e occidentale ha scritto cose mirabili sul corpo di Cristo. Nel Vangelo di Giovanni questo apostolo, definito Amato, riposa sul seno di Cristo, cioè vicino al cuore. Una antica omelia cristiana, la Seconda Lettera di Clemente, diceva che possono risposare sul seno di Cristo tutti coloro che osservano i suoi comandamenti. Anche qui c’è una forte unione tra il corpo di Cristo e la sua Parola o meglio il suo essere Parola di Dio. Forse il riferimento giovanneo al seno di Cristo trae la sua origine dal fatto che il neonato si addormenta sul seno della madre o del padre, e la tradizione cristiana ha parlato di questo sonno di Giovanni come preludio all’estasi divina. Ma nell’Egitto ellenizzato era diffuso anche il bacio sul petto. Oppure pensiamo anche al bambino che succhia il latte dal petto della madre. La tradizione cristiana allora ha parlato del credente succhia al petto di Cristo il latte della verità che abilita alla contemplazione del suo Volto[35]. Dio è visto da alcuni autori cristiani come un giudice che emette sentenze di condanna o di assoluzione. La parola quindi ha connotati anche negativi perché Dio può pronunciare due tipi di sentenza. È una immagine tipica dell’antichità classica, persino Aristotele riferisce il mito per cui dopo la morte le anime saranno giudicate dagli dei. L’Asclepio è un libro ermetico scritto in latino nel IV secolo d. C., è una libera traduzione di un testo greco perduto,  il Teleios Logos. Nell’Asclepio vi è la sintesi e lo sviluppo delle concezioni mitiche antiche riprese spesso dai filosofi greci. Dopo la morte l’anima viene guardata e così giudicata da un Demone dell’oltretomba il quale, sulla base delle azioni viste leggendo dentro, dà tre destini: una pena eterna o una beatitudine oppure una nuova incarnazione sulla terra per purificarsi. Qualcosa del genere è presente anche in Platone (Gorgia 523B-524A), il quale riferisce il mito per cui l’anima dopo la morte va o nel Tartaro o nell’Isola dei Beati[36].

Molto si è discusso sulla origine della filosofia greca e in passato si credeva che essa si fosse affermata come discorso razionale di contro al discorso mitico. Ma oggi gli storici della filosofia non sono sempre d’accordo con questa tesi. In Platone c’è molto di mitico e il ricorso al mito non è solo un vezzo di erudizione, ma è spesso fondativo del suo pensiero, così come avviene in Aristotele. Nell’antichità l’apologetica giudaico-ellenistica e  quella cristiana propugnavano l’origine non greca della filosofia: Mosè e la Bibbia precedevano i filosofi greci, i quali mutuarono le loro dottrine da queste fonti religiose. Cheremone diceva che la filosofia greca era nata su imitazione di quella egiziana. Filone di Biblo sosteneva che la cultura greca nacque da quella fenicia. In quegli anni dell’antichità in cui fioriva questo dibattito, comparve un discorso di Dione di Prusa (Discorso 36) nel quale egli utilizza un mito di origine iranica per confermare una dottrina della filosofia greca stoica. Ramelli ipotizza che Dione procede in questa maniera sottintendendo anche lui che la filosofia greca sia derivata da un archetipo non greco, nello specifico iranico[37]. In ogni modo, visto l’innegabile ricorso al mito dei filosofi greci, non stupisce che anche in Parmenide nel prologo della sua opera Sulla natura ci sia un riferimento al giudizio operato da Dike sulle anime. Infatti Parmenide nel suo viaggio iniziatico viene condotto nel mondo divino: “Là è la porta dei sentieri di Notte e Giorno … di cui Dike, che molto castiga, detiene le chiavi”. L’avverbio locativo greco entha, “là”, ricorre nella tradizione epico-teogonica in relazione all’Ade. Abbiamo tradotto “la porta”, ma nell’originale greco c’è il plurale pulai: alcuni autori traducono letteralmente con “piloni”, cioè i due pilastri che sorreggono l’architrave di una porta, volendo indicare quindi una sola porta; altri riferiscono il plurale a due porte distinte, una in faccia all’altra, per esempio Coxon, rifacendosi alle letture neoplatoniche di Simplicio e di Numenio, argomenta che si tratti delle due porte celesti nelle quali le anime dopo la morte sono condotte ora alla nuova incarnazione sulla terra ora al mondo celeste.

Un detto latino formula nomen omen, il nome ha un significato nella persona, è un presagio del suo destino. Nell’antichità il nome di una persona era scritto nelle defixiones, delle lamine di metallo con maledizioni, le quali erano sotterrate e quindi consegnate agli dei inferi per nuocere alla vittima: la presenza del nome dava particolare efficacia al rito di magia nera. In un noto testo egiziano Iside, quando vuole sconfiggere il dio avversario, si fa dire il nome con uno stratagemma: quindi per opera magica lo costringe ai suoi ordini. Nell’antico Egitto il nome era quasi una parte anatomica della persona e la più grande condanna era cancellare il nome, come i posteri fecero con il faraone Amenofi IV. Nell’Esodo 3, 14 Dio non rivela il proprio nome, ma si fa indicare mediante una locuzione: in ebraico suona ‘Ehyeh asher ‘Ehyeh, “io sono colui che sono” (che per Mendelssohn significa “Essere Eterno”, Ewiges Wesen). Nell’antica Roma anche Macrobio testimonia del rito della evocatio, per il quale i romani per sconfiggere una città assediata, come successe per Cartagine, evocavano le divinità protettrici della città nemica invitandole ad uscire e a venire a Roma, dove avrebbero continuato ad essere onorate. C’era certamente un aspetto di rispetto, ma lo scopo ultimo era di farsi aiutare dalle divinità a completare l’assedio. Per questo il nome della divinità protettrice di Roma era segretissimo, così come il nome alternativo della città. Era questo il motivo del successo militare incontrastato di Roma su tutto il mondo. Il nome della divinità compare nelle fonti che noi abbiamo, anche se sono contrastanti: Iuppiter, Luna, Angerona, Ops Consivia, e altri. Ma il nome alternativo di Roma è rimasto sconosciuto. Valerio Sorano pagò con la vita la colpa di aver rivelato il nome segreto di Roma[38]. In verità non sappiamo nemmeno l’etimologia di Roma, ci sono varie ipotesi. Una tra le tante la fa derivare dal greco romé, “forza”: del resto, secondo la leggenda Roma sarebbe sorta per opera di profughi greci.

La parola ha una grande forza. Parlando esprimiamo noi stessi e possiamo guardarci dentro con maggiore perspicacia. Molti psicologi contemporanei sostengono che il pensiero cosciente umano è discorsivo, cioè si fonda sul linguaggio. Invece quello inconscio si fonda sulle immagini. Pascal diceva che i problemi dell’uomo nascono perché questi non è in grado di meditare su sé stesso e sulla vita. Una tecnica psicoanalitica prevede di scrivere un diario con i propri pensieri: in questa maniera questi sono più chiari al soggetto e permettono anche all’analista di intuirne l’esatto significato. La parola quindi è strettamente connessa al nostro animo, tanto che i miti antichi favoleggiavano che conoscere il nome equivalesse a dominare la persona. È questa l’origine di tanti miti? In ittita il verbo mema/i significa di per sé “parlare”, assieme a appa in funzione avverbiale significa “parlare nuovamente”. Ora, è probabile che il verbo ittita in questione unito alla particella pronominale –za (che indica soggettività), al nome per “animo” in dativo-locativo (in ittita sono un caso solo: -za Zi-ni) e con appa, significhi “riflettere, pensare”[39]. Per millenni nelle società precristiane il divino era sperimentato attraverso il suono: la declamazione delle sacre scritture delle varie religioni, il canto, il lamento, la musica. La storia delle religioni dimostra che in questo scenario in cui il ritmo avvicinava al divino occupava un posto di primo piano il tamburo, che era suonato dalle donne, le quali quindi occupavano un posto preminente nel mondo magico-sacrale di allora. Solo in seguito con l’affermarsi del patriarcato la donna fu declassata dalla società e, mentre la parola e il canto continuavano ad essere una evocazione del divino dentro il fedele, il tamburo perse il suo valore di illuminazione sacrale, come sostiene Redmond. In buona sostanza, all’eclissarsi della funzione sacrale originaria della Dea e al conseguente affermarsi del patriarcato, le donne, i tamburi e quindi la evocazione del sacro subirono ferite devastanti[40]. Nel mondo semitico le divinità si manifestano di notte, invece in quello greco-romano si manifestano di giorno. La dea semitica Lilith, protettrice della magia, ha un nome che richiama l’oscurità. Invece il greco Zeus deriva da una radice indoeuropea che significa “giorno”: la radice indoeuropea è *djew-, ora per la legge di Lindeman la semivocale j, stando tra consonante e vocale, acquisisce una vocale prima di sé, pertanto deriva la forma greca Zeus. Da un punto di vista psicoanalitico, la musica è collegata nel nostro inconscio ai suoni che sentivamo nel periodo intrauterino. Il suono quindi richiama la figura materna, stiamo nell’ambito del femminile. Non è quindi casuale che nell’antichità la musica fosse associata alla donna. Alla donna pertiene anche l’ambito della notte, della luna, della magia. La notte richiama l’utero, la luna la passività e il ciclo mestruale, la magia l’incanto per cui dal suo grembo vede la luce una nuova vita. Secondo molti popoli antichi alcune divinità, come Lilith,  possono assumere forma di uccelli. Per l’antichità classica “sono tremendi gli dei se si mostrano visibili”, chalepoi de theoi phainesthai enargheis (Iliade XX, 131), quindi le divinità si manifestano spesso servendosi di altre forme, come anche la voce degli uccelli per dare oracoli: e solo gli auguri e i poeti possono capirla. Auguri e poeti pertanto sono gli intermediari tra divinità e uomini altresì attraverso la interpretazione del canto degli uccelli. Questo era visto come una vera e propria lingua: nel suo trattato di zoologia Aristotele sostiene che gli uccelli hanno e lingua sviluppatissima  (glōssa) e una phonē molto articolata[41].

Ancora oggi la Bibbia ebraica e il Corano vengono declamati in maniera ritmica rispettivamente da ebrei e musulmani. Si parla di cantillazione. Il Corano, dettato a Maometto dall’Angelo Gabriele, non è solo ispirato ma è considerata vera Parola di Dio. Il Corano non è solamente una somma di credenze religiose né unicamente un testo di spiritualità, ma esso statuisce tutta la vita, personale e sociale, dei credenti. Contrastare quanto scritto nel Corano equivale a tacciare Maometto di menzogna (kufr). Accusare una persona di kufr significa estrometterla dalla comunità dei credenti. Per i sunniti Maometto è il Sigillo dei profeti e il Corano è tale e quale lo ha trasmesso, invece gli sciiti ritengono che i primi califfi abbiano falsificato il Corano distruggendone parti fondamentali. Il vero Corano sarebbe stato trasmesso da Maometto a ‘Alī, e da lui stesso tramandato ai successivi Imam. Anche per lo sciismo Dio crea mediante la parola. Dio ha una intenzione (irāda) e un volere (mashī’a), i quali danno luogo all’ordine divino KUN, “sii”. Da ciò deriva innanzitutto il Principio Femminile, Luce, Kūnī, detto anche “calamo”, qalam. Da esso origina il Principio Maschile, Qadar, detto anche “tavoletta”, lawḥ. Si producono al-ḥurūf al-‘ulwiyya, le sette “lettere sublimi” (K, W, N, Y, Q, D, R), da cui origina tutto il mondo. Mentre i sunniti proclamano i califfi entro gli uomini più pii della comunità, gli sciiti vogliono rispettare il legame di sangue. Fortissimi dissidi dottrinali si formarono già dopo la morte di Maometto. Gli sciiti ritenevano che il legame di sangue assicurasse ad ‘Alī la stessa conoscenza concessa da Dio a Maometto. Perciò essi credevano che la comunità dovesse essere guidata dopo la morte di Maometto dagli Imam, di cui ‘Alī era il primo, che conoscono il “messaggio nascosto” della Rivelazione. Ciò implica storicamente la separazione tra  califfato e imamato. Ora i sette grandi Imam della storia traggono la loro autenticità di messaggio dal fatto che sono espressione delle sette “lettere sublimi”. Esse sono gli archetipi dei sette Imam. Il sacrificio è l’atto sacrale mediante il quale l’umanità offre agli dei le proprie sostanze per nutrirli, ingraziarli, ringraziarli. Le religioni sorgono di solito mediante sacrifici. Tutte le civiltà hanno eretto monumenti che sono rimasti nel tempo: eccezion fatta per quella vedica, che ha fondato la propria ragion d’essere esclusivamente sul sacrificio, considerato come base dell’intero universo. Il popolo ebraico è stato quasi sempre sottomesso e non ha lasciato nulla di importante davanti alle logiche del mondo, se non la religione e la Bibbia, il libro più venduto al mondo.

Anche la parola può considerarsi un sacrificio se pensiamo che lo scrittore sacro la usa per parlare di Dio. I musulmani non hanno sacerdoti, che offrono il sacrificio, perché Maometto non li ha voluti, ma hanno il Corano, il quale è Parola di Dio. Leggendo i testi sacri, si offre il proprio tempo a Dio come atto di sacrificio. Il tempo migliore è quello speso al cospetto di Dio.

Note:

[1] P. Dardano, Aspetti della testualità nella letteratura ittita, in Orientalia, NOVA SERIES Vol. 77, No. 1 (2008), pp. 45-72.

[2] Per approfondire: F. Fanciullo, Introduzione alla linguistica storica, Bologna 2007.

[3] Qualcosa di analogo alla ipotesi indoeuropea si ha nella ricostruzione del protosemitico nelle lingue semitiche. Le lingue semitiche, ben più omogenee di quelle indoeuropee, avrebbero anch’esse un capostipite comune, detto per l’appunto protosemitico. Ci sono evidenti fenomeni linguistici che accomunano accadico, aramaico, ebraico, arabo, e altre lingue. L’arabo è considerato una lingua storicamente recente (appare così definita con il Corano) ma dalla struttura antichissima, è molto conservativa dei fenomeni del protosemitico, tanto che gli studiosi usano il vocalismo dell’arabo per integrarle con le consonanti dell’accadico. Segnaliamo questo articolo ormai storico: S. Moscati, Sulla ricostruzione del protosemitico, in Rivista degli Studi Orientali Vol. 35 (1960), pp. 1-10. Fondamentale è: S. Moscati, An Introduction to the Comparative Grammar of the Semitic Languages, Wiesbaden 1980.

[4] Per approfondire: L. Alfieri, Radici Indoeuropee inizianti in *V, l’esistenza di *a- primaria, l’esito di *h3-e in anatolico, in Historische Sprachforschung/Historical Linguistics Bd. 123 (2010), pp. 1-139.

[5] A. Martinet, L’indoeuropeo. Lingue, popoli e culture, Roma-Bari 2001.

[6] G. Buccellati, La Trinità in un’ottica mesopotamica, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica Vol. 104, No. 1 (Gennaio-Marzo 2012), pp. 29-48.

[7] Per approfondire il me: G. R. Castellino, Il concetto sumerico di me, in Analecta Biblica Vol. 12 (1959), pp. 25-32; Y. Rosengarten, Sumer et le sacré, Paris 1977.

[8] W. von Soden, Introduzione all’orientalistica antica, Brescia 1989.

[9] Per il medio egiziano la grammatica introduttiva più usata nel mondo è: A. Gardiner, Egyptian Grammar, Oxford 1976. Un'altra grammatica importante è: J. P. Allen, Middle Egyptian, Cambridge 2000. Per importanti studi grammaticali sul medio egiziano: H. J. Polotsky, Collected Papers, Jerusalem 1971.  Il neoegiziano è un mondo a sé, gli egittologi si rifanno a grammatiche introduttive diverse: J. Cerny, S. Israelit-Groll, A Late Egyptian Grammar, Roma 1984; M. A. Korostovtsen, Grammaire du neo-egyptien, Moscou 1973. Per un approccio specialistico al medio egiziano si usano: M. Malaise, J. Winand, Grammaire raisonnée de l’égyptien classique, Liège 1999; G. Lefebvre, Grammaire de l’Égyptien classique, Le Caire 1955; P. Vernus, Future at Issue. Tense, Mood and Aspect in Middle Egyptian: Studies in Syntax and Semantics, YES 4; Yale Egyptological Seminar, New Haven, CT 1990; L. Depuydt, Fundamentals of Egyptian Grammar. I. Elements, Norton (MA) 1999; E. Doret, The Narrative Verbal System of Old and Middle Egyptian, Genève 1986. Oggi ci sono numerosissimi studi riguardanti i testi provenienti da El Amarna: per un orientamento grammaticale c’è F. Behnk, Grammatik der Texte aus  El Amarna, Paris 1930. Per il copto: B. Layton, A Coptic Grammar, Wiesbaden 2004. Tralasciamo gli studi sulle scritture (geroglifica, ieratica, demotica, copta), che non hanno numero.

[10] Nelle lingue semitiche le ripetizioni hanno non solo effetto sacrale-magico ma denotano anche elevatezza di stile, mentre nelle lingue classiche sono segno di arcaismo. Gli studiosi hanno trattato ampiamente un testo in ugaritico (lingua semitica), il poema di Aqhat, in cui c’è una struttura anaforica e all’improvviso la ripetizione della parola viene interrotta. Perché? Errore? Variazione stilistica dell’autore? Cfr. G. Mazzini, Errore dello scriba o effetto di stile in KTU 1.17 VI, 20-25?, in Egitto e Vicino Oriente Vol. 22/23 (1999-2000), pp. 163-166.

[11] G. Rinaldi, Alcuni termini ebraici relativi alla letteratura, in Biblica Vol. 40, No. 2 (1959), pp. 267-289.

[12] F. M. Fales, G. F. Grassi, L’aramaico antico. Storia, grammatica, testi commentati, Udine 2016.

[13] L. Boffo, Iscrizioni greche e latine per lo studio della Bibbia, Brescia 1994.

[14] Per approfondire: F. Chiabotti, Dottrina, pratica e realizzazione dei Nomi divini nell’opera di ‘Abd Al-Karim Al-Qushayri, in Divus Thomas Vol. 112, No. 3 (Settembre-Dicembre 2009), pp. 66-93.

[15] Il sufismo è un importante esempio di misticismo dell’Islam: esso suppone che per accedere a questa via mistica sia necessario essere musulmano, cioè avere recitato la shahada (professione di fede) e seguire i dettami della sharia, la legge sacra islamica. Esistono molte altre vie mistiche dell’Islam, anche se poco conosciute in Occidente. Secondo una confraternita mistica contemporanea, è possibile aderire a questa particolare via aderendo ai award, i riti della setta. Solo dopo, nella pratica, i murid, “discepoli”, penetreranno a fondo tutto l’Islam. Per approfondire: P. Abenante, Misticismo islamico: riflessioni sulle pratiche di una confraternita contemporanea, in Meridiana No. 2 (2005), pp. 65-94.

[16] E. Starobinski-Safran, Significato dei nomi divini – secondo Esodo 3 – nella tradizione rabbinica e secondo Filone d’Alessandria, in La Rassegna Mensile di Israel, Terza Serie, Vol. 41, No. 11/12 (Novembre-Dicembre 1975), pp. 546-556.

[17] K. Grant, Il lato notturno dell’Eden, Torino 2018.

[18] A. Grossato, Dottrina e metodo del “japa” nelle vie realizzative indù, in Divus Thomas Vol. 112, No. 3 (Settembre-Dicembre 2009), pp. 208-214.

[19] Ricostruzione assai interessante che troviamo in: V. Ariel Valenti, Naman-, l’acquoreo scorrere del pensiero, e momenti della creazione verbale vedica, in Studi Classici e Orientali Vol. 65, No. 1 (2019), pp. 25-52.

[20] B. Lo Turco, Il terzo Prakarana dello Yogavāsiṣṭha e la dottrina śivaita della vibrazione (spanda), in Rivista degli Studi Orientali Vol. 76, Fasc. 1-4 (2002), pp. 87-120.

[21] E. Zaupa, L’Antica Magia Norrena, Torino 2020.

[22] M. Schneider, La musica primitiva, Milano 1992.

[23] L. Lévy-Bruhl, L’anima primitiva, Torino 2013, riporta infatti che nelle lingue melanesiane e micronesiane dei primitivi le parole si dividono in due grandi gruppi: quelle con suffisso possessivo e quelle senza suffisso possessivo. Le prime comprendono soprattutto i termini che indicano le parti del corpo e quelli che indicano la parentela, come se quei primitivi intendano la parentela alla stregua di una funzione corporale.

[24] F. Nietzsche, Il servizio divino dei Greci, Milano 2012.

[25] Gli studiosi non sanno bene chi siano questi Annunaki. Per alcuni erano gli angeli di cui parla la Bibbia. Vale a dire delle divinità minori o secondarie che eseguivano gli ordini delle divinità superiori. Un po’ come gli Igigi erano sottomessi agli Annunaki. È interessante osservare come nel poema in accadico Atram-hasis compare un termine, awilum, riferito agli dei Igigi, che come  nominativo non avrebbe senso logico, quindi è stato interpretato dai filologi come locativo e tradotto “(erano) come gli uomini”. Perché questi dei erano come gli uomini? Sottomessi agli ordini degli Annunaki? Dovevano lavorare come gli uomini? (Ricordiamo che in quel periodo la lingua accadica aveva ancora i casi, che poi perderà per influsso della lingua aramaica).

[26] G. F. Del Monte, La Fine del Canto di Ullikummi, in Orientalia, NOVA SERIES, Vol. 79, No. 2 (2010), pp. 140-151.

[27] B. Lincoln, M. Baiocchi, Sacrificio e creazione, macellai e filosofi, in Studi Storici Anno 25, No. 4 (Ottobre-Dicembre 1984), pp. 859-874.

[28] R. Guénon, La Grande Triade, Milano 1980.

[29] M. Marazzi, La stabilizzazione di un potere centrale nel plateau anatolico durante la metà del II millennio a. C.: Riflessi ideologici nella produzione giuridico-letteraria ittita, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 12 (1982), pp. 93-98. Spesso gli ittitologi si trovano nella difficoltà di identificare con precisione importanti cariche statali del periodo ittita. Le tavolette ittite, infatti, presentano dei termini che gli studiosi non sanno capire adeguatamente. Per esempio, la figura del LUuryanni, la figura del LUKARTAPPU, e così via. Abbiamo perso una tradizione tra il mondo ittita e il mondo del potere come lo conosciamo da civiltà più recenti, quindi sono probabilmente problemi insolubili. Stessa cosa per usi scribali, stilemi, immagini, e così via. Per curiosità segnaliamo un’altra vexata quaestio affrontata dagli ittitologi: l’espressione (ANA) PANI NP nei colofoni ittiti.

[30] C. Mora, Lo status del re di Kargamiš, in Orientalia, NOVA SERIES, Vol. 62, No. 2 (1993), pp. 67-70.

[31] Per approfondire: G. Zaki, M3wt-ib e hy hnw: espressioni inniche di pregnanza semantica, in Aegyptus Anno 96 (2016) pp. 127-132. Una espressione di gioia dovrebbe essere alla base anche della formula ebraica Alleluja, termine ebraico che significa letteralmente “lodate Dio”, cioè “lodate (allelu) Dio (Ja)”. Ma a Seybold pare che all’inizio il verbo dovesse significare “giubilate”. In origine il verbo deve essere stato impiegato per il suo valore fonosimbolico, per i trilli acuti che vengono prodotti, con colpetti leggeri contro la gola (cosa che occasionalmente è possibile osservare ancora oggi). Questi trilli collettivi forse erano intonati in occasioni specifiche. K. Seybold, Poetica dei Salmi, Brescia 2007.

[32] Gli studiosi discutono se il faraone Amenofi IV abbia effettivamento creato un culto monoteista riguardo al dio solare Aton. Inoltre Bosc scrive che presso i celti “i Druidi conoscevano un solo Dio Be-il e conobbero il politeismo solo molto tempo dopo l’invasione romana. Bea-Uil, che per elisione o abbreviazione si pronuncia Be-il, significa ‘vita in ogni cosa’ o ‘la Sorgente degli esseri’ “, in E. Bosc, Belisama. L’occultismo celtico, Milano 2003.

[33] Per approfondire: G. Cecere, Maestro nelle due scienze: Ibn Ata’ Allah Al-Iskandari e le forme della preghiera, in Divus Thomas Vol. 112, No. 3 (Settembre-Dicembre 2009), pp. 94-117.

[34] H. Corbin, Tempo ciclico e gnosi ismaelita, Milano 2013. Anche l’alchimia arabo-islamica è un sapere molto sincretistico: si rifà a molte fonti. L’alchimia era un sapere tecnico di lavorazione dei metalli che precedette la chimica attuale e che si esprimeva in un linguaggio simbolico. È presente in molte culture, anche in quella islamica. Per esempio, nel trattato Ma’ al-waraqi di Ibn Umail al-Tamimi per indicare il passaggio alchemico dalla tenebra alla luce si usa l’immagine di un cane che cambia colore, conformemente a una metafora presente addirittura nei Veda. Vd. P. Carusi, L’alchimia islamica e i cani della luce, in S. Geruzzi (a cura di), Uomini, demoni, santi ed animali tra Medioevo ed Età Moderna, Pisa-Roma 2010, pp. 161-168.

[35] F. Saracino, Nel seno di Cristo, in Gregorianum Vol. 89, No. 3 (2008), pp. 533-557.

[36] Per approfondire: E. Albrile, Volti di Asclepio: Origini ermetiche e giudizio dell’anima, in Studi Classici e Orientali Vol. 61, No. 1 (2015), pp. 351-370.

[37] I. Ramelli, Le origini della filosofia: greche o barbare?, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica Vol. 99, No. 2 (Aprile-Giugno  2007), pp. 185-214.

[38] C. O. Tommasi, Il nome segreto di Roma tra antiquaria e esoterismo. Una riconsiderazione delle fonti, in Studi Classici e Orientali Vol. 60 (2014) pp. 187-219.

[39] Per gli sviluppi dell’ipotesi: M. Pozza, Itt. Išta(n)H-Mema/i-: ‘esperire’ e ‘riflettere’ tra concretezza e metafora, in Rivista degli Studi Orientali, Nuova Serie, Vol. 87, Fasc. 1-4 (2014), pp. 57-72.

[40] L. Redmond, Quando le donne suonavano i tamburi, Roma 2021.

[41] F. Buè, La musica degli uccelli e la parola del divino, in Rivista di cultura classica e medioevale Vol. 57, No. 2 (Luglio-Dicembre  2015), pp. 365-383.

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 35 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.

Il Tempo – Luigi Angelino

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Il tempo...cosa è il tempo? Verrebbe da dire che si tratti di un concetto indefinibile, sul quale si è soffermato a riflettere il genere umano fin dagli albori della civiltà. Eppure il tempo condiziona la nostra intera esistenza, determina ogni nostra azione, rappresentando il nostro parametro di riferimento in ogni occasione. Seguendo un ragionamento evidente, viene spontaneo affermare che il tempo potrebbe essere definito come quella particolare qualità che la psiche dell'uomo lega al movimento ed al cambiamento, presentandosi indissolubilmente unito al concetto di spazio. Il problema fondamentale è, dunque, di carattere gnoseologico e percettivo: ciò che l'uomo percepisce del mutare delle proprie esperienze e del susseguirsi degli eventi. Infatti, a ciò che avverte l'essere umano non corrisponde un altrettanto principio nella fisica, secondo la quale non si conosce alcuna metodologia per potere sequenziare gli eventi in maniera univoca. Possiamo dire, cercando di trovare un'immagine pressochè adatta a rendere l'idea, che la percezione “umana” del tempo consiste nella proiezione che la coscienza compone per comprendere come la realtà vada modificandosi, misurando i vari cambiamenti in “intervalli di tempo” (1). Come leggiamo questi cambiamenti? Viviamo il passato come un ricordo, inserito nel nostro cervello come memoria del vissuto, dimenticandoci molto spesso che quei fotogrammi, che ogni tanto riaffiorano, sono trasfigurati rispetto ai fatti a cui si riferiscono; è ancora più difficile “catturare il presente” che non è altro che una fugace comprensione, secondo il paradigma di valori a noi noto, della realtà che ci circonda; il futuro, invece, è una “mera previsione”, un misto di speculazioni intellettuali e di speranze passionali, a cui sovente ci affidiamo, illudendoci di poter programmare le nostre azioni. Ma tutto ciò è pura illusione. Per la scienza, l'intero arco temporale, di cui siamo passivi testimoni, esiste in maniera contemporanea e continua, senza una vera differenziazione tra ciò che accade prima e ciò che dovrà accadere poi (passato e futuro), il presente poi sarebbe solo un “costrutto logico-formale”, in quanto ogni atto sarebbe “in divenire” (2). Con il progredire della civiltà umana e del progressivo scientifico, si è reso necessario adottare modalità di comodo per misurare il tempo, fino ad arrivare all'unità standard dell'odierno sistema internazionale, il secondo, sul quale è possibile costruire le altre misure, come i minuti, le ore, i giorni, le settimane, i mesi, gli anni, i secoli ed i millenni... E l'uomo ha inventato anche uno strumento capace di misurare il tempo, cioè l'orologio, con caratteristiche sempre più sofisticate e, secondo il nostro modo di vedere le cose, più precise, fino al perfezionamento dei cosiddetti “orologi atomici” (3). Il genere umano ha sempre sentito la necessità di inventare calendari per poter tracciare il proprio percorso, conservando la memoria degli eventi passati e prefigurandosi nuove immagini per i fatti non ancora avvenuti. Ed il concetto di tempo, nel linguaggio comune, è adoperato anche per misurare le distanze. Quante volte ripetiamo espressioni come “un'ora di macchina”, “due giorni di viaggio” o “quindici minuti di autobus”. Basandosi su tale assioma, è stato possibile indicare l' “anno luce”, per determinare l'unità di misura delle distanze siderali, anche se l'espressione “anno luce” non implica un vero e proprio “intervallo di tempo”, ma la distanza che riesce a percorrere la luce in un anno, sempre secondo le nostre percezioni sensoriali.

  Il concetto di “tempo” è stato da sempre al centro di vivaci dibattiti filosofici

Famosissimi e mai del tutto risolti sono stati i cosiddetti “paradossi” proposti dal filosofo greco Zenone (4), tra cui spicca quello di “Achille e la tartaruga”. L'idea dell'impossibilità per il velocissimo eroe di raggiungere il lento animale, indicata da Zenone come conseguenza del “continuo movimento”, si oppone a quella di Parmenide di Elea, secondo il quale il tempo non fosse altro che una posizione della “docsa”, cioè del modo di vedere le cose, anticipando la problematica gnoseologica soggettivista di molti filosofi moderni. Se Platone in qualche modo riprende la visione di Parmenide, definendo quasi poeticamente il tempo come “immagine mobile dell'eternità”, sarà Aristotele ad intuire che soltanto in relazione allo spazio considerato, il tempo è in grado di individuare il “prima” e il “dopo” degli eventi. Anzi con Aristotele il tempo viene inesorabilmente legato alla finitezza della dimensione umana, a cui si contrappone Dio, il motore immobile, eterno ed immutabile. E quali passi sono stati fatti nell'epoca contemporanea per definire il concetto di tempo rispetto al V secolo d.C., quando Agostino da Ippona pronunciava la seguente espressione: “se non mi chiedono cosa sia il tempo lo so, ma se me lo chiedono non lo so”? (5). Heidegger nelle sue opere cercherà proprio di distinguere la nozione oggettiva di tempo, così come studiata dalla scienza, rispetto alla percezione soggettiva (6). Forse non è stato fatto alcun passo decisivo per poterlo comprendere e definire pienamente nella sua essenza, al punto che il tempo rimane uno dei misteri più affascinanti a cui di continuo la scienza e la fantascienza volgono l'attenzione per superarne le barriere ed i limiti. Non è azzardato affermare, alla maniera di Shakespeare, che “il tempo è tiranno” (7), anche se all'espressione, nel linguaggio comune, si attribuisce, talvolta, un significato troppo semplicistico di “durata contingente”, mentre sarebbe più corretto considerare il tempo come il “nostro vero sovrano”. Nel mondo occidentale, a partire dal pensiero cristiano, si è diffusa l'idea che il “tempo” proceda in un senso lineare, a differenza del mondo pagano ed orientale, le cui visioni privilegiavano un andamento circolare-ciclico, peraltro più vicino alle ipotesi della meccanica quantistica di epoca moderna. Secondo la dottrina escatologica cristiana, l'intera storia dell'umanità, a partire dalla caduta nel peccato di Adamo ed Eva, dovrebbe essere letta come un “cammino” verso l'Onnipotente, i cui punti cruciali sarebbero stati l'incarnazione di Cristo e la sua parusìa (ritorno) nel giorno del Giudizio Universale. Negli anni della rivoluzione scientifica, l'elaborazione del concetto di tempo ha dovuto fare i conti con le continue scoperte in tutti i campi del sapere. Non si può dimenticare la definizione di tempo di Isaac Newton, come sensorium De, cioè come un elemento che procederebbe immutabile in maniera analoga allo spazio, una visione peraltro ripresa in maniera più o meno simile da Galileo Galilei. Radicalmente diversa era l'idea di Leibniz, per il quale tempo e spazio non sono altro che apparati concettuali della nostra mente, anticipando in parte quanto sarà formulato da Emmanuel Kant che considererà tempo e spazio, come “forme a priori della nostra sensibilità” (8). Una scossa alla tradizionale concezione del tempo è stata senza dubbio apportata dalla teoria della relatività di Einstein, convenzionalmente suddivisa in due diversi filoni: la teoria della relatività ristretta e la teoria della relatività generale. Secondo la prima, le misure degli intervalli di tempo sono uguali per tutti, ma sono strettamente legate all'osservatore. L'unica costante universale sarebbe costituita dalla velocità della luce (circa 300.000 km/s). Alla luce della seconda teoria, la presenza del campo gravitazionale di un corpo celeste provoca una curvatura dello spazio-tempo che sarebbe in grado di deflettere la luce e di rallentare il tempo. La teoria della relatività ha aperto le porte ad ogni tipo di speculazione, accendendo le speranze dell'uomo di superare le barriere del tempo. Se, infatti, esistesse in natura un corpo capace di viaggiare a velocità maggiore di quella della luce o se un simile corpo fosse il prodotto di una qualche invenzione umana, esso sembrerebbe viaggiare all'indietro nel tempo. Einstein contestò anche il concetto di “simultaneità”, provocando sconcerto nella comunità scientifica del primo Novecento. Le applicazioni scientifiche successive hanno dimostrato le sue intuizioni, rivelando come ciò che noi osserviamo della realtà circostante, o che viene raffigurato in una fotografia, non sia in realtà il prodotto di eventi simultanei, ma di come erano collocati nel momento in cui hanno emesso i propri segnali luminosi. Le immagini impresse nella retina umana o nelle riproduzioni fotografiche individuano una porzione del “cono di luce passato”. E' ovvio che le differenze tra spazio di simultaneità e cono-luce sono scarsamente significative in relazione alla scala delle distanze terrestri, mentre diventano considerevoli quando si analizzano le notevoli distanze astronomiche (9).

Il concetto del tempo comprende diverse sfumature nelle varie culture, anche se si riscontra una certa convergenza nel ritenerlo una “categoria mentale aprioristica”. Come abbiamo accennato in precedenza, nel pensiero occidentale prevale la concezione “cronometrica”, influenzata dalla dottrina delle religioni abramitiche, secondo le quali il tempo si dispiega come un'entità lineare e, pertanto, misurabile. La cosmologia induista e quella buddhista, che presentano evidenti parallelismi con la fisica eraclitea, considerano lo “scorrere” del tempo in maniera ciclica. Tali tematiche sono state riprese anche in epoca moderna, come la teoria dell'eterno ritorno di Friedrich Nietzsche (10). I sostenitori dell'universo creato dal nulla che, per la maggior parte, corrispondono ai seguaci delle tre religioni abramitiche, contestano la concezione del “mondo ciclico”, in quanto l'uomo sarebbe esclusivamente governato dal fato e, qundi, privo di qualsiasi tipo di responsabilità nei confronti dell'universo. A dire il vero, anche in ambito cristiano, a partire dal filosofo Origene, vi è stata qualche apertura verso l' “eterno ritorno”, mutuando la dottrina stoica della “apocatastasi”, secondo cui alla fine dei tempi vi sarebbe una sorta di redenzione cosmica, con il ritorno di tutto il creato all' “Uno”, a Dio, perfino della creatura più reietta, il diavolo (11). Si tratta, comunque, di teorie che seguono una linea di pensiero filosofico-teologico, al di fuori di qualsiasi evidenza od applicazione scientifica. Nel panorama generale delle riflessioni sul “tempo”, si è imposta anche una “tertia via”, alternativa sia alla concezione di esso come “progresso lineare” che come “ripetizione ciclica”. Si tratta dell'ipotesi dell'andamento del tempo “a spirale”, secondo la quale il tempo seguirebbe particolari fasi per una legge eterna che lo governa per necessità. Le ripetizioni determinate dalla legge eterna, tuttavia, non sarebbero “cicliche”, ma condurrebbero verso un percorso di progresso, articolandosi in una sorta di semicicli progressivi. Possiamo trovare qualche traccia della concezione del tempo a spirale nel paradigma tesi-antitesi-sintesi di hegeliana memoria (12). E' noto che per molti secoli si è ritenuto che nell'universo ci fossero soltanto tre dimensioni spaziali, mentre Einstein, con la sua teoria della relatività, ha introdotto anche la “dimensione del tempo”, o per tentare di essere più precisi, la dimensione della “relazione tra spazio e tempo”. Nei decenni successivi, a partire soprattutto dalla metà del secolo passato, il concetto di “tempo” ha conosciuto ulteriori approfondimenti, alla luce delle applicazioni derivate dalla meccanica quantistica. Uno dei più grandi sogni dell'uomo è stato sempre quello di sovvertire l'ordine apparente del tempo, riuscendo a muoversi nel passato e nel futuro, e poter tornare nella realtà presente, a seconda delle proprie esigenze. Un gruppo di scienziati del Queensland, pur non avendo viaggiato nel tempo, ha evidenziato, come a livello teorico, si possa “infrangere” la sequenza degli eventi nel senso da noi percepito, aprendo nuove prospettive alla mai sopita ambizione umana di superare le barriere del tempo (13). Si tratta di approfondimenti che hanno cercato di fondere alcuni principi della teoria sulla relatività di Einstein con innovativi postulati della meccanica quantistica, aggirando, in qualche modo, il tradizionale pregiudizio di incompatibilità tra le due diverse correnti scientifiche. Tuttavia, si tratta di speculazioni ancora impossibili da realizzare con i mezzi di cui dispone la moderna tecnologia, prevedendo simulazioni al computer basate sull'avvicinamento virtuale ad un corpo di un cosiddetto “grande pianeta” che, a causa della massa gravitazionale, rallenterebbe lo scorrere del tempo. L'esempio di scuola potrebbe essere quello di due navicelle che entrano in un conflitto a fuoco: una delle due è affiancata da un “grande pianeta”, l'altra si troverebbe, invece, in una posizione più distante. Pur sparando nello stesso istante, lo sparo di quest'ultima sarebbe percepito qualche istante prima, non subendo l'interferenza gravitazionale del “grande pianeta”.

Del resto già gli orologi atomici hanno constatato, a diverse altitudini sulla Terra, come il tempo scorra in maniera quasi impercettibilmente differente, seppure soltanto di qualche nano-secondo, a causa della differente pressione gravitazionale. La possibilità di viaggiare nel tempo potrebbe essere ammessa solo in condizioni estreme, non ancora realizzabili con le attuali tecnologie, e soltanto in un “futuro relativo”, in rapporto a quando si intenderebbe intraprendere lo stesso viaggio. Nel caso fosse ipotizzabile creare particelle che viaggino ad una velocità superiore a quella della luce, le equazioni matematiche ci dicono che lo scorrere del tempo diventerebbe “negativo”, nel senso che il loro “futuro” apparirebbe come il passato degli altri corpi. A queste fantasiose particelle è stato dato il nome di “tachione”, con la sconvolgente conseguenza che, in un immaginario “mondo sopraluminale”, si assisterebbe alla contraddizione del principio di causalità e di quello di entropia a cui siamo abituati: pezzi di un coccio si potrebbero ricompattare nel piatto rotto, un cadavere potrebbe tornare in vita, un anziano ritornare al momento del concepimento. Si tratta di possibilità di difficile comprensione ed attuazione, anche se le teorie einsteniane non escludono del tutto velocità superluminali, tranne ovviamente che per i corpi con massa reale e positiva, ovvero l'interia materia a tutt'oggi conosciuta. Ma non è certo se nell'universo esistano oggetti per i quali tale legge non sia valida, come la cosiddetta “materia oscura”, che non può essere direttamente osservata, ma di cui sono stati provati gli effetti. Nell'immaginario collettivo contemporaneo si aprono, tuttavia, nuove prospettive al desiderio di viaggiare nel tempo. Molta attenzione si sta rivolgendo agli studi sui buchi neri e sui buchi spazio-temporali. Fisici come Godel o Tipler hanno perfino azzardato metodologie fantascientifiche per realizzare un'adeguata “macchina del tempo”. Gli scienziati, pur nella genialità delle loro teorie, hanno dovuto postulare che l'universo abbia determinate caratteristiche fondamentali, che ci troviamo cioè in universo chiuso ed in perenne rotazione. Di grande suggestione è la costruzione fisica e matematica, chiamata il ponte di Einstein-Rosen (14) che descriverebbe la possibilità teorica di viaggiare sia nel futuro che nel passato, con collegamenti tra punti molto distanti nello spazio e nel tempo del medesimo universo o, addirittura, di due universi paralleli. Tale realizzazione, però, esigerebbe una quantità di energia enorme: si stima che sia più o meno pari alla potenza elettrica mondiale. Segue un altro percorso concettuale, invece, la teoria delle stringhe, generalmente fondata sull'ipotesi dell'esistenza di dieci dimensioni. E' di immediata evidenza come ben sei di queste dieci dimensioni siano superiori a quelle a noi note nella tradizionale concezione spazio-temporale. Queste dimensioni “superflue” sarebbero arrotolate in in un ristrettissimo raggio, consentendo collegamenti tra diversi e lontani punti dello spazio-tempo. Semplificando il concetto, esse rappresenterebbero “scorciatoie” per viaggiare da un punto all'altro, escludendo il limite teorico costituito dal superamento della velocità della luce.

  I viaggi nel tempo presenterebbero una serie di paradossi in apparenza irrisolvibili

Cominciando ad accennare a quelli che si riferiscono ai viaggi nel passato, è necessario premettere che essi presentano notevoli problemi di fattibilità, in quanto essi potrebbero cambiare il rapporto causale degli eventi. Innanzitutto ricordo il cosiddetto “paradosso di coerenza” chiamato anche “del nonno”, come accade nel film Ritorno al futuro (15). Se un soggetto torna indietro nel tempo e, ad esempio, impedisce a suo nonno di incontrare sua, in modo che spezzi la catena genealogica fino al suo concepimento, come sarebbe potuto tornare indietro per evitare la medesima sequenza degli eventi? Si pone, poi, il cosiddetto “paradosso di conoscenza”, così come nel film Terminator (16) e relativi sequel, dove si descrive un sistema di microchip per androidi sviluppato da un robot che ha viaggiato nel tempo. Anche qui si assisterebbe all'innesco di un circolo vizioso, poiché tirando le somme quella tecnica così sofisticata per il funzionamento degli androidi sembrerebbe nata dal nulla. Ancora più interessante e complesso è il “paradosso della predestinazione”, al quale si è cercato di attribuire una denominazione più scientifica di “curva causale” o “curva di causalità”, secondo cui, pur ammettendo la realizzazione di un ipotetico viaggio nel passato, la catena degli eventi del futuro non si modificherebbe, per l'esistenza di una sorta di predestinazione. Ed il paradosso consiste proprio nel fatto che, se anche il viaggiatore nel tempo dovesse modificare la storia passata, bisognerebbe ammettere che egli sia tornato indietro nel tempo, giusto per adempiere alla sua missione. Uno dei casi di scuola del “paradosso della predestinazione” lo troviamo nella drammatica sequenza dei fatti narrati nell'Edipo (17) di Sofocle, dove il tormentato protagonista finisce per adempiere alla profezia, nonostante avesse tentato in ogni modo di evitarla. Gli scienziati Stephen Hawking e Roger Penrose hanno sostenuto che, se anche si cercasse di fare qualcosa per cambiare il passato, emergerebbe una specie di “censura cosmica”, in grado di impedire ogni forma di cambiamento. Secondo gli studiosi ciò sarebbe strettamente legato al fatto che le leggi della fisica, almeno come noi le conosciamo oggi, non consentirebbero la nascita di curve temporali chiuse. Per chi ricorda il film L'esercito delle 12 scimmie (18), dove, pur essendo possibile viaggiare nel tempo, non si poteva modificare il presente, perchè tutto ciò che aveva compiuto il viaggiatore risultava già tra le testimonianze storiche. Per questo, in maniera intelligente, pur partendo da premesse fantastiche, il film prospettava la possibilità di cambiare il futuro, con le informazioni raccolte nel passato, ma solo cominciando dal presente. Di certo anche l'argomentazione della “censura cosmica” è alquanto discutibile e poco chiare sono le regole che la disciplinano, per non parlare dell'inevitabile contrasto con l'altrettanto indefinibile principio del “libero arbitrio” .

Una possibile soluzione ai paradossi a cui abbiamo accennato, è la teorizzazione dei “mondi paralleli”, secondo la quale esisterebbero tante copie del nostro mondo quante sarebbero le possibili variazioni quantistiche delle particelle che lo formano. Nell'ambito di queste ipotesi, vi sarebbero universi dove la nostra vita ha preso una piega diversa e, se si approdasse in un mondo dove i nostri ascendenti non si fossero mai incontrati, apprenderemmo una delle infinite possibilità quantistiche, senza che ciò possa significare necessariamente un'interferenza causale nella sequenza degli eventi. In quest'ottica non si viaggerebbe nella “dimensione temporale” come la percepiamo, ma in dimensioni parallele. L'ipotesi del multiverso, in qualche modo, cerca di preservare il libero arbitrio e di giustificare il principio di causalità, ma le variabili legate ai mondi paralleli restano “in potenza” infinite e non si comprende, in base a quale suggestione, noi saremmo capaci di seguire l'uno oppure l'altro universo. Per quanto riguarda i viaggi nel futuro, essi teoricamente presentano minori problematiche applicative, sebbene tuttora non si possiedano tecnologie adeguate per realizzarli. Ai viaggi nel futuro, si potrebbe opporre il cosiddetto “paradosso dei gemelli” che, in realtà, costituisce una sorta di esperimento mentale, inteso a dimostrare come la teoria della relatività di Einstein sia contraria al senso comune. Supponendo l'esistenza di due gemelli, se uno dei due si impegnasse in un viaggio interstellare ad una velocità prossima a quella della luce, al ritorno sulla Terra risulterebbe meno invecchiato rispetto all'altro rimasto sul nostro pianeta. Se analizziamo bene le conseguenze di tale ragionamento, notiamo che il paradosso può essere facilmente sfatato, partendo dall'assioma, peraltro già sperimentato con sofisticati orologi atomici, che il tempo non scorre sempre allo stesso modo, ma il suo fluire dipende dai parametri fisici e matematici di riferimento.

E di presunti viaggi nel tempo è piena la letteratura mondiale, fin dall'antichità. Nell'antico testo indiano, denominato Mahabharata (19), completato presuntivamente nell'VIII sec. a.C., si racconta che il re Raivata avrebbe viaggiato attraverso il cielo per incontrare il dio creatore Brahma, per poi tornare sul nostro pianeta dopo tanti anni, in un'epoca futura. Nell'Antico Testamento biblico, un ragazzo di nome Abimelech cade in uno stato di incoscienza, mentre è seduto con il profeta Geremia ed altri amici, ma quando rinviene gli riferiscono che è stato via per 62 anni. La stessa incarnazione di Cristo, al di là degli aspetti filosofici e teologici, risolti in maniera diversa dai teologi cristiani ed incomprensibile per i non credenti, a causa dell'apparente contraddizione dell'infinito che diventa finito, non rappresenta una delle più celebri testimonianze del superamento delle leggi fisiche dello spazio e del tempo? Non possiamo pensare che ciò che noi chiamiamo “divino” possa avere in futuro una spiegazione razionale, alla luce di nuove scoperte tecnologiche e scientifiche? Nella leggenda giapponese di Urashima Taro, un uomo si sarebbe recato a visitare il palazzo sottomarino del Drago Dio Ryujn: il visitatore sarebbe rimasto in quel misterioso edificio soltanto tre giorni, ma al suo ritorno in superficie si sarebbe accorto che erano passati trecento anni. Nella cultura buddista, in particolare nel testo Pali Canon (20), è scritto a chiare lettere che nel luogo dove dimorano gli dei, il Deva, il tempo trascorre in modo diverso e cento anni sulla terra corrispondono ad un solo giorno nel cielo, un mantra peraltro ripetuto in numerosi passi biblici, dove si sottolinea come il tempo di Dio non sia uguale a quello degli uomini. Si tratta di evidenti testimonianze di come le civiltà antiche già percepissero la “relatività” del concetto del tempo, nonostante le forzature culturali di renderlo unidirezionale, per motivazioni legate principalmente al controllo dell'ordine sociale. Il tema del viaggio del tempo ha ispirato molti narratori, soprattutto a partire dalla fine del XIX secolo. Uno dei primi scrittori a descrivere la possibilità di compiere salti temporali con mezzi meccanici è stato Wells nel 1895 con il romanzo The Time Machine, anche se il primo vero e proprio racconto sul viaggio del tempo si fa risalire allo spagnolo don Juan Manuel che, tra il 1330 ed il 1335, scrisse Il mago rimandato, presente nel Libri de los enxiemplos del Conde Lucanor et de Patronio (21). Il citato racconto presenta l'ambizioso schema di “viaggiare nel futuro per trarre insegnamenti per migliorare il presente”, un paradigma che sarà adoperato nella narrazione natalizia più famosa al mondo, A Christmas Carol di Charles Dickens. Un racconto, in particolare, mi colpì molti anni fa: Una discesa nel Maelstrom del grande visionario Edgar Allan Poe.

La descrizione unisce in maniera magistrale elementi neogotici, tanto cari allo scrittore americano, ad elementi di fantascienza plausibile che alcuni decenni dopo saranno sintetizzati da Jules Verne: l'enorme voragine aperta dalla tempesta rassomiglia in maniera sorprendente ad un wormhole, aprendo un varco spazio-temporale, anticipando quanto apparirà nelle ipotesi scientifiche del secolo successivo. Gli autori hanno cercato di risolvere, in maniera diversa, il problema della contaminazione tra differenti panorami temporali, qualora davvero fosse possibile viaggiare attraverso le epoche storiche. Di grande suggestione è il racconto Rombo di Tuono di Ray Bradbury del 1952, a proposito del cosiddetto “effetto farfalla”. Il film è ambientato nel 2055, quando l'uomo raggiungerebbe la capacità di organizzare safari nel passato, tra specie animali ormai estinte da milioni di anni. Ma i viaggiatori devono fare attenzione, in quanto provocare anche la morte di un solo insetto, diversamente da quanto accaduto nella realtà del passato, potrebbe provocare effetti inimmaginabili per lo sviluppo della storia futura. Quando si parla di “fantascienza intelligente”, non si può fare a meno di menzionare Isaac Asimov e, nello specifico campo dei viaggi nel tempo, il romanzo The End of Eternity del 1955, inserito nel ciclo della Fondazione, dove l'ambizione umana di manipolare il tempo si scontra con i paradossi già descritti delle leggi fisiche e del buon senso. Si tratta di un romanzo troppo all'avanguardia per l'epoca in cui uscì, affinchè potesse ottenere la giusta attenzione, ma che, a mio avviso, riesce a dare il giusto risalto alla creatività umana.

Tra le numerose rappresentazioni cinematografiche sui viaggi nel tempo, abbiamo già avuto modo di menzionare L'esercito delle dodici scimmie. Negli anni duemila si è sviluppato un filone che ha dato ampio spazio alla teoria del “multiverso” o “degli universi paralleli”, come Donnie Darko o Deja vu- Corsa contro il tempo, o al tentativo dell'umanità di scongiurare un'apocalisse futura, così come descritto in Edge of Tomorrow- Senza domani o in Interstellar. Altrettante numerose sono state le serie tv che negli ultimi anni si sono ispirate ai salti temporali o tra imprecisate dimensioni parallele. Tra queste serie, un discorso a parte meriterebbe la produzione tedesca Dark (22), per la complessità della sovrapposizione scenica e per la molteplicità di chiavi di lettura che offre nell'articolazione delle rispettive tre stagioni. Chi meglio del grande Giordano Bruno seppe esprimere l'idea dell'illusione del tempo e dell'infinità dei mondi, precorrendo, forse con maggiore lucidità intellettuale, le teorie della meccanica quantistica? E come lui potremmo tentare di interpretare saggiamente il passo biblico del libro dell'Ecclesiaste (1, 9-10): Quid est quod fuit, Ipsum quod futurm est; quid est quod factum est ipsum quod fiendum; est Nihil sub sole novum (Quello che è stato è quello che sarà; ciò che è stato fatto è quello che sarà fatto; non vi è nulla di nuovo sotto il sole).

  Note: (1) Cfr. Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale, Editore Mimesis, Milano 2012; (2) Cfr. Carlo Rovelli, L'ordine del tempo, Editore Adelphi, Milano 2017; (3) Come introduce la stessa definizione, gli orologi atomici misurano il tempo basandosi sulla frequenza di risonanza di un atomo; (4) Zenone di Elea fu uno dei più illustri seguaci della scuola eleatica fondata da Parmenide, nonché ricordato come “l'inventore della dialettica”. L'antica Elea si identifica con l'attuale Ascea, nel Cilento, in provincia di Salerno; (5) La famosa citazione è riportata nel libro XI delle Confessioni; (6) L'interessante pensiero di Heidegger sul tempo è dapprima tracciato nel breve testo Il concetto di tempo, pubblicato nel 1924, poi sviluppato nel più corposo libro Essere e tempo, pubblicato nel 1927; (7) La citazione è tratta dal Pericle, atto II, scena III; (8) Cfr. Henri Bergson, Storia dell'idea di tempo, curatore Simone Guidi, Editore Mimesis, Milano 2019; (9) Cfr. Albert Einstein, Il significato della relatività, Editore Bollati Boringhieri, Milano 2005; (10) Friedrich Nietzsche introdusse la teoria dell' “eterno ritorno” nell'opera Die frohliche Wissenschaft (La gaia scienza), pubblicata nel 1882; (11) Cfr. Luigi Angelino, La redenzione di Satana I- Apocatastasi, La redenzione di Satana II-Apostasia, Ed. Cavinato international, Brescia 2019-2021; (12) Lo schema tesi-antitesi-sintesi è presente soprattutto nelle due opere principali di Hegel: Fenomenologia dello Spirito e L'Enciclopedia delle scienze filosofiche; (13) Si tratta di sperimenti condotti presso l'Università del Queensland, in Australia, tra il 2018 ed il 2019; (14) La denominazione più comune è wormhole (traducibile letteralmente in italiano “buco di verme”), una sorta di galleria gravitazionale (15) Ritorno al futuro è un film statunitense, diretto da Robert Zemeckis ed uscito in Italia nel 1985; (16) Terminator è del 1984, con cinque sequel usciti rispettivamente nel 1991, nel 2003, nel 2009, nel 2015 e nel 2019 (quest'ultimo inspiegabilmente legato a Terminator 2, senza riferimenti ai successivi); (17) Si tratta della tragedia-capolavoro di Sofocle, l'Edipo re, composta verso la metà del V secolo a.C.; (18) L'esercito delle 12 scimmie, diretto dal regista Terry Gilliam, è un film statunitense uscito nel dicembre 1995; (19) Il Mahabharata (La grande storia dei Bharata) è conosciuto anche con il nome di Krsnaveda (Veda di Krsna) e rappresenta uno dei più importanti poemi epici indiani; (20) Il Pali Canon (scritto in lingua pali) viene considerata l'opera più antica e completa di precetti attribuiti al Buddha ed ai suoi primi seguaci; (21) Il testo è ritenuto il principale esempio di narrativa spagnola in prosa del XIV secolo; (22) Le tre stagioni della serie tedesca Dark sono state prodotte tra il 2017 ed il 2020.   Luigi Angelino

La via di realizzazione del Sé – Umberto Bianchi

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Una delle grandi tematiche che toccano da vicino l’intero ambito delle cosiddette “scienze iniziatiche”, è rappresentato da quelle che, generalmente, vengono definite  “vie della realizzazione del Sé”, ovverosia le migliori modalità per raggiungere quello stato di perfetta equilibratura interiore che, di queste scienze dovrebbe rappresentare lo scopo finale. Cominciamo con il dire, anzitutto, che tale stato di perfetto equilibrio realizzativo, in tutte queste forme di sapere, trova la propria massima realizzazione nel pervenire, dopo un determinato percorso iniziatico, alla coincidenza del “Sé” dell’iniziato con la sfera del sovrasensibile e, più esattamente, con la dimensione della trascendenza, con l’Assoluto. Ma qui si pone immediatamente un problema di ordine ontologico, costitutivo. Cosa si intende con il voler far coincidere il proprio “Sé” con l’Assoluto? Il disperdersi del proprio “io”, rendendolo parte della sostanza divina, sino a confondersi con essa, come una goccia d’acqua nell’immensità del mare o, invece, all’incontrario, assurgere ad un diverso e superiore stato ontologico, mantenendo intatto quello stesso “io”, sino a farlo assurgere allo status di autonoma entità divina? A prima vista, questa potrebbe sembrare una domanda folle, frutto di una qualche strana paranoia occultista da parte di chi scrive ma, a ben vedere, la domanda ha un suo ben preciso e calibrato fondamento. Questo ci riporta, giuocoforza, alla necessaria distinzione tra misticismo ed esoterismo, ambedue intese quali modalità di pensiero.

Nella prima, il credente si abbandona in modo acritico ad una determinata fede, mirando a raggiungere, attraverso la pratica religiosa, uno stato di estatico abbandono del proprio “sé”, nel mare magnum della sostanza divina, sino ad arrivare al proprio auto annullamento. Al contrario, nel secondo caso,il miste si pone di fronte all’Assoluto con un atteggiamento attivo, volto attraverso il percorso di varie tappe, a pervenire ad una maggior coscienza del proprio sé, tale da conseguire quello stato di superiorità ontologica o “indiamento”, coincidente con la propria divinizzazione. Motivo questo, che da sempre traspare in tutte quelle vie realizzative prospettate dalle varie forme di conoscenza “esoterica”. Una distinzione questa, operata in linea di massima ma che, non sempre è così netta e definita, anzi. In molti casi, si tende a  confondere ed a mischiare queste due modalità di pensiero,creando così non pochi fraintendimenti a riguardo. A questo proposito, non possiamo non citare due autori che, su questa tematica, con i loro chiarimenti, rappresentano tuttora un valido caposaldo da cui partire, per addivenire ad una visione più chiara e nitida, dell’intera “vexata quaestio”. Renè Guenon e Julius Evola, sebbene ambedue rappresentanti di quel pensiero “perennialista” che, dall’inizio del Novecento muoverà i propri decisi passi verso una più decisa elaborazione e strutturazione teoretica, attraverso autori come Coomaraswamy, Steiner, Tilak, Kremmerz, Schuon ed altri ancora, riguardo a quanto stiamo trattando, presentano delle decise e non irrilevanti differenze.

La prima delle quali va a toccare il rilievo e la primogenitura che, dai due, viene data alle due caste che, rispettivamente stanno al vertice della piramide sociale del mondo “tradizionale”, ovverosia i rappresentanti della casta sacerdotale (i brahmini hindu…) ed i rappresentanti della casta regale e guerriera (gli kshatryia, sempre in ambito hindu…). I primi, a causa della loro funzione di naturali depositari del culto, sono titolari di una impostazione dalla doppia valenza, sia mistica che esoterica ed iniziatica, alla quale il Guenon riconosce un carattere di assoluta primogenitura e supremazia rispetto alle altre caste. Al contrario in Evola, invece, la supremazia spirituale, conseguita attraverso la sapienza esoterica, spetta alla casta regale e guerriera che, differentemente con quanto accade con la casta sacerdotale, interpreta questa sapienza con una modalità “regale” e “guerriera”, in grado di produrre quel potenziamento, tale da condurre il proprio “Sé” al contatto diretto con la dimensione del sovrannaturale ed al proprio consequenziale, “indiamento”. A tal proposito, Evola a proposito dell’Ermetismo da lui associato alla pratica alchemica, ci sottolinea il senso del termine “Arte Regia”, appunto usato per queste discipline.

Da questa prima, ma fondamentale linea divisoria tra i due autori, derivano tutta una serie di differenze che non possono esser sottaciute; né tantomeno, può esser sufficiente il fatto che i due autori, dopo un iniziale periodo di diffidenza, si stimassero reciprocamente, sentendosi accomunati nel medesimo fronte di lotta alla Modernità ed alle sue degenerazioni. Guenòn accomuna e conferisce pari dignità alle grandi narrazioni religiose quali, Cristianesimo, Islam, Induismo e via discorrendo, ritenendole tutte espressioni derivate di una unica Tradizione “primordiale”. Evola, invece, ritiene il Cristanesimo, una espressione religiosa tipica della fase di “decadence” del mondo occidentale. E nonostante le quanto mai frettolose e reiterate affermazioni, su un suo appiattimento ed allineamento alle posizioni guenoniane, a tal riguardo, in lui, riguardo alla dottrina cristiana,  permarranno sempre un malcelato senso di diffidenza e disprezzo. Nel suo  famoso “non possiamo non dirci cattolici…”, a trasparire non è tanto una sua tardiva conversione al Cristianesimo, quanto l’ammirazione per lo spirito guerriero che caratterizzò l’Ecclesia Cattolica durante il Medio Evo. Spirito che, lo stesso Evola, definisce abissalmente lontano da quello che, invece, anima e sostiene il Cristianesimo delle origini ed, ancor più, quello della attuale Modernità.

Se Guenon, da ortodosso e rigido studioso delle discipline della Tradizione, vede nell’iniziazione il “sine qua non”, senza il quale non è possibile un serio approccio ad un qualsivoglia percorso iniziatico, all’incontrario Evola a riguardo, si pone in un’ottica di radicale indifferenza per tale momento, ritenendolo quasi superfluo, contando per lui l’impostazione e l’atteggiamento esistenziale da tenersi nei riguardi della Modernità; atteggiamento che, naturalmente, ha il suo naturale presupposto in quell’opera di “realizzazione” e “centratura” del “Sé”, di quella pulsione ad un suo “indiamento”, senza la quale non si può capire il senso dell’intera opera evoliana. Stesso discorso, per quanto attiene le dottrine Hindu. Se Guenon guarda alle Upanishad ed in particolare al Vedanta, incentrato sul graduale raggiungimento dello stato di Atman o Io sovrasensibile, Evola guarda invece al Tantra Yoga o Via della Mano Sinistra, che, attraverso pratiche realizzative “estreme”, tramite un mix di sessualità e di particolari forme di meditazione, ha come scopo il potenziamento del “Sé” del miste.

Comunque sia, alla base di tutti gli esempi qui riportati, sta la sostanziale differenza tra misticismo fideistico e ricerca iniziatica. La qual cosa, però, non deve neanche indurci a pensare che i due atteggiamenti non possano convivere, anzi. La pratica fideistica, il misticismo, costituiscono un ottimo viatico, per addivenire ad una più approfondita ricerca ontologica e ad un lavoro su proprio “Sé” che,  invece, è propria delle ricerca iniziatica. Difatti, generalmente, in quei contesti in cui ci si trova di fronte a consolidate tradizioni religiose, accanto alla pratica fideistica, è tranquillamente presente una forma di conoscenza misterica o sapienziale che dir si voglia. Così come la “paganitas” classica, conobbe i misteri eleusini e l’Orfismo, in egual modo, nell’ambito della contemporaneità, religioni come l’Induismo, il Buddhismo, ma anche lo stesso Islam e l’Ebraismo, presentano al proprio interno, insegnamenti esoterici di vario tipo.

In Occidente, invece, il plurisecolare processo di inaridimento delle fonti spirituali, conseguente alla sua progressiva economicizzazione, ha coinvolto il Cristianesimo, assurto, pertanto, a mera  manifestazione di un quanto mai vuoto e superficiale fideismo. Pertanto, tutte le forme di conoscenza iniziatica, prettamente occidentali, hanno dovuto seguire un percorso totalmente autonomo dall’ambito religioso ufficiale, finendo in qualche caso, con il seguire quell’occidentale  processo di banalizzazione e prosciugamento delle proprie fonti spirituali, come nel caso della Massoneria, nella quale Guenon ripone ancora qualche speranza di rinascita di un autentico spirito iniziatico, mentre, al contrario, Evola, mostra al riguardo un atteggiamento di chiusura e diffidenza. A questo punto, però, viste le differenze tra i due autori, bisognerebbe chiedersi il perché del passaggio di Evola, dalle posizioni di un neo idealismo intriso di niccianesimo, a quelle vicine al rigido perennialismo guenoniano. E’ molto semplice: ad ispirare la scelta di Evola, è stata la considerazione sul rischio dell’approdo  verso uno sterile e materialistico individualismo, rappresentato dalle coordinate di quel neo idealismo, per lui assolutamente insufficienti a dare un carattere di stabilità e perennità alla sua narrazione ideale.

Alla stessa maniera in cui le varie ideologie che si rifanno al materialismo progressista, hanno fatto del “progresso” una categoria di narrazione ideale e metastorica, Evola ha conferito al termine  “tradizione” quella stessa, ma opposta,  valenza di narrazione  metastorica e meta politica. Evola, quindi, non ha rifiutato o rinnegato le proprie precedenti fasi spirituali ed ideali, le ha solo integrate con quel supporto metafisico di cui, invece, nelle prospettive di certo neo idealismo e di certo niccianesimo, non doveva rimanere traccia alcuna. Fermo restando che, come abbiamo già avuto modo di vedere, le posizioni di Evola sulla metafisica, sono tutte all’insegna della supremazia di una “Via Regia”, non fideistica o devozionale, ma improntata ad un radicale lavoro di ricerca e perfezionamento del “Sé”, sino al proprio “indiamento”, così come rappresentatoci in testi come “La Tradizione Ermetica” o nel saggio “La via della realizzazione di sé nei misteri di Mithra”.  A questo proposito, vale ricordare anche quanto l’antroposofo Massimo Scaligero disse a proposito di Evola e della sua particolare idea di iniziazione, tutta frutto della particolare natura di quest’ultimo, che non necessitava di quella gradualità per altri necessaria, proprio in virtù della capacità di quest’ultimo di connettersi direttamente e senza mediazione, a superiori stati di coscienza.

 

Quanto sin qui detto, però, non deve comportare lo sminuire o il deprezzare, il contributo di personaggi del calibro di un Renè Guenon. Piuttosto, ambedue le impostazioni, vanno viste nell’ottica di un’ampia ermeneutica interpretativa, in una logica di necessaria complementarietà. L’esempio del Buddhismo sarà, a questo proposito, calzante. Se Guenon, ( stavolta nell’inedito ruolo di condivisore delle idee nicciane,sic!) ci dice che il Buddhismo rappresenta una versione decadente e pietista dell’Arya Dharma e che, quanto di buono esso possiede, deriva dall’Induismo, d’altro canto, Evola, ne “La dottrina del risveglio”, del Buddhismo esalta la valenza guerriera. Potrà sembrar strano, ma la ragione sta dalla parte di ambedue. Difatti, il Buddhismo nella sua versione più ortodossa, per intenderci quella Therawada, ma anche in quella stessa Mahayana, può esser interpretato all’insegna di una forma di mistico pietismo, tale da avvicinarlo per molto versi, alla dottrina cristiana. D’altro canto, in alcune delle sue versioni estremo orientali, (giapponesi in particolare), come quella Nichiren e quella Zen, possono riscontrarsi delle valenze guerriere, che sembrano distanziarlo di molto dai dettami originali.

Ora, tutto questo, ci mette di fronte al fatto che, contrariamente a quanto i potrebbe credere, la stessa idea di “Tradizione”, così come formulata da questi, ma anche da altri autori, è tutt’altro che un rigido monolite, intriso di un rigido e ritualistico  conservatorismo. Piuttosto, essa prende un aspetto fluido, mobile, conferitole proprio da quella Modernità che, nell’ottica della preminenza dell’ “Io” e delle sue interpretazioni, ha influenzato le valutazioni degli autori che abbiamo or ora, esaminato. E così, come per magia, Tradizione e Modernità vanno a confluire ed interagire in un unico e grandioso disegno. Ora, la sfida che ci aspetta, è proprio quella di  riuscire a pervenire alla realizzazione di una occidentale “via della mano sinistra”, in grado di gestire e superare in maniera radicale, le aporie e le sfide di un modello, quello Tecno-Economico che, fattosi vero e proprio malvagio “deus ex machina”, rischia di disumanizzare l’intero genere umano.

Umberto Bianchi

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

  1. Evola-La Tradizione Ermetica-Edizioni Mediterranee
  2. J.Evola-Lo Yoga della Potenza-Edizioni Mediterranee
  3. R. Guenon-L’uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta-Adelphi Editore
  4. R. Guenon-Il regno della quantità e i segni dei tempi -Adelphi Editore
  5. M. Scaligero-Lo Yoga e la Rosacroce-Edizioni Mediterranee
  6. D. Suzuki-Il Buddhismo Zen-Astrolabio Editore
  7.   S. Nivedita/A. Coomaraswamy-Miti dell’India e del Buddhismo-Laterza.

Evola contro Wagner – Umberto Bianchi

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Quella su Wagner e sulla sua interpretazione dei miti germanici, è un’antica polemica che, nel corso degli anni è stata periodicamente rintuzzata e riaccesa, a seconda dell’obiettivo politico-ideologico e culturale, che si voleva raggiungere. Dai tempi delle romantiche scazzottate dinnanzi ai teatri dell’Opera di mezza Italia a fine Ottocento, tra verdiani e wagneriani, agli interventi a gamba tesa dello stesso D’Annunzio, sino alle polemiche da parte dell’area culturale tradizionalista. E sarà proprio su queste ultime che qui, ci si intende soffermare, proprio perchè, oltre da ad esser le più recenti, cronologicamente parlando, sono forse le più “tranchant”, emesse come sono, da quelli che, della koinè” tradizionalista sono tra gli autori autori più rappresentativi, quali uno Julius Evola o un Renè Guenon. L’occasione per una più approfondita riflessione al riguardo, è stata offerta da uno degli ultimi incontri “online”, a cura di “Ereticamente Sapienza”, incentrato proprio sul commento al “Parsifal” di Wagner ed alle tematiche ad esso connesse, inclusa, per l’appunto,  quella dell’interpretazione di autori come Evola. Diciamocelo pure. Dal punto di vista filologico, quella evoliana e tradizionalista in genere, è una critica che ha un suo fondamento. Wagner dette un’ interpretazione del mito in chiave romantica, animata da una forte carica di sensuale passione, rivestita di panteismo e naturalismo che, alla fine, si risolve  in una ritrovata fede nel cristianesimo. La qual cosa, sicuramente non coincide e devia alquanto dall’originario spirito di quella narrazione, collocato invece in una atemporale dimensione, le cui vicende e personaggi, altri non sono che simboli teofanici che rimandano  continuamente alla presenza di una dimensione del sovrannaturale , ovunque presente. Una dimensione che poco o nulla ha a che fare con quella forma di  naturalistica escatologia, che invece, in Wagner, alla morte degli Dei vede succedere l’era degli uomini, stavolta animati da una nuova fede religiosa.  E qui veniamo alla “nota dolens”  dell’intera questione. Una critica appropriata da un punto di vista formale, ma totalmente inappropriata da uno più propriamente sostanziale.

Wagner ebbe la capacità e l’abilità di raccogliere i vari mitologemi dell’area culturale sud germanica e di riunirli in un’unica raccolta all’insegna di un comun denominatore, rappresentato dalla necessità di dare un’anima alle popolazioni germaniche, da poco riunificate sotto un’unica bandiera nazionale, grazie all’opera di Bismarck. Un’operazione questa, sicuramente, ben lontana dall’originaria ottica del mito, ma sicuramente in linea con le istanze romantiche, che animavano i vari risorgimenti nazionali nell’Europa del 19° secolo e di cui l’opera wagneriana, rappresentò una delle più fulgide espressioni. Ferma restando la natura “deviante” dell’opera wagneriana dall’originario contesto, mitico, non si può dire , in questo, che il grande autore sia stato solo. Di re-interpretatori del mito o addirittura di creatori di nuovi, la storia ne è piena a bizzeffe. Potremmo ricordarci di quanto fatto da Platone con il mito di Er o da Virgilio con l’Eneide. Il raccogliere gli elementi mitici di una precedente tradizione e poi rielaborarli al fine della propria narrazione non è pertanto cosa nuova, ma non è da tutti. Virgilio ha dato una ulteriore base mitica alle più lontane origini di Roma e dei Romani, creando un’opera letteraria immortale.

La medesima cosa ha fatto Wagner, conferendo un’identità nazionale ai tedeschi e creando addirittura un mito nuovo, su una base musicale. Nel far questo, il grande compositore tedesco ha ricevuto l’incondizionato sostegno e la più fervida ammirazione di un Nietzsche che, in lui, vedeva una prima, concreta, realizzazione del suo lungo e tormentato percorso elaborativo. Wagner avrebbe dato piena concretezza ed anima a quel principio “dionisiaco”, dal Nietzsche tanto decantato, simbolo di quell’anelito all’irrazionalità della potenza vitale, immersa in un continuo e caotico divenire, così in contrasto con l’algida e solare armonia apollinea. Il grande filosofo tedesco, sarà il primo a sparigliare le carte al marmoreo e quasi arcadico, neoclassicismo dei Winkelmann e dei Canova. Sarà il primo, a dare un cappello di sistematicità a quelle istanze di irrazionalità, provenienti dall’ambito vitalista e da quello romantico, (tanto da finir con l’essere accusato, dallo stesso Heidegger, di essere un “metafisico”, sic!). Dioniso è l’incessante scorrere della vita, è l’irrefrenabile ciclo di alternanza tra quella stessa vita e la morte, è l’inebriamento e l’offuscamento dell’apollinea “ratio”, nel nome di quella vertiginosa caduta nei sensi, che tanto caratterizza la musica di Wagner.

E così da iconica narrazione, rivestita di significati archetipi, da totem spirituale, il mito in Wagner si fa vita, divenire, incessante trasformazione. All’era degli Dei, succede quella degli uomini. All’antica fede, ne succede una nuova, all’insegna di un simbolo, il Santo Graal, anch’egli qui a simboleggiare quel lavoro di “reinterpretatio” del mito, compiuto nell’opera musicale. Ed anche qui, però bisognerebbe valutare con molta prudenza il significato, la natura della conversione di Wagner al cristianesimo. Ben lungi dall’assumere la valenza di un ripiegamento verso uno stantio e bigotto fideismo, quella del grande compositore germanico ci sembra, piuttosto, essere un’altra sua particolare “interpretatio” della fede cristiana, riletta in una chiave ariana e “solare”, all’insegna di un simbolo di rinascita; quasi un anticipo dello steineriano cristocentrismo. Questo grandioso affresco mitopoietico, fa da sfondo alla nascita della coscienza del popolo germanico. Ne diviene il mito trascinante ed il regime nazionalsocialista ne farà la punta di diamante, il leit motiv, della propria narrazione ideologica, legando definitivamente a sé, il destino di sessanta milioni di tedeschi, nell’ambito di una colossale operazione di indottrinamento metapolitico, mai vista prima d’allora.  Per questo, le critiche evoliane e guenoniane, corrette da un punto di vista filologico, non colgono nel segno da un punto di vista più ampio, metastorico e filosofico. Come abbiamo già avuto modo di vedere, quello della rielaborazione del mito, è un lavorio che procede instancabile, coevo alla storia spirituale del genere umano. Abbiamo detto Platone con la filosofia, ma anche Virgilio e Dante con la poesia e sinanco Madame Blavatskji con l’esoterismo o Tolkien con la narrativa, assieme a tanti altri,  furono, ognuno a modo proprio, artefici di queste reinterpretazioni. Una questione di ermeneutica in senso più ampio, questa, dalla quale neanche lo stesso Evola è stato immune. Come nel caso delle scienze ermetiche , di cui l’autore dà un’interpretazione tutta all’insegna del contrasto tra una via fideistica e sacerdotale ed una più propriamente iniziatica e guerriera. L’errore non sta però nella persona di Evola, quanto piuttosto nell’impostazione di fondo di certo tradizionalismo, così come formulata da Renè Guenon e che finisce con il trascinare, nella spirale dell’accademismo, proprio autori come Evola che in precedenza, tanto l’avevano condannato, ravvisandolo sia nei protagonisti del pensiero neoidealista, che in quello romantico.

Quando il pensare la Tradizione si irrigidisce nell’accademismo, nel regno dei puntigliosi “distinguo”, allora si fa “tradizionalismo”, guscio marmoreo e rigido, in cui solo albergano parole e concetti vuoti, senza più oramai attinenza alcuna con una realtà invece, viva, in continua trasformazione. Nietzsche, padre putativo della Modernità, concepì un uomo in grado di farsi mito di sé stesso, in un continuo anelito all’autosuperamento, all’interno del perenne girare della ruota del Samsara. Wagner tradusse tutto questo, in una musica divina. E l’Europa divenne il primo laboratorio per la nascita del Superuomo…

Umberto Bianchi

Rosslyn: quando il suono si fece pietra – Cristiano Turriziani

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Piramidi, Mura ciclopiche, monoliti di pietra, Templi dedicati al Dio Sole; Cattedrali, Abbazie, Eremi dedicati al primo Attore della Creazione. Il mondo ne è pieno e qualcuno oggi grazie agli strumenti di misurazione che si avvalgono di applicazioni di alta tecnologia riesce a recuperare ciò che i nostri avi ben sapevano e di cui nel loro idioma ci hanno fatto testimonianza anche lì dove per noi è stato così difficile com-prenderli. Si pensi solamente per farne un esempio, ai cosi detti presocratici la scuola (vera!) di Talete Anassimandro e Anassimene; quella dei “ Principia prima”; che sia aria acqua o apeiron in tutte le cose. E che dire della realtà al di fuori del mito della caverna? Uno tra i primi tentativo in cui si cercava di de-strutturare quella sovra struttura (concreto-stilistico-espressiva) che avrebbe obnubilato nei secoli la conoscenza primaria; quella che passava attraverso i riti, i simboli per dirla con una parola, il “sacro”.  E così, illustri filosofi e costruttori ed ermetisti hanno lasciato nei loro libri o compendi delle “ tracce” ben visibili che sia il linguaggio della fisica quantistica sia materie ad essa affini, oggi sembrano riscoprire decriptando. Lo sapeva bene il buon William Sinclair quando dette inizio ai lavori per la costruzione di Rosslyn. La Rosslyn Chapel un coacervo di elementi tradizionali: un viaggio congelato di chi aveva raccolto – come leggenda narra ma storia vuole – l’eredità templare trasportandola e facendola essere pietra. Tralasciando la parte puramente architettonica ci occuperemo – attraverso anche qualche volo pindarico – di questioni riguardanti la cimatica e riferibili a questo strano e misterioso luogo. Non è un caso che la chiesa in questione è assunta alle cronache perché tirata in ballo nelllo stesso romanzo di Dan Brown divenuto poi il film che almeno una persona su tre tra noi ha visto: Il Codice Da Vinci. Ma al di la delle congetture che ci saremmo potuti aspettare dalle suggestioni secondo cui nella chiesa vi si sarebbe trovato il “ sangue di Cristo” nella asserzione del “sangreal” del Priorato di Sion (quindi la discendenza dei re Merovingi stirpe nata dall’ unione del Cristo con Maria Maddalena - “la sacra prostituta”) quello che si è trovato con il tempo e a seconda degli studi ivi fatti è stato ben altro.  Un gruppo di ricercatori che si dedicano alla decifrazione di messaggi segreti ha trovato una musica che sarebbe nascosta in una complessa scultura all'interno della chiesa. Il team composto da padre e figlio Thomas e Stuart Mitchell.  L'ipotesi dei Mitchell parte dal fatto che sono numerosi gli angeli che suonano vari strumenti proprio sulle colonne dove esistono anche i misteriosi cubi. Molti degli angeli hanno strumenti musicali tra le loro mani, altri invece sembrano cantare in coro, ma ce ne è uno che sembra estraneo a tutto ciò:

«Studiandolo da vicino ho scoperto che egli sta leggendo un pentagramma e dunque mi sono messo alla ricerca del pezzo di musica da decodificare»ha continuato Mitchell, “ Una volta scoperta, la musica è stata riportata su un pentagramma. Vi sono 213 cubi nella cappella della Chiesa e l'ipotesi che essi siano stati messi lì per raccontarci qualcosa non  è da escludere in assoluto". E dello stesso parere sono altri storici della musica che hanno studiato i risultati dei Mitchell”..

In questi cubi sono stati trovati simboli geometrici che a loro volta sono stati associati a delle diverse tonalità: tale meccanismo viene chiamato dai due ricercatori “musica congelata”, in quanto la musica è stata congelata con il tempo dal simbolismo e secondo loro era solo una questione di tempo prima che il simbolismo iniziasse a “scongelarsi” ed a rivelarsi per quello che effettivamente era, una rappresentazione di una singolare partitura musicale. Mitchell padreha lavorato su quei cubi per oltre 25 anni e ha utilizzato tutta l'esperienza ottenuta dal suo lavoro come decifratore di messaggi segreti per la Royal Force durante la Guerra di Corea. Secondo Mitchell, la musica "segreta" scritta nei cubi della cappella si rifarebbe a quanto scoprì il musicista tedesco Ernest Chladni, vissuto tra il 1700 e il 1800, studiando la complessità delle vibrazioni sonore attraverso lo strofinamento di un archetto di violino e tocchi da parte di dita di una serie di piastre, le quali permettevano di cogliere la forma ondulata delle onde sonoreponendo della sabbia su tali piastre. Un fenomeno complesso che venne studiato per tutto il 19mo secolo da parte di numerosi matematici e fisici e il cui nome è CIMATICA. Ma che cosa è la Cimatica e soprattutto cosa disse in merito Ernst Chladni? Il termine cimatica designa una teoria, dovuta allo studioso svizzero Hans Jenny, che tenta di dimostrare un effetto morfogenetico delle onde sonore . Il nome cimatica è stato coniato dallo stesso Hans Jenny, e deriva dal greco kymatika (κυματικά) che significa “studio riguardante le onde” (da kyma (κΰμα) che significa “onda, flutto”). Il musicista e fisico tedesco Ernst Chladni osservò nel XVIII secolo che i modi di vibrazione di una membrana, o di una lastra, possono essere visualizzati cospargendo la superficie vibrante con polvere sottile (ad esempio polvere di licopodio,o anche semplice farina o sabbia fine). La polvere, infatti, si sposta per effetto della vibrazione e si accumula progressivamente nei punti della superficie in cui la vibrazione è nulla. Nel caso di una vibrazione stazionaria, questi punti formano un reticolo di linee, dette linee nodali del modo di vibrazione. I modi normali di vibrazione, e il reticolo di linee nodali associato a ciascuno di questi, sono completamente determinati (per una superficie con caratteristiche meccaniche omogenee) dalla forma geometrica della superficie e dal modo in cui la superficie è vincolata. Questo fornì un importante contributo alla comprensione dei fenomeni acustici e del funzionamento degli strumenti musicali. Le figure così ottenute (con l'ausilio di un archetto di violino che sfregava perpendicolarmente lungo il bordo di lastre lisce ricoperte di sabbia fine) sono tuttora designate con il nome di "figure di Chladni".

Nel 1967 il medico svizzero Hans Jenny ,seguace delle dottrine antroposofiche di Rudolf Steiner , ha pubblicato il primo di due volumi intitolati Kymatic, nel quale - traendo ispirazione dalle esperienze di Chladni - hasostenuto l'esistenza di un sottile potere attraverso il quale il suono struttura la materia. Nei suoi esperimenti egli poneva sabbia, polvere e fluidi su un piatto metallico collegato ad un oscillatore  che produceva un ampio spettro di frequenze. La sabbia o le altre sostanze si organizzavano in diverse strutture caratterizzate da forme geometriche tipiche della frequenza della vibrazione emessa dall'oscillatore.L'onda sonora incidente, pertanto, non influenza affatto la forma del corpo vibrante né la forma dei reticoli nodali: l'unica cosa che cambia per effetto della vibrazione è la disposizione della sabbia di cui il corpo è stato cosparso. L'immagine formata dalla sabbia, a sua volta, è influenzata dallo spettro di frequenze della vibrazione incidente solo in quanto ogni modo di vibrazione è caratterizzato da una specifica frequenza: pertanto, dallo spettro del segnale che eccita la vibrazione dipende quali reticoli nodali siano effettivamente visualizzati. Secondo Jenny queste strutture, che ricordano i mandalao altre forme ricorrenti in natura, sarebbero la manifestazione della forza invisibile del campo vibrazionale ed ogni forma conterrebbe le informazioni sulle vibrazioni che l'hanno generata.

Hans Jenny fu particolarmente impressionato da un'osservazione: imponendo una vocalizzazione in antico sanscrito  come l‘Om (conosciuto dagli induisti e buddhisti come il suono della creazione e corrispondente al Verbo, al Logos della Bibbia occidentale) la polvere di licopodio rispondeva alle vibrazioni sonore generando un cerchio con un punto centrale, simbolo con il quale antiche popolazioni indiane rappresentavano lo stesso MANTRA Oṃ (Aum). Non per nulla PITAGORA aveva già intuito e sosteneva che "la geometria delle forme è musica solidificata". I fenomeni fisici coinvolti nella formazione delle figure di Chladni, oltre a trovare una spiegazione nella fisica classica, stanno aprendo alla ricerca di analogie fra intuizioni filosofico-religiose e aspetti della fisica moderna, individuando paralleli fra i fenomeni descritti dalla cimatica, la formulazione ondulatoria della meccanica quantistica e i fenomeni che portano alla formazione di strutture frattali. Gli apparati sviluppati dai cultori della cimatica per la visualizzazione dei reticoli nodali hanno ispirato opere nel campo delle arti visive e della musica contemporanea. (si pensi alla stessa immensa opera di Arvo Pärt che avremmo tempi e modi di trattare) il soffitto della Rosslyn Chapel diviso in 5 parti, presenta un serie di simboli tra cui rose, gigli, margherite e stelle a 5 punte distribuite secondo una progressione che altro non è che la spirale Fibonacci. (già abbondantemente trattata dallo stesso Fulcanelli). Ora, 5 sono anche le linee del pentagramma su cui appunto inserire le 7 note naturali di cui disponiamo. In un ordine dove anche il valore di battute e pause sembra seguire la logica della sezione aurea 1+√5/2=1,6180339887 tra l’altro va considerato che le stesse 13 colonne sono la somma di 7+5+1 (do all’ottava)…Le tredici colonne che compongono la navata centrale dall’ abside culminano all’ altezza dell’ entrata della chiesa con un cavaliere e l’appeso, simboli di quella Corona presente nella melodia oramai scongelata.  Vale la pena richiamare alla memoria ciò che ci viene detto dall’ antropologo e etnomusicologo Marius Schnider nel volume Pietre che cantano (SingendeSteine), Studi sul ritmo di tre chiostri Catalani di stile Romanico, trad. di Augusto Menduni con un saggio di Elèmire Zolla.  Ed.SE, 1976, Milano: “La scienza delle arti figurative, ha prestato sinora scarsa attenzione alla grande scoperta di E.Seler, secondo la quale le singolari figure degli dèi delle antiche culture superiori sudamericane non sono affatto i prodotti di una fantasia sfrenata, ma il frutto di una composizione coerente di simboli sonori e attributi mitologici. Nel decifrare i manoscritti aztechi e quelli maya lo studioso berlinese constatò che, disponendo ordinatamente i segni e le figure, non si poteva mai individuare una frase grammaticamente compiuta, ma pur sempre un ragionamento del tutto univoco[…] Nel Rituale, l’avvenimento centrale è acustico. Esso si svolge entro gli ampi limiti che sono attribuibili al suono – dal bisbiglio, al linguaggio e la canto, fino al grido – e costituisce sempre l’autentico punto cruciale del sacrificio. La «parola» rende effettiva l’azione. Inoltre il suono costituisce l’unico legame esistente tra i vivi e i loro antenati defunti o i loro dei. […]nelle antiche cosmogonie questo collegamento sonoro corrispondesse al concetto di «espansione della parola» e avesse la sua radice in quella forza canora che, come prima manifestazione di pensiero, creò il mondo: il suono della vibrazione primordiale sacrificò infatti se stesso per diffondersi progressivamente con un ritmo in espansione spiraliforme, di vibrazioni sempre più alte e variate e per trasformarsi a poco a poco in pietra e carne “.

Stesso identico meccanismo a cui “ obbedirebbe” l’Arkèdi ogni cosa presente sulla terra: il caro elemento acqua. Quella menzionata dallo stesso Talete come principio di tutte le cose. Sostanza fluida che diviene il contenitore in cui viene posta. Due molecole di idrogeno e una di ossigeno che permetterebbero alla vita biologica tutta di esistere e di espandersi (usiamo più questo termine che l’evoluzione in quanto personalmente non crediamo in questa ipotesi seppur accreditata dal “tanto di cappello” Dott. Darwin). Tra i nomi che più di tutti hanno studiato il suo livello sub-atomico vale la pena ricordare lo scienziato Masaru Emoto (Yokohama, 22 luglio 1943 – Yokohama, 17 ottobre 2014) il quale scrisse che: “ quando l’acqua congela, le molecole dell’acqua si accorpano sistematicamente e formano i nucleoni del cristallo. Questo si stabilizza solo se ha la struttura di un esagono, poi cresce e diviene un cristallo visibile. Questo è il decorso naturale. Se noi però forniamo all’acqua informazioni non naturali, non può formarsi nessun cristallo esagonale armonico. Le parole ‘grazie’, ‘amore’, ‘gratitudine’, sono una parte dei principi di base della natura. Per questo il cristallo forma la figura tradizionale di un bell’esagono. Invece la parola ‘sciocco’ non esiste in natura; è un termine innaturale coniato dall’uomo”. David Bohm, celebre fisico dell’Università di Londra, che si era già confrontato con lo stesso problema durante la sua riformulazione del paradosso di Einstein-Podolsky-Rosen, ribadisce come non vi sia alcuna propagazione di segnale a velocità superiori a quella della luce, bensì che si tratti di un fenomeno non riconducibile ad alcuna misurazione spaziotemporale. Il fisico americano sosteneva che le scoperte di Aspect implicassero la non-esistenza della realtà oggettiva. Vale a dire che, nonostante la sua apparente solidità, l’Universo è in realtà un fantasma, un ologramma gigantesco e splendidamente dettagliato si convinse che il motivo per cui le particelle subatomiche restano in contatto, indipendentemente dalla distanza che le separa, risiede nel fatto che la loro separazione è un illusione: ad un qualche livello di realtà più profondo, tali particelle non sono entità individuali ma estensioni di uno stesso “organismo” fondamentale.

Se le particelle ci appaiono separate è perché siamo capaci di vedere solo una porzione della loro realtà, esse non sono “parti” distinte bensì sfaccettature di un’unità più profonda e basilare; poiché ogni cosa nella realtà fisica è costituita da queste “immagini”, ne consegue che l’universo stesso è una proiezione, un ologramma. Se l’esperimento delle particelle mette in luce che la loro separazione è solo apparente, significa che ad un livello più profondo tutte le cose sono infinitamente collegate: “Gli elettroni di un atomo di carbonio nel cervello umano sono connessi alle particelle subatomiche che costituiscono ogni salmone che nuota, ogni cuore che batte ed ogni stella che brilla nel cielo. Tutto compenetra tutto. Ogni suddivisione risulta necessariamente artificiale e tutta la natura non è altro che un’ immensa rete ininterrotta“. Si dice che nel cielo di Indra esiste una rete di perle disposta in modo tale che, se se ne osserva una, si vedono tutte le altre riflesse in essa. Nello stesso modo, ogni oggetto nel mondo non è semplicemente se stesso ma contiene ogni altro oggetto, e in effetti è ogni altra cosa” recita il AvatamsakaSutra di 2500 anni fa della tradizione orientale:

“Con l’osservazione l’onda diventa corpuscolo. L’energia del Campo Unificato (intelligente) diventa materia. La materia si trasforma e produce il tempo e lo spazio (il momento e la posizione). Dunque il tempo nasce dalla trasformazione dell’energia in materia. Ma in realtà il tempo e lo spazio non esistono. Ci sono intervalli rapidissimi che sembrano succedersi in continuità tra una scomparsa e una apparizione di una particella e l’altra. Questi intervalli che sembrano susseguirsi in rapida successione sembrano andare a costituire il tempo. Ma così non è. Se il nostro occhio potesse avere un potere percettivo più veloce (più risolutivo), ci accorgeremmo che nulla fluisce e nulla scorre.” (Vittorio Marchi, insegnante e un ricercatore di fisica).

Per riprodurre l’ologramma lo osserviamo con la luce laser, proiettandone un fascio sulla lastra. Apparentemente a mezz’aria l’osservatore vede formarsil’immagine tridimensionale, attorno allaquale si può anche girare per osservarla da tutti i punti di vista, proprio come se fosse un oggetto reale. Per riprodurre l’ologramma lo osserviamo con la luce laser, proiettandone un fascio sulla lastra. Apparentemente a mezz’aria l’osservatore vede formarsi l’immagine tridimensionale, attorno alla quale si può anche girare per osservarla da tutti i punti di vista, proprio come se fosse un oggetto reale. Su una stessa lastra possono essere registrati moltissimi diversi ologrammi, semplicemente variando l’angolo di incidenza del laser, e allo stesso modo essi possono essere letti separatamente. Infine. qui sopra vediamo che l’informazione registrata (in questo caso l’immagine della mela) è distribuita su tutta la lastra. Infatti da ogni sua più piccola parte è possibile riavere l’informazione originale, anche se in tal caso si verifica una certa perdita d’informazione, inversamente proporzionale alla grandezza della parte letta. Affermare che ogni singola parte di una pellicola olografica contiene tutte le informazioni in possesso della pellicola integra significa semplicemente dire che l’informazione è distribuita non-localmente. Se è vero che l’universo è organizzato secondo principi olografici, si suppone che anch’esso abbia delle proprietà non-locali e quindi ogni particella esistente contiene in se stessa l’immagine intera.

Lavorando nel campo della ricerca sulle funzioni cerebrali, anche il neurofisiologo Karl Pribram dell’Università di Stanford, si è convinto della natura olografica della realtà. Egli ritiene che i ricordi non siano immagazzinati nei neuroni o in piccoli gruppi di neuroni, ma negli schemi degli impulsi nervosi che si intersecano attraverso tutto il cervello, proprio come gli schemi dei raggi laser che si intersecano su tutta l’area del frammento di pellicola che contiene l’immagine olografica. Vi è una impressionante quantità di dati scientifici a conferma della teoria di Pribram ma l’aspetto più sbalorditivo del modello cerebrale olografico dello scienziato, è ciò che risulta unendolo alla teoria di Bohm. Se la concretezza del mondo non è altro che una realtà secondaria e ciò che esiste non è altro che un turbine olografico di frequenze e se persino il cervello è solo un ologramma che seleziona alcune di queste frequenze trasformandole in percezioni sensoriali, cosa resta della realtà oggettiva? In parole povere: non esiste.

Tornando a Rosslyn probabile tempio della Rosa Mistica Templare, chi ha fatto costruire lì questa cappella conosceva benissimo oltre che le sequenze di cui abbiamo parlato in termini sia di sezioni che di frattali anche il fitto reticolato di campi elettromagnetici  che avvolgono  idealmente la terra tutta e che viene chiamato con il nome del suo inventore “onde Hartmann”. Chi ha edificato Rosslyn con ogni probabilità, conosceva l’andamento di queste onde che avvolgono la terra e non la avrebbe posizionata lì per caso ma consapevole di erigere non solo un luogo spirituale ma un centro energetico; vero e proprio spartito vivente in cui le tredici colonne rappresenterebbero l’estensione dell’ accordo di settima dominante  che si fonda sulla scala minore melodica ed è un accordo che sintetizza perfettamente il modo Lidio di dominante derivante tra l’altro da ¼ di grado di una scala minore melodica. Tra l’altro vi sarebbero delle relazioni che intercorrerebbero tra Rosslyn, l’Abbazia di Cluny e le mura ciclopiche di Alatri ma di questo tema vi renderemo edotti appena avremo dei dati certi a nostra disposizione. Come è noto, la fisica moderna si basa sulla teoria della relatività di Albert Einstein e sulla meccanica quantistica fondata da MaxPlanck. Le due teorie non sono però compatibili perchè la prima spiega il comportamento di oggetti di grandi dimensioni come le galassie, le stelle ed i pianeti dell'Universo mentre la seconda è applicabile solo al mondo atomico e subatomico degli atomi, degli elettroni, dei quark ecc...

La Teoria delle stringhe risolverebbe questo problema affermando che, a livello subatomico, esistono solo corde vibranti; in pratica le particelle come i protoni, gli elettroni e i quark non sarebbero altro che note musicali su una piccola corda vibrante e tutte le attività dell'universo nascerebbero da un ciclo sub-atomico di energia nel profondo della materia. Queste stringhe unidimensionali di energia sarebbero così piccole che se un atomo di idrogeno fosse esteso alle dimensioni della Via Lattea, proporzionalmente, la stringa sarebbe pari alla larghezza di un capello umano. Dato che, secondo la teoria della relatività di Einstein sappiamo che E = mc2, sappiamo anche che ad una maggiore energia corrisponde una maggiore massa sono fatte della stessa materia in quanto ogni particella è una stringa, le differenze visibili sarebbero solo causate dai diversi modi di vibrazione delle stringhe medesime. Da ciò si deduce che, per spiegare perchè le particelle elementari hanno le proprietà conosciute, bisognerebbe riuscire a capire quali sono i diversi tipi di vibrazione. "La mente di Dio", dice MichioKaku , "è musica cosmica che risuona attraverso 11 iperspazi dimensionali."

Ross-lyn un tempio della fede? Prima ancora un tempio di “emanazione” sephirotica che riletta in chiave 3.0 altri non è che un Tutto che tende all’ Uno dissolvendosi nella stessa unità per tornare ad essere tutto: perché Tutto è Uno sono la stessa cosa. A noi tapini non resterebbe che il gravoso supplizio di Tantalo nel decriptare e comprendere il medesimo attraverso quei simboli con cui ancora a distanza di millenni facciamo i conti ma che in realtà potrebbero essere lo specchio onnipresente di ciò che da sempre “abbiamo dentro di noi”.

Cristiano Turriziani

Sul significato metafisico del comico – Emanuele Franz

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Alcuni ritengono, a torto, che un uomo serio non debba occuparsi di commedie, satire e parodie, ed anzi, suppongono che il ridicolo non si addica alla figura di un filosofo ed in genere alla filosofia. Presumono, ingenuamente, che la figura di un filosofo o comunque di un pensatore, debba essere sobria, adorna di serietà, di compostezza e pacata, e, pertanto, che mal si concilia un uomo colto con la pantomima  onde fugare il rischio ch’egli appaia come un pagliaccio, come un buffone, come un giullare. Malgrado ciò occorre constatare un tal livello di ignoranza della filosofia, in coloro che così parlano, da far rabbrividire. La storia della filosofia è, difatti, la storia del ridere. Sono fondamentalmente convinto che ridere sia una attività spirituale, oserei dire metafisica. Gli animali non ridono, e forse il riso è ciò che più ci accomuna agli Dei. Se un tratto simile a Dio dobbiamo averlo, questo è proprio la capacità di ridere, anzitutto di noi stessi, e questa è l’Arte più difficile in assoluto, un’Arte Iniziatica. Occorre diffidare, sostanzialmente, di due generi di persone: quelli che non ridono e quelli che non bevono, nella misura in cui il vino, come è noto, facilita il riso e il buonumore ma anche la verità. D’altronde il profondo legame fra il ridere, il vino e la verità è attestato già nel Simposio platonico:

Riderete forse di me perché sono ubriaco?

Eppure io, anche se voi ridete, so bene di dire la verità...” (Platone, Simposio (212 c, d, e), traduzione di Giorgio Colli).

Chi ritiene che la filosofia non implichi il ridere è in errore, perlomeno storico e letterario, tuttavia nel medesimo errore cade anche colui che ritiene che il ridere non implichi la filosofia, dal momento che da Socrate ed Aristofane in poi infatti la filosofia è satira e commedia, nonché, nel suo senso più ampio, teatro. Ne Le Nuvole di Aristofane (423 a.C), l’oggetto della satira è il più grande e stimato sapiente dell’epoca, ovvero Socrate. Vi è una scena dell’Opera di Aristofane in cui Socrate deve risolvere il problema se le zanzare cantino con la bocca o con il deretano...ridicolizzando così la sapienza di Socrate al sommo grado. Da notare che Socrate partecipava alle rappresentazioni teatrali di buon grado e, anziché lamentarsi delle caricature a lui dedicate, le plaudiva volentieri anzi cercando lui stesso, in molte occasioni pubbliche, di apparire ridicolo e oggetto di scherno, quasi che il pensare fosse profondamente legato al comico. Per ciò non si potrà mai smettere di amare i Greci, poiché essi disquisivano delle cose più nobili e celesti, degli Dei, delle stelle, della matematica, ma al tempo stesso sapevano ridere, e prendere in giro i loro stessi sapienti. Per questo i Greci erano superiori, perché ridevano della loro grandezza.

Non da meno nell’età medioevale la figura del giullare, come anche quella del buffone, del menestrello, del giocoliere, del nano, del cantastorie, del trovatore e chierico vagante si è caricata di un’aura mistica e legata a una figura che faceva da medium fra l’alto e il basso, come, d’altronde, lo fu Ermete, che, ambiguo, era psicopompo fra gli Dei e gli uomini. Il giullare e il buffone furono coloro che realmente conservarono perpetrarono e divulgarono una conoscenza letteraria, religiosa e mistica altrimenti irrecuperabile.  Furono custodi, fra il 1200 e il 1300, di conoscenze, saperi e tradizioni altrimenti bandite o guardate con sospetto dalle autorità, come quelle magiche, alchemiche o pagane, ma anche rituali e simboliche. Erano loro, con le pantomime e le mimiche, a inscenare testi e simboli che arrivavano al popolo analfabeta. Furono loro, i buffoni, i pagliacci, il vero e l’autentico sapere del popolo in un’epoca in cui altrimenti tutto sarebbe stato oscuro e quindi a loro dobbiamo ciò che siamo come uomini e come civiltà. Il giullare prese su di sé la parte del soggetto controcorrente, la sua figura era quella del pazzo, dell’anormale: colui che operava un rovesciamento del senso comune, ma pienamente accettato. Si pensi che il buffone di corte era l’unico e il solo a poter prendere in giro i nobili rimanendo impunito. Era una figura catartica che poneva un rovesciamento, uno sfogo, una fuga in una dimensione carnevalesca, forse irreale, ma più carnalmente intrisa di verità. La figura del matto, del buffone, in inglese fool, è diventata poi quella del matto dei tarocchi, il vero sigillo dell’iniziazione e del mistero, colui che rovescia tutto, sé stesso e il mondo, e, attraverso il riso, penetra i misteri più profondi. Come scrisse una volta Roger W. Oliver, il buffone, comunque lo si guardi, con rispetto, ammirazione, o con scherno e diffidenza, è sempre specchio degli altri:

Quando la gente ride del buffone, ride di sé stessa; quando piange il buffone, piange sé stessa; e quando odia il buffone, odia se stessa”.

Molti sono stati nella storia i pensatori che hanno cercato di stabilire una sorta di regola della comicità. Per Ralph Emerson “la rottura della continuità nell’intelletto, è commedia”. Indubbiamente uno degli elementi essenziali della comicità è quella sorta di incongruenza, quel fenomeno che determina uno scarto, uno iato fra l’attesa e l’epifania, fra ciò che ci si aspetta e ciò che effettivamente accade, generando quindi una sorpresa che spesso si configura come amena, buffa. Ciò che appare ordinario, correlato, ordito in una serie di nessi e rapporti conosciuti e previsti è abituale e sicuro, ma ecco che quando una variabile improvvisa s’insinua in questo ordito appare lo straordinario, e ad esso si accompagna il riso. Il riso è dunque il nunzio di ciò che è oltre l’ordinario e, in un certo senso, oltre l’uomo. Quando si ride si intravede che il mondo è ben più di quello che la nostra aspettativa può supporre, ben oltre a ciò che la nostra conoscenza può abbracciare. Ridere è andare oltre al visibile, ridere è toccare, pure per un solo istante, un più alto ordine di connessione. D’altronde il genio, ovvero la mente estatica e intuitiva, pure nell’immaginario comune, è sempre  figurato come un uomo bizzarro, che con i suoi atteggiamenti provocanti suscita il riso. Note al riguardo sono le scene di Einstein trasandato con la lingua di fuori, con i pantaloni aperti e i vestiti stropicciati, o che cammina in malo modo; ma anche un Arthur Schopenhauer che, immerso nei suoi pensieri, si perde nel suo giardino di casa e ferma il postino per chiedergli dove si trovasse; o ancora un Ludwig van Beethoven, così disinteressato al suo aspetto esteriore, che viene finanche arrestato per vagabondaggio e i poliziotti non gli credono quando dice loro di essere Beethoven. E gli esempi sono moltissimi altri, che fanno del genio, dell’artista, del filosofo, uno Spirito che ride, e non solo che ride, ma che fa ridere gli altri.

Lo studioso Dominique Arnould identifica, fra i fattori alla base del comico, tra gli altri, i travestimenti, infine le incongruenze e le contraddizioni logiche. Il filosofo Henri Bergson nel suo saggio Il riso. Saggio sul significato del comico, definisce il riso come qualcosa di vivente che nasce ogni qual volta l’intuito percepisce un contrasto. Il comico viene a porsi in essere quando un elemento, propriamente collocato in un contesto, ed associato pertanto a tutta una serie di altri elementi che questo stesso contesto chiama seco, viene improvvisamente posto fuori, e ri-associato ad altri elementi non propri per sua natura. Si tratta pertanto di una de-associazione e ri-associazione e quando il contesto, dal quale appunto un elemento viene sradicato, per essere re-inserito altrove, è quello umano, e la destinazione finale è l’oltre-umano, abbiamo il riso degli Dei. La comicità è la porta verso il divino in quanto medium fra ordinario e straordinario. Ebbene sì, anche gli Dei ridono. Il riso viene da Dio ed è con Dio, e questo è attestato fin dalla Bibbia:

Dio mi ha dato di che ridere; chiunque l’udrà riderà con me” (Genesi 21,6).

Ma è soprattutto nel Mito Greco che il riso appare nella sua veste splendente e divina ed è qui che si hanno le maggiori testimonianze del ridere, d’altronde, è il popolo che ha inventato la commedia. Il Dio che ride manifesta il suo distacco dal mondo perché lo guarda dall’alto e ne percepisce la sua pochezza, ovvero la sua dimensione esiziale. Ridere significa ridimensionare, portare cioè a un’altra dimensione. Dobbiamo l’espressione “riso sardonico” ai greci, del termine greco sardónios con il significato di “risata amara” a partire da Omero (Odissea XX, 302). Gli Dei omerici ridono, e forte. Zeus ride di Epimeteo, fratello di Prometeo, che stoltamente riceve e accoglie il vaso di Pandora. Ride Demetra, fin troppo triste dalla perdita di sua figlia Core, quando lo scherzo ravviva il suo cuore:

finché con i suoi motteggi l’operosa Iambe,/ scherzando continuamente, indusse la Dea veneranda/ a sorridere, a ridere e a rasserenare il suo cuore” (Inno a Demetra, vv. 197-205).

Sempre in Omero, VIII dell’Odissea, al v. 326, il termine ἄσβεστος qualifica il riso inestinguibile degli Dei quando sanno che Ares viene colto in fragrante adulterio con Afrodite da Efesto e di quest’ultimo l’astuta vendetta:

inestinguibile riso scoppiò fra i numi beati a vedere la trappola dell’abilissimo Efesto”.

Ma prima ancora di questo episodio sempre Efesto, il Dio zoppo, al banchetto degli Dei, suscita l’ilarità scomposta dei commensali: “inestinguibile riso nacque allora fra i numi beati quando videro Efesto per la sala affannarsi” (Iliade, I, 599-600). Non è certamente casuale che proprio Efesto, il fabbro divino, sia autore del riso e della comicità che lo riguarda, non solo perché è Dio alchimista per definizione, ma è un Dio doppio, celeste e terreste, padrone del Fuoco, quindi della conoscenza. Atena induce il riso nei Proci alla corte di Ulisse (XX dell’Odissea, al v. 346) ulteriore esempio di come sia il Dio a mandare il riso agli uomini. Il Dio Mercurio, il greco Ermete, è un Dio briccone, che ama riassumere in sé connotati contrapposti, maschili e femminili, che equivoca, rovescia, scambia le parti, in altre parole, che suscita il riso, infantile e provocatorio, fa adirare il Dio Apollo rubandogli le vacche, per poi placarlo e farlo sorridere con il suo atteggiamento bizzarro. Il riso è risanatore, monda le colpe, solleva lo spirito, deterge dalla graveolente serietà degli umani. Il comico, e il ridere, sgorgano spesso, se non sempre, da un rovesciamento delle parti, perché è inaspettato e fuori contesto. Nel capolavoro di Euripide Le baccanti Dioniso si presenta alla corte di Penteo in fattezze femminili tanto che Penteo non lo riconosce come il Dio al quale dà la caccia per i disordini provocati alle donne della sua città:

Lo straniero dall’aspetto femmineo...La sua testa è tutta riccioli d’oro e profumato, lui stesso è rubicondo dal suo viso, e la beatitudine di Afrodite è nei suoi occhi”.

Pure nel Pathos della Tragedia, Euripide non si esime dal determinare scene comiche quando, ad essere parodiato, è lo stesso Re Penteo, che, vuoi con la persuasione, vuoi con l’inganno del Dio, è convinto a vestirsi da donna lui stesso pur con ritrosia e diffidenza:

Che devo fare? Farmi schiavo delle mie schiave? Da uomo che ero passerò al rango di donna?”.

Dioniso, come recita il meraviglioso passo di Euripide, dice di Penteo che:

finché sarà in senno, non vorrà indossare un addobbo femminile, se invece esce fuori dal percorso della ragione lo indosserà”.

Ed è proprio questa uscita dalla ragione, ovvero sia l’Ex-Stasi, il fuoriuscire da Sé, che comporta quella Iniziazione, quell’accesso alle cose nascoste, ai segreti del Dio, fino a penetrare “le forme delle cose divine”. Penteo, “lui che femminea veste assunse” che desiderava “vedere le cose proibite”, opera un tale rovesciamento delle cose da indurre lo spettatore al riso, nonché alla partecipazione di un mistero divino. Ma per taluni il riso non solo viene dagli Dei, ma gli Dei stessi vengono dal riso. Secondo il Papiro di Leida, di un anonimo alchimista del III secolo:

Dal riso di Dio nacquero i sette dèi che governarono il mondo (…) non appena Egli scoppiò a ridere, apparve la luce (…) scoppiò a ridere per la terza volta e fu acqua dappertutto. Alla terza risata apparve Ermes, alla quarta la generazione, alla quinta il destino, alla sesta il tempo

In sostanza, secondo questa cosmogonia, l’universo intero nasce dal riso. Uno degli elementi più significativi che determinano il comico, e il ridere, è il gioco, attività questa, come è noto, fondamentale nell’infanzia. Il bambino ride tutto il giorno, si meraviglia d’ogni cosa e soprattutto percepisce il mondo come un gioco. Per esso, come per il beato, il mondo viene de-sostanziato, ovvero sgravato del suo peso. Per il bimbo, come per il santo, il mondo non è fatto di cose, ma di avvenimenti, non di oggetti che hanno un peso, ma di apparizioni, ovvero sia è un gioco. Occorre far notare che quando i Veda, e specificatamente le Upanishad vediche, parlano del mondo come illusione non stanno già dicendo che il mondo è falso, bensì che il mondo è un gioco. Illusione infatti è: Ad-Ludum, ciò che è nel gioco.  Nelle Upanishad, il Dio Śiva è chiamato il mago e signore dell’illusione. (Svetasvara Upanishad 10) ovvero colui che mette in scena il mondo per poi riassorbirlo. Caratteristiche poi confluite nel Dioniso greco.

Nel Theatron, avveniva la messa in scena dello stesso universo, e quindi l’Essere doveva apparire come una finzione agli occhi del Greco, come una rappresentazione, come uno spettacolo senza una reale e ultima consistenza, perché tutto, come avrebbe detto Esiodo, fu generato dal Χάος (Caos). Ecco che allora il comico non è più una mera attività ricreativa, ma è la messa in scena di un segreto profondissimo, è la riappropriazione di atto metafisico, la rievocazione della leggerezza del mondo. Chi ride, infine, si è affrancato dal peso della materia e dalla gravità delle cose, del suo ruolo, del suo stesso personaggio, per essere multiforme, librato in volo. Chi ride di tutto è simile a un Dio perché tutto, in fondo, è una commedia.

Bibliografia di riferimento:

  • Storia del riso e della derisione, di Georges Minois, Editore Dedalo, 2004;
  • Gli dèi, il riso e il comico : la rappresentazione del divino nelle fonti litterarie in lingua greca, di Giuliana Ricozzi. Tesi di dottorato, Università degli studi di Pisa, 2019:
  • Ridere degli déi, ridere con gli déi - L'umorismo teologico, di Maurizio Bettini, di Massimo Raveri, di Francesco Remotti, Il Mulino, 2000.

Emanuele Franz

 

Spengler, il tramonto dell’Occidente – Roberto Pecchioli

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Ciascuno di noi è influenzato da tutti i libri che ha letto. Altra cosa sono i testi – e gli autori- che ci hanno formato, le opere che diventano l’imprinting della nostra personalità e della visione del mondo alla quale aderiamo. Per chi scrive, si tratta di Dante, Tommaso d’Aquino, Cervantes, Tocqueville, Ortega y Gasset, Dostoevskij e pochi altri. Se c’è un autore che ha forgiato in profondità il nostro spirito, quello è Oswald Spengler. Tedesco della Sassonia, dunque prussiano, ma poi bavarese di residenza sino alla morte, avvenuta nel 1936 a soli 56 anni, ingegnere per studi, storico, filosofo, morfologo della storia per attitudine e scelta, fu forse la voce più potente, singolare e solitaria della Rivoluzione Conservatrice, il fenomeno culturale che attraversò la Germania nella prima parte del XX secolo, tra Weimar, la sconfitta dell’Impero guglielmino e la temperie che portò al potere il nazionalsocialismo. Spengler ammise negli anni Venti di aver votato per Hitler, poi fu un avversario tenace del nazismo, che lo emarginò, lo mise nel mirino con attacchi feroci e la consegna del silenzio. Alla sua morte, causata da un infarto, ci fu chi ipotizzò la responsabilità del partito di Hitler, una voce mai corroborata da prove. L’opera che ne consacrò la fama fu Il tramonto dell’Occidente, uscito nel 1918, nel momento della sconfitta tedesca, della fine degli imperi e all’alba della consapevolezza, per alcuni grandi spiriti,  che la Grande Guerra , i suoi massacri, le sue trincee insanguinate, la guerra chimica e di materiali potentemente descritta da un altro grande tedesco, Ernst Juenger , fu la tomba dell’Europa, del suo spirito e della sua civiltà, come lo era stata, per quattro lunghissimi anni, della sua gioventù. Contemporaneamente a Spengler, dall’altro lato del Reno, si levava la voce di Paul Valéry: “noi, le civiltà, ora sappiamo di essere mortali”. Analoghi concetti, analizzati prevalentemente sotto il profilo geopolitico e dal punto di vista dell’impero britannico, sarebbero stati poi espressi da Arnold Toynbee nel monumentale “Civiltà al paragone”. In Italia, Il Tramonto fu letto e apprezzato da Mussolini in lingua originale, ma pubblicato solo nel 1957 nella scintillante traduzione di Julius Evola.

In tempi ancora successivi, il tema della decadenza della civiltà europea e occidentale diventerà un filone del nichilismo, ad esempio nell’opera del franco rumeno Emil Cioran. Tuttavia, nessun intellettuale indagherà tanto a fondo le civiltà storiche, né elaborerà una teoria generale, una vera e propria morfologia delle civiltà umane, quanto l’arcigno ingegnere tedesco. In più, esprimerà in anticipo su Heidegger, sullo stesso Juenger, su Ellul e molti altri una profonda riflessione sulla tecnica come elemento centrale della civilizzazione moderna. Spengler esercitò altresì un’influenza rilevante su numerose correnti culturali, storiche e scientifiche, oltrepassando il pur variegato recinto della Konservative Revolutione di quella “cultura del pessimismo” di cui fu appartato, ma significativo esponente. Il tramonto dell’Occidente, gigantesco affresco di filosofia della storia, fu il simbolo di una stagione caratterizzata dalla messa in discussione della tradizione liberale. Spengler era un conservatore, un elitario a tutto tondo, e certamente la sua polemica contro la repubblica di Weimar fornì un armamentario ideologico di prim’ordine a correnti e suggestioni che confluirono poi nel nazionalsocialismo.La sua concezione, espressa nel Tramonto dell’Occidente, ma anche in Anni della Decisione, nell’ Uomo e la Tecnica e nel suo testo più “politico”, Prussianesimo e Socialismo, può essere definita naturalismo storico, una teoria che interpreta la storia come espressione di leggi biologiche. “Le civiltà sono organismi e la storia universale è la loro biografia complessiva”. Niente di più materialistico, in apparenza, ma Spengler non può essere iscritto frettolosamente al campo materialista. Per lui, ciò che distingue la storia dalla natura è il suo carattere “organico”. Natura è tutto ciò che è dominato da una necessità meccanica, storia ciò che è dominato da una necessità organica. Pertanto, le civiltà- che egli analizza in un complesso, erudito percorso in cui si intrecciano archeologia, spiritualità, filosofia, storia, antropologia, etnologia- vanno concepite e studiate come organismi che nascono, crescono e muoiono. Realtà uniche e irripetibili, radicate in un tempo, un luogo, un popolo o un gruppo di popoli.

Un passo del Tramonto illumina sulla concezione spengleriana. “Una cultura nasce nell'attimo in cui una grande anima si desta dallo stato psichico originario dell'eternità eternamente fanciulla e se ne distacca, come una forma da ciò che è privo di forma, come qualcosa di limitato e di perituro dall'illimitato e dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un territorio delimitabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una pianta. Una cultura perisce quando quest'anima ha realizzato l'intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose, di arti, di stati e di scienze, ritornando quindi nel grembo della spiritualità originaria. ". L’idea di tramonto dell’Occidente fa pensare all’esaurimento delle energie vitali ma anche all’insorgere di altre civiltà: declino di un mondo e alba di un altro. Ognuna è caratterizzata da un proprio sistema di valori che la impronta e diventa, dentro di essa, un assoluto che si relativizza se analizzato nel complesso delle distinte civiltà. Lastoria, dunque, non va interpretata secondo lo schema illuministico del progresso, ma come successione di grandi civiltà indipendenti l’una dell’altra, il cui movimento è circolare, similmente alle stagioni della vita: nascita, sviluppo, maturità, invecchiamento, morte.

In polemica con Kant, portò al massimo livello la contrapposizione tra Kultur e Zivilisation, presente nella cultura tedesca sin dal secolo XVIII. Kultur, per Spengler, è la civiltà, mentre Zivilisation, civilizzazione (o società) è il suo stadio ultimo, manieristico, degenerativo. Nel suo percorso organico, ogni Kultur-civiltà attraversa vari stadi. L’iniziale slancio creativo porta alla maturità, alla pienezza, ma sfocia ineluttabilmente in una sorta di irrigidimento, sintomo di vecchiaia e tramonto. La Zivilisation è caratterizzata da norme e valori meramente esteriori, convenzionali, il cui esito è lo scetticismo diffuso e poi il materialismo, ultima tappa prima del definitivo tramonto. Se questa è la cornice, l’Occidente- Abendland - terra della sera o del tramonto nel titolo, quasi un’endiadi se abbinata a untergang, che significa tramonto, ma anche caduta - è solo l’ultima in ordine di tempo delle grandi civiltà storiche. Il suo percorso si è concluso, ha perduto forza, dinamismo: il tempo di Spengler è quello del declino, che un secolo dopo ha definitivamente compiuto il suo ciclo. Il destino è quello di diventare storia, passato, e lasciare il campo a civiltà nuove, giovani, le civiltà “di colore” di cui aveva previsto l’avvento. I sintomi della decadenza per Spengler erano evidenti nella crisi della morale e della religione, nel prevalere delle democrazie e del socialismo, nel potere crescente del denaro che si fa potere politico. Nel contempo, si spengono i grandi stili artistici – approfondirà il tema nella generazione successiva l’austriaco Hans Sedlmayr– l’arte si riduce a moda, l’umanità si concentra in poche grandi metropoli, gli alveari disumanizzanti di cui parlerà, ad esempio, lo scrittore spagnolo Camilo José Cela. Dilaga un atteggiamento sentimentale di fondo, o meglio un’emotività immediata, priva di profondità. Per Spengler, tutto ciò condurrà al “cesarismo” – il potere di un uomo solo – e poi alla barbarie, su cui nascerà una nuova civiltà, che egli chiama “russa”, più per orrore del bolscevismo che per disprezzo verso il vicino slavo.  L’avvicinamento tra Germania e Russia fu anziuno dei temi della Rivoluzione Conservatrice (i popoli dal “sangue giovane”), in particolare di Arthur MoellerVan DenBruck, che infatti accolse con scetticismo l’opera di Spengler.

L’ingegnere sassone fu influenzato soprattutto da due giganti della cultura tedesca, Goethe e Nietzsche. Dal grande letterato- che egli considerava soprattutto un pensatore- trasse l’interesse per la figura archetipica di Faust, l’uomo che non vuole limiti, disposto a tutto per sapere, avanzare e penetrare i segreti della natura e dell’essere. Uomo “faustiano “è la definizione che Spengler dà dell’ideal tipo occidentale, animato da una febbrile volontà di potenza che lo porta alla scoperta, alla conquista, all’amore per il rischio e l’ignoto. Ma l’universalizzazione della civiltà e del carattere faustiano, per Spengler, sono l’inizio della sua fine, poiché “una civiltà fiorisce su una terra esattamente delimitabile, alla quale resta attaccata come una pianta. “La nostra, come le altre civiltà-kultur inizia il suo declino che diventa civilizzazione, poi tramonto e infine caduta nel momento del suo apogeo. “Una volta che lo scopo è raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata nella pienezza di una tutte le sua interne possibilità, la civiltà d’un tratto s’irrigidisce, muore, il suo sangue scorre via, le sue forze sono spezzate, essa diviene civilizzazione.”La Kultur perde, per così dire, la sua “forma”. Concetti che Spengler esprimeva in piena euforia progressista, con una straordinaria capacità di anticipo sui tempi. Fu il primo a cogliere i segni di quello che nei decenni successivi diventerà il progetto cosmopolita dell’Occidente, indizi di una volontà di potenza che – paradossalmente – si rovescia in tramonto per la perdita dei caratteri originari. Si è spesso parlato di pessimismo spengleriano: il declino è fatale, non vi sono vie d’uscita alla luce del grande affresco dipinto nel Tramonto. Tuttavia, il suo è un pessimismo attivo, che invita a tenere duro, a non essere passivi, respingendo con fermezza, ad esempio, le contaminazioni. Inevitabile è il rifiuto del cosmopolitismo e di quella che oggi chiamiamo multiculturalità. L’avvertimento di Splengler è impietoso: culture radicate in tradizioni differenti non si possono mescolare. La conseguenza dell’innesto è l’accelerazione del declino dell’Occidente ad opera di popoli “giovani” che credono nella loro tradizione e identità culturale. Popoli ancora ricchi di simbolicità, non disposti a farsi “contaminare”, e che in tale determinazione esprimono la potenza ascendente di una civiltà contrapposta a quella al tramonto.

Il globalismo porta con sé la perdita di ogni riferimento simbolico, che per Spengler rappresenta invece l’energia vitale di ogni civiltà. Perdere i simboli significa tramontare, per cui la globalizzazione –occidentalizzazione malata del mondo- non è il segno di una vittoria, ma la prova irrevocabile del declino. Un tramonto che Spengler individua in modo speciale nell’umanità sradicata delle metropoli, scettica, folla solitaria, trasformata da persona in essere collettivo, nomade e monade, incapace di pensiero, un soggetto che si lascia vivere senza un domani, privo di slanci, obiettivi, bandiere. La preferenza – o la nostalgia- di Spengler per un mondo di piccole comunità, per la vita rurale, paragonata alla meccanica impersonale dell’universo metropolitano, destò l’ammirazione del sociologo e urbanista Lewis Mumford, autore del Mito della Macchina e de La cultura delle città, analista d’eccezione dell’epoca ingegneristica che stava compiendo il passaggio da una società biologica a una meccanica. Un passaggio epocale in via di completamento che ha comportato la svendita dell’anima dell’uomo faustiano, schiavo degli apparati da egli stesso inventati dopo aver scoperto e utilizzato molti segreti fisici e aver fatto di Techne uno strumento di dominio planetario.

La storia, sulle tracce di Goethe, è per Spengler “natura vivente”, un impianto culturale che non poteva che essere inviso alla filosofia hegeliana e marxista, così come il suo radicale anti egalitarismo, esposto soprattutto in Anni della decisione. “La società si fonda sulla diseguaglianza degli uomini. Questo è un fatto naturale. Ci sono nature forti e nature deboli, caratteri inclini e caratteri inadeguati a comandare, temperamenti creativi e temperamenti privi di talento: rispettabili e disprezzabili, ambiziosi e modesti. Quanto più ha un senso e un significato, tanto più una Kultur assomiglia al processo formativo di un nobile corpo animale o vegetale, per cui tanto maggiori risultano le diversità tra gli elementi costitutivi: le diversità, non i contrasti, i quali infatti vengono introdotti soprattutto per calcolo.” Profetica è l’analisi della civilizzazione stremata, estenuata, nella quale “il significato di maschio e femmina va perduto, e la volontà di perpetuarsi viene meno. Si vive solo per se stessi, non per l’avvenire delle generazioni. Per il contagio diffuso dalla città, la Nazione in quanto società – all’origine il plesso organico di famiglie – minaccia di dissolversi in una somma di atomi privati, ciascuno dei quali mira a trarre dalla propria vita e da quella degli altri la massima quantità di piaceri: panem et circenses.” E ancora “I popoli bianchi, fino a che punto si sono inoltrati in questo pacifismo? Il chiasso contro la guerra esprime una posa intellettuale, un atteggiamento astratto, oppure rivela la consapevole abdicazione alla storia, a prezzo della dignità, dell’onore, della libertà? Ma la vita è guerra. Il bisogno di una quiete da fellah, di un’assicurazione contro tutto ciò che disturba la piatta quotidianità, contro il Destino in ogni suo aspetto, sembra aspirare a questo esito: una sorta di mimetismo dinanzi alla storia mondiale, il fingersi morti di insetti umani di fronte al pericolo, l’happy enddi un’esistenza priva di significato, segnata da una noia sulla quale musica jazz e balli negri intonano la marcia funebre della grande Kultur.Gli uomini di colore non sono pacifisti. Non sono attaccati a un vivere il cui unico valore è la lunga durata. Se noi la deporremo, saranno loro a raccogliere la spada. Una volta essi temevano l’uomo bianco, ora lo disprezzano.”

Ne L’uomo e la tecnica affronta un tema che il Terzo Millennio ha reso ulteriormente urgente: che cosa significa tecnica? Qual è il suo senso nella storia, il suo peso nella vita dell’uomo, il suo posto morale o metafisico? La risposta di Spengler è duplice, forse contraddittoria: nel Tramonto dell’occidente è la pianta malata di cui si ciba la decadenza, ne L’uomo e la tecnica, anticipando pensatori come Heidegger e Hannah Arendt e scrittori “filosofici” come Ernst Juenger (L’ Operaio), diventa motrice della storia. Oltre Kultur e Zivilisation, la tecnica è connaturata all’uomo, è parte della stessa essenza umana. In questo si avvicina ad Arnold Gehlen, l’antropologo per il quale l’uomo è l’essere che – attraverso intelligenza e razionalità tecnica, si “esonera” dai gesti materiali e supera la dimensione istintuale. La tecnica, dunque, è insieme strumento e destino della specie umana, sino all’ardito accostamento di tecnica e metafisica.

Nel Tramonto, Spengler tenta per primo un esperimento di portata tellurica, esposto chiaramente dall’autore: “in questo libro viene tentata per la prima volta una prognosi della storia. Ci si è proposti di predire il destino di una civiltà e, propriamente, dell’unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul nostro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana, nei suoi stadi futuri”. La diagnosi è severa, la prognosi infausta: l’Occidente cade per consunzione, né può trovare sbocchi di sopravvivenza, giacché ha concluso il suo ciclo vitale. Spengler contesta il percorso lineare della storiografia secondo il quale gli eventi seguirebbero un andamento teso a un fantomatico progresso, riagganciandosi piuttosto a concetti come l’eterno ritorno e la nicciana volontà di potenza- oggi definitivamente risolta nel suo contrario, al di fuori del titanismo tecnoscientifico - e al mito di Faust. Essenziale, in largo anticipo sui tempi, è la consapevolezza di vivere in un’epoca di crisi, in particolare intellettuale e valoriale, l’esaurirsi delle certezze che il Novecento ereditava dall’ottimismo del secolo precedente, il cui apice fu il positivismo. Vide il progresso anche nella sua tendenza inesorabile a tagliare i ponti con il passato. “Quello che ci appare più chiaro nei suoi contorni è il tramonto dell'antichità, mentre già oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo millennio: il tramonto dell'Occidente.” Il percorso immaginato dall’ingegnere prussiano si è compiuto. La prognosi si è rivelata esatta; del resto Spenglernon aveva prescritto alcuna terapia. Se ogni civiltà è un organismo e ha quindi una nascita, una crescita, una decadenza e una morte, come ogni organismo biologicoil ciclo è ineluttabile, determinato dal corredo di possibilità di cui dispone all'inizio del suo sviluppo. In linguaggio contemporaneo, ogni civiltà ha un proprio codice genetico e una scadenza. E’ la logica organica della storia. Una specie di destino, una categoria estranea alla razionalità, un amor fati delle civiltà che non spiega la decadenza, ma ne prende atto e, in qualche maniera, la attribuisce all’inesorabile legge dell’inizio e della fine. La civiltà occidentale seguirà il cammino di tutte quelle che l’hanno preceduta. L’anamnesi, i sintomi della decadenza sono rintracciati da Spengler nei fenomeni economici e politici del mondo a lui contemporaneo, e li scorge nell'affermazione della borghesia, nel primato dell'economia sulla politica, nella democrazia avvinta dal denaro, nella crisi dei princìpi religiosi e nella inesistente libertà di pensiero. “Non esiste una satira più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è più possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve volere, e proprio questo viene percepito come libertà ". Riflessioni che sembrano riferirsi, con un secolo di anticipo, all’odierna “cultura della cancellazione” di provenienza americana, ma di matrice francese e francofortese.

Un altro aspetto assai interessante è il singolare relativismo spengleriano, in parte mutuato daun pensatore storicista come Wilhelm Dilthey. Ogni civiltà rappresenta un mondo a sé, elabora un proprio linguaggio formale, un simbolismo, una specifica concezione della natura e della storia. La comprensione è dunque reale solo dentro la medesima civiltà, orizzonte primario e intrascendibile. La conseguenza è l’affermazione che non può esistere una filosofia o una morale universale-assoluta, e nessun principio teorico o pratico può ambire a una validità non contingente. Vi è dunque un dualismo natura – storia. La prima è il dominio della necessità causale espressa nelle formule e nelle leggi della scienza. La storia è il regno della vita e del divenire vitale, in cui il protagonista non è tanto l'uomo, quanto la “cultura”, un tema caro al romanticismo tedesco, da Herder sino a Burkhardt. Il destino prevede inesorabilmente il tramonto, ovvero la Zivilisation, prodromo della fine.Nessuna speranza, quindi, se non in un radicale sovvertimento di tutti gli pseudo-valori della civilizzazione che riconduca l’Occidente al rinnovamento attraverso la riscoperta delle sue origini. Lo spiraglio chiuso dallo Spengler del Tramonto è riaperto, o almeno lasciato socchiuso nella formula suggestiva di Anni della decisione, il libro della maturità e della proposta: “L’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue. Idee senza parole”.

L’Occidente ha rinunciato anche a quello e muore in un deserto di idee e in un’alluvione di parole che significano il contrario di ieri e di sempre. La profezia dell’ingegnere filosofo della storia si è avverata, al tramonto segue la notte. Spengler ne fu consapevole nell’ultima parte della sua vita, in cui, isolato dal nazismo “plebeo”, raccoglieva appunti e idee che non poté mai organizzare e tanto meno pubblicare. Immaginò un titolo, drammatico ma aperto alla speranza: Sentiero nel buio. E’ quello che, faticosamente, quasi tragicamente, deve percorrere il tramontato Occidente per sperare, chissà come, dove e quando, in un nuovo ciclo di Kultur, forse l’eterno ritorno immaginato da Friedrich Nietzsche.

Roberto Pecchioli

L’olimpica confusione di Bachofen – Umberto Bianchi

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Quello di Bachofen sul matriarcato, “Le madri e la virilità olimpica”, è un testo di rilevante importanza nell’ambito degli studi sulle interpretazioni dei miti e le loro conseguenti ricadute nell’ambito della storia di una determinata civiltà. Scritto attorno al 1861, questo testo faceva seguito al precedente Saggio sul simbolismo funerario degli antichi (1859) scritto a seguito di alcuni viaggi in Italia ed in Grecia ed avrebbe fatto da apripista ai successivi Il popolo licio (1862), La Saga di Tanaquilla (1870), concepita all'origine come risposta all'avversata Storia romana del Mommsen, sino alle Lettere antiquarie (1880 - 1886), scritta poco prima della morte avvenuta nel 1887. L’opera del Bachofen è tutta incentrata su uno studio di tipo socio-antropologico, dai forti risvolti esoterici, volto a dare dell’antichità dell’uomo, una ben diversa interpretazione da quella che i vari storiografi andavano elaborando, tra cui appunto il Mommsen, per quanto riguarda la storia romana. Il Bachofen interpreta la storia dei primordi dell’umanità in un’ottica di ciclica alternanza tra fasi nelle quali a dominare è decisamente l’elemento matriarcale ed altre in cui, invece, di converso, a dominare è quello patriarcale. Il tutto, corredato da una interpretazione esoterica dei vari simbolismi legati ai fenomeni della rinascita. Il “vulnus” dell’intera opera bachofeniana, sta nella rigidità e nell’eccessiva semplificazione concettuale, tipica di tutti quei pensatori ottocenteschi che da Darwin a Marx, passando per Freud, dalla obiettiva osservazione di alcuni dati incontrovertibili, hanno tratto delle sin troppo rapide e semplicistiche conclusioni. Una cosa è parlare di talune civiltà dell’ambito mediterraneo che, inizialmente conobbero una fase di ginecocratico predominio, altro è operare una netta ed incontrovertibile divisione tra due fasi di civiltà, arrivando ad immaginare due rigidi modelli a compartimenti stagni, per cui una determinata civiltà presenterebbe al proprio interno influenze direttamente derivanti dalla precedente fase, in un rigido e sin troppo schematico disegno. Ed in questo, si ravvisa tutta la cedevolezza della costruzione del Bachofen.

Dopo aver esordito con una prima classificazione tra le varie forme di ginecocrazia, amazzonica, eterica e quella più classica, il nostro parte alla carica, prendendo di mira tutte le civiltà che gli capitano a tiro. Così verremo a sapere che quella egiziana a causa della presenza della Dea Iside, era un civiltà ginecocratica o giù di lì, dimentico che, quella egiziana fu una civiltà impostata, tra l’altro, sul culto maschile e solare di Ra, il Dio-Sole. Con la stessa frettolosa impostazione si ravvisano elementi di ginecocratica influenza nell’area mesopotamica, anche qui dimentichi che, ad una fase di iniziale aderenza ad alcune forme di cultualità ctonie, basate sulla compresenza di Cielo/Terra ed Acqua in cui, però, già il Cielo aveva una parte di primaria importanza, sarebbero succedute forme di religiosità ancor più impostate sull’elemento uranico, come nello specifico caso della religiosità assiro-babilonese.

Ma, dove il Nostro si scatena e perde ogni freno, è nell’ambito della civiltà classica. Si comincia con i miti fondativi di Roma, tra cui quello di Tanaquilla, nel quale il nostro ravvisa nuovamente influenze da lui chiamate “asiatiche”, ovverosia ginecocratiche, conferendo, tra l’altro, al Vicino Oriente, una valenza assolutamente fuori da ogni realtà (…). Non solo. Tali sinistre e femminee influenze, addirittura si ravviserebbero in talune forme di ritualità, coinvolgenti le nobili ed altere matrone romane, dal nostro sospettate di essere delle etere sotto mentite spoglie. Sotto questa ottica, la Storia, per il nostro, diviene così un alternarsi tra forme di dominio femminile (negativo…), ravvisabili in espressioni quali la condivisione della proprietà, una concezione della vita legata a valori materiali, sino alla tanto aborrita rilassatezza di costumi, che ha in Dioniso, la propria figura centrale. Di converso, la concezione maschile è più uranica, spirituale e legata ad aspetti di vita concreti e “patriarcali” quali la proprietà privata.

E così abbiamo una Roma imperiale, maschile e solare, qua e là attraversata da pericolosi rigurgiti di femminea decadenza…di contro ad una Etruria, “asiatica” e mortifera…Ma la vera ciliegia sulla torta, il nostro la riserva al povero Pitagora che, bontà sua, ebbe la pessima idea di riservare dei ruoli di rilievo a personale femminile, all’interno della propria scuola, in tal modo attirandosi gli strali del Bachofen che, senza esitazioni, lo collocherà nella lista dei sospetti di sovversiva e decadente ginecocrazia. Che quella di Pitagora sia stata una figura complessa e di non facile interpretazione, è cosa risaputa, sin dai suoi tempi. Tant’è vero che, il pensatore fu fatto oggetto di alcuni feroci strali, da parte del burbero ed oscuro Eraclito, con un conseguente strascico polemico.

Ma un fatto del genere, non può autorizzare nessuno, a ridurre la figura di uno dei più importanti e complessi pensatori della Storia, ad un propalatore di strampalati stili di vita, ben lontani da quelle che, invece, erano le rigorose regole che sovrintendevano la vita delle varie scuole pitagoriche. E questo ce la dice lunga sulla faciloneria e sugli evidenti limiti del pensiero del Bachofen che, di questo passo, finisce con il dare del mondo antico un’idea sin troppo schematica, divisa in “maschi” e “femmine”, in buoni e cattivi, compartimentata per generi tali, da dar luogo ad una vera e propria forma di innaturale e fuor di luogo, bigottismo maschilista, totalmente dimentico della natura variegata e poliedrica delle varie espressioni del politeismo mediterraneo.

I richiami a figure divine femminili ed a ritualità a queste riferentesi, non debbono per forza essere interpretati quali rimasugli di precedenti fasi matriarcali, bensì possono ben essere inquadrati in un più ampio lavoro sia di sintesi e sincretismo tra differenti fasi culturali, operato nel nome dell’accettazione di una realtà aperta al molteplice. Qui maschile e femminile, convivono nel nome di un tutto armonico, in cui a sovrintendere è il principio di ananke/necessità, per il quale ogni polo attrae il suo opposto. Il maschio attrae la femmina, il bianco il nero, il bene il male e viceversa, in un’infinita e ciclica catena di interazioni e concause. E così, mentre accanto al Faraone egizio, siedono regine splendide e sorridenti, prive di timori o complessi di inferiorità,di sorta, mentre splendide figure di dee, ma anche sacerdotesse, regine o nobildonne fanno la loro figura nei rilievi mesopotamici, tutti i pantheon indoeuropei, dall’India alla Grecia, passando per il Latium Vetus, vedono convivere, l’uno accanto all’altro, Dei e Dee superbe; qui il femminile è parte costitutiva ed integrante del creato, in quanto interagisce e, senza remora alcuna, opera attivamente all’interno del Kosmos e sulle umane vicende. L’antica predominanza matriarcale di alcune società, ora si stempera in favore di una più vasta ed articolata concezione dell’Essere, ora sempre più aperta a quel Molteplice che, del Politeismo costituisce la caratteristica portante. L’Essere, in quanto molteplicità di espressioni del numinoso, contempla al proprio interno il femminile. Il nostro Bachofen finisce, invece, per dare del politeismo mediterraneo, greco romano in particolare, un’immagine distorta, conferendo a quest’ultimo una valenza di bigotto maschilismo, frutto delle influenze della Svizzera calvinista e protestante. Un bigottismo misogino ed ottuso, che sfiora l’esaltazione di quella forma di pederastia mentale, che aleggia e sovente pervade di sé tutte e tre le espressioni del Monoteismo abramitico.

Tutto da buttare, quindi, il nostro Bachofen? Tutt’altro. Il suo contributo è stato tutt’altro che irrilevante. L’idea di un uso del mito, al fine di interpretare le società al quale esso è riferito, al pari dell’idea di una fase matriarcale che nella psicologia del profondo, corrisponde all’indistinzione della personalità, precedente il momento dell’individuazione di quest’ultima (Erich Neumann Wilhelm Reich ed Erich Fromm, oltrechè in primis, Freud e Jung…), o, anche da un punto di vista più propriamente politologico, sia da destra con autori come Julius Evola, Ludwig Klages, Alfred Baeumler, sia da sinistra con Walter Benjamin, al pari di Karl Marx e Friedrich Engels, rappresentano delle intuizioni di non poco conto. Il tutto, senza voler contare la sua influenza, nel campo delle ricerche storico-antropologiche di studiosi come Marja Gimbutas. L’idea di una impostazione del sapere legata alla “complessità”, quale ora si va prefigurando, sta definitivamente mettendo all’angolo o , quanto meno, ponendo sotto una ben diversa luce, molte delle intuizioni scientifiche del 19° e del 20° secolo.

Una realtà aperta, estroflessa, dai molteplici ed inaspettati aspetti, va prefigurandosi, in contrapposizione al grigiore ed all’uniformità del sapere globalizzato, e questo, in tutti i campi del sapere. Un confronto, il cui esito per ora, non è scontato, né ci è dato supporne la conclusione. Restano aperti e validi, i motivi di riflessione sull’inattualità di certe intuizioni scientifiche, come nel caso qui trattato.

 UMBERTO BIANCHI

 

Natura e scopi delle società segrete tradizionali – Enrico Edoardo Gavassino

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Uno degli argomenti più dibattuti all’interno del vasto e sfaccettato panorama dell’esoterismo riguarda la natura e lo scopo delle società segrete. Se la pubblicistica scandalistica le dichiara spesso artefici di ogni tipo di nefandezza, onde solleticare il desiderio di mistero dei suoi lettori, è noto ai ricercatori dello spirito che le società segrete tradizionali sono una realtà innanzitutto spirituale ed esoterica, prima ancora che storica. Anzi, la loro esistenza è innanzitutto a-storica e meta-storica prima che manifestazione temporale del loro eggregore.Nel presente articolo cercheremo di chiarire quali siano le caratteristiche di tali società, il loro raggio di azione e il loro scopo. E’ bene chiarire da subito che ci riferiremo soltanto alle società segrete tradizionali in senso pieno del termine, ossia a quelle società che rappresentano una modalità di azione della Tradizione Primordiale e della sua trasmissione, non faremo quindi alcun riferimento alle società segrete “profane” ossia a quelle che perseguono scopi politici o criminali o che appartengono a quella che Guénon chiama pseudo-iniziazione. Per beneficio di metodo, esporremo in modo schematico le nostre riflessioni iniziando dalla prima parola del nostro argomento, le società segrete tradizionali, e cioè la parola “società”. Le forze tradizionali e gli iniziati possono prendere, per motivi contingenti, la forma di società o associazioni segrete ma ciò non rappresenta la norma. Generalmente la Tradizione agisce attraverso singoli iniziati ed è, in realtà, raro che questi si associno in ordini più o meno noti, se non per meglio raggiungere i loro scopi. Un caso emblematico è quello dei veri Rosa+Croce, usciti dalla loro oscurità nel 1614 e attivi per un periodo brevissimo fino alla loro totale scomparsa e ritorno nell’oblio da cui erano emersi per una manciata di anni. E’ un atteggiamento tipicamente moderno ed occidentale il voler identificare una sigla o una struttura di riferimento di una data tradizione, ma in realtà si dovrebbe prestare più attenzione a ricercare innanzitutto la linea tradizionale e un maestro autentico che la trasmetta.

Tali linee tradizionali, se ritengono ed è confacente ai loro disegni, possono, per un periodo di tempo più o meno limitato, anche costituire una struttura di società o di ordine, ma ciò non è assolutamente la norma, anzi per certi versi è una deviazione dell’iniziazione autentica che per definizione va da bocca a orecchio, da uomo a uomo, da iniziatore ad iniziato. Il mondo esoterico e tradizionale è un fiume sotterraneo che scorre in modo indipendente e nascosto rispetto alla realtà quotidiana, pertanto una linea realmente tradizionale molto difficilmente troverà conformazione in una associazione alla luce del sole ma si sposterà e agirà attraverso i singoli iniziati e i singoli maestri, capaci di trasmettere realmente quella data iniziazione.

Tuttavia, lo ripetiamo, è possibile che tali tradizioni si diano una struttura societaria e qualora questo accada è norma che la gerarchia esteriore, potremmo dire “burocratica”, di tali società non rappresenti mai la reale gerarchia iniziatica e, come corollario, è bene chiarire che tutte le società segrete tradizionali sono sempre dirette da individui totalmente ignoti che la tradizione esoterica chiama, non a caso, Superiori Incogniti. Giungiamo a questo punto a chiarire i significati profondi della seconda parola del termine che stiamo studiando e cioè la parola “segrete”.

Il mondo profano vede nel “segreto”, qualunque esso sia, una fonte certa di malaffare. In realtà nel dominio iniziatico il Segreto è una componente fondamentale del percorso ma è bene che questo termine, spesso mal compreso, venga chiarito una volta per tutte. Le società segrete tradizionali sono, appunto, segrete in tre sensi. In primo luogo esse occultano in tutto o in parte la propria esistenza o i nomi dei loro membri pertanto esse sono appunto segrete. Mentre alcune società segrete hanno perso questo carattere, si pensi alla Massoneria la cui esistenza è ormai nota pressoché a tutti insieme alla identità di molti degli iniziati, altre l’hanno invece mantenuto in modo ortodosso. In secondo luogo sono segrete nel senso che possiedono dei segreti che definiamo esteriori. Tali segreti esteriori sono tutti i riti, le cerimonie, i metodi di riconoscimenti specifici della singola società segreta e che vengono mantenuti strettamente riservati dagli appartenenti. In terzo luogo e in senso complementare ai segreti “esteriori” vi è l’esistenza di un segreto “interiore” ossia al vero e proprio Segreto Iniziatico, cioè l’essenza profonda dell’insegnamento della singola società segreta o ordine iniziatico. Tale segreto è inviolabile in quanto totalmente incomunicabile e comprensibile solo per intuizione, peraltro progressiva, favorita e assistita dalla comprensione profonda dei simboli propri della singola linea tradizionale.

A questo punto dobbiamo chiarire che la segretezza è, tolte necessità contingenti dovute alla sicurezza fisica dei membri, un metodo di insegnamento importante per creare un primo spazio interiore di silenzio e al contempo un importante monito affinché i segreti non vengano sviliti attraverso le chiacchiere profane. Al contempo la segretezza sussiste anche come simbolo e quindi un appoggio “fisico” per raggiungere realtà metafisiche. Essa appartiene quindi anche all’apparato simbolico della singola linea tradizionale e peraltro rappresenta un importante fattor comune di tutte le tradizioni regolari. Infine, spieghiamo ora la terza e ultima parola del nostro argomento e cioè la parola “tradizionali”. Tale tema è altamente dibattuto nel mondo esoterico in quanto chiave di volta dell’intero discorso. La domanda delle domande è; quando è possibile dichiarare tradizionale, ossia regolare, una società segreta o un ordine iniziatico?

Nel tempo questo argomento ha fatto nascere una vera e propria guerra di brevetti, patenti, documenti e sigilli notarili da far venire un mal di testa che da solo basterebbe a far desistere dalle ricerche. In realtà ridurre l’argomento ad argomentazioni di avvocati svilisce l’altezza metafisica di ciò di cui stiamo parlando. Innanzitutto è bene chiarire che una società segreta o ordine iniziatico è tradizionale quando esso è conforme alla Tradizione Perenne nei suoi mezzi, insegnamenti e scopi. Questa tuttavia è una condizione necessaria ma non sufficiente poiché può essere detenuta anche dalle società pseudo-iniziatiche, ossia quelle che ricalcano società iniziatiche ma non sono in possesso di alcunché di metafisico. Come seconda condizione fondamentale una società segreta è tradizionale quando è regolare ossia quando è in possesso di una reale influenza spirituale, la cui catena di trasmissione permane ininterrotta. Ciò sbarra la porta a tante fantasie moderne e alle società pseudo-iniziatiche, poiché come abbiamo detto il collegamento tradizionale deve essere reale cioè effettivamente ricevuto di persona, escludendo qualunque possibilità di auto-iniziazione, di “richiamo ideale” o di “iniziazioni in astrale”. Questo basta a fare piazza pulita di tanti ordini e conventicole esistenti, in alcuni casi numerose, ma senza nulla di neanche vagamente tradizionale ma appartenenti soltanto alla categoria del “revival iniziatico”, leggasi “carnevalate”. Quindi riepilogando ed espandendo, le caratteristiche delle società segrete tradizionali o, a questo punto pensiamo di essere stati chiari, degli ordini iniziatici tradizionali sono le seguenti:

  • sono regolari cioè in possesso di una reale influenza spirituale, trasmessa in modo diretto;
  • sono conformi alla Tradizione Primordiale nei loro scopi, mezzi e insegnamenti;
  • possiedono un Segreto Iniziatico, per sua natura incomunicabile e di conseguenza inviolabile;
  • possiedono dei segreti secondari (simbolici rispetto al Segreto incomunicabile o funzionali alla sua realizzazione) e cioè cerimonie, riti, parole sacre, oggetti specifici;
  • non sempre assumono una forma di società;
  • qualora creino una società non sono noti i suoi fondatori e la gerarchia manifesta non è mai quella reale;
  • sono sempre assistiti da elementi non umani;
  • sono richieste specifiche qualifiche per essere ammessi o ricoprire determinate funzioni.

Come corollario di quanto abbiamo appena affermato e data soprattutto l’esistenza di una gerarchia e delle qualificazioni iniziatiche sia per l’accesso che per l’esercizio di determinate funzioni, tra cui normalmente spicca la possibilità di iniziare altri individui, è evidente come gli ordini iniziatici tradizionali non siano mai stati, non siano e non saranno mai in alcun modo né democratici né egualitari, anzi sono la discesa e applicazione manifesta del principio superiore di “gerarchia”. Al contempo, come è evidente, essi non si rivolgono a tutti gli individui indiscriminatamente e non offrono la propria iniziazione “alla società civile”, anzi ciò rappresenta una gravissima degenerazione. Riteniamo di aver dato una panoramica approfondita della natura degli ordini iniziatici tradizionali tale da comprendere facilmente come essi non perseguano assolutamente alcun tipo di generico perfezionamento morale dell’individuo, se non in via del tutto accessoria e come base ai loro scopi ultimi. Relativamente a questi, sempre più spesso si sentono, anche da coloro che invece dovrebbero conoscere la realtà dei fatti, scopi che invero nulla hanno a che vedere con quelli reali portati avanti dalle realtà oggetto del nostro studio. Lo scopo non è quello della conoscenza del sé, e su questo punto ci si intenda bene: punto fermo della realizzazione è, assolutamente, la conoscenza del sé ma di quello che viene definito nell’esoterismo come “sé superiore”, e non quello che viene definito “sé” da un punto di vista meramente psicologico, punto di vista ultimamente divenuto spesso predominante negli ordini iniziatici ma che nulla ha a che vedere con l’iniziazione. Così anche lo scopo non è quello del perfezionamento morale, non è quello della libertà per tutti gli uomini o altre simili istanze civiche. Tutti questi scopi sono nobili ma affatto tradizionali e peraltro possono essere portati avanti con ben più fortuna da altre organizzazioni, siano esse politiche o di altra natura. Gli scopi ultimi, veri, degli ordini iniziatici tradizionali, secondo le definizioni che abbiamo dato, sono solo due e precisamente quelli di esercitare e trasmettere la propria influenza spirituale e di tramandare la conoscenza dei rapporti che esistono tra l’Uomo, Dio e l’Universo.

Tutto il resto in qualunque guisa venga presentato è soltanto accessorio a questi due scopi quando non in aperto contrasto. Il singolo iniziato quindi è chiamato, certamente, a conoscere sé stesso onde costruire la base per conoscere la Natura e Dio. Al contempo egli non è chiamato al dialogo con gli stati superiori ma al loro possesso effettivo e cioè alla loro realizzazione, ossia egli è chiamato ad operare una reale trasmutazione, il cui fine ultimo è sempre stato, è e sarà sempre unicamente la reintegrazione nello stato primordiale, edenico secondo alcune tradizioni, o come si usa dire in certi ordini iniziatici “nelle primitive proprietà, virtù e potenze spirituali e divine”.

Questo è il fine ultimo di ogni iniziato e di ogni insegnamento tradizionale, quindi un fine eminentemente spirituale, scevro da qualunque tipo di psicologia fine a sé stessa, scopo politico o moraleggiante nonché da qualunque altro scopo che non sia determinante per il raggiungimento del loro fine ultimo, fine che abbiamo chiarito in modo preciso.

  BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA:   - “Considerazioni sulla via iniziatica”, René Guenon, I Libri del Graal, 2010 - “Melanges”, parte seconda, René Guenon, Centro Studi Guenoniani, data imprecisata - “Iniziazione e realizzazione spirituale”, René Guenon, Luni Editrice, 2014 - “Orientamenti iniziatici”, Paolo M. Virio, Simmetria Edizioni, 2014 - “L’esoterismo e la morale”, in “Introduzione alla Magia” vol.2, Gruppo di Ur, Edizioni Mediterranee, 2006 - “La tradizione e la realizzazione”, in “Introduzione alla Magia” vol.2, Gruppo di Ur, Edizioni Mediterranee, 2006 - “Aristocrazia e ideale iniziatico”, in “Introduzione alla Magia” vol.3, Gruppo di Ur, Edizioni Mediterranee, 2006 - “Sui limiti della “regolarità” iniziatica”, in “Introduzione alla Magia” vol.3, Gruppo di Ur, Edizioni Mediterranee, 2006   Enrico Edoardo Gavassino (articolo ospitato e tratto su Natura e scopi delle società segrete tradizionali • URSÆ CŒLI (ursaecoeli.it))

Evola e il mistero iperboreo: la raccolta di scritti 1934-1970 – Giovanni Sessa

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Julius Evola è stato scrittore prolifico. Ad un considerevole numero di volumi, dedicati ad ambiti assai diversi del sapere, dal dadaismo alla filosofia, dall’ermetismo alla critica della modernità, ha fatto seguire un inusitato numero di saggi e articoli, pubblicati su riviste e quotidiani. Da anni, la Fondazione Evola sta raccogliendo in volumi i diversi contributi del tradizionalista romano. E’ da poco nelle librerie il testo del pensatore, Il mistero dell’Occidente. Scritti su archeologia, preistoria e Indoeuropei 1934-1970, curato da Alberto Lombardo, al quale si deve anche l’interessante introduzione, pubblicato da Fondazione Evola/Pagine, Quaderno n. 53 di testi evoliani (per ordini: 06/45468600, pp. 243, euro 18,00). Il libro è impreziosito dall’ampia postfazione di Giovanni Monastra, biologo con competenze di antropologia fisica, che offre, come ricorda Gianfranco de Turris nella Nota: «una panoramica sui più recenti studi di genetica […] che hanno in parte confermato, in parte modificato, il quadro della preistoria indoeuropea offerto da Evola» (p. 7). La silloge raccoglie venti scritti dedicati dal filosofo allo scandaglio del tema dell’origine. Pertanto, questo Quaderno è decisamente più corposo del precedente, uscito nel 2002, che ne conteneva una decina, e consente al lettore di comprendere cosa Evola pensasse realmente delle origini indoeuropee e della preistoria, vale adire di ciò che più volte in queste pagine viene definito il mistero iperboreo o dell’Occidente. Tanto più rilievo ha la lettura del volume, come ricorda Lombardo, se si tiene nel debito conto l’influenza esercitata dai saggi qui contenuti, su autori e correnti di pensiero nel secondo dopoguerra. Adriano Romualdi, infatti, nel suo informato studio sugli Indoeuropei, si richiamò esplicitamente alle ricerche di Evola e tentò di coniugarle con le scoperte di Giacomo Devoto. I numeri speciali delle riviste Nouvelle Ecole e Futuro Presente, dedicate alle origini dei popoli europei, stanno a testimoniare la rilevanza delle intuizioni evoliane, come del resto i lavori di Jean Haudry, di Felice Vinci o di Jean Mabire.

   Dagli articoli è possibile individuare gli autori dei quali Evola si servì per sviscerare il mistero iperboreo. Innanzitutto, compare il nome di Fabre d’Olivet che, per primo, sostenne: «la remota origine nordico-artica, boreale o iperborea» della razza bianca (p. 13). Non mancano riferimenti a Guénon, anche se, a differenza dell’esoterista francese, Evola si serve anche di dati scientifici, sia pure subordinandoli al metodo tradizionale. Negli anni Trenta, lo studioso a cui il tradizionalista guardò con maggiore interesse, è stato Herman Wirth, al quale si deve riconoscere una non comune capacità di lettura sintetica di una messe enorme di dati, comprovante l’origine artica degli indo-arii. Dall’Artico, questi popoli, a seguito dell’ultima grande glaciazione, si sarebbero mossi: «verso sud-est dando origine a numerose civiltà preistoriche» (p. 14), i cui valori religiosi sarebbero stati centrati attorno al monoteismo solare. Negli scritti degli anni Cinquanta, Evola modererà il giudizio positivo su Wirth, pur continuando a considerarlo autore di spessore. Per il romano, la spiritualità solare dell’origine fu il frutto delle civiltà patriarcali e non di quelle tellurico-matriarcali. Tesi che il Wirth non poteva condividere in quanto, a dire del filosofo, era privo di una reale visione tradizionale della preistoria. Lo stesso giudizio, nota Lombardo, riemerge anche nelle pagine de, Il mito del sangue. Al contrario, da Il cammino del cinabro si evince un giudizio complessivo positivo sull’opera del Wirth, avendo questi individuato nella “Tradizione primordiale” il punto zero della storia.

   Nello scritto, Popolazioni primordiali, a Wirth viene affiancato Tilak, sostenitore dell’origine artica dei Veda. Evola ritiene che intorno alla proto-patria artica si potesse argomentare anche in termini biologici. Ecco allora il tradizionalista sostenere in, L’ipotesi iperborea, che i gruppi sanguigni 0 ed A: «hanno una stretta relazione […] con le razze arie e, in genere, indogermaniche» (p. 17). I dati genetici sono però letti da Evola in un più vasto insieme di elementi, comprendenti le tradizioni mitologiche dei diversi popoli europei. Per lo studioso italiano, il quadro etnico dell’Europa sarebbe costituito da tre componenti: un sostrato non ario ed autoctono, e due ulteriori elementi ari, corrispondenti a due diversi movimenti migratori. Peraltro, dall’intervista ottenuta a Vienna dall’archeologo Frobenius, si desume come il pensatore tradizionalista ritenesse che lo stile figurativo evidenziato da quest’ultimo in Africa Settentrionale, in Spagna e in Sardegna, indicasse la medesima origine nordico-atlantica o artico-occidentale. Per Evola, mito iperboreo e atlantideo risultano essere: «due distinte raffigurazioni di migrazioni, la prima però assai più remota nel tempo rispetto alla seconda» (p. 19).

Lo scritto, La migrazione dorica in Italia, mostra un debito esplicito nei confronti del mondo ideale di Franz Altheim, che aveva ben compreso la prossimità spirituale di Sparta e Roma. E’ in tale contesto che emerge quella particolare lettura evoliana del matriarcato, in parte desunta da Bachofen, quale civiltà tellurica, lunare, che a livello giuridico-politico sarebbe stata caratterizzata da tendenze universaliste di promiscuità sociale. Di contro, naturalmente, al patriarcato, espressione maschile, eroica, aristocratica e solare. Nella medesima direzione teorica si mosse anche la lettura evoliana delle pagine di Günther, che lo indusse a pensare a matriarcato e patriarcato quali “psicologie immutabili”. Dalla raccolta si evince, inoltre, che, la razza, fin dal 1934, il filosofo non la pensa in termini di “natura” ma di “cultura”, differenziandosi dalla visione biologico-zoologica che andava, in quegli anni, affermandosi tragicamente in Germania. Tra gli altri temi emergenti nel volume, va di certo segnalato l’interesse evoliano per l’ideologia “tripartita” di Dumézil. Evola precisa che essa, in particolare in India, ha avuto una variazione   “quadripartita”, non in grado di inficiare l’intuizione dello storico delle religioni francese, in quanto: «solo le prime tre caste rappresentano l’eredità degli invasori arii dell’India» (p. 27). Sintoniche risultano, inoltre, le esegesi della figura del guerriero condotte dai due studiosi.

L’attenzione del pensatore romano per Dumézil, potrebbe essere stata stimolata da Eliade, come starebbero a testimoniare alcune missive di Evola. Un testo davvero centrale, Il mistero dell’Occidente, per quanti abbiano a cuore l’esegesi della produzione evoliana.

Giovanni Sessa

La Conoscenza sacra: il pensiero di Tradizione di S. H. Nasr – Giovanni Sessa

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Viviamo in un stato di crisi permanente, sostengono alcuni commentatori illuminati. Fin dai primi decenni del secolo XX, del resto, la critica della cultura, aveva indotto, almeno in una sparuta minoranza di intellettuali, la convinzione che il nostro non fosse affatto il migliore dei mondi possibili e che le “sorti progressive” dell’umanità stessero per incontrare un punto di arresto. Solo i pensatori afferenti al pensiero di Tradizione hanno sviluppato uno sguardo sul reale che ha reciso davvero i ponti con la cultura responsabile della decadenza, quella moderna, essenzialmente “orizzontalista”, catagogica, soggettivista e utilitarista. Con il tradizionalismo è necessario confrontarsi, nonostante il pregiudizio ideologico e la rimozione preconcetta, istinti riflessi cui   ricorrono i paladini dell’intellettualmente corretto per sostenere le loro fragili certezze ideologiche, smentite dalla realtà. E’ da poco nelle librerie un volume di Seyyed Hossein Nasr, vero e proprio classico del pensiero di Tradizione, che consente di capire la crucialità del tradizionalismo per le sorti dell’uomo nel nostro tempo. Ci riferiamo a, Conoscenza sacra, pubblicato dalle Edizioni Mediterranee. Il testo è accompagnato dalle prefazione organica e contestualizzante di Giovanni Monastra (per ordini: 06/3235433, ordinipv@edizionimediterranee.net, pp. 381, euro 29,50). Lo studioso iraniano, nato nel 1933, è considerato, lo ricorda il prefatore, come il più importante dottrinario sciita contemporaneo. Dotato di una formazione rigorosa ed interdisciplinare, studiò dapprima al MIT   matematica e fisica per passare, successivamente, all’università di Harvard dove si occupò di geologia e geofisica. In questo frangente, maturò interessi filosofico-religiosi e, seguendo un corso tenuto da de Santillana, l’autore de Il mulino di Amleto, entrò in contatto con le firme più insigni del “tradizionalismo integrale”, in particolare lo colpirono le posizioni di Guénon e Schuon. Sviluppò, pertanto, alla luce di tale eterodosso iter formativo, una posizione teorica equidistante dal relativismo moderno, quanto dall’esclusivismo integralista. Con l’ascesa di Khomeini al potere, infatti, si trasferì definitivamente negli Stati Uniti, dove insegnò alla Washington University.

Uomo dal carattere fermo, ha avuto quale tratto maggiormente caratterizzante, la capacità di comprendere l’altro da sé. Il suo è stato, innanzitutto, un pensiero colloquiante, le cui radici sono, si badi, ben piantate nella Tradizione. Comparativista, conoscitore della scienza moderna e della cultura occidentale, ha colto: «gli aspetti e i risvolti “filosofici” della scienza», rileva Monastra (p. 9). Nel volume che presentiamo, egli è aspro critico della secolarizzazione della cultura moderna: «A causa del flusso discendente del fiume del tempo e delle molteplici rifrazioni e riflessioni della Realtà sugli innumerevoli specchi della manifestazione […] la conoscenza, l’essere […] hanno finito per separarsi» (pp. 17-18). In Conoscenza sacra sono raccolte le lezioni che lo studioso tenne nell’ambito delle Gifford lectures ad Edimburgo. Nel 1981, fu il primo non occidentale ad esservi invitato. Ad esse avevano già preso parte nomi eminenti della scienza e della cultura, in genere, se si prescinde da Roger Scruton, di orientamento laicista. Fu un’occasione che Nasr non si lasciò sfuggire, al fine di presentare a quell’uditorio la Tradizione: «nel senso di verità di origine sacra, divina, atemporale» (p. 10). Lo fece attraverso la descrizione dell’approccio al sacro dell’Induismo, del Buddhismo, del Taoismo, del Cristianesimo, dell’Ebraismo, dell’Islam e dello Zoroastrismo.

 Le religioni positive, diffusesi nel corso del tempo, secondo tale prospettiva, rappresentano i raggi dell’unico Sole, la Tradizione, sono state diverse declinazioni della medesima Realtà, collocata oltre ogni distinzione e determinazione. Il cosmo, sostiene Nasr, è teofania, manifestazione del Principio e, pertanto, è in sé sacro ed inviolabile. Da tale concezione dovrebbe discendere un’ecologia tradizionale, ben diversa da quella meramente utilitarista, conosciuta dalla modernità. Strumento atto a rivelare la Realtà prima è l’intuizione intellettuale. Di essa, Guénon aveva sottolineto il tratto ben più immediato di quello proprio alla percezione sensibile: «perché si pone al di là della distinzione di soggetto ed oggetto […] E’ contemporaneamente il veicolo della conoscenza e la conoscenza stessa» (p. 11). Essa induce l’identità di conoscere ed essere, realizza la metanoia, un radicale cambio di cuore in chi la viva, una trasformazione profonda. Nulla a che vedere, quindi, con la conoscenza profana che, nel migliore dei casi, si riduce a mera erudizione. Nel settimo capitolo, Nasr si confronta con il Cristianesimo, la religione dell’uomo storico che si muove lungo la linea progressiva del tempo. Sulla scorta delle tesi di Mircea Eliade, l’autore ritiene che il Cristianesimo sia indubitabilmente la religione dell’ “uomo decaduto”, la religione dell’Età ultima. Storia e progresso inducono un caduta gnosica implicante l’impossibilità della visione archetipale, che sancisce la circolarità-sfericità del tempo e le sue ripetizioni. L’uomo storico è uomo dimidiato, pertanto individua nel tempo, con le filosofie della storia e nella rivoluzione, la propria Redenzione. Uno dei “segni dei tempi”, della decadenza moderna, prosegue il pensatore, è da individuarsi nel fatto che, perfino negli studi teologici, vige il rifiuto della visione tradizionale  quale strumento atto a cogliere l’ubi consistam delle religioni. Nel nono capitolo, tale rilievo è utilizzato per evidenziare le differenze che dividono l’ecumenismo religioso contemporaneo, fondato essenzialmente sul sentimentalismo: «che tende a portare il confronto tra le parti al di sotto del livello delle “forme” e non al di sopra» (p. 2), ed un possibile ecumenismo tradizionale che, al contrario, guarda oltre le forme, rinviando al Principio.

  Merito maggiore delle pagine di Nasr, che peraltro apprezzò anche il magistero di Evola, come mostra il suo saggio introduttivo a La tradizione ermetica del filosofo romano, è il saper presentare concetti e tesi complesse, con semplicità, chiarezza. Insomma, le sue sono davvero verità segrete esposte in evidenza che mostrano in qual grado il nostro autore abbia realizzato la Conoscenza sacra.

Giovanni Sessa

Antigone, tra mito e simbolo – Luigi Angelino

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Antigone, come è noto, protagonista dell'omonima tragedia di Sofocle, era la principessa frutto dell'unione incestuosa tra il re tebano Edipo e la regina Giocasta, moglie e madre allo stesso tempo dello sventurato sovrano. Il personaggio è stato reso famoso dalla magistrale interpretazione sofoclea, di cui si tramanda la prima rappresentazione ad Atene, durante le fastose celebrazioni delle “Grandi Dionisie” del 442 a.C.. Dal punto di vista strutturale, la tragedia riguardante la principessa tebana appartiene al ciclo dei drammi ispirati alle vicende del padre Edipo e dei suoi diretti discendenti. In realtà gli studiosi ritengono che altre due tragedie scritte dallo stesso Sofocle, l'Edipo re e l'Edipo a Colono siano state composte alcuni anni dopo l'Antigone, pur descrivendo fatti avvenuti cronologicamente prima. La tragedia è incentrata sulla decisione della principessa di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice (1), opponendosi fermamente alla volontà del nuovo re di Tebe Creonte che ne aveva sancito il divieto per decreto. Polinice, infatti, era stato ucciso, mentre stava assediando la città di Tebe, comportandosi agli occhi dei concittadini e delle autorità politiche e religiose come un traditore. La consuetudine ellenica, che dava molta importanza agli onori funebri, come ponte tra la vita mortale e quella ultraterrena, negava tale privilegio ai traditori e a coloro che si fossero macchiati di crimini particolarmente riprovevoli. Quando Creonte scopre l'intento della principessa Antigone, non esita a punirla, condannandola a vivere per il resto dei suoi giorni isolata in un'oscura caverna. Il solito stimato e temuto indovino Tiresia (2), le cui profezie ricorrono con una certa frequenza nell'intero ciclo edipico, unitamente alle lamentazioni del coro che rappresenta il popolo di Tebe, supplica il re Creonte di liberare la fanciulla. Ma la clemenza del sovrano giunge, quando è ormai troppo tardi: Antigone si è suicidata, impiccandosi nel tetro antro dove era stata relegata. Oltre al grande valore letterario e didascalico dell'opera sotto il profilo etico, l'Antigone è annoverata come una delle prime e più compiute riflessioni sull'eterno conflitto tra l'autorità ed il potere e, volendo usare una terminologia di gran lunga successiva all'epoca della Grecia classica, sulla legittimità del diritto positivo (3). Sofolce riesce ad imprimere alla tragedia antigoniana un'impronta a tal punto metastorica, che l'opera ancora oggi rappresenta una delle pietre miliari tra le letture specifiche nell'ambito della filosofia del diritto. Analizzando il contenuto del dramma, notiamo come il contrasto tra Antigone e Creonte derivi, almeno in parte, dalla differenza di valore tra le leggi divine e quelle umane. Alle prime si appella Antigone, chiedendo che al fratello sia assicurata degna sepoltura, mentre alle seconde si riferisce il re Creonte (4), come espressione dell'autorità politica umana, troppo spesso compromissoria ed autoreferenziale.

Ed allora è necessario chiedersi: in che modo Antigone sostiene le proprie argomentazioni, cercando di giustificare la propria decisione di rendere al cadavere del proprio fratello una degna sepoltura? Con un ragionamento giuridico ante litteram, la principessa afferma che una legge umana non può sconfessare una legge divina che, nello specifico, prevede per ogni defunto gli adeguati onori funebri rapportati al suo rango. Secondo la visione di Antigone, il decreto emanato da Creonte rivelerebbe una volontà tirannica, dove una semplice legge umana si porrebbe in contrasto con i precetti divini. Memorabili sono i versi 450-457 della tragedia sofoclea, che ben esprimono la determinazione della principessa:

A proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl'Inferi, Dike, fissò mai leggi simili fra gli uomini. Nè davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dèi. Non sono d'oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero, né di dove”.

La figura di Antigone richiama la voce della coscienza, presente in ognuno di noi, capace di ancorarsi ai valori di una morale che trascende le norme positive e contingenti di un singolo ordinamento giuridico. In un'ottica più ampia, il contrasto tra Antigone e Creonte abbraccia l'eterno conflitto tra diritto e libertà. Capovolgendo le considerazioni fin qui delineate, potremmo chiederci, all'opposto, se Antigone insistendo nella sua rigida determinazione, non abbia abusato della propria libertà, sacrificando il benessere collettivo, per un fine squisitamente personale e gentilizio. Un'attenta esegesi del testo sofocleo ci fa capire come il gesto di Antigone non derivi da un intento di smodata ambizione o di ribellione fine a sé stessa, non andando a limitare altri tipi di libertà. In fondo la principessa desiderava soltanto dare degna sepoltura al fratello, così come la religiosità del tempo imponeva e riteneva necessario. E' chiaro come la popolazione tebana, rappresentata dal coro, mostri empatia con l'eroina Antigone, augurandosi che il potere dispotico non diventi predominante nella stessa polis. Il caso del giovane principe dichiarato traditore, pertanto, diventa emblematico per una comuniotà di consociati che non vuole perdere la propria autonomia democratica e che la vede minacciata dall'avanzare di istituzioni tiranniche e non più ancorate alla morale tradizionale (5).

Sotto il profilo giuridico, l'Antigone si mostra come paradigma metastorico sulle modalità per legittimare una legge positiva, anche se questa norma si ponga in contrasto con l'idea di libertà e di giustizia di una parte di cittadini. Si tratta di una problematica di difficile soluzione, considerando che compito dei contemporanei stati di diritto è sia quello di garantire ogni forma di libertà che di regolarla ed, in alcuni casi, perfino di limitarla. Nella caratterizzazione dei personaggi, Creonte viene descritto come un despota che deve a tutti i costi difendere la propria immagine e la propria autorità davanti al popolo, ancora più timoroso di essere giudicato debole al cospetto di un avversario donna che, secondo il costume della società ellenica del tempo, non poteva rivestire incarichi politici (6). Il sovrano si mostra poco illuminato e non in grado di prevedere le conseguenze delle proprie azioni, ammettendo i propri errori soltanto quando ormai è successo l'irrimediabile. I critici ritengono che, comunque, alla fine non vi sia un vero e proprio ravvedimento di Creonte, costretto a riconoscere i propri errori dall'evidenza dei fatti e non per un processo di maturazione e di evoluzione interiore. Creonte deve guardare in faccia alla catastrofe che ha provocato, dopo aver distrutto la propria famiglia ed aver favorito ampie fratture sociali nella sua polis, verso cui aveva pur sempre proclamato giuste intenzioni, La ribellione di Antigone al re, invece, assume vari significati che sono stati interpretati diversamente a seconda dei contesti storici e culturali di riferimento. L'atteggiamento della principessa non mette soltanto in discussione l'autorità di Creonte e la consacrazione normativa delle sue disposizioni, ma contesta l'intero sistema delle convenzioni sociali su cui si reggeva la polis, dove la donna doveva sempre sottostare alla volontà dell'uomo. Come abbiamo già detto, però, il comportamento di Antigone non tende a capovolgere l'ordine sociale della città, mirando a preservare i propri affetti familiari e risultando, per questo motivo, più accettabile rispetto a quello di altre eroine tragiche come Medea (7) o Clitemnestra (8).

La tragedia di Sofocle, ispirata all'Antigone, presenta ulteriori spunti di riflessione attraverso il confronto di alcuni protagonisti. Accanto alla contrapposizione Antigone-Creonte, colonna portante della narrazione, si pone il contrasto Creonte-Emone, sia dal punto di vista generazionale che di predisposizione emotiva. Il primo incarna le caratteristiche del maschio classico, anèr in ambiente ellenico, vir per i Romani, mentre suo figlio è l'emblema del giovane innamorato che non ha paura di mostrare i sentimenti provati nei confronti della donna amata, anche se ciò gli può far perdere prestigio davanti ai sudditi. Allo stesso modo, degno di nota è il confronto tra Antigone e la sorella Ismene, anch'ella preoccupata di recuperare le spoglie del fratello per affidarle ad una degna sepoltura, ma descritta come la tipica donna del suo tempo, obbediente all'autorità maschile ed al potere costituito. Ismene è stata anche considerata come l'alter ego di Antigone, come colei cioè che dà voce agli stessi dubbi della protagonista e che, in qualche modo, ne rafforza il proposito ad agire. Antigone, inoltre, sarà sempre perseguitata dall'impronta incestuosa che grava sul suo destino che rimarrà indissolubilmente legato a quello del padre Edipo. La sfortunata principessa non può continuare ad obbedire al tiranno, perseguendo la strada dell'amore in maniera “consapevole”, a differenza del padre Edipo che sceglie la via del cuore solo in maniera inconsapevole. Antigone appare come la continuazione del processo cognitivo cui il padre Edipo ha dato avvio, come l'etimologia stessa del suo nome dimostra (Antigone significa appunto “contro generazione”, indicando una sorta di rovesciamento dei valori della stirpe di appartenenza). La disperazione dell'eroina di Tebe è capace, infatti, di provocare altre morti. Sul suo corpo si getta Eumone, figlio di Creonte ed innamorato perdutamente di lei. Ed accanto a loro si suiciderà anche Euridice, madre di Eumone, con la conseguenza che la stirpe del sovrano Creonte, avido di passiva dipendenza e paladino della ragion di stato, non avrà alcun seguito.

Per la sua straordinaria importanza didascalica, l'Antigone ha avuto molteplici rappresentazioni significative nel corso dei secoli, stimolando il genio creativo di illustri artisti, filosofi, letterati e giuristi. Basti pensare al grande Georg Hegel che, in una delle sue opere più importanti, l'Estetica (9), parte dall'analisi dell'Antigone di Sofocle per affinare le proprie argomentazioni sulla filosofia del diritto, in particolare sugli apparenti contrasti tra le norme che regolano la famiglia e le leggi generali dello stato, entrambe legittimate a dispiegare i propri effetti giuridici, in quanto derivanti da sistemi sociali consolidati. Hegel, anticipando alcuni corollari tipici del positivismo giuridico, fornisce un'interpretazione che privilegia la legge generale dello stato, considerandola espressione di un ordinamento più evoluto rispetto alla tradizionale aggregazione familiare. In maniera semplicistica si potrebbe quasi affermare che Hegel dia ragione a Creonte, piuttosto che alla principessa Antigone, anche se in realtà la valutazione di Hegel è più rivolta ad un discorso squisitamente giuridico, a prescindere da un giudizio con contenuti etici. Lo stesso Hegel, nella “Fenomenologia dello spirito” (10), seguendo i principi della sua filosofia dialettica, ritiene l'Antigone di Sofocle come il compendio del confronto antinomico tra due posizioni, entrambe aventi ampia dignità di applicazione. Diversamente, il filosofo Ernst Bloch ha intravisto nella tragedia sofoclea la celebrazione di un solo diritto, quello della “pietà non scritta contro lo jus strictum della ragion di stato”(11), una posizione ermeneutica non molto dissimile da quella di J.P. Vernant, secondo cui il conflitto tra Antigone e Creonte non riguarderebbe un vero e proprio confronto tra religione e politica, oppure tra spirito religioso e irreligioso, ma abbraccerebbe soprattutto una contrapposizione particolarmente avvertita dai popoli antichi, quella tra religione privata e religione pubblica, in quanto le divinità immaginate a protezione della città dovrebbero allo stesso tempo incarnare i valori più importanti dello stato (12). L'Antigone è stata spesso presa a simbolo di ribellione nei confronti dei poteri totalitari, assumendo in alcuni casi una connotazione “politica” che forse nell'idea originaria di Sofocle non c'era, come, ad esempio, nella celebre trasposizione di Vittorio Alfieri, oppure nelle più recenti rappresentazioni di Bertolt Brecht nel 1948 e di Salvador Espriu nel 1955, rispettivamente contro la Germania nazista e la Spagna di Franco.

Lo scontro tra Antigone e Creonte ci fa anche riflettere sui paradossi dell'evoluzione del pensiero umano. Se da un lato la codificazione delle norme rappresenta un progresso per le diverse civiltà, a partire dal codice di Hammurabi fino ad arrivare alla compiutezza del diritto umano, dall'altro indica un inevitabile segno di decadenza e di declino. A tale proposito, Friedrich Nietzsche, nella sua opera Genealogia della morale (13), procedendo ad una profonda analisi dell'evoluzione del concetto di giustizia nella storia umana, mette in luce come in realtà le disposizioni scritte possano essere considerate visibili indizi di un sistema sociale malato sotto il profilo etico, in quanto, secondo il filosofo tedesco, in un'aggregazione sana, le leggi naturali dovrebbero essere osservate da tutti senza la necessità di imposizioni sanzionatorie. Le codificazioni normative scritte, pertanto, trarrebbero origine dallo stringente bisogno di porre rimedi efficaci contro le ripetute violazioni del diritto naturale da parte della comunità dei consociati. Antigone, con tutte le sue visibili contraddizioni, riprendendo un'immagine junghiana, rappresenta l'archetipo dell'incessante percorso dell'uomo sempre alla ricerca di sé stesso. Il suo coraggio e la sua autenticità consistono nella determinazione di condurre la propria impresa da sola, pur riconoscendola impossibile, come dimostrano le struggenti parole da lei stessa pronunciate:

Lascia dunque che io e la mia assurda volontà andiamo incontro alla sofferenza di questo terribile momento, non mi capiterà nulla di così grave da impedire che io muoia nobilmente”.

Note:

(1) Polinice era fratello gemello di Eteocle. Si narra che entrambi regnarono su Tebe alcuni anni, in regime di diarchia, fino a quando Eteocle non fece imprigionare Polinice e poi ne determinò l'esilio ad Argo. Da queste vicende scaturì la rivalsa di Polinice nei confronti della città di Tebe;

(2) Tiresia è il famoso indovino cieco, uno dei protagonisti dell'Edipo re;

(3) Cfr. Valeria Parrella, Antigone, Edizioni Einaudi, Torino 2012;

(4) Creonte era il fratello di Giocasta;

(5) Cfr. Filippo Cancelli, Le leggi divine di Antigone e il diritto naturale, Editore Texmat, Roma 2000;

(6) Cfr. curatore Pietro Montani, Antigone e la filosofia, Editore Donzelli, Roma 2017;

(7) Medea, eroina tragica della mitologia greca, resa famosa dall'omonima tragedia di Euripide;

(8) Clitemnestra fece assassinare il marito Agamennone;

(9) L'Estetica di Hegel è in realtà una raccolta di appunti delle lezioni universitarie tenute da Hegel presso l'Università di Berlino tra il 1818 ed il 1828, anche se si si ritiene che l'elaborazione finale sia stata completata nel 1835;

(10) La “Fenomenologia dello spirito” è una delle più importanti opere di Hegel, pubblicata per la prima volta nel 1807;

(11) Cfr. Ernst Bloch, Uber Beziehungen des Mutterrechts (Antigone) zum Naturrecht, pubblicato nel 1954;

(12) Cfr. J.P. Vernant, Mythe et tragedie en Grece ancienne, Parigi 1973;

(13) “Genealogia della morale”, opera pubblicata per la prima volta nel 1887, è uno degli scritti più intrisi di vis polemica di Nietzsche.

Luigi Angelino

La mistica del ghiaccio: riflessioni dalla Terra dalla Luce Eterna – Svalbard 2021 – Emanuele Franz

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Tutto il mondo ruota ma man mano che ci dirigiamo a nord raggiungiamo un punto fermo, allo stesso modo avviene all’interno della nostra coscienza: le distrazioni dei sensi e la vaghezza dei pensieri pian piano si acquietano avvicinandoci a quel Polo Nord interiore fino al suo massimo punto ove passa l’Asse, quello che gli antichi popoli del Nord chiamarono l’Axis Mundi. Qui, al Polo, si trova il vuoto della coscienza, il punto mistico per eccellenza, il deserto bianco, ciò che è effimero lascia il posto a ciò che è Eterno. Nord era uno dei nani che reggeva la volta del mondo secondo la mitologia norrena, Norðri viene chiamato nell’Edda poetica. Ma, al di là di questo, Nord è la sommità, l’apice, la cima del mondo, la testa, la volta, il culmine di tutto il globo. Occupandomi di filosofia da una vita intera poi, e interrogandomi sul senso della vita e dell’Essere, fin dalla tenera infanzia sono rimasto affascinato dalle leggende sul Dio Apollo, che i greci consideravano venire da una terra all’estremo nord del mondo dove non tramontava mai il sole. Ὑπερβόρεoι erano, per i Greci, “coloro oltre βορέας”, un popolo cioè che viveva oltre Borea, ovvero sia il Dio rappresentante il vento del Nord. Erodoto, ma anche Plino, Ecate di Mileto e altri scrittori antichi, ritenevano certa l’esistenza di un’isola, a Nord del mondo, ove viveva il Dio Apollo, Dio della Luce, e in questa terra il sole non tramontava per sei mesi all’anno. Stavano, appunto, parlando del circolo polare artico. Terra considerata patria stessa di Apollo, tanto che questi sovente veniva chiamato Apollo Iperboreo. Per il Greco Ecateo di Abdera (IV-II secolo a.C.) sull’isola di Iperborea i tre figli di Borea rendevano culto ad Apollo, accompagnati dal canto di una schiera di cigni originari dei monti Rifei. Per secoli si tentò di identificare quale che fosse questa leggendaria isola, senza però giungere a una conclusione certa. Già il poeta greco Pindaro scriveva: “né per mare né per terra troverai il cammino che conduce agli Iperborei”, e questo per indicarne l’inarrivabilità e la condizione animica e interiore più che quella terrena. Quel che è certo è che i Greci arrivarono a superare i circolo polare artico, come suggeriscono alcuni studiosi. I resoconti parlano infatti del navigatore Pitea, un contemporaneo di Aristotele, che, circa nel 325 a.C, oltrepassando le Colonne d’Ercole, raggiunse la Bretagna e anche la Cornovaglia, infine circumnavigò le isole britanniche.

Sentì dalla popolazione locale notizie della misteriosa terra di Thule, ancora più a nord. Dopo sei giorni di navigazione, raggiunse una terra sul bordo di un mare ghiacciato (da lui descritto come “cagliato”), e descrisse ciò che si crede sia l’aurora boreale e il sole di mezzanotte. Mentre alcuni storici sostengono che questa nuova terra di Thule fosse la costa norvegese o le Isole Shetland, sulla base delle sue descrizioni e delle rotte commerciali dei primi navigatori britannici, è possibile che Pitea fosse giunto alla lontana Islanda, se non, addirittura, alle Isole Svalbard, anche perché, affinché sia possibile essere testimoni del sole di mezzanotte e dell’aurora boreale, e, più in generale, dell’assenza delle notti per sei mesi, è necessario essere al di sopra del circolo polare artico. L’astronomo francese Jean Sylvain Bailly nel 1779, facendo degli studi sull’Atlantide platonica, dichiarò Iperborea un’isola che diede origine a tutta la civiltà umana con saggezza e perfezione, al pari di quanto Platone scrive della famosa Atlantide. Per Bailly questo popolo originario e mitico che forgiò tutte le civiltà doveva collocarsi nell’isola di Spitzbergen, ovvero alle Isole Svalbard. Dopo di lui il filosofo Friedrich Nietzsche accusò tutto il sud di essere scirocco, ovvero di essere popolato di virtù moderne putridi e vili e che per un filosofo è  “meglio vivere in mezzo ai ghiacci che tra le virtù moderne e gli altri venti del sud”:

Oltre il nord, oltre il ghiaccio e la morte: la nostra vita, la nostra felicità… Abbiamo scoperto la felicità, conosciamo la via, abbiamo trovato l’uscita” (Friedrich Nietzsche)

Insomma per me il Nord doveva essere il punto finale, o iniziale che dir si voglia, di un cammino mistico e filosofico alla scoperta della verità originaria, il luogo che contiene tutti i luoghi, il Topos, per dirla alla greca, nel quale assiso gioca l’Eterno. Di per sé, e per estensione, tutta la zona al di sopra del circolo polare articolo è considerata, a diritto, polo nord, poiché la zona è contraddistinta da specifiche peculiarità climatiche, faunistiche e geo-grafiche tali da farne, appunto, una zona polare, similmente a quanto si può dire, altrove, delle zone tropicali. Naturalmente, come noto, vi è anche un Polo Nord geografico, uno magnetico, uno geomagnetico e così via, e questi si spostano a cangiano posizione nel tempo. Su questo non ero nelle condizioni di entrare in dispute, perlopiù legate a una mentalità cartesiana che mistica, per il filosofo il Polo Nord è un punto interiore, non un punto esteriore, il Polo Nord per me è un luogo dell’Animo, un Topos della Psiche in cui si trova il luogo dell’inalterabilità, il punto fisso, il nocciolo d’oro che mai cambia di fronte al mutare del mondo. Ed è quindi indifferente se tale nocciolo d’oro lo si trova qui oppure a 200 km più a ovest. Perdipiù l’esploratore avido di ricchezze e visibilità che cerca solo la conquista e non la conoscenza, può anche arrivare al polo nord geografico cento volte, senza per questo trovare l’Aurum nordico della coscienza, che è frutto, anzi, di un atto interiore. Posso con chiarezza dire che la Stella Polare di questo Aurum nordico della coscienza è rivolgersi all’Immutabile e all’Assoluto, questo per me è il Polo Nord Interiore ed è questo che l’avventuriero della verità sempre va cercando e ricordando.

Le Svalbard erano per me come una voce nel cuore che mi sussurrava parole di ghiaccio, ma un ghiaccio che scaldava gli Ideali. Non a caso è detto polo magnetico e tutti gli aghi della bussola puntano al nord, perché ogni direzione è lì e da quella e solo da quella solo decise tutte le altre. Il Nord pertanto è il metro, l’unità di misura per stabilire tutto il conseguente ordine del mondo. E nel mio petto era assiso come l’ago di una bussola, la bussola dei miei sogni, e questo ago, naturalmente, puntava al Polo artico. Vi è un magnetismo della verità al quale la mia coscienza risponde come se il mio cuore fosse di magnetite. La verità è un magnete adornato di ghiaccio, la verità è il nord brinato che echeggia al di sopra del mare di Barents, ove gli antichi collocarono gli Iperborei. La bussola della coscienza non può che puntare al Polo Nord interiore che, per analogia e affinità, si inanella al nord esteriore. Parimenti alle leggi del magnetismo, nelle quale gli antichi videro i segni di un altissimo simbolismo e il linguaggio stesso di Gaia, i Poli Nord e Sud, su un più alto livello metafisico, rappresentano le forze dell’emissione e dell’assorbimento, dell’espansione e della contrazione alle quali tutto il cosmo è assoggettato. Come le potenti forze divine dell’Apollineo e del Dionisiaco, del solare e del lunare, così sulla terra i Poli incarnano un equilibrio globale fra l’Idea e la realtà, fra luce et ombra e tal gioco, tal movenza, in occulto equilibrio, genera tutto il mondo visibile. Lì al Polo, pertanto siamo vicini all’epicentro di una foggia di Forme, da lì sgorga sorgivo l’Eidos che delimita il mondo.

Quando la coscienza si è, per così dire, magnetizzata alla Verità, non può che sentire un inevitabile richiamo al ghiaccio del nord così come s’inerpica la falena sulla luce, gittando, anche a rischio di donarne le sue spoglie, uno sguardo su una luce che non è dei mortali, ma respiro dei Beati e palpito di Numi celesti. Si dice che i Vichinghi approdarono alle Svalbard all’inizio del XII secolo, anche se non vi sono prove certe di questo fatto. I racconti norreni parlano di una terra chiamata Svalbarð, letteralmente “coste fredde” che forse potrebbero essere state le attuali Isole Svalbard. Ad ogni modo l’olandese Willem Barentsz fu il primo occidentale moderno a scoprire l’arcipelago nel 1596 mentre si trovava alla ricerca di un passaggio verso il Polo Nord. Il nome di Spitsbergen ebbe origine dallo stesso Barentsz, il quale così descrisse delle “montagne appuntite” che vedeva sulla costa occidentale dell’isola, anche se la sua mappa dell’Artico del 1599 riporta l’area col nome più generico di Het Nieuwe Land (“La nuova terra”). Ma il mistero di queste terre a nord del mondo e i leggendari testi che ne parlano, risalgono secoli addietro e questi testi sono avvolti dall’occulto e dalla magia. Uno fra questi è l’Inventio Fortunata, un libro perduto che si dice narrasse i viaggi nell’Atlantico settentrionale di un frate sconosciuto, questi descrive, in una sintesi scritta da Jacobus Cnoyen, ma trovata in una lettera di Mercatore, i viaggi fino al Polo Nord. È straordinariamente significativo, e degno di nota, che la menzionata lettera del celebre geografo Mercatore sia indirizzata niente meno che all’oscuro e misterioso alchimista John Dee e sia datata 1577.

Qui si menziona, come si diceva, l’Inventio Fortunata  (Scoperta fortunata) un’opera perduta, risalente probabilmente al XIV secolo, nella quale il polo nord viene descritto come un’isola magnetica (la Rupes Nigra) circondata da un gigantesco vortice e da quattro continenti. Anche se non sono mai stati scoperti frammenti diretti del documento, la sua influenza sulla percezione occidentale della geografia dell’Artico persistette per diversi secoli. Stando alla lettera di Mercatore, la Rupes Nigra era un’isola fantasma, costituita da una gigantesca montagna di roccia nera magnetica, con una circonferenza di circa 180 chilometri, che si ergeva al centro del mare polare, nella posizione occupata dal Polo Nord. Dotata di immensi poteri soprannaturali e di conferire conoscenza e forza al suo detentore, come anche si riteneva nella grecità classica riguardo alla magnetite, questi studi hanno destato il grande interesse, come si accennava, di John Dee, uno dei più celebri alchimisti e occultisti del suo tempo che si dice che addirittura sia riuscito a convertire il piombo in oro. Nel 1909 Robert Edwin Peary dichiara di essere il primo uomo al mondo ad aver raggiunto il Polo Nord geografico, quando, successivamente, viene messo in discussione tale risultato, ed in verità si ritiene sia arrivato vicinissimo ma non esattamente al Polo, cioè che lo avesse mancato di appena qualche decina di kilometri. Trovo assai sterili queste disquisizioni, anche nell’alpinismo ci sono dei gialli insoluti e forse insolubili, come se fosse veramente importante se era sulla cima o a 30 metri da essa, sono pietose queste analisi perché sono fatte da gente comoda-mente seduta al caldo dietro una scrivania mentre questi eroi sono stati massacrati da privazioni, hanno sfidato situazioni che gli altri miliardi di esseri umani non hanno mai provato. Comodo criticare un Eroe e dire che non è arrivato all’obiettivo, quando si sta seduti al caldo e con la pancia piena, mentre questi temerari hanno sofferto, hanno sfidato la sorte, rinunciato a tutto per coronare i loro sogni. Robert Edwin Peary aveva 52 anni quando arrivò al Polo Nord ed erano decenni che tentava e ritentava l’impresa senza mai rassegnarsi. Arrivò a vivere con gli eschimesi, a farsi accettare come uno di loro, e infine, dopo 22 anni di tentativi, riuscì a raggiungere il punto che contiene tutti i punti, la sommità del mondo. Vi dedicò una vita intera, vi perse otto dita dei piedi per assideramento, e poi arriva il tecnocrate, seduto dietro a un microscopio che dice: eh no, i conti non tornano! A costui è da rispondere: vacci tu allora! Che motivo avrebbe un Peary di mentire, non al mondo, ma a se stesso, dopo aver sacrificato tutto quello che aveva e rischiato la vita per un sogno? No, non c’è menzogna nel ghiaccio, il ghiaccio non può contenere menzogna, esso è l’araldo della verità e chi lo ha amato non può conoscere falsità.

 

La terra della Luce Eterna.

In un qualsiasi punto della terra l’uomo può orientarsi perché ha quattro punti cardinali che gli conferiscono una esatta posizione nello spazio. Cartesianamente egli sa dove si trova, è sicuro, orientato, proprio perché guarda a nord e quest’ultimo lo colloca in una posizione precisa. Ma quando si è al Nord stesso è come se tutte le direzioni si annullassero. Se si è al nord dove è il nord? Le bussole iniziano a impazzire. Il sotto e il sopra appaiono eguali, l’alto e il basso. Il Polo Nord è spazio senza spazio, il punto che contiene tutti i punti, la dimensione senza dimensione, pare quasi che le cose qui siano proiettate in un’altra profondità, aliena rispetto al mondo che siamo abituati a conoscere, fatto di direzioni e di orari. Il tempo pare annullarsi ed essere immerso in un luogo Eterno. Questa sensazione è stata forte in me. La Luce perpetua, mentre il luogo dal quale venivo era scandito da giorni e notti, albe e tramonti, qui mi conferiva una sorta di Eternità. Una volta tornato sotto il Polo artico mi è parso come fosse trascorso un solo giorno. Parimenti, occorre trovare la medesima Luce eterna nel cuore e far di sé stessi un Polo Nord senza che alcuna oscurità dettata dalla menzogna possa inficiare il nostro Asse interiore. Il Deus Sol Invictus, il sole invincibile, il sole di mezzanotte cantato dai poeti era in me, sopra di me e dentro di me. Fu una sensazione potentissima. Mi sentivo eterno, invulnerabile. In quei giorni non ebbi stanchezza, nemmeno un mal di testa né un mal di pancia, anzi, camminato anche 15 kilometri al giorno senza alcun risentimento. Stranissimo, mentre a casa, al sud, avrei avuto mille fastidi come sovente accade nella quotidianità. In quelle terre nord del mondo il mio corpo intero, ogni mia cellula era pervasa di una tal chiarità da darmi vigore, lucidità, fierezza e prontezza.

Qual magia si compiva era sovra la mia razionalità Chissà qual magnetismo era entrato in me. Percepivo che il nucleo di ogni singola mia cellula era divenuto un Sole, pertanto in me vi erano cento miliardi di astri luminosi e scintillanti. La carne, fondamento della mia esistenza, era vibrante, diafana, penombra in me ormai non vi era e nemmeno l’ombra dell’ombra, ma soltanto plenitudine senza tempo. La temperatura non si misura con il termometro, essa è una Energia! Il clima è una interrelazione di Spiriti. Il clima non è, come banalmente viene ridotto dallo scienziato moderno, una serie di misurazioni e di dati, esso è una connivenza fra potenze viventi, esso è una coalescenza d’infinito che si nutre delle creature che ospita. Balene, beluga, foche, trichechi, orsi polari sono un sistema che dalle carni volge alle Idee e quest’ultime sono un clima, un clima metafisico che pone le fondamenta del Genius Loci che abita una terra. La scienza moderna, nel tentativo, inane, di capire il mondo terreste, il suo clima e i suoi cambiamenti, si è arrestata ai microscopi e ai termometri, facendo l’errore di non interrogare più il vivente.

Ma la natura vive, non è morta. Allorché occorre sapere che lì, al Polo Nord, il clima è parte naturale di un fatto Simbolico. Il ghiaccio infatti non è soltanto acqua rappresa, è Totem, Potenza, Memoria e cosmo. In altre parole il ghiaccio è Verità! Circondato da scoscese pareti innevate e aderso di un silenzio diafano mi inoltravo a piedi verso i sentieri di quella terra polare scoprendo animali mai visti e una flora e una fauna così specifici da apparire meravigliosi ai miei occhi. Un sidereo biancore lattescente bagnava i miei sguardi or ora languiti d’artici bagliori. Tutto m’appariva eterno e senza tempo: dalle renne che giocavano con l’erba ai trichechi che spiaggiavano sul molo tentennando con l’infinito orizzonte, dolcemente merlato di diamantine vette senza crepuscolo. Mi spingevo per kilometri nella tundra ghiacciata, da solo, disarmato, consapevole dei rischi che correvo, ai limiti dell’incoscienza, assetato di smarrimento volontario, chiamavo col petto il vuoto brinato, il silenzio tagliente, il vento del Nord che possente e carnato sfiorava i miei nervi. E i nembi biancastri e le pietre coeve d’eterno che ora reggevano il passo mio e il sospiro che m’innalzava il cuore, e tutto il deiforme paesaggio solare che mi vestiva di forme empiree era un tutt’uno con l’universo polare in cui ero immerso. Si, ero al Polo Artico, e in ogni pietra scorgevo Cariatidi fidenti che d’una seta di ghiaccio cingevano il manto, e del febeo afflato loro respiravo colla mia bocca sitibonda d’eterno. Il problema oggi del cosiddetto riscaldamento globale, e il tema di come l’attività umana possa modificare il pianeta è proprio al Polo artico che si sente in particolar modo ed è proprio lì che viene studiata approfonditamente. Ricercatori da tutto il mondo vengono a studiare il clima e lo scioglimento dei ghiacci ed è proprio il quelle terre che mi trovavo ed era con le persone che vivono e lavorano lì ogni giorno che mi trovavo a parlare. Dubito che un qualsiasi professore di geologia all’università di Roma o Milano, senza aver mai visto un ghiacciaio in vita sua, dal riparo di una scrivania, possa percepire che cosa significa il ghiaccio, che cosa significa vivere nel ghiaccio e per il ghiaccio. È lì, al Polo artico, e non altrove, che occorre porre delle domande, non solo alle persone che vivono intrinseche a quella realtà naturale, ma finanche alla natura stessa. Mi sono ben presto reso conto che per affrontare il problema dello scioglimento dei ghiacci occorreva fare l’unica cosa che nessuno vuole fare: interrogare il ghiacci, il diretto interessato, e non con strumenti di misurazione, molle, viti e ingranaggi, ma con la parola, come se esso fosse non solo un’entità vivente, e lo è, ma addirittura una persona.

Ma perché il ghiaccio si scioglie?

Dopo una vita di ricerche nella filosofia ho capito una cosa: la verità è il ghiaccio, la verità è la luce brinata del Nord, per questo il mondo intero è vittima del cambiamento, dello scioglimento dei ghiacci: è la verità a sciogliersi di fronte all’egoismo umano. La verità è il ghiaccio che si scioglie di fronte all’egoismo umano. Pensiamoci bene: il ghiaccio è perfettamente consustanziale alla luce, esso ha la proprietà del fissare, del conservare, del rallentare il divenire. Questo è così noto che ognuno di noi nella vita quotidiana mette a congelare i cibi per conservarli e pure nel modo di dire si dice congelare un ricordo, un istante e così via. È la proprietà stessa del ghiaccio quella di rendere eterne le cose. Il ghiaccio conserva, fissa, rende stabile la forma, contrariamente il caldo liquefa, dissolve, rende putrescenti, corrompe. Guardiamo i corpi di animali conservati nel ghiaccio intatti per decine di migliaia di anni, pare che per quei corpi il tempo si sia fermato. Il ghiaccio pertanto è memoria. La parola che gli antichi greci usavano per indicare la verità era ἀλήθεια (Aleteia) alfa privativo e Lete, per cui “privo di oblio” quindi: memoria. Il ghiaccio è immagine della verità trascendentale. Questa verità è nicchiata ovunque gli antichi abbiano collocato le dimore del divino. Le alte montagne dell’Himalaya, ad esempio, come le più alte montagne in generale, sempiterne dimore degli Dei, ammantati di nevi perenni. Ovunque ci sia ghiaccio l’uomo ha rinvenuto i segni di un più alto ordine del cosmo. Le comete trasportano il ghiaccio negli spazi siderali e, come noto, il ghiaccio è composto di cristalli. κρύσταλλος (Cristallos) era la parola greca per indicare il ghiaccio appunto. I cristalli di neve visti al microscopio appaiono un tempio di forme perenni, un codice della natura. Geometrie frattali, esagonali, fogge che rimandano a un’armonia cosmica e detentrici di una memoria universale. Si pensi solo al fatto che gli eschimesi hanno ben dodici parole diverse per indicare la neve. In buona sostanza si può affermare che dove c’è ghiaccio c’è verità e man mano che la menzogna e l’inautenticità avanzano si frantuma il ghiaccio.

Il problema dello scioglimento dei ghiacci e dei cambiamenti climatici è stato affrontato dalla scienza dall’unico e dal mero punto di vista materiale, che ha considerato il ghiaccio solo un grumo d’acqua rappreso anziché considerarlo per quello che è: un Simbolo. Ovvero sia un Symbŏlum dal greco sýmbolon, che deriva a sua volta da symbállō “mettere in comunione”. I ghiacciai reagiscono, inevitabilmente, a quella che è un’Epoca al declino, imputridita dalla menzogna e dall’avidità.

(Estratti dal libro: -Polo Artico. La verità del ghiaccio- di Emanuele Franz. Audax Editrice 2021. Per info e approfondimenti: www.audaxeditrice.com) Emanuele Franz

Gigantismo, titanismo e Tradizione nordica – Daniele Perra

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Chi scrive ha spesso esplorato il tema della comunione spirituale tra le diverse civiltà tradizionali dell'Eurasia. Tale unità, oggi ignorata o scientemente negata dai più, si riflette anche nell'identificazione del “nemico metafisico” di ciascuna di esse. Ma questa affermazione necessita chiaramente di essere dimostrata ed interpretata attraverso diversi livelli di lettura. In primo luogo è bene ricordare che uno dei pilastri fondanti della Tradizione è l'agire senza nulla chiedere in cambio: il rigetto di ogni mero calcolo di profitto. L'etica tradizionale, in tutte le sue forme, raccomanda sempre la misura (la temperanza nel pensare e nell'agire), il fruire del piacere senza divenire schiavi ed il vivere l'esperienza del dolore e della sofferenza senza piegarsi. Alla persona del sovrano tale etica imponeva non il rifiuto della ricchezza (anche materiale) ma semplicemente la giusta misura nel suo utilizzo: ovvero, il rifiuto della accumulazione in favore della ridistribuzione. Appare da subito evidente come la condizione umana odierna (soprattutto nell'“Occidente” sottoposto alla guida egemonico-culturale nordamericana) sia quanto di più lontano possa esistere dall'ideale tradizionale. Mai come oggi, infatti, la cosiddetta “demonia dell'oro” prevale nella vita pubblica e privata, negli ambiti dell'imperium e del dominium. In questo contesto, anche una crisi pandemica (evidentemente causa di sofferenza e dolore, a prescindere da ben determinate esagerazioni propagandistiche) diviene opportunità di profitto per pochi gruppi di interesse. Nelle civiltà tradizionali dell'Eurasia, la fine dell'età dell'oro è spesso associata alla brama di ricchezza che corrompe l'istituzione sovrana regale. Nella Vǫluspá, primo e più famoso poema dell'Edda poetica e fonte primaria della mitologia norrena, il processo di corruzione del mondo viene innescato dalla strega Gullveig (letteralmente “ebbrezza dell'oro”) [1] che diffonde il veleno che segna l'inizio della dissoluzione di quella condizione primordiale di beatitudine in cui dèi e uomini vivevano ignari del male.

Prima di inoltrarsi ulteriormente nell'argomento, è opportuno sottolineare che gli eventi della Vǫluspá pertengono all'ambito della geografia sacra. Il poema nordico, infatti, racconta di accadimenti del mondo fenomenico le cui cause, tuttavia, sono da attribuire ad eventi che si svolgono in primo luogo sul piano dello spirito ed in uno spazio metafisico che comunque esercita la sua influenza in modo determinante sulla vita materiale. Ora, grazie a Gullveig, cupidigia, istinti all'accumulazione, al tradimento ed alla sopraffazione si contagiano dal mondo degli dèi a quello degli uomini. L'ordine viene definitivamente compromesso dalla sete dell'oro che genera il caos e determina la prima guerra del mondo tra Æsir (coloro che incarnano la prima e la seconda funzione all'interno dell'ordinamento tradizionale indoeuropeo, ovvero sacerdoti e guerrieri consacrati alla difesa della sacralità delle istituzioni) e Vanir (la terza funzione, i produttori). Il caos si genera quando una di queste funzioni, o tutte insieme, viene meno al suo ruolo. Se i Vanir, ad esempio, producono ricchezza per il loro esclusivo tornaconto, rifiutandosi di collaborare al mantenimento dell'ordine, il sistema viene irremediabilmente compromesso. Così come viene compromesso se il guerriero non svolge più il suo dovere in difesa della giustizia ed il valore sacrale della milizia si perde nell'abuso e nella violenza fine a se stessa.

Queste espressioni trovano perfetto riscontro nella Tradizione indù. È scritto nel Bhagavata Purana (12,2): “Nell'Età di Kali, presso gli uomini la ricchezza prenderà vantaggiosamente il posto della nobiltà dei natali, della virtù, del merito. Diritto e norma saranno determinati dalla forza. Nel matrimonio si cercherà unicamente il piacere, negli affari la scaltrezza; nei sessi la voluttà. I re si comporteranno come briganti; gli uomini si dedicheranno a rubare, a mentire, ad inutili assassini e ad ogni sorta di pratiche [scellerate]”. L'atto finale del ciclo cosmico è il il Ragnarok: il momento in cui si compie il “destino degli dèi” per mano dei giganti che distruggono le luminarie celesti (il Sole e la Luna) annientando sia il divino che l'umano e preparando il cosmo ad un nuovo ciclo e ad una terra che risorgerà dagli abissi oceanici. I giganti, infatti, presso i Greci ed i Germani, personificavano il potere dissolutore delle energie elementari, l'eterna ed insaziabile brama che crea e divora ogni forma esistente (compresi i propri figli). Volendo azzardare un paragone con la contemporaneità (anche sulla base delle teorie heideggeriane su gigantismo e americanismo), si potrebbero rintracciare delle similitudini tra la condizione dell'Europa odierna e quella del mondo primordiale sottoposto agli istinti distruttori dei giganti. L'Europa, infatti, sembra essere stata inghiottita da un mostro gigantesco che l'ha masticata, smembrata e ricomposta a sua immagine e somiglianza. Di fatto, ciò che è avvenuto al termine del Secondo Conflitto Mondiale, quando gli Stati Uniti, dopo aver distrutto militarmente ed economicamente l'Europa, hanno partecipato alla sua ricostruzione promuovendo l'inserimento del Vecchio Continente all'interno di uno spazio geopolitico ad essi subordinato.

Tuttavia, Heidegger vedeva nell'americanismo un'origine europea [2]. Gigantismo e americanismo, secondo il filosofo tedesco, sono esiti inevitabili dell'Età moderna e del progresso illimitato della tecnica. Ovvero, parafrasando Carl Schmitt, di quel momento in cui il paradigma centrale della società europea premoderna (la religione) è stato sostituito da un paradigma fino ad allora periferico: quello della tecnica e della scienza [3]. Ma la tecnica è divenuta essa stessa religione. Una religione che esclude automaticamente tutte le altre perché si manifesta attraverso la promessa messianica che ogni aspetto della vita umana (una vita ristretta alla mera economia) è risolvibile dalla stessa tecnica scientifica. Il suo scopo, infatti, è quello di limitare la vita eroica ed i legami che ne conseguono a favore della sola prestazione produttiva. Questo è il momento reale della nuova regressione nel caos in cui l'uomo, deviando dal retto agire e rendendosi partecipe del progetto di dissoluzione dell'ordine, diviene egli stesso gigante; calpesta le norme che regolano il rapporto tra umano e divino e, uccidendo gli dèi, diviene “misura di ogni cosa”.

La regressione nel caos equivale alla discesa negli inferi popolati dalle potenze titaniche. Giganti e titani sono forze affini. Ad essi è sempre associata l'ira incontrollabile, la tracontanza e l'ingiustiza. I loro nomi esprimono l'irrequietezza, l'agitazione senza posa (caratteristica propriamente moderna) e la perenne insoddisfazione che travolge le nature ctonie. Friedrich G. Jünger (fratello minore del più noto Ernst) ebbe modo di stigmatizzare la natura puramente titanica dell'homo faber moderno con la sua efficiente irrequietezza: un “uomo senza tempo” che dedica la propria vita solo al lavoro trasformandola in una prigione dalla quale si può evadere solo con la morte. Quest'uomo senza tempo non conosce il valore del non lavoro meccanico. Ha perso ogni nozione di ciò che era il “tempo sacro”: l'unico tempo reale, il tempo del divino, l'istante statico/estatico in cui il tempo non scorre più [4]. A questo proposito, è scritto nella Bhagavad Gita (16, 11-12) che gli uomini dell'Età di Kali “dediti ad una cura affanosa e smisurata che termina solo con la morte, affermano che il bene supremo consiste nel soddisfacimento dei desideri e sono convinti che questo mondo sia l'unica realtà”.

La civiltà moderna, infatti, è la civiltà degli schiavi. E questa schiavitù è la più tetra che la storia abbia mai conosciuto visto che nega allo schiavo anche il diritto alla trascendenza, alla speranza di redenzione. Questa, infatti, può avvenire solo per mezzo della tecnica e della scienza il cui carattere puramente titanico si palesa negli esperimenti che intervengono sull'economica geologica (i tentativi di influenzare il clima) e biologica (la creazione di armi battereologiche) della Terra. C'è stato chi, da un punto di vista “tradizionale”, ha interpretato il risveglio delle forze titaniche e la crociata meccanicistico-scientista dell'“Occidente” in termini positivi. Il rinnovato interesse per la figura ed il mito del titano Prometeo ne sono la più evidente dimostrazione. Tali posizioni, che potrebbero essere facilmente attribuite ad una forma particolarmente perniciosa di contraffazione ideologica, non fanno altro che giustificare/negare, dietro un velo tradizionale, la responsabilità dell'uomo nella lenta agonia della Terra. Tuttavia, il destino dei titani è abbastanza chiaro nei versi della Teogonia di Esiodo. Questi sono condannati a vivere rinchiusi “in un'oscura regione all'estremo della terra prodigiosa” dove Poseidone “pose porte di bronzo e un muro vi corre attorno da tutte le parti” (Teogonia, 731-733). Il loro riemergere dalla regione del “caos tenebroso” (l'Estremo Occidente) è il segno della fine imminente del ciclo cosmico.

Idee similiari si ritrovano sia nella Tradizione dell'India che in quella islamica. Secondo la prima, una possente barriera montuosa separa il cosmo (Loka) dalla regione del caos (Aloka) dove abitano i demoni Koka e Vikoka. Nella sura coranica Al-Kahf (la caverna) si ritrova inceve il racconto della mostruose e malvagie genti di Gog e Magog (alle quali è riservato un posto di rilievo nell'escatologia islamica) la cui furia distruttrice viene fermata dal “Bicorne” (Alessandro Magno secondo talune interpretazioni) attraverso la costruzione di una imponente muraglia tra due montagne. Alcuni pensatori ed interpreti contemporanei del Corano hanno identificato nei coloni sionisti della Palestina le genti di Gog e Magog. A questo proposito, è doveroso ricordare che tanto Karl Marx quanto il già citato Martin Heidegger riconobbero nel popolo ebraico alcune caratteristiche precipue dell'uomo moderno: l'esasperata ricerca del profitto il primo, la sradicatezza il secondo.

Un altro elemento che si presenta con notevole frequenza nelle tradizioni eurasiatiche è quella dell'Albero del mondo. Questo, come nel caso del frassino cosmico Yggdrasill della Tradizione nordica, dà segni di cedimento nel momento in cui presagisce la fine. Alle sue radici si trova la fonte di Mìmir dove Odino lasciò in pegno uno dei suoi occhi per bere il sacro idromele della conoscenza, l'equivalente dell'ambrosia greca. I racconti sull'Albero del mondo (che spesso coincide con l'Axis Mundi) si ricollegano al mito dell'“Albero secco” ed alle leggende su Alessandro Magno che si recò in Oriente alla ricerca della fonte della vita e della conoscenza. In ambito cristiano, l'idea dell'Albero secco è associata al legno della croce di Gesù Cristo ed all'Albero del paradiso. La leggenda, infatti, racconta che Set piantò sulla tomba del padre Adamo un ramoscello proveniente dell’Albero del paradiso. Quest’Albero (che sta lì “dall’inizio del mondo”) nel Bellum Judaicum di Flavio Giuseppe si trova ubicato nell’odierna Palestina, nelle vicinanze di Hebron (dove si trovano anche le tombe dei patriarchi Abramo e Giuseppe) e dal suo legno sarebbe stata costruita la croce. La leggenda si ricongiunse alla storia vera e propria nel momento in cui la croce di Cristo, scoperta dall’Imperatrice Elena, venne riportata a Gerusalemme da Eraclio dopo la riconquista della città. Di fatto, la versione orientale di questo “mito” prevedeva che un Imperatore bizantino, una volta liberata Gerusalemme e sconfitte le genti di Gog e Magog (la cui azione è descritta con dovizia di particolari anche nell'Apocalisse di Giovanni), si inginocchiasse sul Golgota deponendo le armi e lo scettro ai piedi della croce in segno di sottomissione al volere divino, di compimento definitivo della propria missione terrena [5]. La collocazione palestinese dell'Albero del mondo, tuttavia, rimane assai dubbia. Marco Polo, ad esempio, lo colloca in Persia nel punto in cui si scontrarono Alessandro e Dario.

In conclusione, non si può prescindere dall'esaminare il tema della lotta contro il drago (o il serpente), anch'esso particolarmente diffuso nello spazio orizzontale del “continente assiale”. Apollo, nato da appena tre giorni, uccide ai piedi del monte Parnaso Pitone: mostro dalle origini ctonie e dotato di poteri oracolari. Al suo nome si deve quello della sacerdotessa ispirata da Apollo: la Pythia che esercita la sua funzione dal santuario di Delfi dove sono sepolte le ceneri dello stesso mostro. Nella saga dei Nibelunghi (magistralmente tradotta in musica da Wagner) il drago rappresenta l'opposto del principio della misura e della ridistribuzione: è l'emblema dell'accumulazione e simbolo dell'uomo che si lascia inebriare ed incattivire dall'oro. Più complesso è il discorso per ciò che concerne il Beowulf. Di questa saga originariamente proveniente dalla Scandinavia (sebbene trascritta per la prima volta in Inglese antico intorno all'anno Mille) è bene innanzitutto analizzare il nome dell'eroe. Il significato del nome Beowulf sembra essere infatti quello di “colui che si comporta da lupo nei confronti delle api” [6]. In altri termini, il nome Beowulf significa “orso”: animale che tradizionalmente indica la funzione guerriera, basti pensare al mito di origine celtica di Artù – Arctoviros (l'uomo orso) in cui si ritrovano altri elementi comuni a tutto lo spazio eurasiatico, dall'occultamento dell'eroe all'esaltazione dei valori cavallereschi.

Le api e il miele, inoltre, sono simbolo di sapienza e carisma. Le api hanno nutrito Pindaro e Platone col miele quando questi erano ancora in tenera età. La sovrabbondanza di api e miele è sinonimo di prosperità. Nell'Islam sciita, sviluppatosi in un contesto geografico di profonda influenza della Tradizione indoeuropea (la Mezzaluna fertile e l'Altopiano iranico), le api vengono paragonate alla stessa comunità islamica. Il vero credente è come l'ape in cerca dei fiori migliori; mentre il miele, il cibo più dolce e salutare per il corpo, è paragonato alla conoscenza che gli Imam hanno diffuso tra i loro fedeli. Beowulf lotta in primo luogo contro il gigante Grendel, nemico infernale che abita in “lande paludose rifugio per le razze dei mostri” (una descrizione assai simile a quella della terra in cui sono confinati i Titani secondo Esiodo). Successivamente, ormai avanti negli anni, combatte contro un drago che custodisce un vasto tesoro. Uccide il drago ma muore a causa del veleno del mostro. Tuttavia, muore nella consapevolezza di aver eseguito fino all'estremo sacrificio il suo dovere di sovrano e guerriero: difendere il proprio popolo e la Patria. Come riporta Mario Polia nel suo notevole studio Il drago e l'eroe nei miti del nord (Cinabro Edizioni 2020), non si può escludere a priori la presenza di un valore esoterico ed iniziatico all'interno di questi racconti. Infatti, non è errato identificare nella lotta contro il mostruoso quella lotta che avviene dentro ognuno di noi contro il desiderio smisurato. Quella lotta che l'Imam Khomeini chiamava “la più grande lotta per liberarsi dalla prigione dell'io e ascendere verso il divino”. Non sorprende che l'essere mostruoso (il drago) viva sempre sotto terra, in una grotta la cui oscurità o semi-oscurità (come nel mito platonico della caverna) è simbolo dell'iniziale condizione di ignoranza dell'uomo. L'ingresso, la lotta al suo interno e l'uscita dell'eroe dalla cavità sotterranea, di fatto, rappresentano le tappe iniziale, centrale e finale di un percorso iniziatico.

Note:

[1] M. Polia, Il drago e l'eroe nei miti del Nord, Cinabro Edizioni, Roma 2020, p. 36.

[2] M. Heidegger, Holzwege – Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2014, p. 265.

[3] C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, p. 101.

[4] A questo proposito si veda anche E. Jünger, Al muro del tempo, Adelphi Edizioni, Milano 2000.

[5] A. Bassermann, Il Veltro dantesco, il Gran Khan e la leggenda imperiale, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 2021, p. 42.

[6] Il drago e l'eroe nei miti del Nord, ivi cit., p. 196.

Daniele Perra

Il mistero dell’Artide preistorica: Thule

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Una delle designazioni per l’Asgard, sede delle divinità e patria originaria dei ceppi regali nordici, secondo le tradizioni scandinave, è l’isola verde o terra verde, in tedesco moderno Grunes-Land, donde Groenlandia. Ma questa terra, come lo dice il suo nome, ancor sino al tempo dei Goti sembra presentasse una rigogliosa vegetazione e non fosse ancora investita tutta dal congelamento. Ma vi è di più: nella regione dei ghiacci artici recentemente le spedizioni del canadese Jenness, dei danesi Rasmussen, Therkel e dell’americo Birket-Smith han fatto dei rinvenimenti archeologici invero singolari: in fondo sotto i ghiacci si son trovati resti di civiltà di ben più alto grado di quella esquimese e relitti di strati ancor più antichi, preistorici. A tale civiltà è stato dato il nome di civiltà di Thule.
Thule è il nome che i Greci davano appunto a una regione o isola dell’estremo nord, la quale si confonde spesso con quelle terre degli Iperborei. Donde sarebbe venuto il solare Apollo, cioè il dio delle razze dorico-achee scese effettivamente dal nord in Grecia. E di Thule Plutarco dice che in essa le notti per circa un mese duravano due sole ore: è proprio la notte bianca dei paesi boreali. E se altre tradizioni elleniche chiamavano il mare boreale Mare Cronide, cioè Mare di Kronos (Saturno), questa è un’indicazione significativa, poiché Kronos veniva concepito come uno degli dei dell’età dell’oro, cioè dell’età primordiale, dell’età prima dell’umanità.
[caption id="attachment_51049" align="alignright" width="215"] Walhall, Das Rheingold von Hermann Hendrich[/caption]
Ora se noi ci portiamo in America, nelle civiltà azteche del Messico troviamo corrispondenze così singolari, che esse si estendono fino ai nomi. Infatti gli antichi messicani chiamavano Tlapallan, Tullan e anche Tulla la loro patria primordiale. E come la Thule ellenica veniva riferita al solare Apollo, così ecco che anche la Tulla messicana vien considerata come la Casa del Sole.
Ma confrontiamo tali tradizioni messicane con quelle celtiche. Se i lontanissimi progenitori dei Messicani sarebbero venuti in America da una Terra nordica-atlantica, ecco che le leggende irlandesi ci parlano della razza divina del Tuatha dè Danann, la quale sarebbe venuta in Irlanda dall’Occidente, da una mistica terra atlantica o nordico-atlantica, l’Avallon. Si direbbe, dunque, due forme di uno stesso ricordo. Le due civiltà corrisponderebbero a due irradiazioni, americana l’una, europea l’altra, partite da un unico centro, da un’unica sede scomparsa (mito dell’Atlantide), ovvero congelate. Ma vi è di più, nel senso che, se passiamo nel campo delle indagini positive moderne, troviamo elementi che potrebbero benissimo concordare con questi echi leggendari. Infatti sul litorale atlantico europeo esistono tracce ben precise di una civiltà vera e propria e di un tipo di umanità – il cosidetto uomo Cro-Magnon – che appare di uno sviluppo ben superiore rispetto alle razze quasi animalesche del cosidetto uomo glaciale o musteriano abitante allora l’Europa. I frammenti pervenuteci di questa civiltà sono di tale natura, da far dire ai ricercatori, che i Cro-Magnon potrebbero ben definirsi gli Elleni dell’età della pietra. Ora, questa dei Cro-Magnon, apparsa enigmaticamente nell’età della pietra lungo il litorale atlantico fra razze inferiori e quasi scimmiesche, non potrebbe forse essere la stessa cosa dei Tuatha de Danann , della razza divina venuta dalla misteriosa terra nordico-atlantica , di cui nelle accennate leggende irlandesi? E i miti circa le lotte fra le razze divine sopravvenute e le razze di demoni o mostri, non sarebbero per caso da interpretarsi come echi fantastici della lota svoltasi fra quelle due razze, fra gli uomini Cro-Magnon, gli Elleni dell’età della pietra, e gli uomini musteriani animaleschi?
Tornando ai ricordi tradizionali, non soltanto i Greci e gli Americani ricordano una sede primordiale. Secondo i ricordi iranici dell’Avesta, la patria originaria e mistica degli Ariani, concepita come la prima creazione del Dio di Luce, - l’aryanem vaejo – sarebbe stata una terra dell’estremo settentrione, e anzi vien detto che inessa, a un dato momento, l’inverno durò dieci mesi dell’anno, proprio come nelle regioni artiche. Si tratta dunque di un ricordo ben preciso del congelamento sopravvenuto con la precessione degli equinozi nella regione boreale: ricordo, cui peraltro fa riscontro quello del terribile inverno Fibur scatenatosi alla fine di un certo ciclo, o mondo, di cui nelle antichissime tradizioni scandinave. Ma anche in India, si ricorda un’isola o terra luminosa posta nell’estremo settentrione, lo çveta dvipa, e una razza dell’estremo settentrione, gli uttara-kura; lo stesso ricordo si ha nel Tibet , nel mito della mistica città del Nord Chandhala; nell’estremo Oriente Liezi riferisce la tradizione circa la terra posta all’estremo nord del mare settentrionale e abitata da uomini trascendenti.
I risultati delle ricerche del Wirth sarebbero appunto questi: che nella più alta preistoria – verso il 20.000 avanti Cristo – una grande razza bianca unitaria, dal culto solare, dalla regione polare divenuta inabitabile per via del congelamento si sarebbe spinta verso il Sud, in Europa e in America, ma soprattutto in una terra scomparsa , posta al Nord dell’Atlantico. Da tale terra essa si sarebbe successivamente spostata, nel periodo paleolitico, verso l’Europa e l’Africa, con un moto, dunque, dall’Occidente all’Oriente: essa sarebbe penetrata nel bacino del Mediterraneo creando un ciclo di civiltà preistoriche intimamente apparentate, nel quale rientrerebbero quella egizia, etrusco-sarda, pelasgica ecc., a tacere di altre ancora che nuove ondate avrebbero fondate nel loro avanzare per via continentale fino a raggiungere il Caucaso e poi oltre, fino all’India e alla stessa Cina. Così ciò che si riteneva la culla dell’umanità , l’altopiano del Pamir , sarebbe soltanto uno dei centri abbastanza recenti d’irradiazione di una razza ben più antica. Le razze ariane e indogermaniche, l’uomo europaeus in genere, sarebbero già razze derivate e in una certa misura già miste in confronto a ceppi più antichi e più puri, IPERBOREA, a cui vanno riferito i ricordi, i simboli e perfino le figurazioni preistoriche su roccia relative ai conquistatori dai grandi vascelli stranieri, dall’ascia, dal sole e dall’uomo solare con braccia innalzate. Una misteriosa unità stringerebbe per tal via un gruppo di grandi civiltà e di antiche religioni fiorenti già là dove fino aieri si supponeva l’uomo animalesco delle caverne.
E siccome simbolo richiama simbolo, per finire, ricorderemo questo. Ancor nell’epoca romana l’idea della regione del nord come un paese mistico, abitato dal padre degli dei, dal nume dell’età prima o età aurea, e l’idea che il giorno artico quasi senza notte non fosse senza relazione con la luce perenne che circonfonde gli immortali, tali idee nell’epoca romana erano ancora così vive, che, secondo la testimonianza di Eumanzio, Costanzo Cloro avrebbe diretto una spedizione verso il Nord della Gran Bretagna, confusa con la stessa leggendaria Thule, non tanto per il desiderio di glorie militari, quanto per raggiungere la terra “che più di ogni altra è vicina al cielo” e quasi presentire la trasfigurazione divina che si riteneva subissero gli Eroi e gli Imperatori alla loro morte.
Julius Evola

Fonte: Arcadia Iperborea  - iscriviti alla pagina Facebook

AudioVideo del post a cura di Rosanna Lia - iscriviti al canale YouTube [embed]https://youtu.be/_8hG-74IZS4[/embed]

La prima luce è un sorriso – Rita Remagnino

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A occidente del continente eurasiatico il ritorno della luce dopo il buio autunnale è tradizionalmente presieduto da solari divinità maschili (Mitra, Gesù), oppure minacciato dai demoni, come nel caso dei krampus europei (letteralmente «morti putrefatti»), che terrorizzano i ragazzini delle aree ex-austro-ungariche prima di essere esorcizzati, ovvero sconfitti, da un San Nicola barbuto che assomiglia molto a Babbo Natale. Lo scenario solstiziale cambia aspetto nelle aree continentali che hanno conservato più a lungo le tradizioni sub-artiche primordiali, dove il dio atmosferico che annuncia la fine del buio è spesso di genere femminile. Ne è un esempio il Giappone, dove gruppi di persone festanti si riuniscono ogni anno in occasione del solstizio d’inverno per celebrare e blandire la dea-sole Amaterasu, i cui capricci sono poeticamente immortalati nelle pagine del Kojiki (Mario Marega, Luni, 2018), il libro delle «vecchie cose scritte».

 

Per protestare contro le violente scorrerie del fratello e marito Susanoo (la Tempesta), la splendente Amaterasu va a rinchiudersi in una profonda caverna precipitando il mondo nella più profonda oscurità. Non potendo fare a meno di lei le altre divinità (i pianeti) la invitano ad uscire dal suo nascondiglio allestendo una serie di attività di disturbo. Battono sui tamburi e cantano a squarciagola, suonano cimbali e flauti, portano persino all’ingresso dell’antro un gallo (animale solare fortemente sciamanico) nella speranza che risvegli la dea con il suo canto squillante. Ma niente. Finché a uno degli dèi viene un’idea: appende uno specchio a un albero, organizza un’allegra festicciola tra pari e chiede alla dea dell’alba e della gioia Ama-no-Uzume di esibirsi seminuda in una comica e licenziosa danza erotica. Divertito il pubblico divino ride e scherza chiassosamente suscitando la curiosità di Amaterasu, che sbircia fuori per vedere cosa sta succedendo. Perché ridete? Chiede indispettita alle altre divinità. Io ho sprofondato il mondo nelle tenebre, e voi ve la spassate? Proprio così, le viene risposto, e siamo ben contenti di goderci lo spettacolo di una dea ancora più bella e promettente di te. Impossibile! Ribatte la vanitosa donna-sole avvicinandosi all’uscita per provare l’unicità ineguagliabile del suo splendore. Svelto come un gatto il forte dio dei cieli l’afferra allora per un braccio. Tutti scoppiano a ridere, canzonando l’ingenuità con cui la dea è caduta nel tranello, e alla povera Amaterasu non resta che fare buon viso a cattivo gioco riprendendo il suo posto in cielo. Il sorriso torna così sul volto di tutte le creature celesti e terrestri, che salutano festosamente il ritorno della luce.

 

Probabilmente l’impresa di convincimento sarebbe fallita senza l’uso delle arti (danza, musica, burla, scherzo, gioco) che secondo Plotino non sono attività di secondaria importanza, come crede l’ignorante civiltà del profitto, ma hanno come scopo la conoscenza e la contemplazione da cui ogni prassi, sia necessaria che deliberata, attinge in varia misura. Potrebbe derivare da remote visioni della realtà come quella descritta l’imperturbabile indole orientale, più «tagliata» della nostra alla cura delle attività meditative. Appartiene alla stessa famiglia il «sorriso di rottura», da noi puntualmente sottovalutato a vantaggio del ragionamento, in nome del quale ingaggiamo con i problemi quotidiani lotte furibonde. Ma non sempre riusciamo ad averla vinta, motivo per cui diventiamo spesso preda dei sensi di colpa, oppure inventiamo alibi per dare ogni responsabilità a fattori esterni, o, peggio, spingiamo la mente ad alimentare fantasie spaventose che ingigantiscono le difficoltà. L’immaginazione può essere pericolosa perché una volta attivata va per conto suo, finendo non di rado per arrovellarsi sul «peggio» che ancora deve arrivare. Legittimamente si teme qualcosa che minaccia la vita, o l’incolumità, ma è controproducente attivare il meccanismo di allerta prima del tempo, e magari lavorarci su con la fantasia. Al prossimo disagio le risorse necessarie per fronteggiare il nuovo ostacolo saranno esaurite, così si andrà incontro alla paura disarmati.

 

Va detto comunque che l'istinto autoflagellatorio nella cultura occidentale non c’è sempre stato ma è il frutto di certe pieghe assunte negli ultimi secoli dalla Storia, dalla società e dalle religioni. Dopotutto usciamo anche noi dalla stessa matrice polare-eurasiatica che ha sfornato le più importanti civiltà sviluppatesi ad est del continente, comprensibilmente differenti, ma affini sotto molti aspetti. In passato siamo stati campioni mondiali di umorismo, abbiamo inventato persino la commedia (V secolo a.C.), e da un punto di vista strettamente linguistico «comico» e «commedia» hanno una comune origine nell’antica radice indoeuropea aweid, da cui deriva il greco antico aedon, l’usignolo. Secondo la narrativa tradizionale l’uomo-Adamo nel mondo primordiale parlava la lingua leggera e musicale (poetica) degli uccelli, detta anche dell’«illuminazione solare» (loghah suryaniyah), o «angelica», l’unica in cui lo stato umano poteva esprimere la sua corrispondenza con il divino. Tutto fa pensare che ai primordi il sorriso del cuore fosse la regola. Ma poi vi fu il brutto incidente che tutti conosciamo, il peccato originale, in seguito al quale il dono della vita divenne una specie di affronto dal quale derivarono il diritto alla tristezza e il dovere di espiazione.

 

Come possiamo rimetterci in pari e recuperare ciò che abbiamo perduto? Non affidandoci sempre e comunque al pensiero, ad esempio, o allargando a dismisura il suo campo d’azione in modo da stemperare l’evento negativo nello spazio e impressionare meno il cervello. Oppure, esercitandoci a creare ingegnosi cortocircuiti sulla falsa riga di quella che le antiche filosofie (dalla Cina alla Grecia) chiamavano «la logica del paradosso». A questo proposito troviamo un altro spunto interessante in Giappone, dove la Tradizione trascurata pressoché dappertutto non ha mai smesso di parlare all'anima del popolo e tuttora rappresenta la base civile e sociale dell'intera nazione. Tra i vari aneddoti paradossali che circolano laggiù ve n’è uno relativamente recente. Alla fine della Guerra del Pacifico, il 15 agosto del 1945, non contenti della resa incondizionata del Paese gli americani pretesero che l'imperatore Hirohito dichiarasse pubblicamente di non essere una divinità di «stirpe solare». Ascoltando alla radio lo storico comunicato i Giapponesi, poco avvezzi alla logica massmediatica della teologia occidentale, ne dedussero che Hirohito doveva essere davvero un dio solare, perché solo un dio aveva l'autorità di fare una dichiarazione di enorme portata come quella mandata in onda sulla rete nazionale.

 

Ci voleva una mentalità «antica» come quella nipponica per giungere a una simile conclusione? Nessun altro ci sarebbe arrivato? In realtà alcuni motivi culturali riscontrabili nel mondo mitico del Giappone si ritrovano, mutatis mutandis, nell’intera cintura sub-artica, ivi comprese certe zone settentrionali del Nordamerica abitate da circa 30-20.000 anni da popoli di indubbia provenienza eurasiatica, tanto che per l’immensa area culturale e genetica che comprende buona parte dell’Europa si potrebbe utilizzare il termine ibrido «Eurasiamerica». Alla fine dei conti siamo anche noi quella roba lì, e il nostro peccato originale non è quello descritto dalla narrativa vigente bensì il ripudio della Tradizione. Distaccandoci dalla radice ci siamo illusi di possedere poteri che l’uomo non ha mai avuto, né avrà l’ambizioso h+, o homo plus, o uomo virtuale. Più andremo avanti a sognare, sempre più inaccettabili ci sembreranno le luci e le ombre che appaiano e scompaiano sul cammino esistenziale di ciascuno seguendo le regole di un gioco creato appositamente per avvicinare l’uomo al divino. Insistendo in questa direzione auto-condanniamo noi stessi a un triste tramonto. Nonostante gli sforzi non potremo mai capacitarci di come sia possibile che la risposta si trovi solo nella soluzione finale del mistero della natura umana, cioè in un’altra vita. Quando invece possiamo scoprire in qualsiasi momento di non essere in una «valle di lacrime» bensì in una commedia priva logica, buffa, imprevedibile, casuale, indomabile. Una messa in scena da affrontare con avveduta leggerezza alla luce del sorriso che le compete.

 

Ci sarà pure un motivo se il comune antenato indoeuropeo, abituato a mettere ogni singola parola sul bilancino di precisione, ha dato al termine «spirito» il duplice significato di umorismo e di spiritualità. La radice indoeuropea ghel, da cui proviene il termine greco «ridere», cioè ghelao (γελάω), designa «ciò che brilla», da cui la serenità tipica del sorriso che colora di gentilezza la vita. Non ultima la saggezza del solstizio d’inverno, che presentandosi all’appuntamento annuale in punta di piedi annuncia il ritorno della luce parlando la lingua brillante della brina, dei lunghi tramonti rossi, dei gelidi cieli stellati. Se il solstizio d’estate ride, quello d’inverno sorride. Entrambe le manifestazioni sono comprese nel processo riflessoidale controllato dalla parte primitiva dei «tre cervelli», quella che governa alcune attività riflesse come il comportamento emotivo, e non dalla corteccia palleale che vigila sulle facoltà cognitive. Ma la respirazione cambia tutto. Il sorriso la lascia intatta, essendo una reazione «gentile». O disinteressata, se si vuole, in quanto slegata dalla lotta biologica per la sopravvivenza. E proprio per questo ispirata. Il riso invece interrompe il respiro, manca il fiato quando si ride a crepapelle. Il sorriso è un’arte che ama il silenzio e la lentezza, il riso si presenta come una chiassosa azione di rottura sollecitata da un’emozione giunta al culmine che chiede una valvola di sfogo. Tranne l’uomo nessun animale è in grado di produrre il suo suono (alle iene lo abbiamo affibbiato noi), né si fa venire le lacrime agli occhi ridendo. Il sorriso dichiara l’intenzione di manifestare deliberatamente uno stato di gioia e/o rilassamento, mentre la risata liberatoria rivela un «crollo» improvviso. Vero è che in entrambi i casi c’è la volontà di prendere le distanze da una circostanza ingessata dalla paura e dalle convenzioni sociali, ma l’«atto di protesta» del riso si consuma in fretta mentre la capacità di sorridere una volta acquisita dura nel tempo, trasformandosi in una predisposizione del cuore più centrata su forza, coerenza, autenticità, spontaneità, naturalezza. Libertà.

 

Allegoricamente il buonumore che subentra alla malinconia è assimilabile all’uscita dalla caverna (il buio autunnale) della dea-sole Amaterasu (il ritorno della luce) e rappresenta in modo plastico il «solstizio della vita terrena» di ciascuno. Quante volte si chiude una fase nera per aprire uno spiraglio alla luce! Il cambiamento è necessario come l’ossigeno, e poco importa se una (libera) azione proiettata nel futuro entrerà in rotta di collisione con la «realtà dominante». Come dice lo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie, nessuna strada è migliore di un’altra. Una strada è una strada, ciò che conta è camminare. E ogni specie è stata dotata da una Natura previdente del necessario per sopravvivere, rigenerarsi dopo il buio, curare le ferite fisiche ed emozionali, gestire le difficoltà. Qualcosa si è rotto oppure è andato perduto strada facendo? Non è la prima né sarà l’ultima volta. I cocci possono essere raccolti e ricomposti in una nuova opera più bella e resistente della precedente. Le riparazioni si vedranno? Vorrà dire che le porteremo come medaglie al valore, essendo parte integrante della nostra storia. Sappiamo per esperienza che qualsiasi esistenza, persino la più perfetta, può rompersi con la stessa facilità con cui può ricomporsi.

 

Sulla scorta di questi sani principi tradizionali, che un tempo appartenevano anche alla nostra cultura, in Giappone i maestri kintsukuroi spolverano le crepe di un vaso rotto con della polvere d’oro, o d’argento, o di rame, mettendo in evidenza la riparazione per farne il simbolo della fragilità della vita, della sua forza e della sua bellezza. Il risultato è strabiliante. Percorso da linee che lo rendono unico nel suo genere, il «rottame» diventa una vera e propria opera d’arte. La casualità, o l’errore, l’hanno colpito ma non annientato, offrendogli la possibilità di avere un’anima nuova di zecca. Tutto sommato è una fortuna che le cicatrici siano visibili perché tenendo bene in vista la riparazione di un danno, o la risoluzione di un fallimento, è possibile riderne senza farsi schiacciare dal peso delle frustrazioni. Non c’è motivo di ignorare ciò che tutti sanno: il buio tornerà, e con esso le ore tristi e gli scivolamenti. Elementi comunque insufficienti a rovinare l’armonia della vita presa nel suo insieme, una musica resa perfetta dal lavoro instancabile del mulino celeste che incessantemente divora e mette al mondo solstizi ed equinozi. Luci ed ombre.

 

A tutti gli amici di Ereticamente, buon Solstizio d'Inverno.

Divagazioni sull’amore – Marco Calzoli

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 Marco Aurelio Olimpio Nemesiano, africano, è stato un poeta romano del III secolo d. C. Di lui ci rimangono svariati versi, tra cui quattro ecloghe, di argomento amoroso.

 La poesia bucolica, infatti, sembra comparire a volte dopo la fine di periodi problematici: con essa rifiorisce la speranza. Roma aveva vissuto un periodo terribile e, nell’uscirne, compaiono questi metri di Nemesiano. Come Virgilio aveva esaltato nel Puer il sogno di una nuova era, come Calpurnio Siculo sperava che il primo Nerone fosse l’artefice di una nuova età di pace, così Nemesiano nel governo di Caro prima e di Numeriano poi voleva vedere un periodo rinnovato di pace e prosperità.

 Soffermiamo la nostra attenzione sulla seconda ecloga di Nemesiano. Il giovane Ida e il giovane Alcone ardevano di desiderio per la bella Donace e infiammati si affrettavano sulla bellezza della amata. Questa, mentre raccoglieva i fiori nelle valli dell’orto vicino e riempiva il grembo di molle acanto, fu riempita d’amore dai due giovani. Nemesiano quindi fa cantare i personaggi in un quadretto bucolico delizioso.

 Questa seconda ecloga di Nemesiano tratta un argomento topico del genere bucolico e dell’elegia d’amore e della poesia amorosa in generale: due protagonisti innamorati della stessa donna e non ricambiati. Accanto a questa tematica classica troviamo anche quella della violenza, un motivo erotico e lascivo non del tutto assente nella tradizione, questa volta non latina ma greca, ci riferiamo a Mosco e Bione. La violenza in questa ecloga appare centrale: verso la fine della parte introduttiva sembra che l’atto di estremo erotismo e aggressività perpetrato nei confronti della fanciulla possa aver recato conseguenze sull’aspetto della ragazza, che si presenta diversa da come descritta all’inizio.

 Il legame con la tradizione di Mosco e Bione costituisce una novitas nella letteratura latina. Nemesiano ha il coraggio di allontanarsi dalla letteratura latina, fino ad allora estremamente importante perché quest’ultima, assieme alle bucoliche teocritee, costituiva il primato assoluto in materia.

 Anche Teocrito è presente nell’idillio d’amore non ricambiato: si tratta di un’allusione all’amore teocriteo non ricambiato tra il Ciclope e la Ninfa galatea, il simbolo topico della fuggevolezza, dell’amore ritroso che ritroviamo in Nemesiano, così come anche in Virgilio. Pure l’immagine dell’antro, nominato per le Napee, rappresenta un locus tipico della tradizione teocritea e virgiliana, infatti in Teocrito e in Virgilio l’altro è il luogo nascosto in cui consumare un rapporto o alleviare le sofferenze d’amore, secondo il concetto di poesia utile di Nemesiano.

 Inoltre, nell’immagine di Ida e Alcone, che lottano entrambi con le sofferenze d’amore e cercano di alleviarle cantando la bellezza dell’amata, possiamo scorgere l’ideale poetico di Nemesiano: come abbiamo detto, per Nemesiano la poesia è utile, in quanto terapeutico conforto alla sofferenza d’amore.

 Per Nemesiano la poesia è il perfetto connubio tra musica e versi, questo è dimostrato da Ida e Alcone. L’uno esperto nella musica, l’altro esperto nel verso. Le due arti prese singolarmente non sarebbero nulla: solo insieme svolgono la loro funzione terapeutica.

 In Nemesiano (così come in Virgilio) la natura partecipa del dolore dei due giovani. In Virgilio assistiamo all’atteggiamento spontaneo del pastore il quale, preso dal dolore d’amore, abbandona il suo gregge.

 In tutto il genere bucolico vi sono due costanti, ben espresse in Nemesiano: la presenza delle divinità, spesso invocate con epiteti, e l’amore/odio tra l’uomo di campagna e l’uomo di città.

 L’amore è uno dei grandi temi della produzione letteraria artistica e trattatistica del genere umano, di ogni età e civiltà. Assieme alla famiglia, alla guerra, al viaggio, alla visionarietà, alla ricerca di Dio. E altro ancora. Sull’amore si sono dibattuti poeti e filosofi. La sua dimensione del piacere oppure la sua sublimazione nella Donna Angelicata del Dolce Stil Novo e nell’ “amore platonico” (proprio del petrarchismo del XVI secolo) oppure l’aspetto della passione.

 Per de Rougemont nel suo celebre saggio, l’amore cortese (e poi il Romanticismo) nasce dalla eresia catara che, polarizzando in maniera manichea vita e morte, crea l’amore passionale. Come osserva Bénichou, il Romanticismo non è stato solamente un movimento artistico e poetico: esso trae la propria linfa vitale dai pensatori che nell’età cosiddetta romantica hanno espresso nuove tendenze ideologiche. Certamente l’esaltazione dei sentimenti dell’uomo di contro a una fede cieca che li opprime sentita ormai come qualcosa di vetusto, è debitrice del cosiddetto “pensiero umanitario”, il quale ha visto nell’intera specie umana una potenzialità di progresso che nell’età romantica si sta attuando almeno inizialmente. Questo tipo di pensiero è debitore a sua volta dell’illuminismo per il concetto di progresso insito nell’intera specie umana. Ma mentre nell’illuminismo l’afflato era squisitamente laico, nel pensiero umanitario l’umanità acquisisce connotati mistici e quasi divini. L’uomo non è più la creatura di un Dio assoluto che vuole sacrifici e penitenza, ma diventa la sede di tensioni di amore e di libertà del tutto giustificate. L’uomo inizia ad essere padrone di sé stesso e capace di esprimere nella propria forza vitale e tensione libertaria quell’Assoluto che i vecchi cattolici ricercavano nei cieli. L’uomo inizia a essere il centro del mondo, quindi il sogno e le varie atmosfere oniriche sono il campo d’elezione della poetica degli scrittori e degli altri artisti romantici, e questo durerà almeno sino ai simbolisti francesi, come rileva Béguin: gli aspetti notturni della vita (come non pensare ai Notturni di Chopin?), il mito dell’inconscio (dai “sotterranei” di Dostoevskij fino al Decadentismo che innova il romanzo ponendo la coscienza e il ricordo come elementi principali: il tempo perduto di Proust ritrovato nel ricordo), l’estasi del poeta che compone sotto effetto di sostanze, e così via. Aspetti della vita da non più demonizzare e relegare nel peccaminoso o nello sbagliato. Bachelard distingue la rêverie dal sogno: questa è consapevole e non opera censure. Nella rêverie non ci sono tensioni e c’è una forte componente di libertà di immaginare.

 Platone diceva che l’amore è un dio potente. “Amo ciò che faccio, ma la gioia suprema mi è preclusa se sono priva dei miei incontri selvaggi”, cantava in un sonetto la poetessa francese Louise Labé. L’amore e la passione sono le più grandi spinte dell’uomo a progredire e perfezionarsi come entità in grado di dare. Ritroviamo l’amore, il possesso, e l’aggressività connaturata all’emozione e al sentimento amorosi, già agli albori della letteratura occidentale con la guerra per Elena di Troia e lo ritroviamo con Nemesiano quasi alla fine del mondo classico.

 Dal Simposio di Platone al Kamasutra indiano, dal trattato Sull’amore di Cappellano (che ha avuto un ruolo fondamentale nella elaborazione della poetica della lirica amorosa medioevale in volgare) ai Dialoghi d’amore di Leone Ebreo nel Rinascimento. Freud e Jung scriveranno pagine memorabili sulla sessualità e sull’amore. Per il primo la libido è l’energia che sta alla base dell’intera vita psichica. Per il secondo l’amore porta al completamento del processo di individuazione, cioè la unione degli opposti psichici. Infatti, già Plotino (Enneadi VI, 9, 9) ha scritto in riferimento agli opposti mitici: “L’amore è della stessa natura di Psiche, e Eros è sempre unito a Psiche nelle pitture e nei miti”. Fromm, che fa parte della psicoanalisi umanista, parla dell’amore come della dimensione che risolve il problema principale dell’uomo, la solitudine. Lacan nel celebre Seminario sulla Lettera rubata di Poe, nel sostenere che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, pone una identità tra donna e verità, tra femminilizzazione e verità.

 Il poema epico indiano Rāmāyaṇa canta del principe Rama che riprende l’amata Sita rapita da un demone. Omero canta l’amore e le passioni umane, ai quali non sono estranei gli dei. Pensiamo alla figura di Circe. Così scrive Miller: “Ci sembra di sapere tutto della storia di Circe, la maga raccontata da Omero, che ama Odisseo e trasforma i suoi compagni in maiali. Eppure esistono un prima e un dopo nella vita di questa figura, che ne fanno uno dei personaggi femminili più fascinosi e complessi della tradizione classica. Circe è figlia di Elios, dio del sole, e della ninfa Perseide, ma è tanto diversa dai genitori e dai fratelli divini: ha un aspetto fosco, un carattere difficile, un temperamento indipendente; è perfino sensibile al dolore del mondo e preferisce la compagnia dei mortali a quella degli dei. Quando, a causa di queste sue eccentricità, finisce esiliata sull'isola di Eea, non si perde d'animo, studia le virtù delle piante, impara a addomesticare le bestie selvatiche, affina le arti magiche. Ma Circe è soprattutto una donna di passioni: amore, amicizia, rivalità, paura, rabbia, nostalgia accompagnano gli incontri che le riserva il destino – con l'ingegnoso Dedalo, con il mostruoso Minotauro, con la feroce Scilla, con la tragica Medea, con l'astuto Odisseo, naturalmente, e infine con la misteriosa Penelope”.

 Dai versi di Mimnermo, Saffo, Anacreonte, Ibico alle poesie amorose dei latini: Catullo, Gallo, Tibullo, Properzio, Ovidio. Catullo, pur con tutte le sue scabrosità erotiche, è un autore che usa la lingua latina in maniera superba, anche se il suo latino non si discosta molto da quello parlato. Catullo presenta spesso aiscrologia (uso di parolacce), per questo a lui si addice la massima di Terenzio “non considero estraneo da me nulla di quanto appartiene all’uomo”. Ma presenta anche un lessico sacrale, forse in connessione con il culto della Grande Madre.

 Per la sua grandezza linguistica e letteraria Catullo fu tramandato dai monaci medioevali unico tra i poeti neoteroi (e ve ne erano di grandissimi, come lo stesso Cinna ricordato da Catullo). Catullo fu modello di stile anche per gli ultimi autori italiani che scrissero in latino. Pensiamo a Pascoli, il cui stile in latino viene avvicinato anche a quello di Virgilio. Pensiamo a Leone XIII, che per la molteplicità dei metri è accostabile a Orazio, ma si ispira a Catullo, nonostante la scabrosità erotica.

 Catullo gioca molto con le parole, ad esempio presenta un lessico tecnico militare e giuridico ma che può essere capito anche da profani. Utilizzare un termine militare e giuridico nella sfera amorosa-erotica ha una evidente finalità artistica. Innanzitutto è indice di erudizione, come faceva il greco Callimaco, il più dotto dei poeti antichi (a questo scopo Catullo inserisce anche prestiti o calchi dal greco). In secondo luogo è indice di una relazione libera e creativa con Lesbia. In terzo luogo Catullo vuole essere ironico (per esempio quando metteva un termine tecnico del lessico giuridico come foedus, fides in un contesto amoroso). Catullo poi presenta dei metri veloci e sostenuti che ben si addicono al tema erotico delle sue poesie.

 Inoltre Catullo fonda il lessico amoroso in latino, e il filologo classico Traina tentava di spiegare il dramma interiore di Catullo che si muoveva tra una tradizione che non riconosceva più vitale e l’espressione dell’intenso amore e della intensa passione per Lesbia.

 Dal Decamerone di Boccaccio alla Mandragola di Machiavelli, dalle parole volgari di Pietro Aretino al Piacere di D’Annunzio, dall’Amante di Lady Chatterley di Lawrence alla narrativa sudamericana contemporanea. Dalla straziante vicenda di Paolo e Francesca cantata da Dante nell’Inferno all’interpretazione erotica del Gelsomino notturno di Pascoli, capolavoro della sua capacità di simbolizzazione.

 Pompei è l’unico sito archeologico al mondo che ci dà uno spaccato a 360° della vita quotidiana e sociale di una città antica: è qualcosa di unico. Sono stati ritrovate anche migliaia di iscrizioni sui muri e non solo, dalle quali appaiono elementi molto interessanti. Per esempio le scrivevano anche le donne. Si è discusso molto in merito, nel passato si pensava che tali testi fossero vergati dalle prostitute di Pompei, ma oggi si è capito che si tratta anche di testimonianze di donne emancipate che partecipavano alla vita politica di allora. L’emancipazione della donna romana della classe alta ci era già nota, pensiamo solo a Messalina o a Lesbia, ma da Pompei ci giunge sentore che svolgessero ruoli socialmente sofisticati anche le donne di umile condizione. A Pompei, infatti, c’era una taverna gestita da una certa Asellina, la quale aveva delle dipendenti, ma che partecipavano attivamente alla propaganda politica a favore di certi “candidati”, chiamati così perché andavano in giro con la toga candida, bianca ma non facevano propaganda per sé stessi. Le donne in questione, dette “aselline”, favorivano i candidati, anche graffiando i muri della taverna a favore di questi. Si tratta di una informazione importantissima non solo per il ruolo delle donne nella società romana di Duemila anni fa ma anche per la politica. La donna non era solo un oggetto sessuale o un diletto amoroso, anche se il poeta latino Ovidio lasciò versi bellissimi sull’amore, che poi nell’antichità greca e romana era anche omoerotico: aspetto accettato pubblicamente. Era, infatti, considerato propedeutico all’attività educativa se compiuto tra maestro e allievo o maestra e allieva. Quindi è normalissimo che autori greci e latini parlino sia di amore eterosessuale sia di amore omosessuale.

 Ovidio è un autore immenso, si pone sia entro la tradizione greca e latina, è un eminente enciclopedista, ma è anche facitore di miti, non solo ma canta l’amore con una schiettezza e una profondità che sembra a volte essere un nostro contemporaneo. Il vero classico non smette mai di dire quello che ha da dire. Per di più, egli si pone anche in un atteggiamento di libertà: mentre il semplice poeta canta le storie e la politica le commissiona per scopi propagandistici, Ovidio ha anche ricercato il senso della parola e dell’arte poetica. Ovidio inoltre dà voce a ciò che non piace ai tradizionalisti, cioè va contro il costume sessuale tradizionale e lo fa con una genialità letteraria che incanta ancora oggi. Ovidio scriveva in poesia tutto ciò che voleva, egli cantava con finezza letteraria anche argomenti licenziosi senza che la cifra poetica ne venisse meno. Nell’Ars amatoria Ovidio scriveva cose che non sarebbero piaciute a chi promulgò la legge contro l’adulterio, e lo faceva con tale eleganza stilistica, ironia e delicatezza che non scatenò l’ira dei politici. Grande abilità retorica! Ovidio era retore ma anche giurista, quindi aveva un controllo sofisticato della parola e del concetto, inoltre era anche un grande poeta, che faceva zampillare poesia da argomenti persino scabrosi.

 Ancora. Dalla Lisistrata di Aristofane al raffinato erotismo delle Odi di Orazio e alle Favole milesie di Aristide di Mileto, di carattere licenzioso, nessuna delle quali ci è giunta, ma che sono state molto popolari nell’antichità, pensiamo solo al fatto che Apuleio dichiara di volerle imitare. Dalla Beatrice di Dante alla Laura di Petrarca, alla Diotima di Hölderlin, alla Silvia di Leopardi, alla Carolina di Saba, alla Drusilla di Montale. Goethe scrive molte poesie d’amore per le sue varie fiamme: specie quando la coppia si sta lasciando, Goethe compone le liriche più belle. Ma la sua amante di lunga data e poi moglie, anch’essa cantata, è Christiane Vulpius.

 Dall’Orlando furioso di Ariosto (dal latino furens, cioè “pazzo”, e tale per amore di Angelica) a Madame Bovary di Flaubert. Nella Gerusalemme liberata di Tasso domina il connubio tra amore e morte e il Cantico dei Cantici (8, 6) aveva detto che “… poiché forte come la morte è l’amore”. Nell’originale ebraico questo famoso passo biblico suona ki chazzah kammawet ‘ahabah. La traduzione riportata è la più adottata, perché nel resto del Cantico il ki dopo l’imperativo della frase precedente ha sempre chiaro valore causale, anche se altri hanno visto in questo ki ebraico un valore enfatico, quindi bisognerebbe tradurre con “veramente l’amore è più forte della morte”. Qui il Cantico sta parlando dell’amore umano: la radice del termine ebraico ‘ahabah, “amore”, non è mai usata in tutta la Bibbia in parallelismo con la radice di rechem, che indica l’amore tra Dio e uomo, quindi la Bibbia dà a ‘ahabah un significato prettamente specifico. Questa tesi filologica è rafforzata da una possibile etimologia: ‘ahabah sarebbe da collegarsi all’arabo habba, “respirare forte, essere eccitato” (nel senso della passione dell’amore umano, invece rechem ha come etimologia “viscere materne”, nel senso che Dio è per gli uomini come una madre).

 La Bibbia è una delle grandi fonti della letteratura e dell’altra arte dell’umanità, il suo Grande Codice (Frye). Dalle espressioni linguistiche (“cretino” deriva da “cristiano”) alle opere letterarie. La Ginestra di Leopardi conserva una frase del Vangelo di Giovanni: non solo, certamente al di là del contenuto della Ginestra, che è laico, l’idea del piccolo fiore umile e disprezzato ma sapiente, al quale Leopardi affida le sue speranze, è certamente evangelica. Il Cantico delle creature di San Francesco come genere letterario è un salmo. Moby Dick di Melville si ispira al Leviatano, una creatura fantastica presente nel Libro di Giobbe. Cosa sarebbe la Divina Commedia di Dante, uno dei poeti più grandi dell’umanità, senza la Bibbia? “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura” è la frase di apertura e riecheggia quella di un famoso testo biblico. Shakespeare nei suoi drammi si riferisce almeno 1000 volte alla Bibbia. West ha avuto il grande merito di aver fornito possibili modelli orientali (sumerici, accadici, egizi, biblici) alla base della poesia greca arcaica (Omero e Esiodo), che sta agli albori di tutta la letteratura occidentale. Il contributo della poesia ebraica non si arresta alla Bibbia: se Isaia è il Dante della letteratura biblica, nel Medioevo ci sono stati altri grandi poeti ebrei, pensiamo solo a Giuda Levita. Ma non si ferma alla Bibbia nemmeno il contributo del pensiero giudaico, infatti dopo di essa ci sono stati eminenti filosofi che hanno sviscerato l’uomo sotto tutti gli aspetti: Filone Alessandrino e Saadyah Gaon, Mosè Maimonide e Leone Ebreo, Spinoza e Moses Mendelssohn, Hermann Cohen e Martin Buber, Walter Benjamin e Jacob Taubes, e così via.

 Nella Bibbia compaiono tutte le risorse della lingua e i generi della letteratura di tutti i tempi. Non è un libro ma una piccola biblioteca composta di libri scritti da autori diversi in lingue (ebraico, aramaico, greco) e epoche differenti: secondo il canone cattolico, l’Antico Testamento è formato da 46 libri e ha avuto un periodo di composizione di mille anni (tutto il I millennio a.C), mentre il Nuovo Testamento da 27 scritti redatti durante il I secolo d. C. Anche l’amore trova nella Bibbia una espressione poetica altissima: quello tra maschio e femmina (Adamo e Eva della Genesi, Cantico dei Cantici, Rut) e quello tra uomo e Dio: pensiamo ai Salmi o a Osea o a Cristo che per eseguire la volontà del Padre si fa mettere in croce o a Stefano che per amore di Dio diviene il primo martire del cristianesimo.

 L’amore è cantato nei versi indiani dell’Amarucataka e del grande poeta Kalidasa e della Govinda-Gita e della Caurapañcāśikā, per citare solo la crema. Il Tantra, poi, è una serie di filosofie e pratiche indiane antiche e esoteriche (non ortodosse) al di fuori della sfera vedica. In sostanza, semplificando, possiamo dire che per il Tantra esiste solo la Dea Madre, Shakti, la quale si estende nel mondo sia trascendente sia immanente proiettando sempre sé stessa. La parola Tantra, infatti, deriva da una radice che significa “estendersi”. Nel senso transitivo, quello che il Tantra estende è la conoscenza della realtà divina. Di conseguenza, la parola si applica a una classe di scritti sacri, chiamati anche Tantra o Āgama. Di ignota paternità e età controversa, si ritiene che i principali Tantra non siano antecedenti al XII o XIV secolo, anche se le pratiche che registrano hanno radici nel periodo pre-buddhista, circa duemila anni prima. La pratica Tantra consiste nella unione con il Divino: per superare i limiti del corpo, della mente e dell’intelletto la pratica fa uso proprio del corpo, della mente e dell’intelletto. Il concetto di salvezza veicolato dai Tantra è in opposizione con quello promulgato dai sistemi ortodossi, in quanto alla salvezza per grazia divina (come nella bhakti) si sostituisce una salvezza ottenuta con una pratica specifica. I testi riportano numerosi esempi di pratiche rituali con elementi sessuali, tuttavia l’effettiva circolazione di questi testi e la performance di questi riti doveva essere piuttosto limitata e/o simbolica. L’aspetto sessuale ha tanta risonanza nella percezione occidentale del tantrismo perché è un elemento del tutto originale; da ciò però ne è derivata una visione falsata del tantrismo come dottrina licenziosa e amorale.

 Pensiamo poi nella prima poesia araba al nasib, cioè l’introduzione erotica della qasida, il più importante genere poetico arabo, di argomento assai vario. Ricordiamo il nucleo originario delle Mille e una notte e le poesie erotiche del grande poeta musulmano persiano Hafiz. Come la lirica mistica con Rumi raggiunge una vetta solitaria mai più scalata, così il genere del ghazal, in particolare nella variante politematica, raggiunge come forma in Hafiz il suo punto più alto e irripetibile. Il ghazal è un tipico genere erotico della poesia persiana, ma non solo. Mentre Rumi parla esplicitamente di esperienze mistiche, Hafiz parla di esperienze erotiche che sembrano doversi interpretare a volte come simboli di esperienze mistiche. È stato possibile ravvisare nella sovrapposizione delle due sfere (sensuale e mistica) un mezzo stilistico cosciente in Hafiz. Stilisticamente il ghazal canta la bellezza facendo spesso delle comparazioni, spesso abbreviate a una metafora. La comparazione a volte è iperbolica (i rubini delle labbra della creatura amata sono superiori a tutti i rubini della realtà). Spesso la comparazione è fantasiosa, come quando la rosa “ride” per la presenza dell’amato. In questo genere le metafore sono tradizionali-standard, ma allo stesso tempo il poeta le dinamizza con motivi originali. Quindi la tradizione rimane solida senza però cristallizzarsi.

 È significativa la rappresentazione dell’amore nel poema persiano Vis u Ramin, uno degli innumerevoli racconti d’amore che il Medioevo islamico ci ha lasciato, anche se si innalza molto rispetto alle altre opere superstiti. Il poeta è Gurgani, il quale ha utilizzato una stesura in pahlavi di altro autore trasformando in poesia sofisticata un racconto privo di senso artistico. La sua opera infatti è in neopersiano, anzi uno dei primi poemi in questa lingua.

 Li Shangyin è un grande poeta cinese classico famoso per le sue poesie d’amore, ne ha scritte anche Yehuda Amichai, il più grande poeta ebraico moderno, mentre Nazim Hikmet è il più grande poeta turco del Novecento, famoso anche lui per importanti poesie di tema amoroso. Ma ancora più indietro nel tempo: nei testi sumerici ci sono poemi bal-bal caratterizzati dal dialogo tra amanti, le tavolette accadiche tramandano inni per le liturgie mesopotamiche della fecondità, entro la poesia amorosa egiziana sono famosi il Papiro Harris 500, il Papiro Chester Beatty I, il Papiro di Torino I, l’Ostakon di Gizah.

 Karamzin è stato un grande scrittore russo, il quale orienta il classicismo in direzione sentimentale anticipando tendenze romantiche, per esempio nel romanzo La povera Lisa, nel quale la protagonista si suicida per amore. Nella letteratura bulgara tra Ottocento e Novecento autori come Todorov e Slavejkov superano le finalità utilitaristiche e le intonazioni patriottiche e in pratica iniziano tendenze romantiche innovando la lingua letteraria bulgara. Norwid, grande scrittore polacco anche se misconosciuto in vita, uno dei primi intellettuali europei a visitare gli USA, teorico della funzione sociale dell’arte, sperimentatore del verso libero, scrive anche poesie d’amore. Invece il maggior rappresentante del Romanticismo ceco è Macha, serbando alcuni motivi patriottici. La piena maturazione della letteratura slovena avviene con il Romanticismo, grazie all’opera del filologo Cop e del poeta Prešeren, maggior esponente della lirica slovena. Il maggior poeta romantico serbo è Radičevic, principale innovatore della lirica, la cui opera segna il passaggio a nuove tematiche e a un nuovo linguaggio poetico.

 Non c’è solo l’amore per i nostri simili, ma anche per gli oggetti di tutti i giorni, che assurge a simbolo della nostra stessa esistenza, pensiamo solo al racconto Il cappotto di Gogol’, nel quale una persona insignificante sogna di possedere un buon cappotto da far risaltare sul lavoro e agli occhi degli amici, è il suo sogno nel cassetto fino a quando si avvera, ma quando lo indossa per ostentarlo qualcuno glielo ruba dal guardaroba. Il protagonista di questo racconto è simile a un Vinto verghiano: l’umile quando sta sul punto di riscattarsi viene di nuovo spinto in basso dal destino. “Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol”, scriverà Dostoevskij. È la metafora di una esistenza piena di speranze e di sogni, di amori e infatuazioni, ma che si risolve in un nulla di fatto, come a dire che l’amore è un’illusione e che alla fine avrà il sopravvento la quotidianità e la banalità.

 L’arte per immagini ha donato volti femminili e maschili bellissimi, dagli artisti greci (le korai e i kouroi di artisti sconosciuti, poi nomi come Fidia, Skopas, Policleto) alle produzioni contemporanee, che hanno spesso annullato i limiti di spazio e tempo. Pensiamo all’arte cinematografica, per la quale è possibile ancora oggi ammirare stando davanti al televisore o al PC o nel bar con lo smartphone tra le mani, una delle attrici più famose per la bravura, Grace Kelly, la cui tempra artistica è stata definita “ghiaccio bollente”. Ci sono registi talmente padroni della macchina da presa che sanno suscitare emozioni nello spettatore anche da una delle scene più difficili da girare, il pranzo con molte persone, dove le voci si accavallano, le inquadrature si sprecano e non è facile far risaltare agli occhi del fruitore l’essenziale. L’arte cinematografica per essere apprezzata a pieno non dovrebbe essere goduta con il doppiaggio, che è come rivestire di un telo una Ferrari, il doppiaggio snatura le qualità dell’attore, quindi chi si vuole formare nello specifico dovrebbe vedere solo gli originali. Anche se la magia di un film in definitiva è data dal montaggio. Il film poi racconta una storia, è sempre una scultura del tempo, il messaggio è sempre fondamentale.

 Per l’arte contemporanea non dimentichiamo poi le installazioni, le performing, le opere digitali, e quelle delle nuove tecnologie. C’è però chi ha criticato il mondo contemporaneo anche sotto l’aspetto dell’industria culturale: con la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte quest’ultima perde il suo valore di universale per assumere quello di particolare, insomma diventa una merce tra le tante, un feticcio buono usato dai ricchi per arricchirsi ancora di più, è il fenomeno che Danto chiama: trasfigurazione estetica del banale, del quotidiano.

 La bellezza artistica, che suscita amore devozionale, ammirazione, imitazione, varia nel mondo. In Occidente l’ideale erotico è una donna snella: 90. 60. 90. In India invece deve essere cicciottella. In Occidente il cane è qualcosa di rassicurante, quindi è visto in maniera positiva, ma nel mondo biblico era segno di maledizione. In India una funzione simile al cane è svolta dall’elefante, quindi nei templi induisti si incontrano spesso raffigurazioni del dio dalla testa di elefante, Ganesha, colui che aiuta, rimuove gli ostacoli ed è benevolo. L’arte indiana ha connotazioni divine, studia attentamente il corpo umano e ha una vivace sensualità. L’epoca classica è il periodo Gupta (IV-V secolo a. C.), in concomitanza con uno sviluppo impressionante di tutta la civiltà indiana. Gli indiani danno un valore diverso al sacro, fortemente connotato di elementi sensuali. Fuori da molti templi induisti, infatti, sono presenti raffigurazioni pornografiche: questo per scoraggiare chi si avvicina al tempio senza avere la vocazione spirituale, per lui sarebbe meglio continuare ad amare il mondo materiale invece di pensare al mondo divino.

 Il buddhismo cinese ha questa singolarità. Il buddhismo nacque in India nel VI secolo a. C. in opposizione all’induismo e venne introdotto in Cina dal I secolo d. C. Nel buddhismo in genere il bodhisattva è colui che si è risvegliato, che ha ottenuto la liberazione, e in genere viene raffigurato come maschio, ma nel buddhismo cinese avviene il passaggio dalla figura maschile a quella femminile e quindi viene identificato con Kuan-Yin, la dea della compassione, che allevia le sofferenze di chi ricorre a lei. Questo cambiamento di forma artistica è molto significativo in una società dove l’ideale della perfezione è rappresentato dal maschio. Le culture e le religioni orientali sono molto sincretistiche. In Giappone, quando fu introdotto il buddhismo, i caratteri dell’autoctono scintoismo si fusero anche artisticamente con quelli della nuova religione. In Corea, la terra del Calmo Mattino, il sincretismo è ancora più accentuato. La Corea non ha mai avuto una religione autoctona, se non forse il culto del capostipite del popolo coreano Tan’gun, ma ha preso dall’esterno miriadi di religioni, culti e dottrine componendoli spesso in maniera fantasiosa, tanto che un occidentale non capirebbe. All’interno delle pitture parietali delle tombe di Koguryo convivono tematiche che si rifanno con molta disinvoltura alla tradizione buddhista e a quella taoista componendo delle magie decorative tra le più illustri dell’Asia antica.

 Addirittura nell’arte islamica si ha il rifiuto delle immagini, come voluto dal Corano: imitare la natura sarebbe un blasfemo tentativo di imitare l’opera di Dio, quindi l’artista musulmano stilizza gli elementi naturali in creazioni quasi astratte, che trasformano e quasi mimetizzano le realtà naturali. Per la stessa ragione il costruttore islamico, per non offendere la bellezza della natura, si serve di materiali umili e facilmente deperibili (mattone crudo, fango pressato, stucco) e nasconde le strutture sotto parati decorativi che tolgono organicità all’insieme. Questo spiega la fortuna straordinaria che ebbero l’arabesco, nato dalla estrema stilizzazione del motivo vegetale, e la calligrafia araba come decorazione nelle moschee.

 Anzi per tutte le religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo, Islam) le immagini sono sospette, se non addirittura distrutte a volte per odio iconoclasta, in quanto esse possono portare alla idolatria. Nell’ebraismo la Bibbia vieta espressamente di farsi immagini di Dio, nel cristianesimo a vicende alterne le immagini sono state o accettate o distrutte, nell’Islam è sempre esistito un odio iconoclasta, anche se non sempre, in quanto moschee e case possono possedere qualche immagine secondaria. Pensiamo alla iconoclastia cristiana nel periodo bizantino. Nell’anno 816 il vescovo di Torino Claudio iniziò a distruggere le immagini cristiane della città, anche la croce, con le proprie mani. Pensiamo poi a quella protestante dopo la Riforma luterana soprattutto in Germania, in Olanda, in Inghilterra per prendere le distanze da Roma.

 L’arte in tutte le sue forme avvicina al Divino e, se esprime l’amore, avvicina ancora di più. Le persone si trovano in scacco in questa esistenza, come dicevano gli esistenzialisti, e cercano una via di salvezza in varie maniere. Simone de Beauvoir diceva che la stupidità rende felici immotivatamente, quindi deve essere combattuta. Questa filosofa esistenzialista si allacciava profondamente al pensiero di Heidegger e soprattutto di Sartre, il quale diceva che il non seno della vita crea uno stato di nausea irrefrenabile e fa stare molto male. Quindi possiamo dire che l’esperienza estetica e l’esperienza amorosa, assieme a quella religiosa, sono le vie più adoperate dagli esseri umani per trovare redenzione, anche se non le sole.

 Ma cosa è l’arte, ma anche la filosofia, se non un atto di amore verso la sfera ideale, spirituale, quindi trascendente e divina, che sta dietro la bellezza e il pensiero sofisticato? L’arte ricerca il bello esteriore, la filosofia il bello interiore. Ma entrambe queste categorie vivono della idea spirituale che occorre amare per realizzare un dipinto o un trattato filosofico. Per fare un’opera d’arte bisogna amarla più della propria vita e più del guadagno!

 La fruizione dell’arte dà senso alla vita, un po’ parafrasando Nietzsche. La filosofia greca antica consisteva nel guarire, era un modo di guarire, come diceva Hadot. Plotino la considerava un modo di scolpire sé stessi: per i greci la scultura era un togliere al blocco di pietra le parti inutili per realizzare la figura, così la filosofia antica consisteva nel togliere dal proprio animo le parti superflue e sbagliate e quindi trovare la via della felicità. Ma non si può fruire dell’arte o servirsi della filosofia senza quell’atto di amore che permette la fruizione. Non si può far entrare in sé qualcosa che non si ama.

 Gli italiani hanno una forte propensione nei riguardi del bello artistico, l’Italia conserva capolavori ammirati da tutto il mondo. Tutti riconoscono che il Rinascimento, che ha inaugurato la modernità, sia stata una elaborazione squisitamente italiana. Il pensiero sistematico, filosofico ma non solo, anche scientifico e altro, per come oggi risulta nel mondo occidentale attuale, deriva dai greci, dai romani e dal medioevo: in questo processo l’Italia ha svolto un ruolo cruciale. A Bologna vi era una importantissima sede degli studi di diritto, che ha fatto da ponte tra il diritto romano e quello attuale. A Salerno una rinomatissima sede degli studi medici, che ha ripreso non solo la scienza occidentale ma anche quella araba. Firenze aveva importantissimi mecenati che assistevano gli artisti e gli studiosi. Venezia per secoli è stata la città della musica, il luogo dei madrigali, e la fama tuttora esistente di Monteverdi dovrebbe dire qualcosa. Il melodramma italiano nasce con Verdi, e il Romanticismo di Verdi non ha nulla da invidiare a quello di Beethoven, Mozart, Schumann, Schubert e a quello tardivo di Wagner, Brahms, Strauss. La musica si associa spesso all’amore e ai forti sentimenti in genere, anche quella più moderna e più “dura”. Pensiamo al fatto che quando le band rock, diciamo hard rock e metal, fanno delle ballate d’amore, delle musiche lente, riscuotono pressoché sempre un successo planetario.

 Se oggi telefoniamo lo dobbiamo alla scienza occidentale, costituita con il metodo sperimentale da Galilei. Così come se subiamo una operazione chirurgica che ci salva la vita magari andando in America con l’aereo.

 Se oggi parliamo di diritti di proprietà lo dobbiamo al diritto romano. Kelsen evidenziava che il diritto concerne comportamenti umani quali eventi percepibili mediante i sensi, poiché si svolgono nel tempo e nello spazio. Il comportamento umano è un frammento di natura e come tale è determinato dalla legge di causalità. Ma ciò che trasforma questo evento in atto giuridico lecito o illecito, non è la sua concreta esistenza naturale bensì il significato attribuito dalla norma giuridica posta dall’autorità. Questa concezione moderna dei fatti, contemplata da tutti i governi occidentali, dipende dalla riflessione del diritto romano. Kant, prima di Kelsen, scriveva che “il Mio giuridico è quello con cui sono legato in modo tale che l’uso che l’altro potrebbe farne senza il mio consenso mi lederebbe. La condizione soggettiva della possibilità dell’uso in generale è il possesso”. Possesso e proprietà non sono la stessa cosa: il possesso di un bene che ne garantisce l’uso può portare a lungo andare alla proprietà (è l’istituto dell’usucapione, Codice Civile italiano art. 1158). Per il diritto romano la proprietà di un bene era assoluta: usque ad sidera, usque ad inferos, “fino al cielo e fino alle profondità del terreno”. E ha condotto, sebbene con qualche modificazione, ai diritti reali che oggi ci sembrano ovvi (diritti soggettivi tipici che conferiscono un potere assoluto e immediato su una cosa). Invece per il diritto barbarico la proprietà era differente, così come per i diritti orientali.

 È vero che la stella polare della cultura mondiale, oggi, non è più l’Occidente, anche se i giornali di qua non ne parlano. Il fulcro del mondo si è spostato nell’Estremo Oriente. Ma, in definitiva, il presente non può non poggiare sul passato, dal quale si evolve per raggiungere il nuovo.

 Tutto questo è frutto di un preciso atto di amore. L’amore verso le idee. L’uomo opera sempre una scelta tra materia e mondo delle idee. Se è possibile fare una operazione in banca con il telefono, è perché ricercatori di tutto il mondo passano i sabato sera non a amare cose materiali, seppur legittime, ma ad amare e servire con spirito di sacrificio il mondo delle idee. Così come se qualcuno fa un bel quadro oppure compone un romanzo del tipo di Guerra e pace, che ancora oggi infiamma chi lo legge. Nel passato i medici e i farmacisti erano erboristi, ma spesso acquistavano delle erbe curative da personaggi che non si facevano scrupolo di ingannarli spacciandole per quelle vere, quindi nelle facoltà di una volta vi erano gli orti botanici, dove il futuro medico o farmacista imparava a conoscere le erbe curative così da non essere ingannato dai truffatori. Gli orti botanici divennero centri di studio e ricerca riguardo l’effetto delle varie piante. Per secoli, prima dell’avvento dei farmaci industriali, della chirurgia di ultima generazione e di altre terapie più efficaci, i medici salvavano la vita delle persone conoscendo le piante, per esempio la belladonna abbassa la febbre. Perché? Perché ci sono stati uomini che hanno sacrificato del tutto o comunque in parte, il loro mondo materiale per amare il mondo delle idee. È dal loro amore nei confronti del mondo spirituale, lo studio, la conoscenza, la ricerca, che possiamo somministrare la morfina a un paziente con infarto del miocardio annullando il dolore, che è uno dei più terribili che esistano, simile a quello della colica renale.

 Esiste sia un amore materiale (carnale) sia un amore spirituale (verso il mondo delle idee: la sublimazione dell’amore carnale, l’amore per l’arte, per la filosofia, per la cultura, per Dio).

 L’amore carnale e quello spirituale hanno un punto di contatto nella tragedia greca e poi, da lì, in tutta la storia della musica. Come? Attraverso l’ebrezza suscitata dal vino. Il vino dà eccitazione, prepara all’incontro sessuale e alla sfrenatezza del ballo, ma, secondo Nietzsche, si fa arte nella nascita della tragedia per poi accompagnare la storia della musica fino ad oggi. Nietzsche in un famoso saggio, tuttavia giudicato da von Wilamowitz non adeguato filologicamente, contrapponeva due divinità greche: Apollo e Dioniso. La prima è il simbolo dell’ordine, mentre Dioniso è il dio della sfrenatezza degli istinti di base, ma al tempo stesso incarna un principio estetico che trova la propria ragion d’essere nella capacità della musica di suscitare l’ebrezza artistica, di far sgorgare il canto a Dioniso sotto la diretta influenza del vino. I ditirambi intonati a Dioniso nel corso delle danze orgiastiche delle menadi e dei coribanti (i sacerdoti di Cibele) erano accompagnati dal suono di tamburi e flauti, strumenti musicali di elezione per guarire le malattie, come ad esempio l’epilessia, o per favorire la catarsi, come notava Dodds. Testimonianze antiche (Archiloco, Platone, Pitagora) ci portano ad affermare che la musica e il vino sono tra loro uniti da almeno tremila anni fino oggi. Ma in tutto il mondo o quasi il vino viene esaltato per le sue qualità. Pensiamo anche al poeta persiano medioevale Omar Khayyam, riconosciuto come il più importante cantore del vino e dei suoi effetti benefici dal punto di vista privato, sociale, filosofico e mistico. La sua opera più celebre sono le Quartine, che dedicò anche ad esaltare il vino.

 Secondo il grande maestro del sufismo iraniano Ruzbehan esiste una unità profondissima tra amore umano e amore divino. Dio, colto nel suo aspetto più esoterico, intimo e segreto, è al contempo l’amore, l’amato e l’amante. Per capire Dio occorre capire l’amore umano, materiale: esso anziché essere un ostacolo, come per esempio insegna lo gnosticismo, è invece qualcosa che porta a Dio. Scriveva questo grande maestro sufi: “Il segreto della divinità (lāhūt) è nell’umanità (nāsūt), senza che la divinità subisca l’alterazione di un’incarnazione. La bellezza della creatura è il riflesso diretto della bellezza divina”. In questo mistico riveste un ruolo fondamentale la figura retorica dell’anfibolia (iltibās), cioè egli passa deliberatamente dal piano materiale delle creature al piano spirituale del Creatore.

 Il denominatore comune di tutti i tipi di amore (materiale e spirituale) è l’uscire fuori da sé verso un oggetto: sensibile o ideale. Quante persone hanno perso la propria vita per un ideale, ritenuto più importante della propria persona? Quanti martiri nella storia di tutte le religioni? A volte anche l’amore carnale fa uscire fuori da sé talmente prepotentemente che, per un amore deluso, si mette in atto il suicidio, come fa Didone.

 Il libro IV dell’Eneide di Virgilio, il più importante poema epico latino, è dedicato a Didone, la mitica prima regina di Cartagine che si innamora di Enea, però poi abbandonata si suicida. In quelle parti del poema nelle quali Didone è protagonista (da protos, “primo”, e agonistes, “lottatore; attore”), cioè è il primo personaggio, viene caratterizzata in maniera diretta, cioè Virgilio direttamente ce la descrive. Dobbiamo però fare attenzione anche all’universo nel quale Didone si evolve, all’ambiente, all’atmosfera nella quale si muove. Gli studiosi hanno trovato delle relazioni significative tra Didone e la sua reggia, Didone e Cartagine, Didone e la navigazione che dalla Fenicia la porta a Cartagine, Didone e la tempesta, il temporale durante il quale si consumerà il primo incontro d’amore con Enea, che è un temporale meteorologico, ma è anche una tempesta dell’anima che segnerà l’inizio di una storia che poi farà registrare un finale funesto, appunto il suicidio; e poi Didone e l’ambiente nel quale viene allestita la pira accanto alla quale questo suicidio si consumerà.

 Per cui l’ambiente nel quale il personaggio si muove concorre alla delineazione del carattere e questa è una strategia che l’epica apprende dal teatro, cioè dal genere drammatico, pensiamo, ad esempio, ad un personaggio che ci è noto in forma ampia attraverso la tragedia sofoclea, cioè a Filottete: egli è un personaggio solitario, intrattabile nella misura in cui per esser stato punto ad un tallone viene abbandonato nell’isola di Lemno da solo, ebbene l’ambiente nel quale si muove sin dall’esordio della tragedia è lo sperone roccioso che è il parallelo più idoneo a descrivere un personaggio isolato all’interno dell’isola e “difficile”, “spigoloso” come lo sperone roccioso che apre la tragedia sofoclea.

 E così i critici studiano Didone anche nel sistema di personaggi all’interno del quale si muove, in rapporto alla sorella Anna e al carattere della sorella e alla funzione che la sorella Anna svolge; in relazione ad un personaggio assente, ma sempre immancabilmente presente ai fini della narrazione, cioè il defunto marito Sicheo, che è stato ucciso dal fratello di Didone Pigmalione il quale ne ha determinato poi la fuoriuscita da Tiro, l’esilio e l’approdo nella terra di Cartagine; e poi soprattutto in rapporto a Enea.

 Questa caratterizzazione può avvenire in una molteplice gamma di modalità, ma certamente il primo indizio a questo scopo è fornito dal suo nome proprio. Spesso in letteratura il nome è importante soprattutto quando è un nome eloquente, cioè portatore di un significato.

 Ebbene la nostra Didone ci è nota attraverso tre nomi: un nome è quello di Theiosso; un altro nome è quello di Elissa che è nome di origine fenicia (il nome fenicio era ῾Allīzāh); e un nome è quello che più comunemente e solitamente usiamo ciò Dido, Didone.

 Colui che per primo ha riflettuto sui tria nomina, è un autore molto antico, Timeo di Tauromenio, il quale ci ha conservato una testimonianza frammentaria: frammento 82 Jacoby. Timeo dice che costei era chiamata in lingua fenicia Elissa e che era sorella di Pigmalione, re di Tiro, da lei – aggiunge – fu fondata Cartagine in Libia, essendole stato infatti ucciso il marito da Pigmalione, imbarcò le ricchezze su navi e fuggì insieme ad alcuni dei concittadini e, dopo aver sofferto molte traversie, approdò in Libia. Dai libici, per il fatto di aver a lungo peregrinato, fu chiamata in lingua indigena Deido. Quindi il nome di Didone, stando alla testimonianza di Timeo di Tauromenio, sarebbe un nome di origine libica, motivato dal fatto che ella aveva fatto un grande giro, una grande peregrinazione.

 Timeo continua così: dopo aver fondato la città sopradetta, poiché il re dei libici voleva sposarla, Didone opponeva un rifiuto, tuttavia costretta dai concittadini finse di dover compiere un rito allo scopo di sciogliersi dai giuramenti, allestita una grandissima pira nei pressi della sua dimora, dopo averla accesa, vi si gettò sopra dall’alto della reggia. Quindi Timeo non parla minimamente di Enea e infatti è testimone di una variante del mito di Didone.

 Vediamo in dettaglio questi nomi. Il nome di Theiosso non è altro che la forma grecizzata del nome Elissa, che ha una radice fenicia, ma l’interpretazione etimologica di questo nome, Elissa, è piuttosto discussa. È correlata, infatti, alla composizione di due parole: la prima parola è El, la seconda è Issa: il nome significherebbe Donna Divinità (ēl 'iššā). Oppure si spiegherebbe anche con: El-Essà, che sarebbe una espressione di valore locativo che farebbe riferimento al fuoco, quindi “nel fuoco”. È preferibile la prima interpretazione e quindi vedere dietro al nome Elissa il riferimento ad una donna divinità. Come fecero i greci stessi: Theiosso, che è la forma grecizzata del nome di Elissa, ha in sé il termine theòs, che indica la divinità.

 Timeo di Tauromenio poi dà una spiegazione anche della parola Dido e riconnette questo termine con la peregrinazione e Virgilio stesso dimostra di essere consapevole di questa matrice etimologica del termine Dido perché talvolta correla il nome Didone con espressioni che hanno a che fare con il suo viaggio da Tiro fino a Cartagine. Il contenuto noetico del “viaggio” serve a indicare anche il carattere lunatico di Didone, cioè di persona instabile, preda di passioni forti e incontrollate che la fanno “viaggiare” per situazioni sconvolgenti, dal pazzo innamoramento al suicidio.

 Come abbiamo detto, Timeo riferisce che il nome Didone sia di matrice libica. Lo possiamo intendere anche se lo correliamo ad una radice semitica che è costituita dal nesso -NDD e che concorre con anche il nesso -DWD che sono radicali correlati all’idea di regalità, ma anche all’idea di un capo che è allo stesso tempo guerriero. E’ appunto da questi radicali di origine semitica che discende un altro nome a noi noto con l’assonanza in D che è il nome di David che appunto è nella Bibbia il capo e re, il capo guerriero, nella misura in cui affronta Golia ed è anche re, nella misura in cui è capo del suo popolo Israele, per cui dietro questa denominazione di Didone come Dido noi non dovremo vedere solo il riferimento alla peregrinazione di questa eroina come dice Timeo di Tauromenio, ma dovremo vedere anche il riferimento al suo essere regina, come proprio Didone è detta all’inizio del IV libro: At regina. Ed è una regina dotata di forza virile che è un dato sul quale insiste molto anche la esegesi virgiliana antica, se noi infatti andiamo a leggere le testimonianze di Servio e di Servio Danielino (la prima ad Eneide 4, 36, ma anche ad Eneide 4, 674; 1, 340; 4, 335) vediamo che Didone viene da loro così interpretata: Dido, id est virago, per cui anche gli esegeti antichi di Virgilio, Servio prima di tutti, stabiliscono l’equazione che abbiamo già lumeggiato parlando della etimologia semitica di questo termine fra Dido e virago (“donna virile”), quindi è Dido nella misura in cui è donna guerriera. E allora noi dovremmo andare a vedere anche quali elementi ci connotano così Didone prima di connotarcela come una eroina elegiaca, innamorata e molto femminile; infatti nel I libro dell’Eneide verrà detta dux femina facti, Didone decide di trasferire il suo popolo da Tiro a Cartagine e si comporta come un dux, come una guida, un condottiero militare.

 In Didone l’amore appare come una passione che porta allo sfacelo di sé e degli altri, tema già presente nell’Ippolito di Euripide, e ancor di più nel personaggio di Medea che per punire Giasone di averla lasciata arriva ad uccidere i figli. Questa dimensione terribile dell’amore la incontriamo anche nella passione tra Abelardo e Eloisa e nel teatro shakespeariano (Romeo e Giulietta, Otello).

 La tragedia Medea di Euripide è impressionante per sentimenti dolorosi e costruita in maniera geniale. Dal v. 38 Euripide prepara magistralmente il figlicidio: introduce una Medea dall’animo violento e che potrebbe fare del male a qualcuno, ma non anticipa direttamente che farà male ai figli, mantenendo le distanze e al tempo stesso preparando delicatamente il finale tragico.

 Vediamo da vicino questi versi. “Ha un animo violento e non tollererà di essere maltrattata; io la conosco e ho timore che lei spinga una spada affilata attraverso il fegato, dopo essere penetrata in silenzio nella stanza dove il loro letto è disteso, oppure che uccida il sovrano (cioè Creonte) e colui che ha contratto le nozze (cioè Giasone) e che poi si procuri una sventura maggiore”. “Animo” è nell’originale greco phrēn, letteralmente “diaframma”. “Ho timore che lei“ è nell’originale greco deimainō te nin, dove nin è al posto di autēn. “Dopo essere penetrata in silenzio nella stanza dove (ina) il loro letto è disteso”: molti editori considerano il verso come interpolato, quindi non lo aggiungono all’edizione; ina non ha senso finale, ma quello originale locativo.

 “È tremenda e chi entri in inimicizia con lei non facilmente potrà riportare il canto della vittoria”. Nell’originale greco abbiamo “certamente (ge) non (outoi) qualcuno (tis) imbattendosi nel suo odio riporterà facilmente (radiōs) il canto della vittoria”, cioè “nessuno riporterà facilmente il canto della vittoria”.

 “Ma ecco i bambini, che hanno finito le loro corse, giungono qui, senza avere affatto coscienza dei mali della madre; un animo giovane non ama soffrire”. “Ma ecco” (all’oide) sarebbe detto oggi la didascalia del dramma scenico. “Corse” (trochōn) potrebbe significare anche “giochi con il cerchio”.

 Pochi versi dopo parla la nutrice: “… per i buoni servi è una disgrazia quando le cose dei padroni vanno male e questo tocca il loro cuore. Io, infatti, sono giunta a tal punto di sofferenza che si insinuò in me il desiderio di venire qui per dire alla terra e al cielo le vicende della mia padrona”. Suggestiva l’immagine del “toccare il cuore” (phrenōn anthaptetai), che è l’immagine figurata del “toccare il diaframma”. Perché la nutrice grida ad alta voce le sofferenze della padrona? Per consolazione (cioè per sfogarsi) oppure, dato che Medea è la discendente del Sole, per dirlo direttamente al Sole affinché questi intervenga.

Fonte immagini: Wikipedia   Bibliografia
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  • D. de Rougemont, L’amore e l’Occidente, Milano 1998.

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 39 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.

Incontri di febbraio – Rita Remagnino

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Riconoscere un nuovo tassello della propria matrice identitaria in particolari destinati all’irrilevanza è un po’ come incontrare l’inaspettato che aspetti da sempre, lo stupefacente che però ha un non so che di famigliare. A me è successo con la regina Piedoca scolpita sul portale del priorato di Saint-Pourçain in Alvernia (oltre che in altre chiese medioevali francesi), dalla cui lunga veste spuntano i piedi palmati come zampe d’oca, o di cigno. Allo scultore piaceva scherzare? I frati avevano bevuto troppo, o sapevano più di quello che avrebbero dovuto sapere? Terra montuosa un tempo ricca di miniere di oro, argento e altri metalli preziosi, l’Alvernia prende il nome dai celti Arverni e vanta un passato storico e culturale di tutto rispetto. Innumerevoli volte le sue montagne hanno protetto le cerimonie dei druidi e ascoltato i loro canti per attirare i cigni (richiami?), che andavano poi a posarsi sui menhir e aspettavano con i sacerdoti il sorgere del sole, come racconta Eliano il Sofista nella sua opera monumentale Sulla natura degli animali. Questi incontri avvenivano per lo più nell’ambito di riti stagionali nati sulla base di un «passato stellare» risalente ad almeno 18mila anni fa, quando il cielo parve schiarirsi leggermente dopo il picco di massima estensione della glaciazione e i gruppi umani in uscita dagli antri sotterranei lungamente abitati al posto della Stella Polare trovarono ad attenderli soltanto oscurità. Misteriosamente, la Stella del Nord era sparita e nessuno sapeva dire dove fosse andata a finire. Fino a quel momento il «punto immobile» aveva rappresentato la vetta del mondo, l’immutabile sede della divinità suprema che interagiva con le creature terrestri, la guida degli itineranti. Adesso, però, quel punto non c’era più. Per fortuna brillavano nello spazio lasciato vacante alcune stelle circumpolari che giravano intorno al Polo Nord celeste (rimasto in prossimità della Via Lattea nel periodo 20.500-13.200 a.C.) e non venivano mai viste tramontare. Una circostanza ritenuta eccezionale, che fece guadagnare ai nuovi barlumi il titolo di «instancabili». Tra essi spiccava la Costellazione del Cigno, governata da Venere secondo la tradizione stellare classica, al cui interno si scorgeva una croce visibilissima, nonostante la luminosità della circostante Via Lattea. Nell’area più scintillante di questo tracciato stellare c’era Deneb, che virtualmente baciava l’orizzonte settentrionale nel punto più basso del suo transito, sul meridiano nord-sud, la linea immaginaria con cui gli astronomi vedevano tagliare in due il cielo. Sessantamila volte più luminosa del sole, ormai era lei la più bella del reame. Il «punto» di riferimento. Motivo per cui col passare del tempo i popoli dell’emisfero settentrionale (in quello meridionale il Cigno non era circumpolare, la sua visibilità era scarsa) la identificarono con la Croce del Nord. Più il buio glaciale arretrava, più quell’inconfutabile evidenza astronomica andava affermandosi come il simbolo della resurrezione spirituale e materiale. I costruttori megalitici la «pietrificarono» in molti siti sacri, perfettamente allineati con la costellazione in volo. Le popolazioni celtiche la consacrarono a Brigid, o Bride, figlia del dio solare Dagda e madrina di quasi tutti gli eroi che ebbero l’incarico di compiere imprese «magiche» altamente rischiose, ovvero che tentarono di entrare nelle oscure profondità dei Mondi Spirituali, uscendone talvolta indenni.

   

Resurrezione

Come molti sciamani del Neolitico la dea Brigid indossava mantelli fatti con le piume candide del cigno, un’usanza condivisa dai «colleghi» americani che si vestivano con mantelli di piume di cigno prima d’intraprendere i loro viaggi oltremondani. Le culture sciamaniche rievocavano così il passaggio vita-morte comprendente l’uscita e il rientro dell’anima da e nel «buco» formato da Deneb nel centro della Via Lattea, virtualmente considerato il nido dell’anima. Le mani della dea parlavano per lei: in una risplendeva il fuoco giallo della Luce (l’Uovo dell’eternità), nell’altra c’era la fiamma rossa (Deneb, il riscatto) senza la quale la stirpe umana non si sarebbe emancipata. Come tutte le Grandi Madri della preistoria anche la divinità nordica era allo stesso tempo buona e cattiva, amava profondamente i suoi figli ma all’occorrenza sapeva punirli in modo esemplare. Per questo la si vede talvolta raffigurata con un volto per metà splendido e per metà orribile; probabilmente un retaggio culturale risalente all’epoca in cui vigeva in Eurasia un sistema sociale di matriarcato agricolo e rurale che conferiva alla donna compiti trasversali come lenire le sofferenze, mettere ordine nel disordine, amministrare la giustizia secondo un piano imperscrutabile ma supremo, e dunque giusto. Emblema della fertilità e della rinascita, della famiglia e del focolare, Brigid veniva onorata dai popoli celtici durante la festa di Imbolc, o Festa della Luce, celebrata il 1° febbraio con un rito collettivo di purificazione. Se non ci fosse stata lei a volteggiare sopra le acque dei laghetti e delle fonti, portando ovunque l’annuncio della primavera imminente, la vita non si sarebbe risvegliata dopo il letargo invernale. Ma grazie al «tocco magico» del suo bastone sciamanico, già all’inizio di febbraio si poteva vedere la luce del sole aumentare lentamente. I bucaneve cominciavano ad apparire facendosi strada coraggiosamente attraverso la terra fredda e dura. Le pecore davano alla luce gli agnelli e il latte che inturgidiva le loro mammelle faceva ben sperare per la nuova stagione in arrivo.

 

Il richiamo

Nonostante la sovranità insita nel nome (Brigid significava «eccelsa», «altezza»), la candida dea di febbraio fu la prima divinità del nuovo corso post-glaciale a scendere dal piedistallo per intonare un lamento funebre dopo la morte del figlio Ruadan. L’allegoria potrebbe rappresentare l’ammissione storica di un sensibile accorciamento della vita media sul finire dell’Era Glaciale, un tema affrontato poeticamente anche nella saga del re sumero Gilgamesh, dove la morte viene indicata come «conseguenza del Diluvio» (Giovanni Pettinato, La saga di Gilgamesh, 1992). Non che prima di allora gli uomini non morissero, perché questo sarebbe stato impossibile, ma forse erano più longevi e resistenti delle generazioni nate in seguito. Allo scopo di radunare il consesso degli dèi, invitato a piangere insieme a lei quella morte prematura, Brigid inventò l’arte del fischio (il richiamo sciamanico per attirare i cigni?) attraverso cui chiamò a raccolta la famiglia divina, che prontamente planò su di lei confortandola con la parola.

Il passaggio merita una riflessione. Gli dèi non seguono il richiamo di questa Grande Madre della preistoria per mero formalismo, né per generosità. Semplicemente sono consapevoli che attraverso il sostegno collettivo fornito dalla vicinanza e dalla parola qualsiasi comunità (umana o divina) sostiene se stessa, dandosi la ragione per esistere che altrimenti non avrebbe.

Come ha sottolineato il filosofo Jürgen Habermas la comunicazione è incontro. L’incontro è dialogo [dal lat. dialŏgus, composto da dià, «attraverso» e logos, «discorso»]. Il dialogo è parola. Qualcosa che si sposta nello spazio, avvicina interlocutori distanti e distinti tra loro, arricchisce le parti prospettando posizioni differenziate. A sua volta la parola è racconto. Il racconto è tradizione. La tradizione è identità. Ha senso rinunciare a formidabili strumenti come questi per calarsi nella realtà piatta e uniforme del Mondo Unico? Vero è che alcune cose non si riescono a dire, perché non tutto il dicibile è contenuto nei pensieri, né nelle cose sensibili. Tuttavia l’impronunciabile può essere trasmesso dall’esperienza, spesso basata sull’esempio, una forma comunicativa non verbale incentrata sull’incontro. Alcuni traguardi non riguardano il cervello, essendo le loro tappe collocate nel mondo ignoto della subcoscienza, la sola capace di «non fare male al vento perché mostra di conoscere il dolore delle cose viventi», tanto per rispolverare una lode contenuta in un antico sutra indiano.

 

Illuminare il buio, spegnere la luce

Signora della Conoscenza, dea della poesia, della divinazione, dell'arte medica e della metallurgia, ispiratrice dei poeti e dei veggenti, Brigid non fu solo una figura poliedrica ma la testimone di un’importante sorellanza primordiale. Tra i nomi principali di questo sodalizio troviamo l’indiana Saraswati e l’egiziana Nut, che apriva la bocca ad ogni Prima Ora della notte per permettere alla barca solare di navigare nelle sue viscere, corrispondenti al Duat, il Regno dei Morti, legato direttamente sia alla Via Lattea che agli uccelli. Virtualmente l’«oscurità uniforme» presente nel corpo di Nut rappresentava il buio (della notte glaciale?) dove tutto ebbe inizio. Anche i Celti credevano che la luce nascesse dal buio, proprio come nello spazio nero si erano materializzati i pianeti e le stelle, nell’oscuro utero materno prendevano forma gli animali, nelle tenebre del sottosuolo i semi attecchivano, nel cunicolo faringeo passava il respiro che dava la vita scandendo il ritmo necessario alla rigenerazione dello spirito. Dal buio alla luce, dalla luce al buio. Il flusso perpetuo che lavava via ogni impurità, rigenerando i processi, garantiva il giusto equilibrio. Questa delicata alchimia veniva rievocata ogni anno dall’Europa celtica nel corso della festa di Imbolc, il «Tempo della Protezione», identificato nel calendario di Coligny con il nome di Anagantios. Similmente i Romani ebbero il loro momento purificatorio nei Lupercales, le cui fiaccolate rituali confluirono poi nella festività cristiana della Candelora, consacrata a un’altra divinità femminile, la Vergine Maria. Per un tempo indefinito nel mese lunare di gennaio-febbraio le famiglie europee rispettarono la tradizione di disporre nelle case dei cerchi formati da tredici candele, il numero annuale delle lunazioni, affidandosi spiritualmente al simbolo della Corona di Luce capace di purificare, proteggere e confortare le persone che si radunavano attorno al focolare domestico. Il suono degli strumenti musicali, del canto e della poesia associato alla proprietà altamente coagulante dell’elemento igneo affinava in ciascuno la capacità di richiamare dal buio gli esseri invisibili della Realtà Spirituale. La comunicazione linguistica faceva da collante e l’adesione tra gli esseri umani raggiungeva alti livelli all’interno della comunità.

   

Contro la paura: il linguaggio

Esce dal buio laringofaringeo anche la voce, e dunque la parola. “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”, esordisce così il vangelo secondo Giovanni, proseguendo sul cammino tracciato dalla candida dea di febbraio tra le montagne e gli altopiani dell’emisfero settentrionale. E’ un peccato che l’uomo contemporaneo abbia rinunciato a un tale patrimonio di cultura per vivere nell’inconsapevolezza del suo passato, e purtroppo anche del presente. Ormai incapace di percepire il farsi e disfarsi dell’invisibile involucro spirituale che lo avvolge egli ha reso se stesso un essere inadatto a coltivare l’arte della parola, incapace di scovare sotto il velo delle apparenze il segreto della profondità delle cose. Dopotutto siamo nel post-umanesimo, era prevedibile che le forme di umanesimo fino a qui conosciute cedessero sotto il peso delle forze disaggreganti messe in campo dal liberismo terminale, che addirittura ha messo sotto accusa la corporeità su scala globale. Un estremo mai toccato in precedenza. Obiettivamente abbiamo avuto tempi migliori. Non è il massimo vivere sotto il fuoco incrociato di forze maligne decise a sbaragliare la comunicazione linguistica per accelerare il processo di atomizzazione della società. Stanno facendo cose inconcepibili per dividere e disperdere le persone, indebolire e impaurire i popoli, impedire qualsiasi contatto interpersonale che implichi l’uso del linguaggio, spezzare la catena di trasmissione della cultura identitaria. Attenderemo la fine senza fare nulla, o troveremo la forza di rifiutare le deviazioni anti-umane incluse in un disegno malato basato sul controllo? In attesa di scoprire l’epilogo di questa brutta storia possiamo agire nel nostro piccolo non tanto per cambiare il mondo, atteso in tempi brevi al capolinea, quanto piuttosto per non consegnare noi stessi alla depressione e alla paura. Attraverso la trasmissione dell’esperienza piccoli gruppi di persone possono uscire in qualsiasi momento dall’«oscurità uniforme» e riprogettare una nuova vita attraverso il linguaggio, che è sempre un ottimo punto di partenza, come ha ampiamente argomentato la ricerca agambeniana.

 

Contro il confinamento: l’incontro

Mammiferi sociali per eccellenza gli esseri umani sono spugne intellettuali ed etiche, nel bene come nel male assorbono inconsciamente le influenze dell’ambiente circostante e hanno bisogno del contatto con i loro simili come dell’aria che respirano. Ne consegue che nonostante le proibizioni e i divieti ci sarà sempre nel mucchio qualcuno che non si rassegnerà all’imbozzolamento domestico, o alle misure di bio-tracciamento volte a privare la specie della sua pericolosa socialità. Le narrazioni ufficiali riguardano la maggioranza, mai la totalità. Non si spiega altrimenti per quale motivo in taluni villaggi anglosassoni si continuino a celebrare tra gennaio e febbraio riti a base di quarzi e cristalli lattiginosi che ricordano l’incessante fluire della Via Lattea. Anche in una regione Nord-Occidentale del Pacifico, sede della tribù dei Yakima, si tiene annualmente la rituale «danza del cigno». Giovani danzatrici agitano sapientemente i loro candidi scialli imitando i movimenti delle mamme-cigno nello svezzamento dei loro piccoli. Dal momento che i cigni non si incontrano nel Pacifico, sembra evidente che il rito non si rifaccia a un soggetto ornitologico reale ma riveli le tracce di remote civilizzazioni. Nella miscredente Europa continentale, troppo sfibrata per pensare e scarsa di memoria, il cosmogonico «mito del cigno» è sopravvissuto nella narrativa fantastica e in alcuni toponimi sparsi sulla carta geografica qua e là, a macchia di leopardo. Deve per esempio il suo nome al cigno bianco il lunghissimo fiume Elbe, che richiamando il disegno della Via Lattea attraversa per oltre mille chilometri l’Europa prima di sfociare nel Mare del Nord. Guarda caso in quei territori si indicano ancora con il termine elb le Fate e gli Elfi, sebbene le parole per dire «cigno» e «fata» siano più o meno le stesse anche in Islanda e in certe zone sperdute della penisola scandinava. Può darsi che il telaio da cui è uscito questo pregevole tessuto sapienziale sia nascosto nel quadrante posto tra Groenlandia, Islanda, Fær Øer e Scandinavia, dove i primi civilizzatori dell’Eurasia occultarono in mondi primordiali attualmente inabissati alcune conoscenze ancestrali. Ma vallo a trovare.

 

Contro la fine: un nuovo inizio

Faremo anche parte di generazioni alienate dalla natura e dalla vita naturale, istupidite dalla competizione sociale e dalla tecnologia, terrorizzate dai contagi e da virus fantasmatici divenuti simboli di morte, ma non subiremo a lungo il furto con scasso dei rapporti sensibili, dell’amicizia e dell’amore, della mimica dei volti, della chimica dei corpi, degli odori che attraggono o respingono. Non c’è vita senza incontro, e nessuno vuole recitare la parte del morto prima di morire. Come possono credere i nostri aguzzini che l’uomo si rassegnerà ad espiare un ergastolo incolpevole da consumarsi agli arresti domiciliari? Sono così stupidi da non considerare che la continua erosione della coesione sociale porterà al deterioramento della salute mentale degli individui? Oppure, sono così folli da pensare di poter sostituire gli uomini con i robot? Possiamo capire che per loro il dialogo sia irrilevante, non contando in questa forma di scambio né il potere né il danaro, solo il logos, ovvero la capacità di dialogare. Ma la cosa in fondo non ci riguarda. Mentre febbraio tinge i germogli di sole e gli alberi si fanno poesia riteniamoci dunque liberi di seguire le orme dei predecessori ponendoci sotto l’ala protettrice di Brigid, promotrice della necessità indifferibile dell’incontro. Nulla di male potrà capitarci se per qualche giorno dimentichiamo i rapporti da remoto e incontriamo gli amici che non vedevamo da tempo. Lontano dal bombardamento delle immagini sarà divertente ritagliare oasi di silenzio in cui radunare i messaggi universali provenienti dal mondo di sopra e poi trasmettere ad altri le nostre esperienze. Prima ancora di essere membro di una comunità e cittadino di uno Stato, l’uomo ha dimora in una lingua, o almeno così è stato prima che le rivoluzioni industriali snaturassero la vita umana cambiando il mondo. Non c’è, né ci sarà in futuro, un aiuto migliore della parola per affrontare il viaggio dall’umidità del buio al tepore della luce. Andata e ritorno. Non serve il biglietto, né il lasciapassare.

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