Quantcast
Channel: Tradizione Archivi - EreticaMente
Viewing all 538 articles
Browse latest View live

La filosofia decadente dell’Ulisse dantesco e i suoi ammonimenti all’uomo moderno – Jari Padoan

$
0
0

I temi più caratteristici e famosi del XXVI canto dell'Inferno dantesco, e i significati che la figura magistrale del suo Ulisse reca con sé, sono in realtà anche i più fraintesi, o almeno quelli la cui comprensione è spesso alquanto approssimata. Notoriamente, questi concetti centrali del canto sono: l'evidente peccato di frode commesso da Ulisse che giustifica la sua presenza nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio (ma è appunto il caso di approfondire per quale frode, in particolare, l'eroe greco si sia assicurato la dannazione eterna); l'altrettanto evidente atto di "superbia" dell'attraversamento delle Colonne d'Ercole; e, in diretta e stretta relazione con tutto ciò, la celeberrima e proverbiale «orazion picciola», questo breve proclama, se non un vero e proprio "manifesto" improvvisato da Ulisse per persuadere i fedeli compagni a lanciarsi oltre il limite estremo del mondo conosciuto, nell'ultima avventura che non avrà il successo sperato. Questi punti, come si vedrà, si rivelano latori di precise questioni etico-filosofiche particolarmente care al Dante poeta e uomo, questioni che si deve tentare di decifrare e approfondire per poter comprendere appieno questo indimenticabile episodio del poema.

È molto importante delineare su quali basi e quali ispirazioni l’Alighieri abbia modellato questa sua personale re-invenzione fantastica non solo della figura di Ulisse, ma anche del contesto al quale questo personaggio archetipico dell’immaginario occidentale è da sempre inestricabilmente legato: il suo viaggio, o meglio la sua navigazione, verso l’ignoto. Consideriamo intanto che è regola costante nell’opera del Dante poeta, e in particolare nello scrittore della Divina Commedia, quella di elaborare le proprie invenzioni poetiche sulla base di una o più auctoritates della tradizione letteraria (nonché, ovviamente, filosofica o religiosa), per poi riservarsi un largo margine di libertà nell’integrare e ricomporre i vari elementi e le varie fonti, in un procedimento del tutto normale e naturale per ogni grande Autore. Notoriamente il codice poetico dantesco va infatti ricercato nei grandi poeti latini come Virgilio, Orazio, Stazio (del quale Dante, oltre a mantenere come opere di riferimento l’Achilleide e la Tebaide, farà un importante personaggio nel Purgatorio) e Ovidio, le cui Metamorfosi rappresentano una inesauribile enciclopedia di mitologia classica e in particolare greca, sulla quale verranno modellate proprio le immagini mitologiche rievocate nella Commedia. Vari studiosi che si sono occupati del XXVI canto (ad esempio il dantista inglese Edward Moore, autore di importanti studi risalenti a inizio Novecento) hanno quindi individuato con un buon margine di probabilità in questi e in altri fondamentali autori le fonti alle quali Dante può avere attinto per la sua personale ricostruzione del personaggio di Ulisse. Ma, risalendo alle lontane origini della questione, è noto che il topos del viaggio del Laerziade attraverso l’Oceano fino ai più remoti confini del mondo è presente già nell’Odissea omerica, e si tratta anzi di un elemento-chiave nella struttura e nella trama del poema: fin dall’apertura del primo libro si sa che l’eroe è ospite da ben sette anni presso Calipso, nella leggendaria isola di Ogigia, ubicata, a quanto si desume, nel mare aperto aldilà dello stretto di Gibilterra e definita come l’«ombelico» o il centro del mare.[I] Ma il fascino della figura di Ulisse, che per la tradizione classica è per antonomasia quella del viaggiatore ai confini del mondo –oltre che del guerriero sagace, astuto e potenzialmente fraudolento, come vedremo tra poco– si radicherà ben oltre la cultura dell’Ellade antica.

Il tema dei viaggi dell’eroe aldilà delle Colonne d’Ercole prima, dopo o invece del ritorno ad Itaca, che in questo modo riconferma il suo essere il grande simbolo dell’esplorazione dell’ignoto, viene infatti ripreso (o meglio, spesso perlopiù accennato, senza in realtà trovare una autentica codificazione attraverso un’opera definita) da numerosi fonti nella letteratura latina, e anzi da alcuni tra i suoi massimi esponenti. Proprio a cominciare dal succitato Ovidio, che rievoca in più punti delle sue opere l’aneddoto di Ulisse che non torna più all’isola natia ma riprende imperterrito le sue peregrinazioni marine, dimostrando ben poco riguardo nei confronti della straziata Penelope.[II] Segue Orazio che, in una sua epistola all'amico Massimo Lollio, non lesina di lodare Ulisse come esemplare figura eroica votata ad esplorare l’inconsueto, ricordando: «Quid virtus et sapientia possit utile proposuit nobis exemplar Ulixen, qui domitor Troiae multorum providus urbes, et mores hominum inspexit latumque per aequor». Oltre al passo oraziano, in cui si nota l’espressione «virtus et sapientia» che non può che ricordare direttamente il «virtute e canoscenza» del canto dantesco, vanno ricordati due passi di Lucio Anneo Seneca. Nell’Epistola LXXXXVIII ad Lucilium, il filosofo accenna a un possibile viaggio di Ulisse «extra notus nobis orbem», mentre nel De constantia sapientis l'eroe viene annoverato tra gli uomini che, in linea con la visione dello stoicismo romano, sopportano con pazienza e fierezza le avversità del Fato ineluttabile. Si ha inoltre un passo nel De finibus di Cicerone molto importante in questo senso, in cui il viaggiare di Ulisse è esaltato e interpretato come manifestazione di una ardente bramosia di scoprire, per la quale egli preferisce le avventure e i pericoli dell’errare per terre e mari anziché «Regnare et Ithacae vivere otiose cum parentibus, cum uxore, cum filio» (e anche in questo caso pare di leggere un evidente e diretto modello per i versi del XXVI canto).

Si potrebbero aggiungere molti altri riferimenti al tema, ad esempio da parte di Plinio il Vecchio, del geografo Giulio Solino e in opere poetiche come le Elegie di Properzio o le Fabulae di Iginio. Nella tarda antichità il tema è accennato nei Saturnalia di Macrobio e nell’opera di Cratete di Mallo, fino a sconfinare nella cultura medievale e in particolare in certe famose compilazioni di poesia epica, nella fattispecie la cosiddetta materia troiana, ripresa in opere come il tardo Historia Destructionis Troiae di Guido delle Colonne, risalente allo stesso XIII secolo che vede la nascita di Dante.

L’altra grande questione che interessa il XXVI canto, si è detto, è quella dell’Ulisse astuto e infido per antonomasia. Nel canone omerico, tra gli eroi tradizionali achei Ulisse è il simbolo della versatilità della mente umana, e dell’ingegno spesso votato all’astuzia fraudolenta; tale immagine è tipica soprattutto dell’Iliade, senza dimenticare celeberrimi episodi dell’Odissea (ma il poema del ritorno riporta comunque l’immagine di un Ulisse più sensibile e umano proprio perché provato dagli anni e dalle esperienze, e il cui principale obiettivo è l’agognato ritorno alla Terra dei Padri). Una figura quindi molto ambigua, in questo modo idealmente contrapposta a quella di Aiace Telamonio, che rappresenta invece l’eroe integerrimo, a sua volta ancora diverso da Achille, personaggio estremamente instabile e problematico (la sua ben nota caratteristica, oltre al massimo valore guerriero, è quella di essere propenso alla μηνιν, l’ira funesta). Uno degli epiteti di Ulisse più ricorrenti nell’epica omerica è quello di «πολιμετις Οδυσσεύς», «Odisseo dai molti accorgimenti» (per esempio in Iliade, III, 200) e il tratto principale attraverso cui il suo ingegno si esprime è quello dell’arte oratoria, della locutio: Ulisse è il guerriero che riesce a volgere le cose a proprio vantaggio con l’arte della parola e della persuasione. In seguito, nell’Eneide, Virgilio traccia un ritratto alquanto negativo dell’eroe itacese, se viene ricordato con la definizione di «scelerumque inventor» (II, 164), in riferimento non solo al celeberrimo inganno del Cavallo di legno, ma all’altrettanto poco encomiabile gesto di sottrarre la statua di Pallade dal tempio sulla rocca di Ilio, sempre con la partecipazione dell’alleato Diomede, in modo da inficiare la protezione divina sulla città. Oppure, in occasione dello scontro tra l’esercito dei Teucri e dei Rutuli in terra latina (IX, 602), il re Turno irride Enea e i suoi uomini affermando che i Rutuli si faranno valere ben più dei contingenti greci a Troia, celebri per il loro Ulisse «ciarliero e mentitore» («non hic Atridae, nec fandi fictor Ulixes»). Anche grazie al massimo poeta epico di Roma e i suoi «alti versi», quindi, la fama di essere stato (tra l’altro) un avversario poco onesto e un infido affabulatore è assicurata al re di Itaca, che non casualmente verrà ritratto da Dante, per la legge del contrappasso, dannato all’interno di una lingua di fuoco.

Avvicinandoci appunto al personaggio che il Poeta colloca in quel di Malebolge, è evidente che non si tratta certo dell’Ulisse stoico, o comunque riflessivo e paziente, che avrebbe voluto Seneca; l’Alighieri lo modella su tratti evidentemente più ispirati a quelli riportati da Cicerone e da Orazio, che restituiscono la proverbiale curiositas di Ulisse, denotandolo come colui che vaga per i mari perlopiù allo scopo di un personale inspicere mores hominum, indagare le usanze degli uomini e dei popoli. È proprio in questo contesto che Dante ascrive l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra, che l’eroe compie in quello che si rivelerebbe il suo definitivo atto di superbia, o meglio, di tracotanza e di mancato rispetto della norma. Nella simbologia mitologica, le Colonne d’Ercole rappresentano notoriamente il preciso limite di azione e di esperienza dal quale, per l’uomo, è ancora possibile il ritorno. Lo stesso Eracle/Ercole, appunto, si è recato per ben due volte, nel corso delle dodici fatiche, nell’estremo occidente dell’Oceano per raggiungere l’Orto delle Esperidi da cui cogliere la mela d’oro e nell’isola Eritea per domare i buoi di Gerione: al ritorno da quest’impresa, le due montagne (il Monte Abila e il Monte Calpe) che l’eroe sposta con la propria forza sovrumana, e pone rispettivamente sulla costa mauritana e su quella iberica, si rivelano così non solo l’ultimo confine del mondo familiare alle culture del Mediterraneo antico, non solo tra noto e ignoto, ma anche tra noto e ciò che non è stato dato conoscere. Essendo Eracle una manifestazione divina (è un semidio figlio di Zeus e della mortale Alcmena), questo limite ultimo indica anche quello tra fas e nefas, «acciò che l’uom più oltre non si metta» (Inferno, XXVI, 109). L’Ulisse di Dante compirebbe così un tipico atto di υβρίϛ, che per la tradizione e la visione del mondo ellenica è forse l’unica grande colpa, manifestabile in varie forme di violenza e scorrettezza (orgoglio, omicidio, incesto, negligenza verso il Divino …), ma sempre riconducibile ad una problematica ben precisa: lo sconsiderato superamento dei limiti imposti all’essere umano dalla natura, e quindi dalla divinità. Fin dalla captatio benevolentiae che Virgilio rivolge alla fiamma bicornuta («…ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi», v.84) si comprende infatti che quello di Ulisse è stato un viaggio destinato alla sconfitta e alla fine (e la scelta da parte del Maestro di chiedere all’eroe greco di raccontare la sua ultima avventura avviene, nella finzione poetica, in modo che Dante stesso possa trarre insegnamento,[III] per i motivi che vedremo). Ma come si lega, quindi, questo atto di “dismisura” intellettuale e pratica al peccato di frode che l’Itacese sta scontando nell’Inferno dantesco? Sono indipendenti, ovvero Ulisse è sì un ben noto fraudolento ed è anche un superbo e un empio verso le leggi divine, oppure vi è una vera e propria connessione?

A questo proposito, si giunge a un punto focale: Dante fa pronunciare al suo Ulisse, nell’orazion picciola, lo stesso identico principio espresso in apertura della Metafisica aristotelica. Se, dal punto di vista poetico-letterario, il modello dell’orazione di Ulisse è probabilmente da ricercare nel discorso che Enea rivolge ai compagni (Aen. I, 202), esortandoli appunto con «O socii…», il contenuto delle parole dell’eroe acheo è una citazione quasi letterale dell’incipit del testo di Aristotele (riportata da Dante anche in apertura del suo Convivio): «Πάντες ᾶνθρωποι τοῡ είδέναι ὀρέϒονται φύσει» («tutti gli uomini per natura tendono al sapere»).[IV] È stato affermato da studiosi come Mario Fubini (1900-1977), e più recentemente Massimo Cacciari, che la chiave per comprendere questa figura dell’Ulisse dell'Inferno, tanto drammatica quanto complessa ed enigmatica, sia non solo considerare questo dato di fatto ma anche in che modo intendere questo “aristotelismo dell’Ulisse dantesco”; si ricordi infatti che Dante non aveva una autentica conoscenza di Omero (se non indiretta, attraverso la moltitudine di riferimenti e citazioni dei grandi autori latini), ma vantava invece un profondo studio dell’opera dello Stagirita.

Per Dante, uomo e intellettuale del basso Medioevo, Aristotele è infatti il paradigma filosofico per definizione,[V] è il «maestro di color che sanno» (Inf., IV, 144) che siede fra la filosofica famiglia nel castello degli Spiriti Magni. Il poeta, naturalmente, non è certo alieno dalle dottrine del platonismo, anzi: l’influenza del pensiero di Platone, nella cultura del Medioevo occidentale, è pressoché ovunque per quanto esso sia filtrato attraverso le studiatissime opere di autori cristiani come Agostino, Boezio, Origene, lo pseudo-Dionigi Aeropagita... Senza contare che accanto alla Patristica e alla stessa Bibbia (il testo che fornisce il bagaglio ideologico di tutto il Medioevo,[VI] secondo Jacques Le Goff) rimane imprescindibile e onnipresente l'importanza dei classici latini di cui sopra, per quanto reinterpretati in chiave cristiana (come lo stesso Virgilio, e si ricordino a questo proposito i riferimenti platonico-pitagorici del VI canto dell’Eneide). Una tradizione ben familiare a Dante il quale, forse, potrebbe avere letto anche il commento al Timeo scritto in latino da Calcidio, testo fondamentale in quanto unica fonte medioevale pressoché completa e diretta sulle dottrine platoniche (ipotesi a cui darebbe adito il riferimento, nel II libro del Convivio dantesco, alle Intelligenze Celesti di cui si argomenta nel Timeo).

Secondo il primo tomo della Metafisica, la particolarità e la caratteristica intrinseca dell’essere umano è quella di venire affascinato dal trauma, dalla meraviglia dell’Essere che lo colpisce nel profondo, e lo spinge a muoversi verso di essa, nel tentativo di conoscere il suddetto. Per il dizionario Rocci, θαυμα è «meraviglia», «prodigio», «miracolo» (ma «anche in senso spaventoso e negativo», accezione che è rimasta nell'uso comune del concetto di trauma; proprio nell’Odissea, appunto, Polifemo «era un mostro orrendo», «θαυμα ετετυχτο πελωριον»). Quindi, è la filosofia stessa a nascere dalla meraviglia (Metafisica, A, 982 b 10) conducendo l’uomo nello stato contrario a quello del suddetto θαυμα, in questo modo superandolo e raggiungendo la condizione che Aristotele definisce ἄμεινον (983 a 18), parola che, come la forma latina amoenus che denota la stessa radice, indica lo splendore del Bene che, in quanto tale, si fa comprendere e amare.[VII] L’intelletto umano, dice il Filosofo, ha per presupposto il sensibile: sempre proseguendo nel primo libro, infatti, si legge che «il percepire è cosa comune a tutti». Subito dopo, però, che «le più rigorose tra le scienze sono quelle che hanno per oggetto le cose prime», ovvero le cosiddette scienze teoretiche: matematica, fisica e metafisica (e quest’ultima ha il suo corrispettivo naturale nel Cielo delle Stelle Fisse, sostiene Dante nel Convivio sulla scia di Aristotele). E le cose prime non sono altro che le cause e i principi dell'Essere in quanto Essere, la cui indagine è la Metafisica, la vera sapienza.[VIII]

È la grande prospettiva filosofico-teologica ripresa dalla cultura del pieno Medioevo, che si riflette tanto nelle monumentali architetture delle cattedrali[IX] quanto in opere come la Summa Theologiae di Tommaso e naturalmente la stessa Commedia: il compimento mistico è la meta da perseguire in alto, alla quale si può giungere soltanto attraverso una complessa struttura che poggia su precise, solide e imprescindibili fondamenta. Seguendo il concetto aristotelico, riadattato per quanto possibile alla temperie religiosa e fideistica cristiana, la teologia è quindi il compimento della metafisica, ma la filosofia, compresa ovviamente tutta la tradizione filosofica precedente e successiva all’avvento del Cristianesimo, non può che rivelarsi, al massimo, una ancilla theologiae (un principio teorizzato fin dal pensiero di Agostino per poi radicalizzarsi secoli dopo nella tradizione scolastica, in particolare grazie a Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino). Una disciplina subalterna, quindi, anzi propedeutica e letteralmente al servizio dell’autentica conoscenza della verità religiosa che spetta alla teologia, la domina scientiae: il raggiungimento della conoscenza dell’Ente Sommo di cui già parlava, appunto, proprio il XII libro della Metafisica aristotelica. Ora, teoricamente, se l’uomo non riesce a raggiungere questa realizzazione nella Conoscenza divina, rimane incompleto e quindi infelice; ma, dice Dante (nel solco di Aristotele e del suo interprete Tommaso), l’intelletto umano, per quanto limitato per sua stessa natura, se applicato in modo equo a ciò a cui può giungere realizza sé stesso in un progressivo susseguirsi di nuovi arrivi e di nuove partenze: la conoscenza umana è un viaggio in itinere. Ogni volta che si acquisisce un nuovo sapere, a quel punto l’uomo che vuole sapere è soddisfatto, ed è, fino alla prossima conoscenza, compiuto.

È all’interno del Convivio, o Convito, che si trova la magistrale argomentazione di Dante su questo tema centrale. Il poeta scrive i primi (e unici) quattro libri del trattato tra il 1304 e il 1307, in un periodo nel quale è ormai da anni in esilio per le terre dell’Italia settentrionale (essendo ideologicamente guelfo bianco, è bandito nel 1301 dalla Firenze in mano ai “neri”); in questo periodo è molto probabilmente a Lucca ospite dei Malaspina e a Treviso presso Gherardo da Camino.[X] L’importanza del Convivio è capitale anche “soltanto” considerando il suo essere praticamente il primo trattato filosofico nell’Europa medievale scritto in fiorentino dopo secoli di latino e greco (un caso al quale sono paragonabili soltanto le opere in volgare catalano di Raimondo Lullo e il Trésor di Brunetto Latini, celebre «maestro» dello stesso Dante ricordato in Inf. XV). Qui Dante sostiene come, considerato che la Teologia sia naturalmente la Domina Scientiae, le altre scienze (o Arti Liberali suddivise nel Trivio e del Quadrivio, canone di origine classica rielaborato nel Medioevo attraverso l’opera di Marziano Capella e di Boezio), nella loro subordinazione gerarchica alla suddetta sono comunque in loro stesse perfette e compiute perché realizzano pienamente il proprio essere, ciò che in termini aristotelici è la loro ηνηργεια. E per quanto riguarda l’intelletto umano, la sua propria ηνηργεια, se applicata correttamente, è proprio quella di conoscere: ogni persona è (o meglio, dovrebbe essere...) ontologicamente portata a realizzarsi attraverso l’intelletto e la conoscenza. Per l’uomo, quindi, vivere «è ragione usare» (Convivio IV, 7).

Ora, l’Ulisse del XXVI canto si comporta (apparentemente) proprio nel modo di cui si argomenta nella Metafisica: colpito, anzi ossessionato dai prodigi dell’Essere, cerca di raggiungere con i suoi mezzi, che sono umani ed empirici, ciò che per lui è il più lontano possibile, almeno dal punto di vista fisico e geografico. Perché, quindi, Dante lo “condanna”? Significativo è anche il dato che la sua orazione venga strutturata, strategicamente, in tre terzine (versi 112-120), e la si può quindi intendere come una terzina-sillogismo di palese impostazione aristotelica:

  1. Tutti gli uomini, per loro stessa natura («semenza»), dovrebbero seguire virtù e conoscenza;
  2. Voi, compagni di Ulisse, siete uomini;
  3. ergo, è il momento di andare oltre le Colonne d’Ercole!

Predicando ciò, e agendo di conseguenza, Ulisse non applica quindi correttamente il proprio intelletto umano, in linea con i più alti principi filosofici della tradizione del Medioevo occidentale, invitando peraltro i compagni a fare altrettanto?

La risposta è negativa. Esaminando i fattori più evidenti, è palese che la ricerca di Ulisse non sia quella di una persona che segue un percorso in itinere, una indagine paziente e progressiva: al contrario, il suo è un «ardore», un furor inarrestabile, quasi, si direbbe oggi, una attività compulsiva. Inoltre, la sua furiosa spedizione esplorativa tra i mari e le terre conosciute («L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna», vv.103-105) è una ricerca, come accennato, che si limita alla sfera del sensibile e dell’empirico, e ciò emerge esplicitamente dall’orazione («…a questa tanto picciola vigilia d’i nostri sensi ch'è del rimanente, non vogliate negar l’esperienza…»): l’Ulisse di Dante limita il mondo, quel mondo che tanto brama conoscere, alla sola sfera materiale dei sensi, ignorando la via del Trascendente che, lascia intendere il Poeta, è la sola che possa dare significato all’esistenza umana.

Si ha quindi una decisiva e abissale differenza tra l’Ulisse omerico (ma in particolare, ovviamente, quello della stessa Odissea) e quello dell’Inferno: se il primo è un eroe del mondo tradizionale che ha un’esperienza del Divino pressoché normale e quotidiana (viene costantemente consigliato da Atena, è perseguitato dall’ira di Poseidone –e il suo equipaggio da quella di Iperione–, conosce l'importanza della prassi del rito e del sacrificio, giunge persino a unirsi con una ninfa), il secondo, quello di Dante, pratica un personale “aristotelismo” puramente fisico, e quindi una filosofia atea. È notevole, infatti, la totale assenza di riferimenti metafisici o religiosi nel lungo monologo-racconto, almeno fino all’arrivo della nave al largo della montagna del Purgatorio, che già appare ad Ulisse «bruna per la distanza», avvolta nelle nebbie e nella lontananza dell’Inconoscibile al comune sentire umano. Estremamente rilevante è anche il fatto che l’Ulisse dantesco, così ardito e risoluto a superare ogni limite, non ponga in discussione i suoi limiti di essere umano e perciò soggetto, per sua stessa essenza, alla finitudine e al transeunte. Il Conosci te stesso, e niente di troppo comandato dal Tempio di Delfi (o l’agostiniano In interiore homine habitat veritas, più familiare al tempo di Dante) è del tutto trascurabile e trascurato da parte dell’eroe: il sé stesso di Ulisse è una curiositas implacabile che ignora o forse sopravvaluta la propria natura umana, seguendo il suo unico imperativo di indagare e comprendere sensibilmente e razionalmente. Ancora una volta a scapito, quindi, di un primo legame tra l’uomo e il Trascendente che inizia appunto dall’indagine della propria interiorità: anche qui un riferimento di Dante, e una negligenza da parte del suo Ulisse, agli insegnamenti di Platone e Aristotele.

Al «folle volo» di Ulisse, lanciato senza compromessi alla scoperta di ciò che è fisicamente esperibile e infine volto ad affrontare l’ignoto assoluto, manca perciò il fine ultimo, quello metafisico, in totale opposizione al viaggio che, nella Commedia, sta invece compiendo Dante. Se entrambi i loro percorsi sono diretti verso il Purgatorio (cosa che peraltro Ulisse ignora), quella di Dante è una strada molto particolare dalla schiavitù del peccato alla libertà, che il poeta intraprende gratia dei (a differenza dell’iniziativa personale di Ulisse) e sotto una precisa e particolare guida (quella di Virgilio, poi di Beatrice e Bernardo), contrariamente all’eroe greco che segue solo la sua curiositas e, al limite, la parziale e insufficiente guida dell’intelletto umano che si limita alla sfera del sensibile e del puramente razionale. E questo è sapientemente simboleggiato dallo stesso ambiente naturale in cui prosegue il «folle» viaggio: la stessa espressione «di retro al Sol» (v. 117) è molto eloquente e altrettanto inquietante, poiché per tradizione l’astro diurno è l’orientamento dell’uomo, la guida «che mena dritto altrui per ogni calle» (Inf., I, 18). Il Sole è allegoria di luce divina e intellettuale, fondamento della conoscibilità delle cose (si pensi, naturalmente, al mito della caverna di Platone, o all’incipit del Vangelo di Giovanni «et lux in tenebris lucet», la luce che è anche il Λόϒος), e Ulisse e i suoi seguono la via del Sole declinante, immagine che già nell’antica cultura egizia era in uso per indicare metaforicamente il trapasso. L’eroe e i compagni si inoltrano nell’«alto mare aperto», ed ecco l’immagine archetipica dell’Oceano come simbolo del grande ignoto: quello che ripropone Dante è un concetto fondamentale della visione sapienziale classica, indicando come oltre il πέρας rappresentato dalle Colonne d’Ercole ci si inoltri nell’απέιρων, il mare senza limiti dove, per definizione, ci si perde, e l’infinito rappresenta in questo caso anche il non-ente che, conseguentemente, non può essere conosciuto: la contraddizione insita nell’impresa è perciò evidente, e la lezione (trascurata) dell’oracolo di Delfi incombe sempre più minacciosa. Ancora, Ulisse racconta della vista delle stelle del cielo australe e fa riferimento al lume della Luna (vv.127-132): come osservato da Daniele Mattalia,[XI] dopo il superamento del limite non si accenna più alla luce solare, e l’atmosfera in cui si svolge la navigazione diviene notturna, il che si può intendere tanto come un’allusione simbolica al tema del viaggio, ossia il mistero, quanto all’idea che la luce-guida solare (Dio) venga inadeguatamente sostituita dalla più debole luce lunare e stellare (la ratio umana, guida valida ma non del tutto sufficiente).[XII]

Non è tutto: vi è un altro aspetto fondamentale per comprendere la portata negativa e pericolosa della filosofia “fraudolenta” propugnata da Ulisse diretto verso l’Oceano ignoto. L’Ulisse dell’Inferno racconta che, sempre ricollegandosi a quanto si narra nel XV libro delle Metamorfosi e dimostrandosi ancora una volta in antitesi all’eroe dell’Odissea, lasciata Circe riprende il mare non certo per tornare ad Itaca ma per «divenir del mondo esperto». In questo modo, sovrappone l’importanza della sua ricerca alla «dolcezza di figlio», «la pièta del vecchio padre» e «’l debito amore» per Penelope, trascurando quella che a Roma è la pietas, ovvero la comprensione, il rispetto e l’obbligazione verso i parenti, nonché verso gli amici, i sodali e il prossimo, e che formava con la fides e la virtus la base dell’etica tradizionale romana: l’opposizione della figura di Ulisse è perciò evidente anche rispetto a quella di Enea, per definizione pius verso la stirpe e la patria (quella originaria, Troia, e quella futura in Italia) in quanto votato, per mandato divino, alla missione civilizzatrice che lo conduce nel Lazio. Ecco quindi come il comportamento di Ulisse si ponga negativamente anche alla luce dell’altro grande tema aristotelico caro a Dante, quello appunto dell’etica (da ἔϑος, cfr. latino suesco, sodalis, soleo, ovvero abitudine, consuetudine, “costume” nel senso più alto: quello che mantiene unito un ordine e una tradizione). Dante, nel secondo trattato del Convivio, ricorda che senza amore è impossibile la pratica della filosofia e quindi la ricerca della verità, riprendendo precisamente le dottrine dell’Etica Nicomachea di Aristotele (che aveva conosciuto nella traduzione latina del medico fiorentino Taddeo Alderotti), opera che a sua volta tramandava gli insegnamenti del suo maestro, in particolare del Fedro e del Simposio. Dante ribadisce in questo modo il primato dell’etica per raggiungere virtute e canoscenza, facendo agire il suo Ulisse in modo specularmente inverso: atto finale di incosciente e sistematica autodistruzione è la stessa «orazion picciola», la frode terminale e totale di Ulisse, la retorica più diabolica con la quale convince i compagni a seguirlo nel folle volo verso ciò che non può essere sensibilmente conosciuto.

I messaggi del XXVI canto dell’Inferno, che Dante ha trasmesso attraverso questa figura immensa nella sua contraddittoria tragicità, non possono quindi che rivelarsi ancora una volta quanto mai attuali, drammaticamente attuali: per l’uomo è possibile una realizzazione attraverso il sapere restando nei limiti consentiti, mantenendo il legame con l’etica, mantenendo il legame con la propria interiorità, senza contraddittori tentativi di vie traverse o equivoche verso il Trascendente. Un Trascendente che, come insegnano le grandi tradizioni, può essere compreso e raggiunto, ma non attraverso certe degenerazioni e devianze culturali, scientistiche e “morali” adottate negli ultimi secoli dalla più arrogante mentalità moderna, la quale è giunta addirittura a negarlo.

Ritrovandosi, in questo modo, «di retro al Sol», e ormai molto lontano oltre le Colonne d’Ercole.   NOTE

[I] Per quanto il fatto che Ulisse «sfrutti il vento di Borea» per riprendere la navigazione da Ogigia lasci intendere invece un’ubicazione geografica ben più “nordica” per l’enigmatica isola. Autori come Plutarco (nel De facie quæ in orbæ Lunaæ apparet) la collocano infatti a cinque giorni di navigazione dalla Britannia; a latitudini altrettanto settentrionali, per quanto approssimate nella deformazione del racconto mitico, veniva situata per tradizione anche la lontana e caliginosa terra dei Cimmeri dove Ulisse si reca su indicazione di Circe per accedere all’Ade, allo scopo di ottenere responsi divinatori dalle ombre dei defunti e in particolare di Tiresia (Odissea, libro XI). All’interno del poema, entrambi gli episodi accennati sono inseriti nel percorso compiuto dall’eroe per tornare ad Itaca e ristabilire l’ordine nella Casa dei Padri, e naturalmente vanno considerate le possibili letture esoteriche dei rispettivi viaggi, che indicano una simbologia iniziatica: le collocazioni iperboree dei due luoghi, il dettaglio che la semidea ospite di Ulisse porti il nome di «Colei che nasconde» e la discesa agli Inferi da cui l’eroe riemerge e continua il viaggio (tema poi ripreso, non certo casualmente, proprio da Virgilio e da Dante) non lasciano dubbi a riguardo. Sull’argomento, si veda ad esempio René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano 1975; Gianfranco Drioli, Iperborea. Ricerca senza fine della Patria perduta, Ritter, Milano 2014; Vito Foschi, L’isola di Ogigia, in Lex Aurea. Libera rivista di formazione esoterica n.52, aprile 2014, p.4 (consultabile presso il sito web www.fuocosacro.com).

[II] Cfr. Ovidio, Ars Amandi, III 355; Amores, III 4; Metamorphoseon Libri XV, XIV 437-438.

[III] Giorgio Padoan, Ulisse «fandi fictor» e le vie della sapienza, in Giorgio Padoan, Il pio Enea e l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Longo Editore, Ravenna 1977, p.191.

[IV] Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2002, Libro A, 1, p.5, traduzione di Giovanni Reale.

[V] La questione è storicamente complessa, in quanto le opere filosofiche e fisiche di Aristotele vengono riscoperte dall’Occidente latino a partire dal XII secolo (in precedenza si conosceva interamente soltanto la Logica), grazie all’opera dei filosofi e commentatori ebraici e soprattutto islamici come Averroè e Avicenna. Le dottrine aristoteliche avranno comunque seri problemi ad essere accettate e interpretate dalla tradizione teologica cattolica (ed islamica, entrambe le quali non potevano che disconoscere concetti, per esempio, come l’eternità e la necessità del mondo, o la tesi dell’unità dell’Intelletto), problemi in parte “risolti” dai grandi maestri della Scolastica come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, peraltro a sua volta influenzato dalle dottrine platoniche esposte dal persiano Avicenna, dopo una iniziale e intransigente opposizione da parte di autori come Alessandro di Hales e Roberto Grossatesta.

[VI] Jacques Le Goff, Prefazione, in Henri-Charles Puech, a cura di, Storia delle religioni, vol.10, Il cristianesimo medievale, Laterza, Bari 1977, p.24.

[VII] Emanuele Severino, Prefazione, in Aristotele, Metafisica, libro I, RCS Libri s.p.a., Milano 2009, p. V. [VIII]Cfr. Aristotele, Metafisica, libro IV, Bompiani, Milano 2000, a cura di Giovanni Reale. [IX] Cfr. Titus Burckhardt, L’arte sacra in Oriente e in Occidente, Rusconi, Milano 1976.

[X] Daniele Mattalia, Cronologia, in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, Rizzoli, Milano 1960, p.54. La prima decade del Trecento, trascorsa da Dante in peregrinazioni presso varie città italiane (nonché, pare, anche a Parigi) nelle quali lui stesso non si è minimamente premurato di lasciare tracce del suo passaggio, rimane a tutt’oggi una parte molto oscura e ben poco ricostruibile della biografia del poeta.

[XI] Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, cit.

[XII] Anche nella tradizione dell’Alchimia occidentale il principio della ragione e della sapienza umana trovi una sua simbolizzazione (tra le varie altre) nell’immagine della Luna, cioè l’astro passivo e mutevole che brilla della luce riflessa del Sole (il quale è invece la stella invece “completa” e virile, in quanto simbolo del regale e del Divino per definizione). A proposito, cfr. Julius Evola, La Tradizione Ermetica, Edizioni Mediterranee, Roma 1971 (III edizione).


Le pinze di Pasqua – Claudio Antonelli (Montreal)

$
0
0

Nel rione di Montréal dove risiedo gli ebrei sono la maggioranza. Ho modo di osservarli, durante Passover, la Pasqua ebraica, mentre a nuclei familiari interi camminano vestiti a festa; le donne abbigliate in una maniera démodée ma quanto aggraziata, che fu di moda forse nella Vienna d’anteguerra, o a Budapest o a Odessa tanti anni fa. Si recano in visita ai parenti, agli amici, oppure escono dalla Sinagoga. Il carattere rituale della loro visita è sottolineato dalla maniera in cui, ogni volta, uno di loro reca un oggetto di culto, un libro di preghiere, uno scialle ricamato o qualche altra cosa dal significato inafferrabile per i miei occhi profani. Gli ebrei commemorano un esodo avvenuto quasi tremila anni fa. Ma essi sono così presenti sulla scena culturale, politica, e dei mass media – specialmente in Nord America – che i loro lontani, mitici avvenimenti riecheggiano continuamente sull’intero pianeta.  

Ma a chi parlerò io del nostro passato?  

Penso a mia madre e al rito domestico che per tutta la sua vita ha sottolineato, ad ogni Pasqua, l’eterno legame con la martoriata Istria: la preparazione della modesta “pinza”, il nostro rustico panettone pasquale, simbolo di un mondo antico per sempre frantumato dalla guerra e dall’esodo. 

Si era fatta vecchia e stanca mia madre. Non voleva neanche più leggere il “Notiziario pisinoto”, che tiene uniti tutti i pisinoti dell’esodo. L’ultima volta aveva declinato di dargli anche un solo sguardo. Si era schermita, dispiaciuta di deludere la mia ansia di sapere chi fosse quel pisinoto di cui era annunciata la morte, o quell’altro, autore di un articolo di rimembranze, e a chi fossero appartenuti i volti in certe vecchie fotografie che il Notiziario pubblicava come testimonianza del nostro lontano, imprescindibile passato. 

“Claudio, mi fa così male guardare indietro, pensare a tutto quello che è successo alla nostra Istria, e a tutti noi, finiti così lontani gli uni dagli altri.”  

Non avevo insistito, perché la capivo. Del resto, a me stesso per tanti anni era mancata la forza di approfondire il passato così doloroso che ci avvolgeva con le sue spire, e che suscitava in me mille domande. A quel passato io pensavo continuamente, ma avevo sempre preferito rinviare al domani certe precise domande che premevano dentro di me, facendomi male. Domande su periodi, persone, episodi, momenti…  

Pisino e i suoi giorni solari e i suoi giorni bui erano sempre presenti in casa nostra. I miei ne parlavano ogni giorno. Pisino e l’Istria tornavano sempre, spontaneamente, come tornano le cose interiorizzate divenute parte ormai dell’anima. Come torna a dei genitori vecchi la vivida memoria del figlio, morto bambino.

[caption id="attachment_53339" align="alignright" width="300"] pinza istriana[/caption]

Io ero il testimone muto di una storia che era riecheggiata un numero infinito di volte in me, e che per un eccesso di sensibilità, e per un senso forse poco comune di lealtà e di fedeltà, era diventata il mio passato. Io ero finito al centro di quella storia, di quella sconfitta, di quell’esodo. Vi ero finito senza alcun autocompiacimento morboso, senza “sensibleries” estetico-letterarie, ma per un dovere innato di fedeltà e di lealtà, simile forse a quello che sanno avere i soldati, figli di soldati, nei confronti della bandiera e dei confini della patria. E dico questo consapevole che sto toccando un tasto che, in Italia, teatro della messinscena, delle belle uniformi e dei toni roboanti, si presta purtroppo alla retorica.  

Con la nascita di mio figlio, avuto in età già matura, mi ero sentito più forte ed avevo cominciato ad approfondire certi aspetti di quel passato che mi aveva sempre posseduto, e che io avevo sempre temuto come cosa con cui bisognava cercare di tenere una minima distanza, per non finire come mio padre, sopraffatto per il resto della vita dal trauma di quei giorni. 

A mio padre avrei voluto chiedere tante cose. Sulla sua vita di economo al convitto Fabio Filzi, su suo padre, orefice, e sui momenti più drammatici della nostra fuga dall’Istria. Sui giorni bui, quando si era tenuto nascosto per non essere preso ed eliminato dai titini. E sui suoi amici infoibati e sulla nostra gente dispersa. Ma mi dicevo: sarà per un’altra volta. Non mi sentivo abbastanza forte per chiarire, in queste memorie di disperazione, i dubbi, e trovare una risposta alle interrogazioni che più premevano in me. 

Mai mi sono sentito abbastanza forte, e mio padre è morto lontano dalla sua Pisino. È morto in un luogo in fondo assurdo: Baie d’Urfé, Québec, Canada. Località bella, sì, ma assurda, com’è assurda una vita trascorsa senza avere più radici, in un paese di cui non si conosce la lingua, tenendo dentro di sé uno spasmodico amore per un luogo perduto per sempre, le cui tenere tinte delle memorie d’infanzia sono commiste ai colori violenti del sangue e della morte. 

“Questa è l’ultima volta che preparo le pinze… Le voglio fare anche quest’anno. Ci vuole tanto lavoro… Ma senza pinze non mi sembrerebbe Pasqua.”  

Io sapevo già che anche questa volta mia madre le avrebbe fatte. Sapevo che le avrebbe preparate fino alla morte, la morte fisica, perché una certa morte era già avvenuta tanti anni prima, con la perdita del bene più caro per la nostra razza di frontiera: il suolo natale. 

Quell’anno mia madre non fece le pinze. E morì nel gennaio successivo. 

Ma chi conosce le nostre pinze? Le nostre povere pinze, senza glamour, che non saranno mai celebrate né da Hollywood né da Cinecittà. Non le conosce neppure mia moglie, nata in Asia, in un villaggio agli antipodi della nostra Pisino. Non le conoscono i miei parenti acquisiti. Non le conoscono né i miei colleghi né i miei conoscenti. Non le conoscono i miei amici. Non le conoscerà mai mio figlio. 

Vedendo quei nuclei di ebrei, da cui emana il profumo delle tradizioni e lo spirito gioioso della festa in cui i bambini sono dei re, io penso all’illusione del globalismo e della mondializzazione… 

Chi, per le vicende della vita, si è spinto oltre i confini di quell’identità che era sancita da riti secolari, feste, ricorrenze, dialetto, piatti tipici, abitudini, si è accorto, con il passare degli anni, di aver perso un tesoro. La sua identità originaria si è rarefatta, trovando posto in una nuova identità, forse più ampia, ma tormentata, più incerta ed incolore. Ed è in fondo ciò che avviene alle cucine “internazionali”, blando riflesso dei sapori delle cucine locali, saporose, senza incertezze, sicure… 

Lo sradicamento è una partenza senza più ritorno. Claudio Antonelli

Il Medioevo e l’Eterno Femminino (I) – Stefano Manza

$
0
0

Se l’antichità classica è il Paradiso, e la modernità è l’Inferno, allora il Medioevo è un Purgatorio rovesciato. Indubbiamente, una visione fatalistica ed eroica della storia non può che condurre a questa conclusione: eppure, essendo che il male, in larga misura, è solo nella mente dell’uomo, ne viene che la vita è un Inferno solo se si sceglie di renderla tale. E dire, come molti estimatori dell’illuminismo, che il Medioevo sia stato proprio il momento di tale scelta infausta è, “se ben si guarda con la mente sana”, un errore madornale. Noi possiamo scegliere di guardare al Medioevo come all’apogeo di una cultura forestiera, intollerante, oscurantista, spiritualmente e moralmente sifilitica (il cristianesimo); o possiamo scegliere, piuttosto, di intravedere cosa sopravvisse, in quel tempo, a tale cultura. Perché ciò che scampò alla distruzione è ancora presente in noi, e anela, come allora, a esplicitarsi.

Voglio essere chiaro: se vediamo il Medioevo dalla prospettiva dei conquistatori, in esso il femminile (e anche la donna) è pressoché irrilevante. Ma se osserviamo la stessa epoca a partire da quei valori sempiterni che i conquistatori non sono riusciti a estirpare, la donna medievale ci apparirà, al contrario, come lo scrigno di essi. Nelle “streghe” medievali resiste lo spirito e la voce appassionata delle Sibille, delle Pitonesse, e delle eroine pagane; di Ipazia e di Tomiri, di Budicca e di Thusnelda, e di mille altre. Non è facile estirpare una pianta che ha radici più profonde di quanto l’occhio non dia a vedere. Specie l’occhio del fideista, che è incrostato.

Un esempio di quanto dico sono la poesia trobadorica e i poemi del ciclo arturiano. In entrambi i casi, si tratta di fenomeni di immensa portata generatisi tutti in area celtica; presso quei Celti che più e meglio di tutti gli altri popoli europei hanno mantenuto intatta e vivida la simbologia dell’Eterno Femminino. E, parallelamente, nelle ricche corti di Champagne sorse in quel tempo la dottrina amorosa di Andrea Cappellano, che tributa alla donna gli stessi onori dovuti al signore feudale.

Nella mitologia gentile, è sempre il maschio a essere mutilato dal contatto col divino femmineo. Attis viene castrato, Anchise diventa zoppo, Atteone viene smembrato, Tiresia viene accecato. Si tratta di una sofferenza che è naturale sbocco del contatto (lecito o meno) con la sacralità femminile. Parimenti, stando a Jean Markale, la pensavano i trovatori: Dio viene smembrato e ucciso per praticare il fin’amor nei confronti della Domina/umanità; così fornendo al poeta provenzale il modello sacrale, mitico e quasi cosmico del suo senso di smembramento davanti a un qualcosa della donna di cui la donna è solo l’involucro. Tutto questo converge poi anche con l’esplosione della devozione mariana in Europa.  Per gli gnostici e i loro epigoni medievali, il Cristo è figlio di Sofia, la Sapienza che ha emanato tutta la Trinità; essa è perciò la vera essenza di Maria. Maria è dunque il Paraclito, per gli gnostici. E finanche tra i ranghi della fede “ortodossa” c’è Paolo che chiama “madre di tutti noi” la Gerusalemme Celeste, mostrandosi anch’egli inconsciamente bramoso di ritrovare un principio femminino nell’arida patrilinearità del cristianesimo. E, c’è da osservare, il concilio che riconobbe Maria come “madre di Dio”, theotokos, fu istituito proprio a Efeso, ove giungevano devoti da tutto l’ecumene elleno-romano per venerare la Grande Madre mediterranea, Artemide…

Segue…   Stefano Manza

La Conoscenza sacra: il pensiero di Tradizione di S. H. Nasr – Giovanni Sessa

$
0
0

Viviamo in un stato di crisi permanente, sostengono alcuni commentatori illuminati. Fin dai primi decenni del secolo XX, del resto, la critica della cultura, aveva indotto, almeno in una sparuta minoranza di intellettuali, la convinzione che il nostro non fosse affatto il migliore dei mondi possibili e che le “sorti progressive” dell’umanità stessero per incontrare un punto di arresto. Solo i pensatori afferenti al pensiero di Tradizione hanno sviluppato uno sguardo sul reale che ha reciso davvero i ponti con la cultura responsabile della decadenza, quella moderna, essenzialmente “orizzontalista”, catagogica, soggettivista e utilitarista. Con il tradizionalismo è necessario confrontarsi, nonostante il pregiudizio ideologico e la rimozione preconcetta, istinti riflessi cui   ricorrono i paladini dell’intellettualmente corretto per sostenere le loro fragili certezze ideologiche, smentite dalla realtà. E’ da poco nelle librerie un volume di Seyyed Hossein Nasr, vero e proprio classico del pensiero di Tradizione, che consente di capire la crucialità del tradizionalismo per le sorti dell’uomo nel nostro tempo. Ci riferiamo a, Conoscenza sacra, pubblicato dalle Edizioni Mediterranee. Il testo è accompagnato dalle prefazione organica e contestualizzante di Giovanni Monastra (per ordini: 06/3235433, ordinipv@edizionimediterranee.net, pp. 381, euro 29,50). Lo studioso iraniano, nato nel 1933, è considerato, lo ricorda il prefatore, come il più importante dottrinario sciita contemporaneo. Dotato di una formazione rigorosa ed interdisciplinare, studiò dapprima al MIT   matematica e fisica per passare, successivamente, all’università di Harvard dove si occupò di geologia e geofisica. In questo frangente, maturò interessi filosofico-religiosi e, seguendo un corso tenuto da de Santillana, l’autore de Il mulino di Amleto, entrò in contatto con le firme più insigni del “tradizionalismo integrale”, in particolare lo colpirono le posizioni di Guénon e Schuon. Sviluppò, pertanto, alla luce di tale eterodosso iter formativo, una posizione teorica equidistante dal relativismo moderno, quanto dall’esclusivismo integralista. Con l’ascesa di Khomeini al potere, infatti, si trasferì definitivamente negli Stati Uniti, dove insegnò alla Washington University.

Uomo dal carattere fermo, ha avuto quale tratto maggiormente caratterizzante, la capacità di comprendere l’altro da sé. Il suo è stato, innanzitutto, un pensiero colloquiante, le cui radici sono, si badi, ben piantate nella Tradizione. Comparativista, conoscitore della scienza moderna e della cultura occidentale, ha colto: «gli aspetti e i risvolti “filosofici” della scienza», rileva Monastra (p. 9). Nel volume che presentiamo, egli è aspro critico della secolarizzazione della cultura moderna: «A causa del flusso discendente del fiume del tempo e delle molteplici rifrazioni e riflessioni della Realtà sugli innumerevoli specchi della manifestazione […] la conoscenza, l’essere […] hanno finito per separarsi» (pp. 17-18). In Conoscenza sacra sono raccolte le lezioni che lo studioso tenne nell’ambito delle Gifford lectures ad Edimburgo. Nel 1981, fu il primo non occidentale ad esservi invitato. Ad esse avevano già preso parte nomi eminenti della scienza e della cultura, in genere, se si prescinde da Roger Scruton, di orientamento laicista. Fu un’occasione che Nasr non si lasciò sfuggire, al fine di presentare a quell’uditorio la Tradizione: «nel senso di verità di origine sacra, divina, atemporale» (p. 10). Lo fece attraverso la descrizione dell’approccio al sacro dell’Induismo, del Buddhismo, del Taoismo, del Cristianesimo, dell’Ebraismo, dell’Islam e dello Zoroastrismo.

 Le religioni positive, diffusesi nel corso del tempo, secondo tale prospettiva, rappresentano i raggi dell’unico Sole, la Tradizione, sono state diverse declinazioni della medesima Realtà, collocata oltre ogni distinzione e determinazione. Il cosmo, sostiene Nasr, è teofania, manifestazione del Principio e, pertanto, è in sé sacro ed inviolabile. Da tale concezione dovrebbe discendere un’ecologia tradizionale, ben diversa da quella meramente utilitarista, conosciuta dalla modernità. Strumento atto a rivelare la Realtà prima è l’intuizione intellettuale. Di essa, Guénon aveva sottolineto il tratto ben più immediato di quello proprio alla percezione sensibile: «perché si pone al di là della distinzione di soggetto ed oggetto […] E’ contemporaneamente il veicolo della conoscenza e la conoscenza stessa» (p. 11). Essa induce l’identità di conoscere ed essere, realizza la metanoia, un radicale cambio di cuore in chi la viva, una trasformazione profonda. Nulla a che vedere, quindi, con la conoscenza profana che, nel migliore dei casi, si riduce a mera erudizione. Nel settimo capitolo, Nasr si confronta con il Cristianesimo, la religione dell’uomo storico che si muove lungo la linea progressiva del tempo. Sulla scorta delle tesi di Mircea Eliade, l’autore ritiene che il Cristianesimo sia indubitabilmente la religione dell’ “uomo decaduto”, la religione dell’Età ultima. Storia e progresso inducono un caduta gnosica implicante l’impossibilità della visione archetipale, che sancisce la circolarità-sfericità del tempo e le sue ripetizioni. L’uomo storico è uomo dimidiato, pertanto individua nel tempo, con le filosofie della storia e nella rivoluzione, la propria Redenzione. Uno dei “segni dei tempi”, della decadenza moderna, prosegue il pensatore, è da individuarsi nel fatto che, perfino negli studi teologici, vige il rifiuto della visione tradizionale  quale strumento atto a cogliere l’ubi consistam delle religioni. Nel nono capitolo, tale rilievo è utilizzato per evidenziare le differenze che dividono l’ecumenismo religioso contemporaneo, fondato essenzialmente sul sentimentalismo: «che tende a portare il confronto tra le parti al di sotto del livello delle “forme” e non al di sopra» (p. 2), ed un possibile ecumenismo tradizionale che, al contrario, guarda oltre le forme, rinviando al Principio.

  Merito maggiore delle pagine di Nasr, che peraltro apprezzò anche il magistero di Evola, come mostra il suo saggio introduttivo a La tradizione ermetica del filosofo romano, è il saper presentare concetti e tesi complesse, con semplicità, chiarezza. Insomma, le sue sono davvero verità segrete esposte in evidenza che mostrano in qual grado il nostro autore abbia realizzato la Conoscenza sacra.

Giovanni Sessa

Il deserto cresce: piantare alberi per un’altra generazione – Roberto Pecchioli

$
0
0

E’ celebre, nel libro quarto di Così parlò Zarathustra di Nietzsche, l’incipit –che è anche la conclusione- del discorso sollecitato dal Viandante- ombra di Zarathustra- rivolto alle figlie del deserto, Duda e Suleika: il deserto cresce, guai a chi in sé cela deserti. Nessun deserto è più arido di quello della morte di Dio e dello Spirito.

 Il tema del deserto è presente in molte tradizioni letterarie. Per Giuseppe Ungaretti, ad esempio, italiano nato e cresciuto in Egitto, il deserto- ai cui margini sorgeva la sua casa di bambino - nella duplice dimensione fisica e spirituale richiama il sentimento del nulla. Per Nietzsche è- tra le altre cose- una metafora di quella cancellazione, di quell’arsura morale di cui fu banditore e vittima.

 Al contrario, gli alberi rappresentano da sempre il senso dell’identità, il radicamento, la volontà di attraversare e trascendere le generazioni, lasciare traccia oltre il breve transito di ciascuna esistenza umana. Perciò il rogo e la distruzione degli alberi- ed il deserto che ne consegue- destano tanta impressione. Il fuoco, nell’immaginario greco, era uno degli elementi dell’ arché, la forza primigenia da cui tutto proviene e a cui tutto è destinato a tornare. Prometeo – “colui che riflette prima” - ruba il fuoco agli dei per offrirlo agli uomini: la vendetta di Zeus è terribile, lo fa incatenare sul più alto del monte e ordina che un’aquila ogni notte gli squarci il petto e gli dilani il fegato.

 La relazione dell’uomo con il fuoco è sempre stata ambivalente: la fiamma scalda ma distrugge, illumina ma lascia dietro di sé rovine e deserti. Pensavamo al mito, al fuoco e al deserto che cresce- materialmente e spiritualmente – osservando le immagini dei roghi che stanno devastando pezzi importanti dell’Italia. Il fuoco distrugge vaste aree boschive e insieme il lavoro dell’uomo, le sue case, le sue coltivazioni, il paesaggio, l’ambiente e la comunità che ha tenacemente, pazientemente costruito con il lavoro di generazioni.

 Nell’immaginario popolare ligure, terra aspra strappata palmo a palmo ai dirupi e agli scogli, i contadini di una volta piantavano ulivi alla nascita di un nuovo membro della comunità.  Il seme prezioso veniva racchiuso nella terra, custodito e innaffiato affinché diventasse patrimonio della generazione successiva. Lunga è infatti la crescita dell’ulivo, lontano il momento in cui darà il suo frutto. Cicerone invitava- significativamente nel De Senectute (La vecchiaia) - a piantare alberi destinati a un’altra generazione. Serit arbores, quae alteri saeclo prosint. Pianta alberi che gioveranno in un altro tempo. Sull’altra sponda del Mediterraneo uguale metafora riguarda il dattero, i cui dolci frutti non assaggerà chi l’ha messo a dimora.

Piantare alberi significa andare oltre, credere nel futuro al di là di se stessi; la continuità nel sangue, nei miti, principi, valori, tradizioni della nostra gente. Idee senza parole, scolpite nel cuore in uno stato di natura e di latenza. Se occorre richiamarle, evocarne la suggestione e la forza, è perché sono in pericolo e se ne è perduto il radicamento. Smarrita la radice, che cosa resta della persona, se non appartiene più ad alcuna comunità naturale, politica o di sentimenti? Questo pensavamo- strana associazione di idee- alle immagini dei roghi che hanno costretto a sgomberare un paese intero- Cinigiano in Maremma- stanno riducendo in cenere il bosco che circonda Isernia, hanno mandato in fumo l’aspra vegetazione del Carso sino alla Slovenia. Il fuoco, il deserto, non conoscono confini, neppure quelli della terra “dura e buona” che Scipio Slataper cantò in scintillante prosa poetica.

“Carso, che sei duro e buono! Non hai riposo, e stai nudo al ghiaccio e all’agosto, mio carso, rotto e affannoso verso una linea di montagne per correre a una meta; ma le montagne si frantumano, la valle si rinchiude, il torrente sparisce nel suolo. Tutta l’acqua s’inabissa nelle tue spaccature; e il lichene secco ingrigia sulla roccia bianca, gli occhi vacillano nell’inferno d’agosto. Ogni suo filo d’erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore ha bevuto l’arsura per aprirsi. Per questo il suo latte è sano e il suo miele odoroso. Disteso sul tuo grembo io sento lontanar nel profondo l’acqua raccolta dai tuoi abissi, una sola acqua, e fresca, che porta la tua giovane salute al mare e alla città.” Radici.

Quanto tempo ci vorrà perché torni quel paesaggio ventoso in cui le acque si inabissano e risorgono più a valle in un prodigio della natura. Anni fa, assistemmo dal finestrino di un treno bloccato per motivi di sicurezza al rogo – che risultò doloso- di una splendida collina dietro la ferrovia, a ridosso della città di Sestri Levante. Impressionante l’azione del fuoco, di un rosso brunito, che inghiottiva in un baleno la macchia mediterranea, le case e gli orti degli uomini. L’odore acre, la polvere e il fumo facevano male al corpo, agli occhi e all’anima, come lo spettacolo della natura che si riprendeva in un attimo quel che era cresciuto sotto lo sguardo attivo delle generazioni.

Giorni dopo, a fiamme spente e a fumo diradato, potemmo osservare il grigio quasi uniforme della montagna pelata. Oggi la natura sta prendendo la sua muta rivincita, aiutata dalla testardaggine degli uomini, ma nella verde collina di ieri prevale ancora un che di brughiera, un colore malsano, quasi innaturale, mentre nuovi alberi crescono. Disse qualcuno che grande è il rumore dell’albero che cade, silenzioso il lavoro della foresta che cresce. Intanto, avanza il deserto dentro e attorno a noi.

Tuttavia non lo sappiamo né vogliamo osservare con gli occhi del cuore. Non distinguiamo più simboli e segnali, viviamo come viandanti casuali che guardano senza vedere. Nell’estate dei roghi e della siccità malediciamo noi stessi perché la narrazione ufficiale attribuisce la responsabilità di tutto – roghi, temperature, scarsità di precipitazioni- all’ azione dell’homo sapiens diventato homo deus in un delirio di onnipotenza parallelo alla volontà di cancellazione della civiltà e dell’eredità. Vi è una parte di verità, ma sorprende la facilità con cui siamo passati dal fatalismo (il freddo e il caldo vengono sempre, ripetevano i nostri vecchi) alla condanna di noi stessi.

Eppure, il simbolo preferito della barbarie è stato sempre il fuoco, mentre il simbolo principe della civiltà è l’acqua. Nell’anno 2022 dell’uomo che si chiamò Dio, figlio di Dio e figlio dell’Uomo, dilaga il fuoco e manca l’acqua. Il seme del contadino ha bisogno di acqua, la vita di uomini e animali è scandita dalla legge dell’acqua. Un sociologo studioso delle civiltà, Karl August Wittfogel, formulò addirittura, ne Il dispotismo orientale, la “teoria idraulica” sulla genesi delle società asiatiche. Le forme di governo e la struttura della proprietà, nello spazio storico che abbraccia la “mezzaluna fertile”, l’India e l’Estremo Oriente, sarebbero state determinate dalla necessità di realizzare opere gigantesche per l’irrigazione e lo sfruttamento del suolo.

Dai tempi più remoti, i popoli meridionali si riunivano in uno spazio aperto che diventava piazza, attorno a una sorgente o a una fontana. I popoli nordici lo facevano attorno al fuoco, la luce. Ciascuno assumeva come simbolo comunitario ciò di cui aveva più necessità e carenza. Quando l’uomo anela a sottrarsi alla barbarie primigenia, scava pozzi, costruisce acquedotti, battezza con acqua i suoi figli. L’ultimo ad affrontare questi temi e restituire vita a questi simboli ancestrali fu il poeta della terra desolata, Thomas S. Eliot. Alcuni componimenti del suo poema hanno per titolo Il sermone del fuoco, La morte per acqua, Cosa disse il tuono.

Un secolo dopo, non sappiamo più vedere né ascoltare; quando l’uomo brama di rigettarsi nella braccia della barbarie – tentazione ricorrente che il tempo nostro sta pericolosamente abbordando- danza attorno al fuoco, brucia la polvere, incendia una montagna. Nella terra bruciata c’è sempre una distruzione, una decostruzione perseguita di civiltà, un arretramento verso la barbarie. Il fuoco acceca e il fumo non fa distinguere cosa da cosa, bene da male.

Nella quotidianità sono insufficienti gli aerei che gettano acqua – la vita, la nemica del deserto- sugli incendi; abbondano le forniture di armi per altri fuochi, quelli dei bombardamenti e delle rovine. Attorno, arde la nostra terra, sfuma il nostro lavoro, il paesaggio e la civiltà. La siccità prosciuga i fiumi e dissecca le sorgenti; il vero dramma non è la mancanza di pioggia, ma l’enorme, colpevole dispersione dell’acqua captata e distribuita, un terzo della quale non raggiunge i rubinetti per perdite, carenza manutentiva e abusivismi più o meno criminali. Un rivolo in più nel gran fiume del degrado del Belpaese, che resta soltanto il nome di un formaggio.

Dismessa la limpida chiarezza dei cieli, ci illumina solo un fuoco d’inferno. Quando un albero brucia, è come il martirio di un parente sull’ altare capovolto della barbarie. Niente come l'albero illustra le aspirazioni di una vita piena: le radici affondate nella terra, il tronco forte e robusto, i rami desiderosi del cielo, i frutti fecondi e saporiti. Tutte le civiltà degne di questo nome hanno visto nell'albero l'asse del mondo. Nella civiltà che abbiamo abiurato il primo Albero della Vita era al centro del Paradiso, il secondo al centro del Calvario e dell'esistenza umana.

Opposta al significato dell'albero come axis mundi c'è la visione barbarica che fa dell'albero un oggetto di adorazione o di avidità. Perfino di basso elettoralismo per ambientalismo con annessa aria condizionata: Berlusconi pone nel programma di governo la piantumazione di un milione di piante all’anno. Bene, ma nel frattempo incendi e siccità ci divorano e le città sono il nuovo habitat dei cinghiali, presto promossi ad animali da compagnia.

Così è nella nostra epoca barbarica, in cui le foreste possono essere adorate da postborghesi di città con pruriti ecologisti che nella loro estatica adorazione le vogliono selvagge, ignari che dove non ci sono capre da pascolare o contadini che ripuliscono il sottobosco avanzante, le foreste finiscono per bruciare come esche di piromani. Così l’adorazione astratta del wilderness alla moda dei signorini con pretese ambientaliste si allea paradossalmente con l'avidità di gente senza scrupoli che vuole la foresta bruciata perché sta cercando di ottenere una riclassificazione dei terreni per costruire case “sostenibili” o per installare un parco eolico sovvenzionato.

 Con le foreste, bruciano anche le discussioni bizantine sul perché degli incendi, utili solo ad alimentare il fuoco di dispute senza fine della clasa discutidora, la fulminante definizione di borghesia di José Donoso Cortés. Azzardiamo un’eresia che forse non è tale: perché le foreste smettano di bruciare, è necessario tornare alla civiltà. Una civiltà che esige che si coltivi e si ami la terra, che ci si radichi in essa come fanno gli alberi. Piantati nella terra, in quella patria concreta che i vandeani controrivoluzionari sentivano viva sotto i piedi, chissà, il fuoco infernale smetterà di illuminarci, l’acqua tornerà a dissetarci e ad irrigare terreni e anime. Pianteremo nuovamente alberi per un’altra generazione: estinzione o rinascita. E’ il tempo della decisione, come sapeva Oswald Spengler: “l’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è il retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue. Idee senza parole “.

Cenni sugli archetipi mitologici delle costellazioni estive – Jari Padoan

$
0
0

Vos, o clarissima mundi lumina, labentes caelo quae ducitis annum... Virgilio, Georgica, I
   

Premettendo che non ricordiamo chi sia l'autore di questo celebre aforisma (ringraziamo in anticipo qualche gentile lettore di EreticaMente se può aiutarci!), qualcuno ha detto che l'uomo prende coscienza della propria finitudine quando si confronta con due cose eterne: il sepolcro e il cielo stellato.

In realtà, ormai, ciò non è affatto scontato in questo «regno della quantità» e del bieco materialismo che ha da tempo preso il sopravvento. Ma non ribadiamo nulla di nuovo affermando che chiunque possieda un minimo di “normale” e tradizionale sensibilità estetica, e magari conservi quel senso di timoroso rispetto verso le meraviglie dell'Essere che è attributo naturale dell'essere umano (quello che per i greci era il sentimento del θαυμα, che porta a indagare la spaventosa bellezza dell'Ente), non può che rimanere profondamente affascinato dall'autentico spettacolo che si presenta ogni notte negli spazi celesti sopra di noi.

Ricordiamo, infatti, che le stelle visibili dalla Terra ad occhio nudo nelle migliori condizioni sono circa 6000; da innumerevoli millenni e millenni, queste stelle hanno accompagnato e guidato l'umanità come meraviglia della natura e manifestazione del Divino, ispirando simbologie e tradizioni mitologiche che ancora oggi parlano al cuore dell'uomo. Perlomeno, ovviamente, si intendono quei mitologemi tramandati dalle culture antiche a noi familiari, come le civiltà classiche/indoeuropee, mesopotamiche, orientali o amerindie: e ciò che emerge a riguardo, nelle suddette tradizioni, non è che il retaggio più “recente” dell'ancestrale rapporto con l'osservazione e lo studio del cosmo, che si perde nelle brume del più remoto passato del genere umano.

Come insegnava Platone e tanti altri maestri («il tempo è immagine mobile dell'Eternità», secondo il Timeo), e come ne era ben consapevole anche il “comune” uomo antico, i cieli accompagnano lo scorrere inesorabile e perfetto del ciclo dell'anno terrestre. Di conseguenza la vita dell'essere umano, almeno secondo le consuetudini tradizionali e ataviche, ha sempre seguito l'ordine naturale nelle quattro stagioni che vedono l'allontanarsi e avvicinarsi del nostro pianeta al Sole, conformandosi ai cambiamenti ciclici e da essi traendo intuizioni e insegnamenti trascendenti secondo il principio di identità cosmica (palesato nelle celebri parole della Tabula Smaragdina: «come in alto, così in basso»).

Abbiamo ormai da tempo superato il 21 giugno, lo scadere del solstizio d'estate che coincide nell'emisfero boreale con la giornata più lunga dell'anno e che sancisce l'impercettibile ma progressivo accorciamento delle ore di luce solare, il punto che per le tradizioni esoteriche occidentali viene definito Ianua Inferi; esattamente all'opposto di ciò che accade al solstizio d'inverno, attorno al 21-22 dicembre, quando la luce riprende il suo lento trionfo e le giornate ricominciano ad allungarsi con l'inizio dell'anno nuovo.[I]

Le costellazioni di cui parleremo saranno quindi tra quelle visibili, nelle cinque direzioni cardinali del cielo boreale, già dagli inizi di luglio intorno alla mezzanotte, che andranno poi incontro a un lento cambiamento fino alle porte dell'equinozio d'autunno, anticipando progressivamente il loro tramonto. Ci limiteremo a considerare le stelle del nostro emisfero, per quanto si vedrà come alcune importanti costellazioni come lo Scorpione o la Vergine, molto estese e molto vicine all'equatore e quindi visibili a varie latitudini, portino inevitabilmente con sé le simbologie tradizionali e mitologiche di popoli tra loro molto lontani, oltre che nel tempo, anche nello spazio geografico.

Notiamo prima di tutto che, se guardiamo verso Nord, le due Orse, il Drago e Cassiopea sono onnipresenti, tanto in estate come negli altri periodi dell'anno. Conosciute da tempi immemorabili, le particolarità e le varie simbologie attribuite a dette costellazioni sono tramandate in testi scientifici come l'Almagesto e il Tetrabiblos di Cludio Tolomeo (Alessandria d'Egitto, II secolo e.v., al quale si deve una tra le prime grandi classificazioni di 48 costellazioni conosciute all'epoca), opere che costituirono autentiche fondamenta per l'astronomia/astrologia tardoantica e poi medievale. Senza considerare, ovviamente, che i riferimenti a tali stelle sono ricorrente nelle grandi opere poetiche e sapienziali più disparate, dalla letteratura babilonese ed egizia fino ai poemi omerici ed esiodei, dai Veda indiani fino alle Georgiche di Virgilio e agli Astronomica di Marco Manilio in epoca romana.[II] Sono infatti le cosiddette costellazioni circumpolari, che nel passaggio di stagione hanno solo cambiato posizione, apparentemente girando su loro stesse (mentre in realtà è l'effetto del ciclo dell'asse terrestre attorno al Polo Nord).

La lunga scia di stelle del Dragone ha curvato la sua “coda” attorno all'Orsa Minore e diretto la “testa” verso lo zenit. Ricordiamo che l'importanza rivestita da Polaris, stella principale di questa costellazione che si trova apparentemente in linea con il Polo Nord terrestre, è tale da poco più di duemila anni: secondo il lunghissimo movimento di oscillazione dell'asse terrestre detto precessione, che si completa in un ciclo di circa 25000 anni (corrispondente, non a caso, al Grande Anno tramandato nelle dottrine platoniche), Polaris ha preso il posto che in un lontano passato era occupato da Thuban o Alpha Draconis, la stella principale del Drago, come riportano fonti dell'Egitto faraonico dove le costellazioni circumpolari visibili erano dette ikhemu-sek ovvero «le indistruttibili»[III].

È ovvio che le simbologie riconducibili alle due Orse, e in particolare alla stella polare come immagine dell'axis mundi, siano letteralmente infinite (per le quali si può rimandare a uno studio basilare come i Simboli della Scienza Sacra di Guénon). Si può ricordare, tra gli esempi più noti, l'importanza simbolica che l'astro rivestiva nella concezione sacrale del mondo e della società umana nella Cina taoista e confuciana, dove era chiamato Tien Ki, la vetta del cielo, e indicava il modello di stabilità del saggio e dell'imperatore, immobile nel fluire dell'universo. Oppure, l'analogia tra la stella e la sua corrispondenza terrestre, l'enigmatico Monte Meru, nella tradizione indiana.

La più celebre simbologia mitologica legata all'Orsa Maggiore, per la cultura classica occidentale, rimane la cacciatrice arcade Callisto mutata in orsa da Era, per punirla della sua unione con Zeus,

mentre per la Tradizione Romana era particolarmente importante l'asterismo delle sette stelle principali, dette popolarmente Grande Carro o i Septem Triones, denominazione che passerà ad indicare il Nord per definizione. Ma gli astri della vasta costellazione rivestono una grande importanza tradizionale anche al di là dell'Atlantico, ed è rilevante come in linea di massima, presso le culture del Nord America, essa assuma la medesima simbologia: quella di un grande Orso Celeste, il quale, secondo le culture algonchine (Cheyenne, Cree, Arapaho), intraprese una grande battaglia con gli altri animali nel tempo del Mito (tra i suoi più acerrimi nemici vi sarebbero stati il pettirosso e il gufo)[IV].

Il fatto di questa effettiva condivisione della simbologia dell'Orsa Maggiore tra Eurasia, regioni artiche e Nord America non può certo sorprendere se si tiene conto dell'antichissima migrazione delle attuali popolazioni amerindie dal Vecchio Continente[V], o di una ancora più lontana provenienza polare che accomunerebbe le culture e le simbologie di questi popoli alle civiltà indoeuropee (e non soltanto a queste)[VI].

È inoltre ben noto come le due Orse hanno funto per millenni come guida e punto di riferimento per i marinai di vari popoli e culture: per il poeta e studioso greco Arato, autore nel III secolo a.e.v. dei Phaenomena (1500 esametri sulle mozioni astronomiche e meteorologiche), l'Orsa Minore era particolarmente osservata dai Greci, mentre la Maggiore, visibile anche da latitudini più meridionali, indicava ai Fenici le rotte nel Mar Rosso e lungo le coste del Nord Africa.

Più in basso sotto il Grande Carro, che rispetto alla sua posizione invernale si è inclinato verso nord-ovest sull'orizzonte occidentale, si vede parte del Leone (in particolare Denebola, una delle stelle principali di questa costellazione assieme a Regolo). Analogamente a costellazioni come il Toro o Orione, le cui rappresentazioni come bovino e guerriero/cacciatore sono pressoché unanimi in numerose culture, il simbolismo animale attribuito a questa costellazione è uno dei più arcaici conosciuti e risale almeno alle culture del Vicino Oriente antico. Tradizionalmente designata come il «domicilio» zodiacale del Sole, la costellazione del Leone veniva infatti correlata in Egitto a divinità come Ra e Sekhmet (o Sachmis, dea leonessa associata alla furia distruttrice e alle epidemie ma anche alla medicina, in una notevole analogia con Apollo), al dio Shamash nella cultura sumera e babilonese, fino ad Apollo, Helios e Mithra nella simbologia astrologica dell'antichità classico-mediterranea, per poi venire attribuita allo stesso Cristo, la cui immagine diviene «Sole» spirituale e intellettuale, Lux Mundi per definizione e quindi rappresentato con caratteristiche regali, guerresche e spesso tipicamente “leonine” (basti pensare all'iconografia del Vangelo di Marco).

Concentrando invece lo sguardo allo zenit, siamo sovrastati dallo splendore del cosiddetto Triangolo Estivo, il principale e più celebre asterismo delle notti d'estate,[VII] costituito da tre celeberrime stelle: Deneb, Altair e Vega.

Deneb o Alpha Cygni, distante dal Sole ben 1800 anni-luce[VIII] e il cui raggio è cinquanta volte superiore a quello della nostra stella, occupa il punto in cui si immagina la coda dell'animale (la testa è invece indicata da Albireo o Beta Cygni). Questa grandiosa costellazione, che rappresenta la forma in cui Zeus si presentò a Leda, regina di Sparta, sovrasta l'Aquila nella quale si nota Altair (una stella in fase di sequenza principale, ovvero a circa metà della sua esistenza, che splende a 16 anni-luce da noi), mentre più in alto vediamo la potente luce di Vega, stella principale della Lira che occupa la posizione più bassa del triangolo, verso l'orizzonte di Sud-Est, e appare come uno degli astri più luminosi del firmamento estivo.

[caption id="attachment_54509" align="alignright" width="239"] Summer triangle and milky way[/caption]

Come è naturale, l'ineffabile bellezza di queste particolari stelle si ritrova nella mitologia e nelle tradizioni di molti popoli in tutto il mondo. Ad esempio, in Giappone, un importante mito vede per protagoniste Vega e Altair, che rappresentano rispettivamente le due divinità tradizionali Orihime e Hitoboshi, innamorate ma divise da un fiume (la Via Lattea), e celebrate nella festa di mezza estate, il Tanabata (a sua volta originata dalla ricorrenza cinese di Qi Xi, nella quale i due mitici personaggi sono chiamati Zhinu e Niulang).

Notoriamente, la mitologia classica ha dato il nome attuale alla costellazione della Lira, non molto estesa o appariscente ma caratterizzata da una stella di prima grandezza come Vega.

Nella visione mitologica greco-romana, si tratta infatti dello strumento prediletto da Orfeo, il grande cantore figlio di Apollo. Gli antichi greci vedevano nella costellazione lo strumento posto tra le stelle dagli Dèi, impietositi dal tragico destino di Orfeo, smembrato dalle Menadi.

Ma se l'anima dell'aedo di Tracia discende agli Inferi ricongiungendosi finalmente con la sua sposa (dove, secondo l'auctoritas di Ovidio: «... qui passeggiano insieme; a volte accanto, a volte lei lo precede e lui la segue; altre volte è Orfeo che cammina davanti, e, ormai senza paura di perderla, si gira indietro a guardare la sua Euridic[IX]), la sua lira non poteva che assurgere tra le stelle.

Questo celeberrimo mito è indicativo per comprendere quanto fosse importante il ruolo rivestito dalla musica nella cultura ellenica, a riprova delle sue valenze autenticamente metafisiche e universali, come sottolineò tra i molti altri Rainer Maria Riilke nei suoi ermetici Sonetti a Orfeo (1922).

Rimanendo nell'ambito del mito classico e delle sue figure più illustri, prendiamo in considerazione un'altra possente costellazione, quella di Ercole, all'apice del cielo meridionale, visibile tra la Lira alla sua sinistra e il semicerchio della Corona Boreale a destra, sovrastante la vasta costellazione dell'Ofiuco o Serpentario. Il grande serpente domato dalle braccia dell'Ofiuco sarebbe Ladone, il drago a guardia del Giardino delle Esperidi, precedentemente sconfitto da Ercole nella sua undicesima fatica alla ricerca delle mele d'oro nell'estremo Occidente.

Proprio ad Ercole, o meglio all'Eracle greco, un mito attribuisce indirettamente la nascita della Via Lattea, ovvero il “piano equatoriale” della nostra galassia (estesa per un raggio di circa 50000 anni-luce, sul quale il nostro sistema solare occupa una posizione pressoché periferica).

L'eroe, ancora poppante, venne posto da Ermes al seno di Era addormentata, e il brusco risveglio della dea avrebbe sparso per i cieli ingenti quantità del suo latte, da cui il nome tradizionale con cui la grande scia siderale è conosciuta in Occidente.

Ben nota a tutti i popoli, le particolarità e le origini mitologiche della Via Lattea variano a seconda delle tradizioni: ad esempio per la cultura norrena non poteva che essere la via percorsa in cielo dalle schiere di Odino, la Wuotanes Weh, in Cina era il Tien Ho, il fiume celeste. Un'immagine familiare anche all'antica cultura araba ed ebraica (nella quale è detta Nahar di Nur, fiume della luce) e diffusa nelle culture del Nord America, dove gli Ottawa la consideravano un grande fiume agitato dai movimenti di una tartaruga stellare[X], mentre gli Abenaki la chiamavano Ket-à-gus-wowt, la Via degli Spiriti[XI].

Nelle migliori condizioni delle notti estive (ovvero osservando un cielo terso da postazioni in aperta campagna o alta montagna), si può ammirare come la Via Lattea attraversi obliquamente il Cigno e l'Aquila, discendendo fino al Sagittario. Quest'ultima, bellissima costellazione estiva per l'antichità classica rappresenta Chirone, il più saggio dei centauri. Figlio di Cronos e della ninfa Filira, Chirone educò non solo Achille, ma anche altri eroi e semidei come Atteone, Peleo e Asclepio, che ereditò la sapienza medica e taumaturgica del centauro. La costellazione è visibile molto bassa sull'orizzonte meridionale, e al suo interno sono osservabili varie nebulose (ovvero enormi masse di gas e polveri stellari, molto luminose e davvero spettacolari al telescopio, che contengono in nuce la formazione di stelle future). Per l'astronomia moderna il Sagittario riveste un'importanza particolare anche perché in questa zona del cielo è stata individuata la direzione in cui si trova il centro della nostra galassia (localizzabile poco oltre la stella principale, Kaus Australis o Epsilon Sagittarii), come evidenzia la luce della grandissima concentrazione di stelle, un punto dal quale il nostro Sole è separato da un abisso cosmico di più di 26000 anni-luce. Una particolarità significativa, se si considera che secondo la simbologia tradizionale il segno zodiacale del Sagittario corrisponderebbe al principio del viaggio inteso come elevazione spirituale, come distacco dall'ordinario attraverso le energie psichiche per raggiungere illuminazioni superiori.[XII]

Sempre sull'orizzonte meridionale appaiono le altre costellazioni dell'eclittica, cioè la cosiddetta fascia zodiacale attraversata dal Sole nel corso dell'anno: a sinistra si hanno l'Acquario, che per i Greci era il giovane Ganimede assunto per volere di Zeus come coppiere dell'Olimpo (secondo altre versioni, invece, si tratta di Deucalione figlio di Prometeo, nell'atto di versare acqua con un'anfora[XIII]), e il Capricorno, singolare figura fantastica di “caprone ittico”. La simbologia di questa costellazione, che nell'astrologia occidentale si considera il domicilio di Saturno (si pensi ai Saturnalia celebrati a Roma nella seconda metà di dicembre), è retaggio di tradizioni molto antiche come quelle mesopotamiche (per i Sumeri era Suhur-Mash, appunto il «pesce-capra»), quella della Persia pre-zoroastriana e la prima cultura Hindu, per la quale l'area del cielo occupata da queste stelle rappresentava la Deva-Yana, la «Porta degli Dèi» che come è noto rivestiva grandissima importanza nelle tradizioni primordiali d'Occidente, data la sua correlazione con il Solstizio d'Inverno.[XIV]

Il Capricorno rappresentava quindi l'attraversamento della Ianua Caeli, quella che secondo la Tradizione Indiana è detta Uttarayana o cammino ascendente del Sole[XV], nel Nord Europa germanico era Yule, a Roma si celebrava come il Dies Natalis Solis Invicti sopravvissuto nel Natale cristiano.

Osservando alla destra del Sagittario si stagliano le stelle principali dello Scorpione, idealmente colpito dalla freccia del centauro per punirlo dell'uccisione del cacciatore Orione. L'osservazione di questa magnifica costellazione è in realtà migliore a latitudini più basse, ad esempio in Africa settentrionale (la simbologia correlata all'insidioso aracnide parrebbe risalire, infatti, alle tradizioni egiziana e sumera). Al centro della vastissima costellazione, di cui sul nostro orizzonte meridionale appare solamente la parte superiore, splende la grandiosa supergigante rossa Antares, o il Cuore dello Scorpione (detta in arabo Calbalacrab), tecnicamente classificata come una stella M1, quindi una delle più fredde, la cui spaventosa massa corrisponde a circa 640 masse solari (!).

Antares, anche soltanto osservata ad occhio nudo, offre un inquietante spettacolo: appare all'estremità meridionale della Via Lattea, e il suo fulgore scarlatto e intermittente la rende una delle stelle più affascinanti, tanto da avere motivato il suo nome greco che la indica letteralmente come la stella che sta «contro Marte», anti-Ares, il pianeta rosso con la quale la stella nel cuore dello Scorpione veniva vista come in “rivalità”.

Chiamato dai Sumeri Gir-Tab («colui che afferra e taglia»), e associato nella mitologia classica al mito di Orione ucciso dalla sua puntura, lo Scorpione è infatti posto agli antipodi rispetto all'altra meravigliosa costellazione che domina i cieli invernali. Ma altri importanti principi tradizionali emergono dalla simbologia zodiacale di queste stelle: correlato alla temporanea morte del Sole nei mesi autunnali e invernali, lo Scorpione indica l'oscuro e doloroso regresso alla dimensione del caos originario, in una necessaria attesa della rinascita primaverile[XVI], il medesimo concetto universale che si ritrova nel principio alchemico della Nigredo o nella simbologia del XIII Arcano dei tarocchi.

Proseguendo verso occidente, si osserva la Bilancia. Si tratta di una costellazione dalle stelle poco appariscenti, ma anche in questo caso la storia della sua simbologia è molto antica.

Associata nella cultura classica alla dea Armonia e agli influssi benefici di Venere e di Saturno, l'immagine della Bilancia stellare pare risalga alla civiltà sumera. In seguito, per molto tempo, le stelle dell'attuale Bilancia vennero però considerate parte dello stesso Scorpione, di cui avrebbero rappresentato le chele (ad esempio nei Catesterismi risalenti al II secolo a.e.v. e attribuiti ad Eratostene di Cirene se ne parla come di un'unica costellazione), e a Roma venne stata reintrodotta da Giulio Cesare nel 46 a.e.v. per motivi calendariali.[XVII]

La Vergine è invece una delle costellazioni più estese ed astronomicamente interessanti (ospita un grande assortimento di galassie), in cui risalta Spica, stella doppia la cui potente luce azzurra la conferma come un astro di prima grandezza.

La simbologia di questa costellazione, se negli ultimi due millenni di cristianesimo è stata ovviamente correlata all'immagine della madre di Cristo, nella cultura classica ricorda il mito della vergine Astrea o Dike, la dea della giustizia dell'Età dell'Oro, figlia di Giove e di Temi e fuggita in cielo inorridita dal caos dell'Età del Ferro (come ricorda il I libro delle Metamorfosi ovidiane): non casualmente, in molte raffigurazioni antiche e medievali la Vergine zodiacale è raffigurata nell'atto di reggere una bilancia, tanto da venire spesso confusa con l'omonimo e successivo segno astrologico.

L'altro e più frequente attributo con cui viene tradizionalmente rappresentata la Vergine, ovvero il fascio di spighe e talvolta un falcetto, rievoca chiaramente gli antichi culti mediterranei della fertilità agricola ai quali viene correlata la costellazione, ad esempio quello di Demetra e sua figlia Persefone e quello di Rea-Cibele, culti che naturalmente risentono di tradizioni ancora più lontane risalenti alla preistoria eurasiatica (con ogni probabilità al Mesolitico e al Neolitico, ovvero a quando l'umanità dell'epoca conobbe un nuovo ciclo di civiltà attraverso la cultura agricola).

Sempre ad atavici archetipi legati all'agricoltura e all'allevamento si ricollega la grande costellazione di Bootes, il Bifolco o il Mandriano, che si nota nella sua forma vagamente romboidale a destra di Ercole e della Corona Borealis (per i Greci il diadema della regina Pasifae, oppure di sua figlia Arianna, scagliato in cielo da Dioniso), in alto sull'orizzonte sudoccidentale, dietro la “coda” dell'Orsa Maggiore.

In Bootes, come si ricorda ad esempio nelle Georgiche virgiliane (I, 229) o nel Libro di Giobbe dell'Antico Testamento (in cui la costellazione è chiamata «le figlie dell'Orsa») risalta la brillantissima luce arancione di Arturo, il «custode delle Orse», in greco αρχτος. Questa stella di prima grandezza rappresenta appunto Arcas, il figlio di Callisto, o, secondo un'altra tradizione, è l'eroe ateniese Eretteo, mitico inventore del carro a quattro cavalli e assunto tra le stelle dopo la morte. Non solo, ma il nome della stella indica simbolici collegamenti anche alla figura di Re Artù e a una provenienza iperborea del leggendario sovrano bretone. Il magnifico splendore di Arturo è dato dal suo essere una gigante rossa giunta quasi al termine della sua esistenza, che contende a Sirio, la “regina” dei cieli invernali, il primato di stella più luminosa del cielo terrestre (considerando anche Canopo e Alpha Centauri, stelle visibili solo al di sotto del nostro orizzonte).

Nel cielo settentrionale si ammirano invece costellazioni associate tra loro dal medesimo ciclo mitologico, quello dell'eroe Perseo, ovvero Andromeda, Cefeo e Cassiopea (o Cassiopeia), oltre appunto a quella dello stesso Perseo immaginato nell'atto di sollevare la testa decollata della Medusa. Tra queste ultime due, si estende la vasta costellazione di Pegaso, il magnifico cavallo alato nato dal sangue della Medusa (evidentemente, una simbologia ermetica stante a indicare la risalita dopo una discesa iniziatica per affrontare le forze oscure, rappresentate dalla Gorgone).

Come nel caso di Orione, del Toro o dello Scorpione, anche la costellazione di Andromeda (nella quale è visibile la grandiosa e lontanissima galassia M31, o più comunemente Galassia di Andromeda) condivide la medesima simbologia in culture disparate. La costellazione porta il nome greco della principessa etiope, figlia di Cefeo e Cassiopea, incatenata allo scoglio per essere sacrificata al mostro marino prima dell'intervento eroico di Perseo; immagine condivisa dalla tradizione astronomica araba, che ha dato il nome alle sue stelle più brillanti: Alamak, «la donna in catene», Mirach, i «fianchi della donna», e Sirrah, ovviamente «testa muliebre».

Perseo, che in inverno possiamo rimirare allo zenit, si affaccia ora bassa sull'orizzonte settentrionale, e ci offre una delle stelle visivamente più interessanti cioè Algol (detta anche Testa della Medusa o Stella del Demonio), che è una cosiddetta variabile a eclissi, un sistema stellare doppio di cui si può notare lo strano effetto “intermittente”: la stella si affievolisce, fino quasi a scomparire, in media ogni due giorni. Algol, con la sua luminosità anomala, nelle tradizioni astrologiche è stata considerata per secoli un astro dalle influenze decisamente nefaste.

Proprio Perseo ci ricorda l'evento principale e ricorrente di agosto ovvero il passaggio delle Perseidi, il nutrito e luminoso “sciame” di meteore che solcano i cieli tra il 10 e il 13 del mese, così chiamate proprio perché individuabili nella regione del cielo apparentemente vicina alla costellazione. Impossibile, in questa occasione, non rievocare il commovente inno di X Agosto di Giovanni Pascoli. Il breve componimento risale a tempi storici relativamente recenti, ma la sua potenza elegiaca e drammatica è la stessa dei grandi autori antichi, oggi come duemila o diecimila anni fa posti di fronte al mistero trascendente dei cieli stellati.

  Jari Padoan   NOTE [I]Cfr. René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano 1975, p.66 e segg. ; anche Sergio Antonio laghi, Le porte del sole porte della vita. Le feste solstiziali, in Luce e Ombra vol. 114, gennaio-marzo 2014. [II]Cfr. Jim Tester, Storia dell'astrologia occidentale, Edizioni Culturali Internazionali, Genova 1990. [III]Guy Rachet, Dizionario dell'Antico Egitto, Newton & Compton, Roma 1998, edizione italiana a cura di Boris de Rachelwitz, p.68. [IV]Colin Taylor, Miti degli Indiani del Nord America, Idealibri / Rusconi, Milano 1995, p.78. [V] Secondo la teoria dell'attraversamento dello stretto di Bering, sostenuta da Caleb Vance Haynes nel 1964, che colloca l'evento verso la fine dell’ultima e lunghissima glaciazione di Würm, avvenuta tra circa 110 mila anni fa e 12 mila anni fa (ndA). [VI]Questione di cui si sono notoriamente occupati, tra gli altri, Bala Gandhara Tilak (1856-1920), Herman Wirth (1885-1981) e Julius Evola (1898-1974) (ndA). [VII] Viene detto asterismo un gruppo di stelle particolarmente appariscenti e idealmente unite all'interno di una stessa costellazione (ad esempio le tre stelle della cintura di Orione o le Pleiadi visibili nel Toro), oppure appartenenti a costellazioni diverse come nel caso del Triangolo Estivo (ndA). [VIII] Ricordiamo che con l'unità di misura nota come anno-luce, utilizzata per calcolare distanze astronomiche, si intende la distanza percorsa da un fotone in assenza di gravità nel corso di un anno giuliano. In parole povere, il percorso che si potrebbe attraversare alla velocità della luce in un anno, corrispondente all'incirca a più di nove trilioni di chilometri (ndA). [IX]Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Libro XI, Einaudi, Torino 1979, p. 429, traduzione di Piero Bernardini Marzolla. [X] Bruno Martinis, L'origine del cosmo, Newton & Compton, Roma 1995, p.51. [XI] Colin Taylor, cit., p.83. [XII]Matilde Battistini, Astrologia, magia, alchimia, Electa, Milano 2004, p. 56. [XIII]Mario Rigutti, Atlante del cielo, Giunti, Firenze 1997, p.48. [XIV] Almeno fino all'ultima precessione degli equinozi, che ha “scalato” ogni costellazione zodiacale, più o meno, nei gradi di quella successiva: pertanto, attualmente, nel Solstizio d'Inverno il Sole appare congiunto in Sagittario, nell'Equinozio di Primavera in Pesci ecc. Si tratta di un dato di fatto propugnato dai vari “scientisti” contemporanei come prova inconfutabile dell'inconsistenza delle corrispondenze astrologiche (come se l'astrologia, un tempo disciplina iniziatica poi decaduta in forme triviali ed effimere, potesse essere ancora oggi seriamente praticabile!), che nulla toglie agli insegnamenti simbolici assegnati all'iconografia delle costellazioni zodiacali nel corso delle trascorse epoche della storia umana (ndA). [XV]René Guénon, cit. [XVI]Matilde Battistini, op.cit., p.54. [XVII] Ibid., p.52.

La regalità sacra. Universalità e antichità del re sacro – Walter Venchiarutti

$
0
0

Il potere politico, con valenza di monarchia sacrale, un tempo basato sui presupposti delle virtù divine è oggi passato di mano. È però ancora possibile reperire nelle democrazie, fondate sul dogma del numero, i sopravvissuti relitti di questa istituzione ormai ridotta a parodia; li possiamo trovare camuffati dalla materialità degli ideali, nascosti sotto le spoglie del sentimentalismo umanitario verso gli emarginati quando pervengono ammantati da escatologia salvifica.

Nell’Occidente europeo in un lontano passato medioevale è stata viva la credenza secondo cui il potere sovraumano, in particolare quello taumaturgico, sarebbe derivato direttamente al potere sovrano da interferenze soprannaturali. Tale convinzione, ricca di secolari testimonianze, è stata riscontrata presso il regno dei primi Capetingi e nell’Inghilterra normanna. In Francia era riconosciuta ufficialmente, grazie al conferimento liturgico che avveniva attraverso i riti dell’unzione e dell’incoronazione regale da parte del potere religioso. L’attribuzione di questa prerogativa si verificava ufficialmente con la trasmissione dal padre al figlio primogenito, designato ad ereditare il trono. La legittimazione dei re-santi, titolari della prerogativa risanatrice, riguardava la diffusa convinzione secondo cui un malato di scrofola, di epilessia o soggetto a dolori muscolari poteva guarire grazie all’imposizione delle mani da parte del monarca, in base alla nota formula: “Le roi te touche Dieu te guerit”. Tale investitura prevedeva il tocco regale ai malati, accompagnato dal segno della croce. I grandi monarchi in base a questo potere tradizionale godevano fama d’esser prodigiosi guaritori, personaggi sacri, tutori della salute della società

.

Anche la struttura teocratica delle prime società africane vede al vertice la figura del re divino.

Come il faraone anche questo re è il mediatore tra le forze cosmiche e il popolo ed è considerato egli stesso di essenza divina. Riunisce nelle sue mani il sacro ed il profano ed è al tempo stesso sommo sacerdote e supremo legislatore. Il suo potere è assoluto, ma soltanto entro i confini della sua funzione sociale. Egli è responsabile di fronte al popolo del benessere collettivo che deve assicurare e mantenere costante con appositi rituali” (B. De Rachewiltz, Eros nero,1963).

Frazer cita la figura legata alle funzioni sacre regale e divina, entrambe presenti nel re del bosco, nel re sacrificale a Roma e nel magistrato chiamato re ad Atene. Archetipi che ricorrono frequentemente “al di fuori dei limiti dell’antichità classica e sono comuni alle società di ogni grado, dalla barbarie alla civiltà… così nelle foreste della Cambogia vi sono due misteriosi sovrani chiamati re del fuoco e re dell’acqua” (J.G. Frazer, Il ramo d’oro, Vol. I, 1965, p.169). Nella poesia Tamil “ l’omaggio al sovrano e l’adorazione del dio si confondono, i bardi lodano i re nelle stesse forme con cui esaltano le divinità del suolo[1]( E. Zolla, Le tre vie, 1995).

 “Le grandi culture dell’antichità che si svilupparono al tempo della cosiddetta rivoluzione urbana – Mesopotania, Egitto, Cina – erano società stabili governate da ‘Re sacri’. Così gli stati agricoli dell’America Centrale e Meridionale degli Aztechi e degli Inca erano organizzati come monarchie sacre e società alla stregua degli stati dell’Africa, dell’Europa e dell’Asia mantennero queste realtà per millenni” (Enciclopedia delle religioni, diretta da Mircea Eliade, Vol. I, Oggetto e modalità della credenza religiosa, Milano, 1993).

L’epilogo di questa istituzione in Occidente ha trovato riscontro nel XVIII° sec., durante la rivoluzione francese, con la decapitazione del “cittadino” Luigi XVI°. Successivamente la saga della regalità sacrale si è definitivamente conclusa con lo sterminio dell’intera famiglia di San Nicola II° Romanov, imperatore e martire. Nel passato deliberatamente non era mai stata cancellata la suddetta prerogativa e la dignità dei sovrani, anche se alcuni avevano trovato la morte in battaglia o erano stati assassinati, era portata avanti nel prosieguo della stirpe o con la sostituzione della dinastia avversa.

La figura del re sacro oltre ad essere antichissima e universale ha sempre assunto, pur in forme diverse, la funzione di salvaguardia e garanzia del benessere sociale. In particolare la regalità divina riguardante l’area africana si riconnette al potere del sacro quale attributo legato alla fertilità della terra. Ab immemorabili il re diventa uomo-Dio, incarna il nume in quanto le sue prerogative permettono cura e protezione alla comunità di appartenenza. Questa difesa può essere d’ordine sanitario oppure, nel caso degli Ascianti della Costa d’Avorio, si esplica nella salvaguardia dei raccolti, garantendo così la sottomissione delle forze naturali quali: l’arrivo della pioggia necessaria e favorevole o allontanando la grandine e le esondazioni, l’intervento del fuoco amico e contemporaneamente la sua sottomissione contro il pericolo di incendi.

Presso gli Abron che fanno parte del gruppo Akan residente sempre nell’Africa Occidentale, il re rappresenta il principio stesso della vita (M. Lunghi, Gli Abron della Costa d’Avorio, Milano 1984). Anche per questo non si esprime mai a parola. Una straordinaria energia gli deriva dall’Essere Supremo attraverso una trasmissione diretta. Il capo, in qualità di padre terreno è rappresentante dell’intera comunità tribale e passa a sua volta questa forza vitale a tutti i membri delle tribù. Per questo popolo la sacralità del capo è presupposto stesso della vita. Il re riceve i doni di prolifica fecondità da Dio. Durante la festa degli ignami (tuberi amidacei che hanno il ruolo di prodotto principale nell’alimentazione) il sovrano, con il dominio sulle quattro famiglie in cui è divisa la comunità, si rivolge ai rispettivi punti cardinali con altrettanti inchini, ringrazia l’essere supremo e gli antenati per aver consesso d’esser tramite della continuazione vitale che a sua volta si manifesta attraverso l’elargizione del raccolto abbondante. I simulacri degli antenati, gli antichi predecessori, sono presenti in chiesa a guisa di tutori e occupano il posto dei santi. La funzione del re è quella di interloquire con la divinità, ricevere i poteri, trasmettere i messaggi e le volontà celesti, provvedere alla distribuzione del raccolto i cui frutti pervengono direttamente dall’Essere Supremo.

Le delegittimazioni dell’istituto monarchico già riscontrate sono avvenute in base ad un processo storico che ha visto il diffondersi della laicità dei costumi e la razionalità del pensiero, questi sviluppi si sono manifestati sia in governi democratici o autoritari. In entrambi i casi queste nuove tendenze, inizialmente appoggiate da un consenso maggioritario, non sempre hanno saputo essere all’altezza nel rispettare e rendere praticabili gli impegni presi. All’ingenuità, alla forza bruta e alla corruzione oggi si è aggiunto il raffinato soft del sistema informativo. Questa opzione indolore oggi è attiva e praticata su vasta scala. Il lavaggio dei cervelli concorre più della forza bruta a infiacchire e seppellire le poche e stentate voci del dissenso. Il risultato conseguito è ottenuto drogando le coscienze degli utenti.

 

Nei casi storici europei e in quelli africani, secondo diverse modalità, la mistica del re si è esplicata nei miti dei guaritori e nei riti di fertilità che hanno concorso alla salvaguarda profilattica e a quella alimentare delle comunità. Aneddoti superficialmente considerati secondari di fatti sociali (la malattia, il raccolto) diventano pietre d’angolo per individuare l’universalità su cui poggia la giustificata costituzionalità del potere poiché difendere, amministrare e proteggere una comunità garantire l’applicazione delle leggi e giudizi super parte è il primo passo verso la legittimazione.

Pur con diverse modalità la regalità sacra dai re francesi a quella dei capi africani veniva incontro a problematiche di ordine alimentare o sanitario atte a supplire le necessità primarie di una collettività. Tali funzioni trovavano risoluzione nei riti di riconoscimento. Questi processi storici di aiuto hanno continuato ad evolversi. In certi casi si è passati dal re sacro in quanto divinità, al re sacerdote, quest’ultimo mediatore - portavoce delle entità supreme ma non per questo considerato Dio e per continuum ai nostri giorni li vediamo riflessi nei compiti attribuiti e sostenuti dall’icona dell’esperto ambientalista, ultimo conoscitore, detentore e divulgatore delle verità ultime, deputato alla salvezza dell’ambiente e quindi dell’umanità, investito di una vera o presunta pretesa unzione finalizzata alla difesa planetaria.

HPL poeta politico: una guida tascabile (4^ parte) – Francesco G. Manetti

$
0
0

Riprendiamo il nostro “discorso” sulla poesia politica di H. P. Lovecraft, trattando stavolta il solo anno 1916, caratterizzato ancora dall’andamento della guerra in Europa e dal sentimento “britannico” del Sognatore di Providence.

[caption id="attachment_55626" align="alignnone" width="495"] Lovecraft nel 1916[/caption]

4^ parte – 1916

23. An American to Mother England (Un Americano alla madre Inghilterra), 1916

Accorata ode a quella che HPL sentiva – per vincolo di sangue ancestrale e di razza - come la propria, vera madrepatria: l’Inghilterra, alla quale rende, in tempo di guerra, questo “tributo” (secondo S.T. Joshi, che considera la poesia davvero terribile nella sua imponente biografia I am Providence). Gli Stati Uniti d’America (Columbia) dovevano tutto all’isola originaria: alla sua forza di dominatrice del mondo, ai suoi figli costruttori, alle sue arti, al suo diritto legislativo. Lovecraft sogna un’era futura in cui l’America e la Gran Bretagna (rappresentata con pennellate di realismo paesaggistico) potranno essere nuovamente unite e si lamenta dell’imbarbarimento razziale del suo paese natio.

Whilst nameless multitudes upon our shore

From the dim corners of creation pour,

Whilst mongrel slaves crawl hither to partake

Of Saxon liberty they could not make,

From such an alien crew in grief I turn,

And for the mother’s voice of Britain burn.

England! Can aught remove the cherish’d chain

That binds my spirit to thy blest domain?

Can Revolution’s bitter precepts sway

The soul that must the ties of race obey?

Create a new Columbia if ye will;

The flesh that forms me is Britannic still!

(Mentre innominate moltitudini sulla nostra sponda

Dai più oscuri angoli della Creazione si riversano,

Mentre gli schiavi meticci strisciano fin qui per godere

Delle libertà di matrice sassone che loro non potevano darsi,

Da una tale aliena marmaglia nel dolore mi allontano,

E ardo di sentire la voce della Madre Gran Bretagna.

Inghilterra! Esiste qualcosa capace di spezzare la preziosa catena

Che lega il mio spirito al tuo benedetto dominio?

Possono gli amari precetti della Rivoluzione ammorbare

L'anima a cui devono obbedire i vincoli di razza?

Crea una nuova Columbia se vuoi;

La carne di cui sono fatto è ancora britannica!)

Lovecraft aveva allegato la poesia in dattiloscritto in una lettera indirizzata nel giugno 1916 a John Thomas Dunn, un suo corrispondente e collega nella stampa amatoriale, abitante nella stessa Providence; nella missiva Lovecraft dichiarava che era il momento di scendere in campo al fianco della Gran Bretagna, di rinunciare ai sentimenti anti-inglesi e alla neutralità; i due avrebbero in seguito litigato perché Dunn, di origini irlandesi, si sarebbe rifiutato di rispondere alla chiamata alle armi; fu per questo condannato e scontò qualche anno in galera. Nella lettera HPL rivelava che An American to Mother England era già stata pubblicata in Inghilterra (a gennaio); secondo lo scrittore la poesia illustra i motivi che mi costringono a stare dalla parte del Re e del Paese dei miei antenati.

24. The bookstall (La bancarella dei libri), 1916

Secondo S.T. Joshi (in I am Providence) la poesia è una delle migliori che HPL dedicò al suo primo grande amore, il libro. Lovecraft, scrive S. T. Joshi, usa questo poema per citare alcuni dei libri più curiosi della sua biblioteca. In essa Lovecraft rinnega i tempi moderni e si rifugia in giorni più nobili:

Say, waking Muse, where ages best unfold

And tales of times forgotten most are told;

Where weary pedants, dryer than the dust,

Like some lov’d incense scent their letter’d must;

Where crumbling tomes upon the groaning shelves

Cast their lost centuries about ourselves.

(Dimmi, o Musa che si risveglia, dove le ere meglio si dispiegano

E i racconti dei tempi andati meglio vengono narrati;

Dove i parti letterari di stanchi eruditi, ormai più asciutti della polvere,

Profumano come un certo amato aroma d’incenso;

Dove vecchi volumi che si sgretolano su scaffali scricchiolanti,

Scaricano sulle nostre spalle i loro secoli perduti.)

25. Lines on Gen. Robert Edward Lee (Versi sul Gen. Robert Edward Lee), 1916

Introdotta non a caso da una classica citazione di Marco Anneo Lucano dal Bellum Civile (Se la fama si ottiene con il merito, e se la virtù è considerata di per sé e al di fuori del successo, allora tutto ciò che lodiamo nei nostri antenati è dovuto alla fortuna) la poesia intende esaltare la figura del generale Lee (1807 – 1870), il maggiore condottiero degli Stati Confederati del Sud durante la Guerra di Secessione americana. I versi iniziano con un riferimento alla Prima Guerra Mondiale – mettendo così in parallelo lo scontro in atto nel 1916 fra nazioni sorelle in Europa e lo scontro fratricida tra Nordisti e Sudisti avvenuto solo cinquanta anni prima in America:

[caption id="attachment_55630" align="alignnone" width="345"] Il Generale Lee[/caption]

Whilst martial echoes o’er the wave resound,

And Europe’s gore incarnadines the ground;

Today no foreign hero we bemoan,

But count the glowing virtues of our own!

(Mentre eco marziali risuonano attraverso l’Oceano

E il sangue di Europa tinge di rosso il suolo;

Oggi non commemoriamo nessun eroe straniero

Ma vogliamo esaltare le splendide virtù dei nostri!)

Il generale Lee di Lovecraft non è un semplice soldato della Confederazione, ma assurge a guida militare di tutta la razza sassone e di tutti gli americani bianchi, i quali, pur essendo di comuni origini di sangue, si affrontarono e si massacrarono nella Guerra Civile. Lee non è un traditore – dice HPL – ma un esempio anche per il Nord. Le sue azioni valorose non devono appartenere solo al Sud, non devono essere cantate solo nelle ballate del Sud, ma...

To all our Saxon strain as well belong.

(Appartengono a tutto il ceppo sassone.)

26. The Beauties of Peace (Le meraviglie della pace), 1916

I versi pacifisti A Prayer for Peace and Justice, scritti dal religiosissimo poeta dilettante Henry Thomas e pubblicati sul “Providence Evening News” del 23 giugno 1916 scatenarono le ire di HPL, notoriamente interventista. Thomas considerava una vergogna che gli USA si preparassero a intervenire in guerra (senza citare “quale” guerra) e Lovecraft affila le armi della polemica e della satira considerando che Thomas si riferisse sia alla guerra in Europa, sia a Pancho Villa che a marzo e a maggio del 1916 aveva invaso il New Mexico e il Texas in risposta al riconoscimento degli USA del suo nemico Venustiano Carranza come Presidente del Messico. Wilson inviò contro Villa 10.000 uomini guidati dal generale Pershing e dal suo braccio destro Patton e furono utilizzati persino aerei da combattimento; Villa riuscì a sfuggire. Abbiamo visto che HPL mal sopportava il rivoluzionario Villa, avendogli dedicato versi molto pungenti già nel 1914; in questo poema del 1916 lo definisce senza mezzi termini un mongrel (ovvero un incrocio, un bastardo).

[caption id="attachment_55631" align="alignnone" width="625"] Il Presidente messicano Carranza[/caption]

Let blood-mad Villa drench the Texan plain;

Let sly Carranza ev’ry right profane;

The savage hordes a cordial hand extend,

And great th’ invader as a welcome friend:

What tho’ he slew your brothers yesternight?

We must be pious – and ‘tis wrong to fight!

While friends and kinsmen perish in the strife,

Tis ours to arbitrate them back to life!

(Lasciamo che il pazzo sanguinario Villa compia macelli nelle praterie del Texas;

Lasciamo che il vile Carranza profani ogni diritto;

Tendiamo la mano alle orde selvagge,

E salutiamo l’invasore come un amico benvenuto:

Che importa se l’altra notte ha massacrato i tuoi fratelli?

Dobbiamo essere pii – ed è sbagliato combattere!

Mentre gli amici e i parenti periscono in battaglia,

Possiamo riportarli in vita grazie alla mediazione!)

27. Ad Balneum, 1916

Curiosissima satira dedicata al little sea, il “piccolo mare”, ovvero la… vasca da bagno! Lovecraft traccia una sorta di storia epico-mitologica di questo immancabile strumento di civiltà e di igiene quotidiana, tanto che fuori dalla civiltà stessa vengono messe al bando quelle “etnie” che la vasca non amano usare:

Blest be thy waves, by no rude breezes blown,

To Britons sacred, and to Jews unknown!

(Siano benedette le tue onde, mai sferzate da gelidi venti,

Sacre ai Britanni, e sconosciute agli Ebrei!)

Come spiega S.T. Joshi in The Ancient Track e nella boiografia I Am Providence, HPL, con questo poema intendeva sbeffeggiare i poeti moderni e i talora infimi soggetti dei loro versi (p.e. gli arredi in porcellana di un gabinetto).

28. Brumalia, 1916

Ode dedicata da HPL alle antiche feste latine del solstizio invernale. In una nota che Lovecraft scrisse a proposito di questa poesia (pubblicata sulla rivista Tryout) spiegava al pubblico americano le origini pagane e solari della festività cristiana del Natale.

[caption id="attachment_55632" align="alignnone" width="625"] I Brumalia[/caption]

In altre poesie del periodo, non del tutto ascrivibili al “filone politico”, HPL ritorna comunque sulla nostalgia per i “bei tempi andati”, per un passato tradizionale, per il "bell'inglese" in letteratura, per le origini britanniche (etnico-razziali) e per le ancora più lontane origini (letterarie e artistiche) greco-romane: è questo, per esempio, il caso di Content (introdotta da un’epigrafe in latino, da Orazio, e con citazioni dai Canti di Ossian), di The Smile, di The Rose of England, di The Poe-t’s Nightmare, etc.


Il kali-yuga dell’arte – Roberto Pecchioli

$
0
0

Secondo la dottrina dei testi sacri Indù, la nostra è un’epoca (yuga) oscura (kali) caratterizzata da innumerevoli conflitti e da un profondo decadimento spirituale. Il concetto del tempo ciclico, tipico della Tradizione, è difficile da capire per una civiltà “lineare”, convinta che il progresso materiale – il regno della quantità di René Guénon – sia l’unico destino dell’uomo. Nella Ginestra o il fiore del deserto, lirica estrema di Giacomo Leopardi, c’è la beffarda inserzione di un mediocre verso di Terenzio Mamiani, consegnato all’immortalità dallo scherno del poeta dell’Infinito, diventato luogo comune: “dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive”.

Il tempo che ci è toccato in sorte è un doloroso, decadente, interminabile (almeno con il criterio temporale dell’esistenza umana) kali-yuga, un evo oscuro che la quantità di mezzi – diventati fini – e la capacità dell’uomo di penetrare molti segreti fisici della natura non riscatta; rende anzi più tormentosa la constatazione del degrado crescente, il cui moto tende all’accelerazione. Un passo dei Visnu Purana, uno dei testi in cui sono narrate l’origine, la manifestazione e la distruzione del cosmo, le divisioni temporali e le quattro ere (varna) del ciclo cosmico, così descrive il kali-yuga.

“Saranno Re di spirito frivolo, con violento temperamento, e sempre dipendenti dalla menzogna e dalla malvagità. Essi infliggeranno la morte a donne, bambini e mucche; si impadroniranno della proprietà dei loro sudditi. […] Le loro vite saranno brevi, i loro desideri insaziabili, e mostreranno poca pietà. […] Allora la proprietà sola conferirà rango; la ricchezza sarà l’unica fonte di devozione; la passione sarà l’unico vincolo di unione fra i sessi; la menzogna sarà l’unico mezzo di successo nelle dispute; e le donne saranno oggetti semplicemente di gratificazione sensuale. La Terra sarà venerata ma solo per i suoi tesori minerali; […] la debolezza sarà la causa della dipendenza; la minaccia e la presunzione sostituiranno l’apprendimento; […] l’accordo reciproco sarà il matrimonio”.

Uno degli ambiti in cui l’oscurità dei tempi si manifesta in maniera plateale è la decadenza delle arti, specchio della volontà di eccellenza, del desiderio di creare e onorare la bellezza, di lasciare traccia della nostra presenza, oltrepassando il tempo, la materia, la caducità. Le arti sono rappresentano la tensione dell’uomo all’ eternità, alla trascendenza, alla perfezione. La bellezza e la proiezione nel tempo sono stati sempre gli obiettivi dell’arte, espressi da ciascun popolo e civiltà. E’ celeberrima l’esclamazione romantica del principe Myskin, l’”idiota” di Dostoevskij, per cui la bellezza salverà il mondo. Non sappiamo se sia vero, né è facile definire il concetto stesso di bellezza, ma è certo che la bruttezza distrugge il mondo, penetrando nella vita quotidiana per sfigurarla, proponendo modelli negativi o addirittura nessun modello. Pensiamo alla sporcizia delle nostre città, ai graffiti e alle innumerevoli scritte, macchie, graffiti che le deturpano, agli edifici senz’anima, ai “nonluoghi” che punteggiano il paesaggio urbano e i simboli concreti della modernità, stazioni, aeroporti, centri commerciali, svincoli, capannoni.

Le arti figurative degradano nell’esclusione o nella deformazione della figura umana, della natura e dei sentimenti; la musica si trasforma in frastuono elettronico, a imitazione del rumore metropolitano da cui siamo circondati. La poesia diventa un esercizio pressoché impossibile, la narrativa si avviluppa nella sciatteria linguistica, in un lessico stereotipato, ridotto al minimo, o, al contrario, in ricerca dell’oscurità indifferente al lettore. L’architettura rinuncia a progettare un modello di convivenza civile, comunitaria, riducendo tutto a pura funzione: orrendi cubi o parallelepipedi, edifici scabri, indistinguibili; su tutto l’evidenza che nulla è fatto per durare, attraversare e sfidare il tempo. E’ forse questa la caratteristica più sconcertante del kali-yuga. Per la prima volta nella sua storia di essere senziente, “civilizzato”, l’uomo non aspira più ad andare oltre, a improntare di sé il suo spazio vitale, tanto meno cercare un senso alla sua avventura esistenziale.

E’ un tempo che grida ma non parla, tanto meno dialoga e fa introspezione: si limita a correre. Paul Virilio la chiamava dromocrazia, il dominio della velocità, senza meta o traguardo. Paul Rimbaud, poeta, usò una splendida espressione “l’uomo dalle suole di vento”. Il degrado dell’arte, l’oblio della bellezza, non sono solo esilio dello spirito; istillano il male di vivere, l’indifferenza per il ben-essere, ridotto a ben-avere, restringono il cuore e chiudono gli occhi, poiché l’uomo è, tra le altre cose, un essere “estetico”.

L’arte per Benedetto Croce è intuizione lirica compiutamente espressa. Non una mera costruzione intellettuale, bensì lirica, ovvero fatta di calore, intensità, sentimenti, capace di trasfigurare, eternizzare, elevare a simboli, momenti, sensazioni, moti dell’animo. In più, deve essere compiutamente espressa, ossia rispondere alle regole più elevate dell’ambito in cui agisce, musica, parola, figurazione. Quasi nulla di tutto questo sopravvive. Il fenomeno è antico, risale all’ultimo tratto del XIX secolo, l’epoca dell’ottimismo “positivo”, del primo entusiasmo scientista. Tuttavia, se dovessimo indicare una data di avvio del kali-yuga nell’arte, sceglieremmo il 1917, annus horribilis della rivoluzione bolscevica, dell’avvio del secolo americano con l’intervento nella Prima Guerra Mondiale, l’inizio della fine degli Imperi.

In campo artistico, fu l’anno in cui Marcel Duchamp presentò la sua “installazione” – parola che diventerà chiave nel cambio di paradigma del concetto di arte – a New York, dopo aver messo i baffi alla Gioconda di Leonardo. La “cosa” di Duchamp era un orinatoio, elevato a opera d’arte. Volgarità e bruttezza, le opache bandiere della modernità, diventavano cifra intellettuale del tempo. Esausta, l’arte cessava di raffigurare l’uomo, i suoi sentimenti, la natura, per definire “arte” qualsiasi cosa. La sentenza di Duchamp era più terribile di quella pronunciata nove anni prima da Adolf Loos sull’architettura (l’ornamento non soltanto è opera di delinquenti, è esso stesso un delitto) . “ A partire da adesso, chiunque può essere artista; e qualsiasi cosa, un’opera d’arte”. Uguaglianza retorica verso il basso, riduzione del superiore all’inferiore, lo sguardo non più puntato verso l’alto, l’eccellenza schernita, la bizzarria e talvolta la degenerazione elevate all’altare.

Tutti i soggetti diventavano equivalenti, le differenze accidentali. Nel 1915 Kazimir Malevic, russo, colui che decretò “la pittura è finita, quel pregiudizio del passato”, dipingeva, o meglio realizzava, il Quadrato nero su sfondo bianco, seguito dal Quadrato bianco su sfondo bianco. È suonata l’ora finale dell’arte; restano proscritte le belle arti, concluse Duchamp. L’ espulsione della bellezza, ossia la bruttezza, diventava il filo conduttore dell’arte successiva, il suo kali-yuga. L’ingenuo ottimista Myskin non vide l’altra faccia della luna: non è la bellezza a salvare il mondo, è la bruttezza a distruggerlo. Camminiamo per strade sporche, muri di edifici, monumenti sfregiati da ogni tipo di graffito, perfino le fiancate dei treni sono aggredite da ghirigori e scarabocchi senza senso, ascoltiamo musica banale, ripetitiva, convulsa. Vediamo rappresentazioni dette artistiche senza capo né coda, spesso prodotte – anche l’arte è produzione seriale, aveva ragione Walter Benjamin – solo per stupire e ritagliarsi un mercato. Prendi i soldi e scappa, è il motto di galleristi corrivi e critici a fattura.

Gran parte di ciò che è chiamato creazione artistica è in forma di “installazione”, senza che risulti chiaro il significato del termine. L’opera letteraria è pensata per diventare best seller, ossia soddisfare le attese di un pubblico sempre meno numeroso e più frettoloso. I contenuti scritti sono sconfitti dall’immagini e per salvarsi sono costretti alla sintesi brutale, a non diventare mai approfondimento. Il termine stesso repelle alla contemporaneità, che odia la profondità e ama l’estensione. Ancora il regno della quantità. Molti dicono apertamente di volere la non-arte pur continuando a spacciarsi per artisti: “un’opera è fatta per essere brutta, repellente, senza alcun significato per lo spirito e i sensi. Le opere non sono fatte per essere belle, ma affinché, osservandole, non si comprenda che ciò che rappresentano e si abbia voglia di strapparla o di passare tra di esse correndo” (C. Oldenburg).

L’obiettivo di diffondere la bruttezza, ossia abbrutire la vita, l’umanità e la comunità, è pienamente raggiunto: la chiave per giudicare un’intera epoca. È abolita, altro triste successo egalitario, la distinzione tra plebe ricca e plebe povera – la fulminante definizione di Gòmez Dàvila – ambedue incapaci di riconoscere il bello e provare il “brivido davanti al sacro” di cui parlava Goethe. L’epoca più ricca è anche la più sterile, di sentimenti, di cuore, un indizio in più che benessere e civiltà seguono sentieri divergenti. Viene da applaudire Piero Manzoni, che inscatolò le proprie feci e le vendette come Merda d’artista. Capì che l’arte – nel senso di abilità – era èpater le bourgeois, stupire i ricchi istupiditi, facendosi pagare a peso d’oro la produzione non dell’intelletto, ma dell’intestino.

Rimbaud, alla ricerca insonne della bellezza come universalità e trascendenza, colse dolorosamente il tormento creativo: “una notte ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. E l’ho trovata amara. E l’ho insultata”. Per amore però, non per odio come nella contemporaneità, in cui arte e bellezza somigliano al rapporto della volpe di Esopo con l’uva: il disprezzo per ciò che non si riesce a raggiungere. La dura verità è che la bellezza sorge solo se nell’anima si annida “un’inquietudine, un impulso, qualcosa che, dandogli le ali, la faccia volare, la slanci più in là” (J.Rùiz Portella).

Sì, arte e bellezza sono il frammento, la cattura di un “oltre”, di una volontà di alzare l’asticella e spiccare il volo. Come è possibile l’arte nel tempo della materia, del mercante e della compravendita di tutto? Senza un’estetica, senza sottrarre qualcosa alla tirannia del prezzo, nessun volo d’aquila o canto d’usignolo sono possibili: solo il passo pesante e le ali atrofizzate delle galline, il gracchiare dei corvi in attesa di rovinare il raccolto, mirabile, faticosa opera del contadino.

Presto sperimenteremo l’impatto sull’arte dell’Intelligenza Artificiale. Per adesso, l’ I.A. può solo imitare, riprodurre i modelli sui quali ha allenato se stessa. Tuttavia, la macchina lavora usando dati che è capace di rielaborare, ossia può generare contenuti autonomi. Altra cosa è imitare il processo creativo, momento essenziale dell’arte. Quale relazione avrà l’I.A. con la bellezza? Secondo gli intellettuali che collaborano con gli scienziati informatici, potrà diventare uno strumento per ricercare e mettere insieme idee, ovvero per aiutare quel processo indicibile che chiamiamo ispirazione e Croce intuizione.

Avremo una creatività differente dal passato. Ma avremo ancora l’arte, l’I.A. ambirà alla bellezza, ne comprenderà l’ineffabilità e la necessità per la creatura umana a cui è indifferente? Gusto, estetica, sensibilità: parole destituite di valore, deprivate del senso. L’economia sovrana ha le sue colpe, ma più grande è la responsabilità di una visione del mondo da cui sono state espulse le domande di senso. L’uomo non crede più a un destino, a un porto cui tendere. La morte di Dio, Nietzsche lo capì prima e con ben altra acutezza di Max Weber, ha portato al disincanto del mondo. Spenta quella luce, non poteva che andare in crisi anche il Dio surrettizio della Ragione umana.

Se nulla più guida i nostri passi, neanche la bellezza e l’arte hanno senso. Perciò giacciono abbandonate dopo essere state vilipese, decostruite, bollate come inutili, detronizzate e gettate nel magazzino dei rifiuti da conferire alla discarica. Sapeva già tutto Theophile Gautier: nulla di ciò che è bello è indispensabile alla vita. Di veramente bello c’è soltanto ciò che non può servire a nulla: tutto ciò che è utile è brutto. È così, nel kali-yuga.

  fonte copertina: web

Lo sciamanismo come mezzo per la salvezza dell’anima e del corpo – Walter Venchiarutti

$
0
0

  Il peso del corpo, la leggerezza dello spirito

 La scienza e la fantasia, da buona parte dell’intellighenzia moderna, sono valutate alla stregua di due componenti antitetiche che nulla avrebbero da spartire. Spesso si dimentica che alla base delle più importanti invenzioni scientifiche c’è l’intuizione intellettuale. Tale antica potenzialità offre la capacità all’individuo di saper superare i pregiudizi e le convinzioni del momento per aprirsi alla creatività che, insieme alla memoria, restano le peculiari prerogative dell’homo sapiens.

Sogni, visioni, estasi costituiscono il patrimonio che viaggia di pari passo con la corporeità e quindi complessivamente va considerato, tutelato e studiato. Valutare l’uno e screditare l’altro significa porsi fuori dalla realtà esistenziale e inevitabilmente porta a considerazioni mutili, fuorvianti e utopistiche.

Lo studio di Ioan J.P. Couliano (I viaggi dell’anima, Ed. Mondadori, Milano, 1991) prende in considerazione quanto le percezioni positivistiche presenti nel processo storico, che stanno alla base della percezione di spazio, tempo e materia, possano essere invalidate dalle recenti scoperte matematiche e fisiche.

Le tre dimensioni lunghezza, larghezza, altezza costituiscono il campo percettivo dell’universo fisico a cui si affianca l’infinito spazio mentale della quarta dimensione, composto da esperienze extracorporee: sogni, fantasie, miraggi.

È necessaria una trasmissione cognitiva per portare ad una considerazione attiva della tradizione. Lo spazio esterno varia convenzionalmente in base alla percezione, all’umore, al sesso, alla posizione sociale, alle condizioni psico-fisiche del soggetto mentre i viaggi ultraterreni (onirici, psichedelici, estatici, ipnotici) sono stati riduttivamente dimensionati in modo distorto a semplici suggestioni dell’immaginazione e spesso anche in passato paragonati ad allucinazioni, sintomi di pazzia o peggio associati a possessioni demoniache.

La prima domanda che si impone, a chiunque creda superata l’esperienza religiosa, è fornita dall’odierno inspiegabile interesse suscitato da quegli stati particolari che, sconfessano la logica corrente e tuttavia continuano tutt’oggi a persistere inspiegabilmente immutati. L’analisi obiettiva di tali insolite condizioni porta le consuetudinarie convinzioni quotidiane ad uscire dagli schemi dell’abitudine e a percepire mondi meravigliosi e inesplorati nascosti nel microcosmo dell’infinitamente piccolo, così pure rintracciabili nell’immensità del macrocosmo spaziale. La fisica e la matematica (le cosiddette scienze esatte) per contro hanno focalizzato una rinnovata attenzione al cammino iniziatico della conoscenza.

La pretesa razionalità contemporanea ha inevaso una ben definita serie di situazioni che coinvolgono l’esperienza umana. Si parla quindi di fattore ASC (automatic stability control) intendendo per tale lo stato di alterata coscienza, di OBE (out of body experience) distacco dal proprio corpo fisico e di NDE (near death experience) esperienze maturate ai confini con la morte.

Per alcuni è stata identificata nella quarta dimensione una fonte di spiritualità, tale da saper offrire una convincente spiegazione delle dottrine e delle esperienze mistiche che si sono verificate e verificano (C.H. Hinton- Racconti scientifici, F.M. Ricci 1978) un mondo intermedio del doppio, visitato durante il sonno, anticamera del Locale III, un mondo parallelo al nostro.

  Introduzione al fenomeno dello sciamanismo

 Mircea Eliade definisce lo sciamanismo non una vera e propria religione ma come tecnica estatica (M. Eliade Lo sciamanismo e le tecniche dell’Estasi, Ed. Mediterranee, Roma 1974) finalizzata a stabilire un rapporto con l’universo parallelo, mediante lo scopo d’ottenere l’appoggio delle entità superiori atto a favorire la prosperità, la salute fisica e spirituale di un gruppo sociale o di un individuo. Tale pratica, dapprima considerata un fenomeno circoscritto ai confini dell’Asia centrale e settentrionale, è stata poi individuata anche presso gli aborigeni australiani e le popolazioni africane.

La vocazione sciamanica può essere assegnata per elezione diretta, ricevuta dall’alto o per trasmissione ereditaria. Il reclutamento comporta una morte rituale e una resurrezione. L’evocazione degli spiriti per ottenere guarigioni, la richiesta di un abbondante raccolto, per fronteggiare le necessità comunitarie prefigura uno stato di trance, procurato dall’autoconcentrazione, facilitato dall’uso di sostanze eccitanti o allucinogene derivanti da piante sacre (Amanita muscaria, Claviceps purpurea, ecc.) che predispongono lo sciamano al trasferimento su un piano più elevato di luce e quindi di comprensione. Questo processo è sovente accompagnato dal ritmo musicale, cadenzato e incalzante di strumenti a percussione (tamburi) o all’ininterrotto tintinnare di sonagli (campanelli), da danze particolari. Le fasi si completano con il completo distacco dalla coscienza corporea, la morte apparente (squartamento, sostituzione degli organi interni) e contemplano la salita alla corda, alla scala, all’albero, il volo, l’ascesa al cielo, la ricerca, il ritrovamento di quanto perso o di ciò che necessita al beneficiato/i. Infine il ritorno nel corpo precedentemente abbandonato in stato di sonno, d’estasi o catalessi. La tendenza a distinguere fra sciamani “bianchi” o “neri” corrisponde alle finalità di volta in volta assunte dal guaritore/benefattore/medicine men e a quelle di stregone che rivolge maledizioni e sortilegi. Tali esercizi a seconda dei casi possono essere esercitati attraverso azioni benefiche o cattive nei confronti di soggetti amici o nemici. Lo stesso individuo può essere terapeuta per il gruppo di appartenenza e fattucchiere nei confronti di altri.

  Viaggi ultraterreni dagli albori della civiltà

 La cultura mesopotamica sumero-assiro-babilonese offre le prime relazioni intorno a viaggi ultraterreni alla ricerca dell’immortalità. Gilgamesh è il primo eroe-sciamano della storia ad intraprende una impresa che nel corso dei secoli vedrà ininterrotto il seguito degli emulatori. Le numerose e straordinarie prove che gli dei pongono sulla sua strada, l’insuccesso e lo scoramento finale non sembrano aver dissuaso la sete di avventura che ha animato i posteri.

È risaputo che agli Egizi il post mortem importava assai di più della vita terrena, quest’ultima consisteva in una prosecuzione della prima. Occorreva quindi fornire tutti quei mezzi affinché fosse continuata la sopravvivenza fisica che però era riservata solamente ai re. Le magnificenti piramidi rappresentavano una riproduzione dell’universo, il coperchio del sarcofago che racchiudeva la mummia del sovrano era il cielo e il letto la terra. Al fine di continuare nel suo compito l’ascensione al cielo del Monarca era favorita dalla salita ad una scala simbolica di stati dell’essere, predisposta da Ra, dio solare.

L’assenza di peso e la ricerca di immortalità sono peculiarità presenti nel taoismo. I viaggi a dorso del drago volante, erano i migliori mezzi di trasporto aereo utilizzati da importanti personaggi medici, alchimisti e regnanti. Lo Sciamano, l sacerdote taoista, percorreva il mondo dell’aldilà sul dorso delle gru, alla ricerca dell’anima del defunto. Acccompagnato dal rullare dei tamburi intercedeva in suo favore. La pratica d’abbandonare il proprio corpo in stato di catalessi o morte apparente era conosciuta presso i monaci buddisti che esploravano il paradiso prima della morte.

Il Bardo thödöl raccoglie le indicazioni riguardanti la liturgia funebre prescritta dal buddismo lamaista tibetano. Il testo fornisce tutta una serie di consigli riservati alla tutela della salute postuma e riveste l’analoga funzione osservata del manuale sciamanico nei rituali finalizzati all’evocazione in fase di esistenza intermedia. L’insegnamento che ne deriva afferma che il sogno e il mondo sono entrambi creazione della mente cioè illusioni. L’intelletto può però astenersi dal creare illusioni ritirandosi nella luce del Nirvana e ponendo fine alla schiavitù della rinascita.

Pure nell’India vedica è ampiamente documentata la pratica dell’estasi attraverso la concentrazione e l’utilizzo di droghe per il raggiungimento di stati di trance. Nelle Upanishad compaiono numerosi i viaggi ultraterreni. Nei sogni l’anima si libera e acquisisce i poteri (siddhi) che contraddistinguono gli asceti e gli yogin, la levitazione e i viaggi in altri mondi fanno parte di questa consolidata tradizione.

I maggiori studiosi del Mazdeismo, l’antica religione iranica, attestano che l’Avesta trae le sue primitive radici nello sciamanismo. Infatti l’incontro con gli arcangeli zoroastriani (Amesa Spenta) favorito dall’assunzione di droghe, costituiva una visione trascendente psichica e incorporea a cui, pur restando sulla terra, aveva accesso ogni “anima libera”. Nei viaggi ultreaterreni descritti nel libro di Arda Viraz (VI sec. D.C.), vera e propria anticipazione della Dina Commedia, l’iniziato si libera dal corpo e vive in uno stato di morte apparente e compie le esperienze analoghe del viaggio dantesco, che comportano l’incontro con il supremo Ahura Mazda, con Zoroastro, fondatore della religione e con tutti gli dei e i defunti e infine viene descritto il soggiorno nell’inferno di Ahriman, luogo spaventoso e doloroso.

Con Omero (VIII sec. a. C.) prende il via la narrazione di viaggi avventurosi in luoghi straordinari ed extraterreni destinata anche nei secoli successivi ad avere continuo seguito. Intorno al terzo millenio a.C. alla civiltà matriarcale mediterranea subentra quella patriarcale degli invasori indoeuropei, fondata sui valori della guerra e della predazione. A questa cultura appartiene la figura di Ulisse, lui stesso eroe e sciamano ( E. Zolla, Vite segrete esposte in evidenza, Marsilio Ed., Venezia, 1990) in visita durante le sue avventure alle superstiti sfaccettature, rappresentanti del mondo demetrico delle Grande Madre: maghe, sciamane, incantarici (Circe, Calipso, Nausica). Sciamani autoctoni della Grecia erano gli ieromanti (iatros=guaritore, mantis=profeta), categoria di taumaturghi, veggenti dediti al culto di Apollo Iperboreo.  Tra i tanti vengono annoverati Pitagora, Empedocle. Abaride. I loro metodi estatici comportavano la danza e il vino. A costoro venivano attribuite tutta una serie di funzioni, oltre a quelle di guaritori e veggenti, erano purificatori, autori di oracoli, stregoni, viaggiatori dell’aria, autori di miracoli. La stessa filosofia platonica è stata interpretata come una sintesi delle credenze sciamaniche greche, sistematizzate e spiritualizzate.

Gigantismo, titanismo e Tradizione nordica – Daniele Perra

$
0
0

Chi scrive ha spesso esplorato il tema della comunione spirituale tra le diverse civiltà tradizionali dell’Eurasia. Tale unità, oggi ignorata o scientemente negata dai più, si riflette anche nell’identificazione del “nemico metafisico” di ciascuna di esse. Ma questa affermazione necessita chiaramente di essere dimostrata ed interpretata attraverso diversi livelli di lettura. In primo luogo è bene ricordare che uno dei pilastri fondanti della Tradizione è l’agire senza nulla chiedere in cambio: il rigetto di ogni mero calcolo di profitto. L’etica tradizionale, in tutte le sue forme, raccomanda sempre la misura (la temperanza nel pensare e nell’agire), il fruire del piacere senza divenire schiavi ed il vivere l’esperienza del dolore e della sofferenza senza piegarsi. Alla persona del sovrano tale etica imponeva non il rifiuto della ricchezza (anche materiale) ma semplicemente la giusta misura nel suo utilizzo: ovvero, il rifiuto della accumulazione in favore della ridistribuzione. Appare da subito evidente come la condizione umana odierna (soprattutto nell’“Occidente” sottoposto alla guida egemonico-culturale nordamericana) sia quanto di più lontano possa esistere dall’ideale tradizionale. Mai come oggi, infatti, la cosiddetta “demonia dell’oro” prevale nella vita pubblica e privata, negli ambiti dell’imperium e del dominium. In questo contesto, anche una crisi pandemica (evidentemente causa di sofferenza e dolore, a prescindere da ben determinate esagerazioni propagandistiche) diviene opportunità di profitto per pochi gruppi di interesse. Nelle civiltà tradizionali dell’Eurasia, la fine dell’età dell’oro è spesso associata alla brama di ricchezza che corrompe l’istituzione sovrana regale. Nella Vǫluspá, primo e più famoso poema dell’Edda poetica e fonte primaria della mitologia norrena, il processo di corruzione del mondo viene innescato dalla strega Gullveig (letteralmente “ebbrezza dell’oro”) [1] che diffonde il veleno che segna l’inizio della dissoluzione di quella condizione primordiale di beatitudine in cui dèi e uomini vivevano ignari del male.

Prima di inoltrarsi ulteriormente nell’argomento, è opportuno sottolineare che gli eventi della Vǫluspá pertengono all’ambito della geografia sacra. Il poema nordico, infatti, racconta di accadimenti del mondo fenomenico le cui cause, tuttavia, sono da attribuire ad eventi che si svolgono in primo luogo sul piano dello spirito ed in uno spazio metafisico che comunque esercita la sua influenza in modo determinante sulla vita materiale. Ora, grazie a Gullveig, cupidigia, istinti all’accumulazione, al tradimento ed alla sopraffazione si contagiano dal mondo degli dèi a quello degli uomini. L’ordine viene definitivamente compromesso dalla sete dell’oro che genera il caos e determina la prima guerra del mondo tra Æsir (coloro che incarnano la prima e la seconda funzione all’interno dell’ordinamento tradizionale indoeuropeo, ovvero sacerdoti e guerrieri consacrati alla difesa della sacralità delle istituzioni) e Vanir (la terza funzione, i produttori). Il caos si genera quando una di queste funzioni, o tutte insieme, viene meno al suo ruolo. Se i Vanir, ad esempio, producono ricchezza per il loro esclusivo tornaconto, rifiutandosi di collaborare al mantenimento dell’ordine, il sistema viene irremediabilmente compromesso. Così come viene compromesso se il guerriero non svolge più il suo dovere in difesa della giustizia ed il valore sacrale della milizia si perde nell’abuso e nella violenza fine a se stessa.

Queste espressioni trovano perfetto riscontro nella Tradizione indù. È scritto nel Bhagavata Purana (12,2): “Nell’Età di Kali, presso gli uomini la ricchezza prenderà vantaggiosamente il posto della nobiltà dei natali, della virtù, del merito. Diritto e norma saranno determinati dalla forza. Nel matrimonio si cercherà unicamente il piacere, negli affari la scaltrezza; nei sessi la voluttà. I re si comporteranno come briganti; gli uomini si dedicheranno a rubare, a mentire, ad inutili assassini e ad ogni sorta di pratiche [scellerate]”. L’atto finale del ciclo cosmico è il il Ragnarok: il momento in cui si compie il “destino degli dèi” per mano dei giganti che distruggono le luminarie celesti (il Sole e la Luna) annientando sia il divino che l’umano e preparando il cosmo ad un nuovo ciclo e ad una terra che risorgerà dagli abissi oceanici. I giganti, infatti, presso i Greci ed i Germani, personificavano il potere dissolutore delle energie elementari, l’eterna ed insaziabile brama che crea e divora ogni forma esistente (compresi i propri figli). Volendo azzardare un paragone con la contemporaneità (anche sulla base delle teorie heideggeriane su gigantismo e americanismo), si potrebbero rintracciare delle similitudini tra la condizione dell’Europa odierna e quella del mondo primordiale sottoposto agli istinti distruttori dei giganti. L’Europa, infatti, sembra essere stata inghiottita da un mostro gigantesco che l’ha masticata, smembrata e ricomposta a sua immagine e somiglianza. Di fatto, ciò che è avvenuto al termine del Secondo Conflitto Mondiale, quando gli Stati Uniti, dopo aver distrutto militarmente ed economicamente l’Europa, hanno partecipato alla sua ricostruzione promuovendo l’inserimento del Vecchio Continente all’interno di uno spazio geopolitico ad essi subordinato.

Tuttavia, Heidegger vedeva nell’americanismo un’origine europea [2]. Gigantismo e americanismo, secondo il filosofo tedesco, sono esiti inevitabili dell’Età moderna e del progresso illimitato della tecnica. Ovvero, parafrasando Carl Schmitt, di quel momento in cui il paradigma centrale della società europea premoderna (la religione) è stato sostituito da un paradigma fino ad allora periferico: quello della tecnica e della scienza [3]. Ma la tecnica è divenuta essa stessa religione. Una religione che esclude automaticamente tutte le altre perché si manifesta attraverso la promessa messianica che ogni aspetto della vita umana (una vita ristretta alla mera economia) è risolvibile dalla stessa tecnica scientifica. Il suo scopo, infatti, è quello di limitare la vita eroica ed i legami che ne conseguono a favore della sola prestazione produttiva. Questo è il momento reale della nuova regressione nel caos in cui l’uomo, deviando dal retto agire e rendendosi partecipe del progetto di dissoluzione dell’ordine, diviene egli stesso gigante; calpesta le norme che regolano il rapporto tra umano e divino e, uccidendo gli dèi, diviene “misura di ogni cosa”.

La regressione nel caos equivale alla discesa negli inferi popolati dalle potenze titaniche. Giganti e titani sono forze affini. Ad essi è sempre associata l’ira incontrollabile, la tracontanza e l’ingiustiza. I loro nomi esprimono l’irrequietezza, l’agitazione senza posa (caratteristica propriamente moderna) e la perenne insoddisfazione che travolge le nature ctonie. Friedrich G. Jünger (fratello minore del più noto Ernst) ebbe modo di stigmatizzare la natura puramente titanica dell’homo faber moderno con la sua efficiente irrequietezza: un “uomo senza tempo” che dedica la propria vita solo al lavoro trasformandola in una prigione dalla quale si può evadere solo con la morte. Quest’uomo senza tempo non conosce il valore del non lavoro meccanico. Ha perso ogni nozione di ciò che era il “tempo sacro”: l’unico tempo reale, il tempo del divino, l’istante statico/estatico in cui il tempo non scorre più [4]. A questo proposito, è scritto nella Bhagavad Gita (16, 11-12) che gli uomini dell’Età di Kali “dediti ad una cura affanosa e smisurata che termina solo con la morte, affermano che il bene supremo consiste nel soddisfacimento dei desideri e sono convinti che questo mondo sia l’unica realtà”.

La civiltà moderna, infatti, è la civiltà degli schiavi. E questa schiavitù è la più tetra che la storia abbia mai conosciuto visto che nega allo schiavo anche il diritto alla trascendenza, alla speranza di redenzione. Questa, infatti, può avvenire solo per mezzo della tecnica e della scienza il cui carattere puramente titanico si palesa negli esperimenti che intervengono sull’economica geologica (i tentativi di influenzare il clima) e biologica (la creazione di armi battereologiche) della Terra. C’è stato chi, da un punto di vista “tradizionale”, ha interpretato il risveglio delle forze titaniche e la crociata meccanicistico-scientista dell’“Occidente” in termini positivi. Il rinnovato interesse per la figura ed il mito del titano Prometeo ne sono la più evidente dimostrazione. Tali posizioni, che potrebbero essere facilmente attribuite ad una forma particolarmente perniciosa di contraffazione ideologica, non fanno altro che giustificare/negare, dietro un velo tradizionale, la responsabilità dell’uomo nella lenta agonia della Terra. Tuttavia, il destino dei titani è abbastanza chiaro nei versi della Teogonia di Esiodo. Questi sono condannati a vivere rinchiusi “in un’oscura regione all’estremo della terra prodigiosa” dove Poseidone “pose porte di bronzo e un muro vi corre attorno da tutte le parti” (Teogonia, 731-733). Il loro riemergere dalla regione del “caos tenebroso” (l’Estremo Occidente) è il segno della fine imminente del ciclo cosmico.

Idee similiari si ritrovano sia nella Tradizione dell’India che in quella islamica. Secondo la prima, una possente barriera montuosa separa il cosmo (Loka) dalla regione del caos (Aloka) dove abitano i demoni Koka e Vikoka. Nella sura coranica Al-Kahf (la caverna) si ritrova inceve il racconto della mostruose e malvagie genti di Gog e Magog (alle quali è riservato un posto di rilievo nell’escatologia islamica) la cui furia distruttrice viene fermata dal “Bicorne” (Alessandro Magno secondo talune interpretazioni) attraverso la costruzione di una imponente muraglia tra due montagne. Alcuni pensatori ed interpreti contemporanei del Corano hanno identificato nei coloni sionisti della Palestina le genti di Gog e Magog. A questo proposito, è doveroso ricordare che tanto Karl Marx quanto il già citato Martin Heidegger riconobbero nel popolo ebraico alcune caratteristiche precipue dell’uomo moderno: l’esasperata ricerca del profitto il primo, la sradicatezza il secondo.

Un altro elemento che si presenta con notevole frequenza nelle tradizioni eurasiatiche è quella dell’Albero del mondo. Questo, come nel caso del frassino cosmico Yggdrasill della Tradizione nordica, dà segni di cedimento nel momento in cui presagisce la fine. Alle sue radici si trova la fonte di Mìmir dove Odino lasciò in pegno uno dei suoi occhi per bere il sacro idromele della conoscenza, l’equivalente dell’ambrosia greca. I racconti sull’Albero del mondo (che spesso coincide con l’Axis Mundi) si ricollegano al mito dell’“Albero secco” ed alle leggende su Alessandro Magno che si recò in Oriente alla ricerca della fonte della vita e della conoscenza. In ambito cristiano, l’idea dell’Albero secco è associata al legno della croce di Gesù Cristo ed all’Albero del paradiso. La leggenda, infatti, racconta che Set piantò sulla tomba del padre Adamo un ramoscello proveniente dell’Albero del paradiso. Quest’Albero (che sta lì “dall’inizio del mondo”) nel Bellum Judaicum di Flavio Giuseppe si trova ubicato nell’odierna Palestina, nelle vicinanze di Hebron (dove si trovano anche le tombe dei patriarchi Abramo e Giuseppe) e dal suo legno sarebbe stata costruita la croce. La leggenda si ricongiunse alla storia vera e propria nel momento in cui la croce di Cristo, scoperta dall’Imperatrice Elena, venne riportata a Gerusalemme da Eraclio dopo la riconquista della città. Di fatto, la versione orientale di questo “mito” prevedeva che un Imperatore bizantino, una volta liberata Gerusalemme e sconfitte le genti di Gog e Magog (la cui azione è descritta con dovizia di particolari anche nell’Apocalisse di Giovanni), si inginocchiasse sul Golgota deponendo le armi e lo scettro ai piedi della croce in segno di sottomissione al volere divino, di compimento definitivo della propria missione terrena [5]. La collocazione palestinese dell’Albero del mondo, tuttavia, rimane assai dubbia. Marco Polo, ad esempio, lo colloca in Persia nel punto in cui si scontrarono Alessandro e Dario.

In conclusione, non si può prescindere dall’esaminare il tema della lotta contro il drago (o il serpente), anch’esso particolarmente diffuso nello spazio orizzontale del “continente assiale”. Apollo, nato da appena tre giorni, uccide ai piedi del monte Parnaso Pitone: mostro dalle origini ctonie e dotato di poteri oracolari. Al suo nome si deve quello della sacerdotessa ispirata da Apollo: la Pythia che esercita la sua funzione dal santuario di Delfi dove sono sepolte le ceneri dello stesso mostro. Nella saga dei Nibelunghi (magistralmente tradotta in musica da Wagner) il drago rappresenta l’opposto del principio della misura e della ridistribuzione: è l’emblema dell’accumulazione e simbolo dell’uomo che si lascia inebriare ed incattivire dall’oro. Più complesso è il discorso per ciò che concerne il Beowulf. Di questa saga originariamente proveniente dalla Scandinavia (sebbene trascritta per la prima volta in Inglese antico intorno all’anno Mille) è bene innanzitutto analizzare il nome dell’eroe. Il significato del nome Beowulf sembra essere infatti quello di “colui che si comporta da lupo nei confronti delle api” [6]. In altri termini, il nome Beowulf significa “orso”: animale che tradizionalmente indica la funzione guerriera, basti pensare al mito di origine celtica di Artù – Arctoviros (l’uomo orso) in cui si ritrovano altri elementi comuni a tutto lo spazio eurasiatico, dall’occultamento dell’eroe all’esaltazione dei valori cavallereschi.

Le api e il miele, inoltre, sono simbolo di sapienza e carisma. Le api hanno nutrito Pindaro e Platone col miele quando questi erano ancora in tenera età. La sovrabbondanza di api e miele è sinonimo di prosperità. Nell’Islam sciita, sviluppatosi in un contesto geografico di profonda influenza della Tradizione indoeuropea (la Mezzaluna fertile e l’Altopiano iranico), le api vengono paragonate alla stessa comunità islamica. Il vero credente è come l’ape in cerca dei fiori migliori; mentre il miele, il cibo più dolce e salutare per il corpo, è paragonato alla conoscenza che gli Imam hanno diffuso tra i loro fedeli. Beowulf lotta in primo luogo contro il gigante Grendel, nemico infernale che abita in “lande paludose rifugio per le razze dei mostri” (una descrizione assai simile a quella della terra in cui sono confinati i Titani secondo Esiodo). Successivamente, ormai avanti negli anni, combatte contro un drago che custodisce un vasto tesoro. Uccide il drago ma muore a causa del veleno del mostro. Tuttavia, muore nella consapevolezza di aver eseguito fino all’estremo sacrificio il suo dovere di sovrano e guerriero: difendere il proprio popolo e la Patria. Come riporta Mario Polia nel suo notevole studio Il drago e l’eroe nei miti del nord (Cinabro Edizioni 2020), non si può escludere a priori la presenza di un valore esoterico ed iniziatico all’interno di questi racconti. Infatti, non è errato identificare nella lotta contro il mostruoso quella lotta che avviene dentro ognuno di noi contro il desiderio smisurato. Quella lotta che l’Imam Khomeini chiamava “la più grande lotta per liberarsi dalla prigione dell’io e ascendere verso il divino”. Non sorprende che l’essere mostruoso (il drago) viva sempre sotto terra, in una grotta la cui oscurità o semi-oscurità (come nel mito platonico della caverna) è simbolo dell’iniziale condizione di ignoranza dell’uomo. L’ingresso, la lotta al suo interno e l’uscita dell’eroe dalla cavità sotterranea, di fatto, rappresentano le tappe iniziale, centrale e finale di un percorso iniziatico.

Note:

[1] M. Polia, Il drago e l’eroe nei miti del Nord, Cinabro Edizioni, Roma 2020, p. 36.

[2] M. Heidegger, Holzwege – Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2014, p. 265.

[3] C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, p. 101.

[4] A questo proposito si veda anche E. Jünger, Al muro del tempo, Adelphi Edizioni, Milano 2000.

[5] A. Bassermann, Il Veltro dantesco, il Gran Khan e la leggenda imperiale, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2021, p. 42.

[6] Il drago e l’eroe nei miti del Nord, ivi cit., p. 196.

Daniele Perra

L'articolo Gigantismo, titanismo e Tradizione nordica – Daniele Perra proviene da EreticaMente.

La prima luce è un sorriso – Rita Remagnino

$
0
0

A occidente del continente eurasiatico il ritorno della luce dopo il buio autunnale è tradizionalmente presieduto da solari divinità maschili (Mitra, Gesù), oppure minacciato dai demoni, come nel caso dei krampus europei (letteralmente «morti putrefatti»), che terrorizzano i ragazzini delle aree ex-austro-ungariche prima di essere esorcizzati, ovvero sconfitti, da un San Nicola barbuto che assomiglia molto a Babbo Natale.
Lo scenario solstiziale cambia aspetto nelle aree continentali che hanno conservato più a lungo le tradizioni sub-artiche primordiali, dove il dio atmosferico che annuncia la fine del buio è spesso di genere femminile. Ne è un esempio il Giappone, dove gruppi di persone festanti si riuniscono ogni anno in occasione del solstizio d’inverno per celebrare e blandire la dea-sole Amaterasu, i cui capricci sono poeticamente immortalati nelle pagine del Kojiki (Mario Marega, Luni, 2018), il libro delle «vecchie cose scritte».

 

Per protestare contro le violente scorrerie del fratello e marito Susanoo (la Tempesta), la splendente Amaterasu va a rinchiudersi in una profonda caverna precipitando il mondo nella più profonda oscurità. Non potendo fare a meno di lei le altre divinità (i pianeti) la invitano ad uscire dal suo nascondiglio allestendo una serie di attività di disturbo. Battono sui tamburi e cantano a squarciagola, suonano cimbali e flauti, portano persino all’ingresso dell’antro un gallo (animale solare fortemente sciamanico) nella speranza che risvegli la dea con il suo canto squillante. Ma niente.
Finché a uno degli dèi viene un’idea: appende uno specchio a un albero, organizza un’allegra festicciola tra pari e chiede alla dea dell’alba e della gioia Ama-no-Uzume di esibirsi seminuda in una comica e licenziosa danza erotica. Divertito il pubblico divino ride e scherza chiassosamente suscitando la curiosità di Amaterasu, che sbircia fuori per vedere cosa sta succedendo.
Perché ridete? Chiede indispettita alle altre divinità. Io ho sprofondato il mondo nelle tenebre, e voi ve la spassate? Proprio così, le viene risposto, e siamo ben contenti di goderci lo spettacolo di una dea ancora più bella e promettente di te. Impossibile! Ribatte la vanitosa donna-sole avvicinandosi all’uscita per provare l’unicità ineguagliabile del suo splendore.
Svelto come un gatto il forte dio dei cieli l’afferra allora per un braccio. Tutti scoppiano a ridere, canzonando l’ingenuità con cui la dea è caduta nel tranello, e alla povera Amaterasu non resta che fare buon viso a cattivo gioco riprendendo il suo posto in cielo. Il sorriso torna così sul volto di tutte le creature celesti e terrestri, che salutano festosamente il ritorno della luce.

 

Probabilmente l’impresa di convincimento sarebbe fallita senza l’uso delle arti (danza, musica, burla, scherzo, gioco) che secondo Plotino non sono attività di secondaria importanza, come crede l’ignorante civiltà del profitto, ma hanno come scopo la conoscenza e la contemplazione da cui ogni prassi, sia necessaria che deliberata, attinge in varia misura.
Potrebbe derivare da remote visioni della realtà come quella descritta l’imperturbabile indole orientale, più «tagliata» della nostra alla cura delle attività meditative. Appartiene alla stessa famiglia il «sorriso di rottura», da noi puntualmente sottovalutato a vantaggio del ragionamento, in nome del quale ingaggiamo con i problemi quotidiani lotte furibonde. Ma non sempre riusciamo ad averla vinta, motivo per cui diventiamo spesso preda dei sensi di colpa, oppure inventiamo alibi per dare ogni responsabilità a fattori esterni, o, peggio, spingiamo la mente ad alimentare fantasie spaventose che ingigantiscono le difficoltà.
L’immaginazione può essere pericolosa perché una volta attivata va per conto suo, finendo non di rado per arrovellarsi sul «peggio» che ancora deve arrivare. Legittimamente si teme qualcosa che minaccia la vita, o l’incolumità, ma è controproducente attivare il meccanismo di allerta prima del tempo, e magari lavorarci su con la fantasia. Al prossimo disagio le risorse necessarie per fronteggiare il nuovo ostacolo saranno esaurite, così si andrà incontro alla paura disarmati.

 

Va detto comunque che l’istinto autoflagellatorio nella cultura occidentale non c’è sempre stato ma è il frutto di certe pieghe assunte negli ultimi secoli dalla Storia, dalla società e dalle religioni. Dopotutto usciamo anche noi dalla stessa matrice polare-eurasiatica che ha sfornato le più importanti civiltà sviluppatesi ad est del continente, comprensibilmente differenti, ma affini sotto molti aspetti.
In passato siamo stati campioni mondiali di umorismo, abbiamo inventato persino la commedia (V secolo a.C.), e da un punto di vista strettamente linguistico «comico» e «commedia» hanno una comune origine nell’antica radice indoeuropea aweid, da cui deriva il greco antico aedon, l’usignolo. Secondo la narrativa tradizionale l’uomo-Adamo nel mondo primordiale parlava la lingua leggera e musicale (poetica) degli uccelli, detta anche dell’«illuminazione solare» (loghah suryaniyah), o «angelica», l’unica in cui lo stato umano poteva esprimere la sua corrispondenza con il divino.
Tutto fa pensare che ai primordi il sorriso del cuore fosse la regola. Ma poi vi fu il brutto incidente che tutti conosciamo, il peccato originale, in seguito al quale il dono della vita divenne una specie di affronto dal quale derivarono il diritto alla tristezza e il dovere di espiazione.

 

Come possiamo rimetterci in pari e recuperare ciò che abbiamo perduto? Non affidandoci sempre e comunque al pensiero, ad esempio, o allargando a dismisura il suo campo d’azione in modo da stemperare l’evento negativo nello spazio e impressionare meno il cervello. Oppure, esercitandoci a creare ingegnosi cortocircuiti sulla falsa riga di quella che le antiche filosofie (dalla Cina alla Grecia) chiamavano «la logica del paradosso».
A questo proposito troviamo un altro spunto interessante in Giappone, dove la Tradizione trascurata pressoché dappertutto non ha mai smesso di parlare all’anima del popolo e tuttora rappresenta la base civile e sociale dell’intera nazione. Tra i vari aneddoti paradossali che circolano laggiù ve n’è uno relativamente recente. Alla fine della Guerra del Pacifico, il 15 agosto del 1945, non contenti della resa incondizionata del Paese gli americani pretesero che l’imperatore Hirohito dichiarasse pubblicamente di non essere una divinità di «stirpe solare». Ascoltando alla radio lo storico comunicato i Giapponesi, poco avvezzi alla logica massmediatica della teologia occidentale, ne dedussero che Hirohito doveva essere davvero un dio solare, perché solo un dio aveva l’autorità di fare una dichiarazione di enorme portata come quella mandata in onda sulla rete nazionale.

 

Ci voleva una mentalità «antica» come quella nipponica per giungere a una simile conclusione? Nessun altro ci sarebbe arrivato? In realtà alcuni motivi culturali riscontrabili nel mondo mitico del Giappone si ritrovano, mutatis mutandis, nell’intera cintura sub-artica, ivi comprese certe zone settentrionali del Nordamerica abitate da circa 30-20.000 anni da popoli di indubbia provenienza eurasiatica, tanto che per l’immensa area culturale e genetica che comprende buona parte dell’Europa si potrebbe utilizzare il termine ibrido «Eurasiamerica».
Alla fine dei conti siamo anche noi quella roba lì, e il nostro peccato originale non è quello descritto dalla narrativa vigente bensì il ripudio della Tradizione. Distaccandoci dalla radice ci siamo illusi di possedere poteri che l’uomo non ha mai avuto, né avrà l’ambizioso h+, o homo plus, o uomo virtuale. Più andremo avanti a sognare, sempre più inaccettabili ci sembreranno le luci e le ombre che appaiano e scompaiano sul cammino esistenziale di ciascuno seguendo le regole di un gioco creato appositamente per avvicinare l’uomo al divino.
Insistendo in questa direzione auto-condanniamo noi stessi a un triste tramonto. Nonostante gli sforzi non potremo mai capacitarci di come sia possibile che la risposta si trovi solo nella soluzione finale del mistero della natura umana, cioè in un’altra vita. Quando invece possiamo scoprire in qualsiasi momento di non essere in una «valle di lacrime» bensì in una commedia priva logica, buffa, imprevedibile, casuale, indomabile. Una messa in scena da affrontare con avveduta leggerezza alla luce del sorriso che le compete.

 

Ci sarà pure un motivo se il comune antenato indoeuropeo, abituato a mettere ogni singola parola sul bilancino di precisione, ha dato al termine «spirito» il duplice significato di umorismo e di spiritualità. La radice indoeuropea ghel, da cui proviene il termine greco «ridere», cioè ghelao (γελάω), designa «ciò che brilla», da cui la serenità tipica del sorriso che colora di gentilezza la vita. Non ultima la saggezza del solstizio d’inverno, che presentandosi all’appuntamento annuale in punta di piedi annuncia il ritorno della luce parlando la lingua brillante della brina, dei lunghi tramonti rossi, dei gelidi cieli stellati.
Se il solstizio d’estate ride, quello d’inverno sorride. Entrambe le manifestazioni sono comprese nel processo riflessoidale controllato dalla parte primitiva dei «tre cervelli», quella che governa alcune attività riflesse come il comportamento emotivo, e non dalla corteccia palleale che vigila sulle facoltà cognitive. Ma la respirazione cambia tutto. Il sorriso la lascia intatta, essendo una reazione «gentile». O disinteressata, se si vuole, in quanto slegata dalla lotta biologica per la sopravvivenza. E proprio per questo ispirata. Il riso invece interrompe il respiro, manca il fiato quando si ride a crepapelle.
Il sorriso è un’arte che ama il silenzio e la lentezza, il riso si presenta come una chiassosa azione di rottura sollecitata da un’emozione giunta al culmine che chiede una valvola di sfogo. Tranne l’uomo nessun animale è in grado di produrre il suo suono (alle iene lo abbiamo affibbiato noi), né si fa venire le lacrime agli occhi ridendo.
Il sorriso dichiara l’intenzione di manifestare deliberatamente uno stato di gioia e/o rilassamento, mentre la risata liberatoria rivela un «crollo» improvviso. Vero è che in entrambi i casi c’è la volontà di prendere le distanze da una circostanza ingessata dalla paura e dalle convenzioni sociali, ma l’«atto di protesta» del riso si consuma in fretta mentre la capacità di sorridere una volta acquisita dura nel tempo, trasformandosi in una predisposizione del cuore più centrata su forza, coerenza, autenticità, spontaneità, naturalezza. Libertà.

 

Allegoricamente il buonumore che subentra alla malinconia è assimilabile all’uscita dalla caverna (il buio autunnale) della dea-sole Amaterasu (il ritorno della luce) e rappresenta in modo plastico il «solstizio della vita terrena» di ciascuno. Quante volte si chiude una fase nera per aprire uno spiraglio alla luce! Il cambiamento è necessario come l’ossigeno, e poco importa se una (libera) azione proiettata nel futuro entrerà in rotta di collisione con la «realtà dominante».
Come dice lo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie, nessuna strada è migliore di un’altra. Una strada è una strada, ciò che conta è camminare. E ogni specie è stata dotata da una Natura previdente del necessario per sopravvivere, rigenerarsi dopo il buio, curare le ferite fisiche ed emozionali, gestire le difficoltà.
Qualcosa si è rotto oppure è andato perduto strada facendo? Non è la prima né sarà l’ultima volta. I cocci possono essere raccolti e ricomposti in una nuova opera più bella e resistente della precedente. Le riparazioni si vedranno? Vorrà dire che le porteremo come medaglie al valore, essendo parte integrante della nostra storia. Sappiamo per esperienza che qualsiasi esistenza, persino la più perfetta, può rompersi con la stessa facilità con cui può ricomporsi.

 

Sulla scorta di questi sani principi tradizionali, che un tempo appartenevano anche alla nostra cultura, in Giappone i maestri kintsukuroi spolverano le crepe di un vaso rotto con della polvere d’oro, o d’argento, o di rame, mettendo in evidenza la riparazione per farne il simbolo della fragilità della vita, della sua forza e della sua bellezza. Il risultato è strabiliante. Percorso da linee che lo rendono unico nel suo genere, il «rottame» diventa una vera e propria opera d’arte. La casualità, o l’errore, l’hanno colpito ma non annientato, offrendogli la possibilità di avere un’anima nuova di zecca.
Tutto sommato è una fortuna che le cicatrici siano visibili perché tenendo bene in vista la riparazione di un danno, o la risoluzione di un fallimento, è possibile riderne senza farsi schiacciare dal peso delle frustrazioni. Non c’è motivo di ignorare ciò che tutti sanno: il buio tornerà, e con esso le ore tristi e gli scivolamenti. Elementi comunque insufficienti a rovinare l’armonia della vita presa nel suo insieme, una musica resa perfetta dal lavoro instancabile del mulino celeste che incessantemente divora e mette al mondo solstizi ed equinozi. Luci ed ombre.

 

A tutti gli amici di Ereticamente, buon Solstizio d’Inverno.

L'articolo La prima luce è un sorriso – Rita Remagnino proviene da EreticaMente.

L’urina come “acqua della vita” nella mitologia e nell’alchimia – Emanuele Franz

$
0
0

Pindaro quando dice che “l’acqua è la migliore delle cose” (Olimpiche, III, 42) non intende l’acqua come migliore di altri liquidi, che anzi l’accezione più ampia di acqua comprende, bensì migliore di tutte le cose. In che senso comprende altri liquidi?
Aristotele (nel Meteor. 382b) dice: “queste le forme dell’acqua: vino, urina, siero, etc.”.

È acclarato da diversi studi, fra cui l’encomiabile Le origini del pensiero Europeo (Adelphi 1998) di Richard Broxton Onians che per il greco di epoca arcaica il liquido, l’umido in generale, era associato alla forza vitale: più se ne possedeva e più si era forti e longevi. L’identificazione di questo liquido con una sostanza naturale è oggetto di riflessione da secoli: chi lo ha inteso nel vino, nell’ambrosia, nel ciceone, in qualche olio o decotto tale da dare, con l’immersione o la deglutizione, la longevità e il contatto col divino. Di esso sfugge una demarcazione precisa ma rimane chiaro che l’umore interno del corpo è sempre associato a forze superiori. Il sudore, ad esempio, era segno di forza e perderlo significava indebolirsi. Le lacrime, come lo starnuto, erano espressioni divine e la saliva trasmetteva le virtù dell’Anima, non a caso Cassandra, nel mito, riceve il dono della profezia bevendo la saliva del Dio Apollo. I liquidi del corpo sono sempre, inequivocabilmente, mediatori di un livello sovra-individuale. Ma che dire allora dell’urina?
Urina in greco è οὖρον (Uron) e nel mito ha proprietà generative basti pensare che dall’urina di Ermes nascono Zeus e Poseidone. Il gigante Orione nacque dall’urina di Zeus, Poseidone ed Ermete tant’è che il nome stesso di Orione deriva da Urion (urina) che commutò poi la prima lettera in O (Ovidio, Fasti, lib. V, cap. IV”)

“Aristomaco dice che un certo Irieo, a Tebe, pregò di avere un figlio. Giove, Mercurio e Nettuno andarono presso di lui, come ospiti, e gli ordinarono di sacrificare una vittima perché il figlio nascesse. Tolta la pelle al bue, gli dei vi orinarono sopra e, per ordine di Mercurio, della terra vi fu rovesciata; da questo nacque il sopraddetto, che chiamarono Orione… tira le stelle. Simile origine riporta Esiodo”
Fr. 246 [148 (b) M-W] Scolio agli Aratea di Germanico (citato in Esiodo, Tutte le opere e i frammenti con la prima traduzione degli scolii; a cura di Cesare Cassanmagnago, Bompiani 2009)

Robert Graves nei Miti Greci (Longanesi 1963) fa giustamente notare che Urione è «colui che produce l’acqua» e infatti la costellazione di Orione porta le piogge sia quando si leva in cielo sia quando tramonta. Il legame fra urina, acqua e generazione è vieppiù rafforzato in più fonti.

L’urina simboleggia la nascita di un figlio anche in fonti assire (A.L. Oppenheim, The Interpretation of Dreams in the Ancient Near East, Philadelphia 1956, p. 265)

È singolare che in zoologia i maschi delle giraffe, per conoscere la fertilità della femmina nell’accoppiamento, bevono l’urina della femmina. ¹
Parallelamente a questo la giraffa nella simbologia totemica è considerata spirito guida e simbolo di saggezza.

Ma il mito greco non finisce di sorprenderci nella vicenda di Zeus e Danae, quest’ultima fu fecondata da Zeus che si era mutato in pioggia d’oro, elemento inequivocabile che indica l’urina, anche questa volta associata a poteri generativi e vitali.

“Dicono che fu Giove, il quale, trasmutatosi in pioggia d’oro caduta sul seno di Danae, per tal modo poté averla sua, da essa era nato Perseo”
Apollodoro, Biblioteca IV, (Sonzogno 1826)

Il legame urina-acqua è attestato anche a livello etimologico.
Marco Terenzio Varrone vuole evidenziare che il termine urina, anticamente, fosse associato generalmente alle acque, infatti scrive che:
“Si tenevano, in cucina, le urnae (brocche) con l’acqua. Da ciò deriva il fatto che anche oggi si chiama urnarium il luogo davanti al bagno dove si solevano mettere le urnae con l’acqua. Il termine urnae trae origine dal fatto che nell’attinger acqua urinant (s’immergono) come fa il palombaro. Urinare vuol dire immergersi”
Marco Terenzio Varrone, De lingua latina, V, 27 (Utet 1974)

In epoca romana l’urina veniva raccolta dai vespasiani e venduta per la concia delle pelli, ed aveva addirittura una tassa. Catullo ne declama le proprietà sbiancanti per i denti. L’urina è acqua benefica in numerose tradizioni.
Nella tradizione Vedica ha proprietà curative. Il testo indiano Bahagavad Gita, in alcuni passi (3-10) relativi alla vacca santa, la “grande madre” accenna all’utilizzazione, tra l’altro, della sua urina fini purificatori e terapeutici.
Allo stesso modo negli inni del RgVeda I.43.4; II.35.7 e VII.35.6, Siva è definito jalasa-bhesaja ovvero colui la quale urina è medicina.

Il concetto è ripreso poi anche nell’AtharvaVeda; II.27.6, dove Rudra (Siva) è evocato come:
“Oh Rudra, il cui farmaco è l’urina”.
In altri passi dei Veda Samhita l’urina è accostata al Soma tanto da far supporre ad alcuni studiosi che in essa potesse identificarsi la leggendaria amrita, la bevanda dell’immortalità, l’acqua della vita eterna.
Evidentemente ciò che viene prodotto da ciò che è Sacro è sacro a sua volta.

Le proprietà curative dell’urina sono attestate in Erodoto in cui si narra che Re egiziano Ferone rimase cieco per dieci anni finché, l’undicesimo, un oracolo gli predisse che:
“Avrebbe rivisto la luce se si fosse lavato gli occhi con l’urina di una donna che avesse avuto rapporti soltanto con il proprio marito e che non avesse conosciuto altri uomini.”
Erodoto, Storie, Libro Secondo, l’Egitto, 111 (Newton editori 2007)

Dopo aver provato senza efficacia diverse lavature con diverse donne (compresa sua moglie) senza avere successo finalmente trovò la donna giusta e prese infine per moglie quella “il cui lavacro d’urina gli aveva ridato la vista”
Erodoto, Storie, Libro Secondo, l’Egitto, 111 (Newton editori 2007)

In questo caso, come in altri, la virtù della donna si trasmette attraverso il suo liquido.

Diodoro Siculo nella sua Biblioteca Storica (Capitolo VII) evidenzia lo stesso episodio citato da Erodoto dicendo che l’oracolo avvertì Ferone di “lavarsi la faccia con orina di donna”, quindi cospargendosi interamente il volto di urina.

Sempre Erodoto nelle Storie (IV, 187) declama la salute del popolo dei Libi e cita il fatto che i bambini che soffrivano di spasmi “li guariscono aspergendoli con urina di capro” evidentemente persuasi della fora vitale dell’animale e che questa si trametta nell’urina.

Strabone nel III libro della Geografia riferisce dell’usanza dei popoli Iberici di raccogliere l’urina nelle cisterne e di lavarsi con essa il corpo e i denti.

Nella mitologia delle tribù australiane l’urina è legata all’acqua sacra. Riferisce Mircea Eliade nella sua Enciclopedia delle religioni (Vol 15, pag.34, Jaca Book 1993) che nei miti aborigeni:
“Alcuni personaggi mitici creavano riserve di cibo e acqua precedentemente inesistenti. Ad esempio, nella Terra di Arnhem orientale le sorelle Djanggawul avevano urinato per fornire acqua alla popolazione umana del luogo. Alcune di queste acque erano così sacre che l’accesso a esse era riservato” (Mircea Eliade, Enciclopedia delle religioni, Vol. 15, pag. 34)

“Quando si spostavano, questi esseri mitici lasciavano alcuni segni della loro presenza: un corso d’acqua scavato dal loro cammino, un affioramento roccioso formato dalle armi o da altri oggetti dimenticati, un deposito di ocra rossa scaturito dal sangue versato, una depressione lasciata dal segno delle natiche dove si erano seduti, un avvallamento nel terreno dove si erano coricati, pozze d’acqua dove avevano urinato” (Mircea Eliade, Enciclopedia delle religioni, Vol. 15, pag. 106)

La madre di tutti gli esseri umani, chiamata nella mitologia australiana gagag, urina per dissetare gli esseri viventi.
“Alcune donne gunwinggu narrarono che:
-La chiamiamo tutti gagag, «madre della madre». Noi viviamo sulla terra, lei sotto, nella terra e nelle acque. Ha urinato acqua per darci da bere, altrimenti saremmo morti di sete-”
(Mircea Eliade, Enciclopedia delle religioni, Vol. 15, pag.254)

Julius Evola nel suo celebre La Tradizione Ermetica traccia una acuta disamina dell’uso di erbe magiche nel seno delle tradizioni concernenti le «bevande sacre» o «d’immortalità», quali il Soma vedico, l’Haoma iranico, l’idromele eddico e lo stesso vino adducendo che se talora si è parlato di un valore simbolico di un’Acqua spirituale dall’altra la ritualità antica ha conosciuto l’uso di sostanze tali da predisporre uno stato psico- fisico costituente una condizione favorevole al contatto spirituale.

“Lo stesso si dica per ciò che viene designato in certi testi alchimici con urina vinis, equivalente a -Urina di ubbriaco-. «Urina» viene spiegato mediante la radice Ur, che in caldaico designa il fuoco (urere =ardere). «Urina d’ubbriaco» allude allo stato di esaltazione, di ebrezza o entusiasmo -mania – cui si lega una delle manifestazioni di un tale fuoco: mentre altri aggiungono che l’urina deve esser di «bambino» e di «impubere», alludendo alla condizione di semplicità e di purezza”.
Julius Evola, La Tradizione Ermetica, pag. 140 (Edizioni Mediterranee 2006)

Sulla urina nel campo specifico dell’alchimia tornerà Carl Gustav Jung nella sua opera Psicologia e alchimia con il concetto di acqua permanens. L’Acqua permanens fu per gli alchimisti un’acqua capace di conferire proprietà sorprendenti.
Essa faceva parte della Grande Opera per il raggiungimento della Pietra filosofale, la Lapis filosoforum.
L’alchimista inglese George Ripley scrive che dalla pietra dei filosofi sgorga l’acqua permanens, poiché la materia prima è l’acqua. Il vaso ermetico, l’Atanor, è il contenitore dell’acqua della vita, come la madre tiene in grembo nella placenta il nascituro. Athanasius Kircher, parlando della quinta essenza, la definisce come: “Aurum potabile, aqua permanens, vinum ardens, elixir vitae, solutio coeli”. Ebbene quest’acqua sovente è identificata con l’urina per le ragioni citate cui parla Evola.

Mircea Eliade in L’alchimia asiatica parla dell’associazione dell’urina con l’Elixir della lunga vita.
“Alchimisti che praticavano l’arte segreta della fabbricazione dell’oro e conoscevano l’Elixír di lunga vita. Cosi, ad esempio, un testo del siddha Carpati cita dei processi alchemici; Karnari è in grado di ottenere l’Elixir di lunga vita a partire dall’urina”
Mircea Eliade, L’alchimia asiatica (Boringhieri 2001, pag. 87)

Per l’alchimista la Pietra filosofale è al tempo stesso la più nobile e la più vile delle sostanze, sotto gli occhi di tutti e gettata via. Sarà proprio l’urina?

Gli alchimisti, fra cui Paracelso, definiscono la Pietra filosofale come “oro potabile”, stanno parlando dell’urina? Molto probabilmente sì.

Abbiamo visto in diverse tradizioni, culture e popoli come l’urina abbia assunto valenze simboliche e religiose tali da essere associata alla vita, alla generazione e alla prosperità. La modernità ha relegato questo liquido nel campo dei “rifiuti” del corpo, quand’esso, invece, è un dono.

Emanuele Franz
11.02.2024

Note: ¹ https://www.scienzenotizie.it/2023/02/14/una-strana-abitudine-sessuale-delle-giraffe-ha-sorpreso-gli-esperti-3666014

L'articolo L’urina come “acqua della vita” nella mitologia e nell’alchimia – Emanuele Franz proviene da EreticaMente.

HPL poeta politico: una guida tascabile – 9^ parte – Francesco G. Manetti

$
0
0

9^ parte – Un alieno inglese a New York: 1923 – 1925

Gli anni del matrimonio con Sonia Greene (che nella vita di coppia e persino in una poesia HPL chiamò con il pungente pseudonimo di Santippe, la moglie di Socrate, bisbetica per antonomasia) coincidono con gli anni di soggiorno a New York, una metropoli frenetica in cui Lovecraft si sentì spesso fuori luogo – soffocato e disgustato dalla folla “multietnica”. Non a caso, quando nel 1926 tornò a Providence, lontano dai grattacieli e da Sonia, inaugurò il periodo migliore e più fertile della sua produzione letteraria in prosa. Sul fronte poetico notiamo un continuo inaridirsi della vena polemica, satirica e scorretta che aveva caratterizzato i suoi versi nel decennio precedente. Del resto, in questo periodo, i componimenti di Lovecraft sono quasi esclusivamente dedicati agli amici e ai colleghi della stampa amatoriale oppure a riflessioni su paesaggi e cambi di stagione; non mancano però alcuni luminosi e brillanti sprazzi politici.

Lovecraft a Boston con Kleiner e Sonia Greene

55. To Rheinhart Kleiner, Esq. (Al cav, Rheinhart Kleiner), 1923

Sicuramente non una “poesia politica” in senso stretto, questa dedicata dallo scrittore al suo grande amico e “collega” nella stampa amatoriale, ma interessante ai fini della nostra indagine perché riprende in alcuni versi la polemica contro i poeti moderni (per HPL del tutto incomprensibili e “traditori” della letteratura in inglese) che in Plaster-All e Waste Paper del 1922 aveva raggiunto le sue vette più alte. All’inizio del componimento Lovercraft, per criticare le nuove “mode” poetiche scomoda addirittura l’antichità classica:

Zoilus declares no verses to be good

Which by the public can be understood,

Whilst babbling Macer puffs with pomp profound

Him who least shews the world we see around.

(Zoilo dichiara che nessun verso è buono

Se i lettori riescono a capirlo,

Mentre il farfugliante Macro esalta con gran pompa

Colui che meno riesce a far comprendere il mondo intorno a noi.)

Dattiloscritto originale della poesia “Al cav, Rheinhart Kleiner”

Da notare che il filosofo greco Zoilo era stato (fra il quarto e il terzo secolo a.C.) il critico più acceso dell’opera di Omero, mentre il poeta romano Emilio Macro (scomparso intorno al 16 a.C.) era noto per le descrizioni scientifiche della natura vergate in stile estremamente didascalico e tecnicistico, talvolta oscuro.

56. The Feast (Il banchetto), 1923

La poesia, come non manca di notare S. T. Joshi in The Ancient Track, commemora una vivace e conviviale riunione dello Hub Club che si tenne a Boston il 10 e l’11 marzo 1923, occasione alla quale HPL partecipò. Interessante leggere l’introduzione al componimento, una sorta di epistola indirizzata ad Albert Sandusky (qui insignito del titolo di “crackwise”, ovvero “spiritosone”), un poeta amico di Lovecraft, che aveva stampato i primi numeri del “Conservative”, scrittore specializzato nell’uso dello slang e delle varie espressioni gergali e “di strada” americane. HPL solitamente odiava tutto ciò, considerando queste “pratiche” una perversione dell’inglese classico e letterario, ma nel caso di Sandusky ne rimase stranamente affascinato, anche se non del tutto convinto. Nell’introduzione HPL si definiva un “vecchio e obsoleto signore di campagna”, “un uomo di antico stampo, ancora affezionato al linguaggio dell’epoca del Dr. Johnson”, mentre Sandusky aveva “enormemente arricchito la parte più frivola della lingua inglese” ed era “il creatore di un linguaggio attuale che diventerà classico di qui a un secolo”.

57. On the Pyramids (Sulle piramidi), 1924

Si tratta di una piccola satira senza titolo (On the Pyramids le è stato attribuito da S. T. Joshi) sugli egiziani indolenti, che oggi sarebbe bollata come “politicamente scorretta”, anche se evoca solo lontanamente lo spirito arguto e terribile dei componimenti “razziali” degli anni precedenti. Fu composta da HPL mentre stava terminando il suo racconto Under the Pyramids, scritto in nome e per conto del prestigiatore Houdini.

There was an old greezer from Gizeh,

Who us’d to take everything ihzeh:

When the big sandstorm came,

He would squat just the same,

And declare it was pleasantly brihzeh!

(C’era un vecchio pelandrone di Giza

Che se la prendeva sempre comoda:

Quando arrivò la grande tempesta di sabbia,

Rimase accucciato per terra come al solito,

Sostenendo che fosse piacevolmente rinfrescante!)

58. On Rheinhart Kleiner Being Hit by an Automobile (Su Rheinhart Kleiner investito da un’automobile), 1924

Anche un normale incidente stradale senza serie conseguenze del quale fu vittima l’amico Rheinhart Kleiner porta HPL a riflettere sui guai del mondo moderno e in particolare sull’alto tasso di inciviltà delle metropoli. L’automobile è dunque una mera “forza meccanica”, “una distruttrice idiota” opposta al “gentile poeta”, le ruote sono “insensate”, la materia che compone la macchina è “insensibile” e “cieca” nel suo percorso.

59. My Favourite Character (Il mio personaggio preferito), 1925

Il 31 gennaio 1925 si riunì il Blue Pencil Club di Brooklyn e a tutti i soci – come racconta S. T. Joshi – fu chiesto di scrivere un componimento a tema, in questo caso sul proprio personaggio letterario preferito. HPL si distinse perché fece finta di schernirsi, in questi versi, definendosi ignorante, dai gusti troppo volgari (non a caso citava Nick Carter e altri personaggi della dime press, ovvero quei periodici popolari o romanzi d’appendice che venivano venduti negli Stati Uniti a un “dime”, dieci centesimi di dollaro) e incapace di decidere al meglio, “umiliandosi” davanti a tutti coloro che sicuramente avrebbero scelto moderni personaggi contemporanei e alla moda, magari tratti da futuribili autori “cubisti” oppure dall’Ulisse di Joyce o dalle opere di Eliot. Un universo letterario moderno che Lovecraft odiava, tanto che alla fine del componimento decide di premiare se stesso!

Lovecraft a New York

60. On a Politician (Su un politico), 1925

Una brevissima satira politica – cosa più unica che rara in questi anni per HPL – dedicata ad Algernon I. Nova, il cui banchetto elettorale il poeta vide a Brooklyn presumibilmente nell’autunno del 1925: Nova sarebbe stato eletto giudice del tribunale della contea di Kings, che corrisponde territorialmente a Brooklyn. Nei versi, secchi e rarefatti, Lovecraft distilla tutta la sua fastidiosa indifferenza per la politica spicciola.

—–

Riferimenti al mondo passato nostalgicamente rimpianto, all’Europa antica, alla mitologia greco-latina, e così via, si trovano in altri componimenti del periodo: Chloris and Damon e Damon and Lycë, poesie dedicate all’amico Galpin; To Endymion, componimento scritto in onore del giovane amico Frank Belknap Long; Stanzas to Samarkanda, una parodia delle ultime battute della commedia Hassan di James Elroy Flecker; Providence, un appassionato e nostalgico ritratto della sua città; Solstice, una poesia “natalizia” intrisa di tradizionale paganesimo; On the Double-R Coffee House, dove una caffetteria di Manhattan diventa un rifugio sicuro e tranquillo dal caos della megalopoli; Primavera, una sorta di ritratto fantastico e misterioso della stagione del risveglio; A Year Off, nel quale HPL immagina di concedersi un anno sabbatico in giro per il mondo, riscoprendo in Europa, in Africa e in Asia i luoghi mitici dell’antichità classica; Festival, un’altra singolare poesia dissacrante del periodo natalizio, che si tinge di fosche tinte demoniache.

L'articolo HPL poeta politico: una guida tascabile – 9^ parte – Francesco G. Manetti proviene da EreticaMente.

HPL poeta politico: una guida tascabile – 11^ e ultima parte – Francesco G. Manetti

$
0
0

11^ e ultima parte – Sipario: 1930 – 1937

Il periodo finale di HPL nelle vesti di poeta, corrispondente agli anni Trenta, fu particolarmente sterile (prestando fede alla cronologia stilata da S. T. Joshi fra il 2001 e il 2013): un solo poema nel 1930, due nel 1931, nessuno nel 1932, nel 1933 e nell’anno in cui lo scrittore morì, il 1937… Abbiamo in totale 16 componimenti noti in quel decennio, di cui uno, Wet Dream Song, di datazione incerta. Dopo un estremo baluginio “politico” (nel 1934 e nel 1935), dopo l’ultima poesia nota nel dicembre del 1936 – dedicata a Clark Ashton Smith, scrittore del fantastico e collega del Nostro su “Weird Tales” – cala il sipario. Negli ultimi due mesi di vita HPL tenne con piglio scientifico e grande forza d’animo un diario – andato perduto – sul quale annotava i progressi della sua malattia, un cancro all’intestino scoperto in fase ormai terminale, e gli effetti delle cure alle quali era sottoposto. Howard Phillips Lovecraft, l’autodidatta, il solitario, il pensatore cosmico, il genio incompreso che aveva precorso i suoi tempi, destinato a meravigliare generazioni di lettori e a ispirare scrittori, artisti e intellettuali di ogni dove, colui che ancora oggi “Wikipedia” definisce – con disprezzo e in maniera estremamente riduttiva – “un suprematista bianco”, si spense a Providence il 15 marzo 1937.

68. Edith Miniter, 1934

La Miniter era una delle più care conoscenze di HPL nel mondo della stampa amatoriale e quando la scrittrice del Massachussets morì nel 1934 Lovecraft compose questa elegia, profondamente sentita e ispirata. La poetica della Miniter era molto apprezzata dal tradizionalista Sognatore di Providence:

Through her the hills their age-long memories told;

Their centuried heritage unmixed she bore;

And now those rock-strown slopes at last enfold

Her kindred dust—a child come home once more.

She knew the lore of distant, crowded ways;

The sights and language of the market-place;

But deep within, there flowed through all her days

The currents of New England’s changless race.

(Per mezzo di lei le colline svelavano i loro antichi ricordi;

Lei tramandava intatta il loro secolare retaggio;

E adesso quei pendii rocciosi finalmente racchiudono

I suoi resti, a loro affini – una bambina di nuovo tornata a casa.

Conosceva le tradizioni di vie lontane e affollate;

Gli scorci e il gergo del mercato;

Ma nel profondo, scorrevano sempre in lei

Le correnti dell’eterna razza del New England.)

Dattiloscritto originale di “Edith Miniter”

69. (Wet) Dream Song (La canzone del sogno “erotico”), 1935

Breve parodia di certa poesia amatoriale, della quale Lovecraft era stato esponente di punta, che pretendeva di fare intellettuale simbolismo, quando invece produceva soltanto accozzaglie di versi incoerenti e incomprensibili (lo spiega lo stesso HPL sul retro del manoscritto). Per esempio, il “prurito” attribuito a Saffo è inteso da HPL in senso sessuale oppure fisico? The itch può infatti essere anche la scabbia…

Homer had the pox,

Sappho had the itch,

But I’m just a vox-

Popular sonofabitch.

(Omero aveva il vaiolo,

Saffo aveva il prurito,

Ma io sono soltanto

Un ben noto e popolare figlio di puttana.)

Manoscritto originale di “Wet Dream Song”

70. Arcadia, 1935

Parodia dei locali e degli artisti del sopravvalutato Greenwich Village di New York (la poesia è ironicamente accreditata a Fred Balledup, il cui cognome significa “imballato” e dunque “confuso”); faceva parte di un gruppo di componimenti ironici raggruppati sotto il titolo Tosh Bosh (termini che richiamano il “blaterare”):

Here every bard is a genius,

And artists are Raphaels,

And above the roofs of Patchin Place

The Muse of Talent dwells.

(Qui ogni bardo è un genio,

E ogni artista un Raffaello,

E sui tetti di Patchin Place

Dimora la Musa del Talento)

Manoscritto originale (insieme ad altri) di “Arcadia”

71. Lullaby for the Dionne Quintuplets (Ninna-nanna per le cinque gemelle Dionne), 1935

Si tratta dell’ennesima parodia dei componimenti amatoriali troppo “cerebrali” e “impegnati” (appartenente anch’essa al gruppo “Tosh Bosh”). La poesia, in quattro versi, è “vuota”, contenendo a imitazione del futurismo non parole ma solo linee tipografiche; la firma finale di Giambattista della Sforza è ovviamente falsa. Le cinque gemelle Dionne erano nate in Canada il 28 maggio del 1934 ed erano subito diventate famosissime perché frutto del primo parto noto plurigemellare al mondo portato felicemente a termine senza che morisse alcun neonato; le ragazzine furono protagoniste di calendari, cartoline, libri e film negli anni Trenta e oltre; al momento in cui scriviamo due di loro, novantenni, sono ancora vive: si tratta di Annette Lillianne Marie Allard e di Cécile Marie Émilda Langlois.

——————————————————————————————————————

Riferimenti al mondo passato nostalgicamente rimpianto, all’Europa antica, alla mitologia greco-latina, e così via, si trovano in altri componimenti del periodo: Veteropinguis Redivivus, un poema dedicato agli animali da compagnia della scrittrice Edith Miniter; Anthem of the Kappa Alpha Tau, un divertente inno a un branco di gatti che stazionava nei pressi dell’abitazione di HPL; In a Sequester’d Providence Churchyard, ispirata da “un solitario cimitero di Providence” che fu più volte visitato da Edgar Allan Poe nel 1848/49 quando corteggiava la poetessa del luogo Sarah Helen Whitman; etc.

Dattiloscritto originale per “Lullaby for the Dionne Quintuplets”

L'articolo HPL poeta politico: una guida tascabile – 11^ e ultima parte – Francesco G. Manetti proviene da EreticaMente.


La filosofia decadente dell’Ulisse dantesco e i suoi ammonimenti all’uomo moderno – Jari Padoan

$
0
0

I temi più caratteristici e famosi del XXVI canto dell’Inferno dantesco, e i significati che la figura magistrale del suo Ulisse reca con sé, sono in realtà anche i più fraintesi, o almeno quelli la cui comprensione è spesso alquanto approssimata. Notoriamente, questi concetti centrali del canto sono: l’evidente peccato di frode commesso da Ulisse che giustifica la sua presenza nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio (ma è appunto il caso di approfondire per quale frode, in particolare, l’eroe greco si sia assicurato la dannazione eterna); l’altrettanto evidente atto di “superbia” dell’attraversamento delle Colonne d’Ercole; e, in diretta e stretta relazione con tutto ciò, la celeberrima e proverbiale «orazion picciola», questo breve proclama, se non un vero e proprio “manifesto” improvvisato da Ulisse per persuadere i fedeli compagni a lanciarsi oltre il limite estremo del mondo conosciuto, nell’ultima avventura che non avrà il successo sperato. Questi punti, come si vedrà $1000 cash loan online, si rivelano latori di precise questioni etico-filosofiche particolarmente care al Dante poeta e uomo, questioni che si deve tentare di decifrare e approfondire per poter comprendere appieno questo indimenticabile episodio del poema.

È molto importante delineare su quali basi e quali ispirazioni l’Alighieri abbia modellato questa sua personale re-invenzione fantastica non solo della figura di Ulisse, ma anche del contesto al quale questo personaggio archetipico dell’immaginario occidentale è da sempre inestricabilmente legato: il suo viaggio, o meglio la sua navigazione, verso l’ignoto. Consideriamo intanto che è regola costante nell’opera del Dante poeta, e in particolare nello scrittore della Divina Commedia, quella di elaborare le proprie invenzioni poetiche sulla base di una o più auctoritates della tradizione letteraria (nonché, ovviamente, filosofica o religiosa), per poi riservarsi un largo margine di libertà nell’integrare e ricomporre i vari elementi e le varie fonti, in un procedimento del tutto normale e naturale per ogni grande Autore. Notoriamente il codice poetico dantesco va infatti ricercato nei grandi poeti latini come Virgilio, Orazio, Stazio (del quale Dante, oltre a mantenere come opere di riferimento l’Achilleide e la Tebaide, farà un importante personaggio nel Purgatorio) e Ovidio, le cui Metamorfosi rappresentano una inesauribile enciclopedia di mitologia classica e in particolare greca, sulla quale verranno modellate proprio le immagini mitologiche rievocate nella Commedia. Vari studiosi che si sono occupati del XXVI canto (ad esempio il dantista inglese Edward Moore, autore di importanti studi risalenti a inizio Novecento) hanno quindi individuato con un buon margine di probabilità in questi e in altri fondamentali autori le fonti alle quali Dante può avere attinto per la sua personale ricostruzione del personaggio di Ulisse. Ma, risalendo alle lontane origini della questione, è noto che il topos del viaggio del Laerziade attraverso l’Oceano fino ai più remoti confini del mondo è presente già nell’Odissea omerica, e si tratta anzi di un elemento-chiave nella struttura e nella trama del poema: fin dall’apertura del primo libro si sa che l’eroe è ospite da ben sette anni presso Calipso, nella leggendaria isola di Ogigia, ubicata, a quanto si desume, nel mare aperto aldilà dello stretto di Gibilterra e definita come l’«ombelico» o il centro del mare.[I] Ma il fascino della figura di Ulisse, che per la tradizione classica è per antonomasia quella del viaggiatore ai confini del mondo –oltre che del guerriero sagace, astuto e potenzialmente fraudolento, come vedremo tra poco– si radicherà ben oltre la cultura dell’Ellade antica.

Il tema dei viaggi dell’eroe aldilà delle Colonne d’Ercole prima, dopo o invece del ritorno ad Itaca, che in questo modo riconferma il suo essere il grande simbolo dell’esplorazione dell’ignoto, viene infatti ripreso (o meglio, spesso perlopiù accennato, senza in realtà trovare una autentica codificazione attraverso un’opera definita) da numerosi fonti nella letteratura latina, e anzi da alcuni tra i suoi massimi esponenti. Proprio a cominciare dal succitato Ovidio, che rievoca in più punti delle sue opere l’aneddoto di Ulisse che non torna più all’isola natia ma riprende imperterrito le sue peregrinazioni marine, dimostrando ben poco riguardo nei confronti della straziata Penelope.[II] Segue Orazio che, in una sua epistola all’amico Massimo Lollio, non lesina di lodare Ulisse come esemplare figura eroica votata ad esplorare l’inconsueto, ricordando: «Quid virtus et sapientia possit utile proposuit nobis exemplar Ulixen, qui domitor Troiae multorum providus urbes, et mores hominum inspexit latumque per aequor». Oltre al passo oraziano, in cui si nota l’espressione «virtus et sapientia» che non può che ricordare direttamente il «virtute e canoscenza» del canto dantesco, vanno ricordati due passi di Lucio Anneo Seneca. Nell’Epistola LXXXXVIII ad Lucilium, il filosofo accenna a un possibile viaggio di Ulisse «extra notus nobis orbem», mentre nel De constantia sapientis l’eroe viene annoverato tra gli uomini che, in linea con la visione dello stoicismo romano, sopportano con pazienza e fierezza le avversità del Fato ineluttabile. Si ha inoltre un passo nel De finibus di Cicerone molto importante in questo senso, in cui il viaggiare di Ulisse è esaltato e interpretato come manifestazione di una ardente bramosia di scoprire, per la quale egli preferisce le avventure e i pericoli dell’errare per terre e mari anziché «Regnare et Ithacae vivere otiose cum parentibus, cum uxore, cum filio» (e anche in questo caso pare di leggere un evidente e diretto modello per i versi del XXVI canto).

Si potrebbero aggiungere molti altri riferimenti al tema, ad esempio da parte di Plinio il Vecchio, del geografo Giulio Solino e in opere poetiche come le Elegie di Properzio o le Fabulae di Iginio. Nella tarda antichità il tema è accennato nei Saturnalia di Macrobio e nell’opera di Cratete di Mallo, fino a sconfinare nella cultura medievale e in particolare in certe famose compilazioni di poesia epica, nella fattispecie la cosiddetta materia troiana, ripresa in opere come il tardo Historia Destructionis Troiae di Guido delle Colonne, risalente allo stesso XIII secolo che vede la nascita di Dante.

L’altra grande questione che interessa il XXVI canto, si è detto, è quella dell’Ulisse astuto e infido per antonomasia. Nel canone omerico, tra gli eroi tradizionali achei Ulisse è il simbolo della versatilità della mente umana, e dell’ingegno spesso votato all’astuzia fraudolenta; tale immagine è tipica soprattutto dell’Iliade, senza dimenticare celeberrimi episodi dell’Odissea (ma il poema del ritorno riporta comunque l’immagine di un Ulisse più sensibile e umano proprio perché provato dagli anni e dalle esperienze, e il cui principale obiettivo è l’agognato ritorno alla Terra dei Padri). Una figura quindi molto ambigua, in questo modo idealmente contrapposta a quella di Aiace Telamonio, che rappresenta invece l’eroe integerrimo, a sua volta ancora diverso da Achille, personaggio estremamente instabile e problematico (la sua ben nota caratteristica, oltre al massimo valore guerriero, è quella di essere propenso alla μηνιν, l’ira funesta). Uno degli epiteti di Ulisse più ricorrenti nell’epica omerica è quello di «πολιμετις Οδυσσεύς», «Odisseo dai molti accorgimenti» (per esempio in Iliade, III, 200) e il tratto principale attraverso cui il suo ingegno si esprime è quello dell’arte oratoria, della locutio: Ulisse è il guerriero che riesce a volgere le cose a proprio vantaggio con l’arte della parola e della persuasione. In seguito, nell’Eneide, Virgilio traccia un ritratto alquanto negativo dell’eroe itacese, se viene ricordato con la definizione di «scelerumque inventor» (II, 164), in riferimento non solo al celeberrimo inganno del Cavallo di legno, ma all’altrettanto poco encomiabile gesto di sottrarre la statua di Pallade dal tempio sulla rocca di Ilio, sempre con la partecipazione dell’alleato Diomede, in modo da inficiare la protezione divina sulla città. Oppure, in occasione dello scontro tra l’esercito dei Teucri e dei Rutuli in terra latina (IX, 602), il re Turno irride Enea e i suoi uomini affermando che i Rutuli si faranno valere ben più dei contingenti greci a Troia, celebri per il loro Ulisse «ciarliero e mentitore» («non hic Atridae, nec fandi fictor Ulixes»). Anche grazie al massimo poeta epico di Roma e i suoi «alti versi», quindi, la fama di essere stato (tra l’altro) un avversario poco onesto e un infido affabulatore è assicurata al re di Itaca, che non casualmente verrà ritratto da Dante, per la legge del contrappasso, dannato all’interno di una lingua di fuoco.

Avvicinandoci appunto al personaggio che il Poeta colloca in quel di Malebolge, è evidente che non si tratta certo dell’Ulisse stoico, o comunque riflessivo e paziente, che avrebbe voluto Seneca; l’Alighieri lo modella su tratti evidentemente più ispirati a quelli riportati da Cicerone e da Orazio, che restituiscono la proverbiale curiositas di Ulisse, denotandolo come colui che vaga per i mari perlopiù allo scopo di un personale inspicere mores hominum, indagare le usanze degli uomini e dei popoli. È proprio in questo contesto che Dante ascrive l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra, che l’eroe compie in quello che si rivelerebbe il suo definitivo atto di superbia, o meglio, di tracotanza e di mancato rispetto della norma. Nella simbologia mitologica, le Colonne d’Ercole rappresentano notoriamente il preciso limite di azione e di esperienza dal quale, per l’uomo, è ancora possibile il ritorno. Lo stesso Eracle/Ercole, appunto, si è recato per ben due volte, nel corso delle dodici fatiche, nell’estremo occidente dell’Oceano per raggiungere l’Orto delle Esperidi da cui cogliere la mela d’oro e nell’isola Eritea per domare i buoi di Gerione: al ritorno da quest’impresa, le due montagne (il Monte Abila e il Monte Calpe) che l’eroe sposta con la propria forza sovrumana, e pone rispettivamente sulla costa mauritana e su quella iberica, si rivelano così non solo l’ultimo confine del mondo familiare alle culture del Mediterraneo antico, non solo tra noto e ignoto, ma anche tra noto e ciò che non è stato dato conoscere. Essendo Eracle una manifestazione divina (è un semidio figlio di Zeus e della mortale Alcmena), questo limite ultimo indica anche quello tra fas e nefas, «acciò che l’uom più oltre non si metta» (Inferno, XXVI, 109). L’Ulisse di Dante compirebbe così un tipico atto di υβρίϛ, che per la tradizione e la visione del mondo ellenica è forse l’unica grande colpa, manifestabile in varie forme di violenza e scorrettezza (orgoglio, omicidio, incesto, negligenza verso il Divino …), ma sempre riconducibile ad una problematica ben precisa: lo sconsiderato superamento dei limiti imposti all’essere umano dalla natura, e quindi dalla divinità. Fin dalla captatio benevolentiae che Virgilio rivolge alla fiamma bicornuta («…ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi», v.84) si comprende infatti che quello di Ulisse è stato un viaggio destinato alla sconfitta e alla fine (e la scelta da parte del Maestro di chiedere all’eroe greco di raccontare la sua ultima avventura avviene, nella finzione poetica, in modo che Dante stesso possa trarre insegnamento,[III] per i motivi che vedremo). Ma come si lega, quindi, questo atto di “dismisura” intellettuale e pratica al peccato di frode che l’Itacese sta scontando nell’Inferno dantesco? Sono indipendenti, ovvero Ulisse è sì un ben noto fraudolento ed è anche un superbo e un empio verso le leggi divine, oppure vi è una vera e propria connessione?

A questo proposito, si giunge a un punto focale: Dante fa pronunciare al suo Ulisse, nell’orazion picciola, lo stesso identico principio espresso in apertura della Metafisica aristotelica. Se, dal punto di vista poetico-letterario, il modello dell’orazione di Ulisse è probabilmente da ricercare nel discorso che Enea rivolge ai compagni (Aen. I, 202), esortandoli appunto con «O socii…», il contenuto delle parole dell’eroe acheo è una citazione quasi letterale dell’incipit del testo di Aristotele (riportata da Dante anche in apertura del suo Convivio): «Πάντες ᾶνθρωποι τοῡ είδέναι ὀρέϒονται φύσει» («tutti gli uomini per natura tendono al sapere»).[IV] È stato affermato da studiosi come Mario Fubini (1900-1977), e più recentemente Massimo Cacciari, che la chiave per comprendere questa figura dell’Ulisse dell’Inferno, tanto drammatica quanto complessa ed enigmatica, sia non solo considerare questo dato di fatto ma anche in che modo intendere questo “aristotelismo dell’Ulisse dantesco”; si ricordi infatti che Dante non aveva una autentica conoscenza di Omero (se non indiretta, attraverso la moltitudine di riferimenti e citazioni dei grandi autori latini), ma vantava invece un profondo studio dell’opera dello Stagirita.

Per Dante, uomo e intellettuale del basso Medioevo, Aristotele è infatti il paradigma filosofico per definizione,[V] è il «maestro di color che sanno» (Inf., IV, 144) che siede fra la filosofica famiglia nel castello degli Spiriti Magni. Il poeta, naturalmente, non è certo alieno dalle dottrine del platonismo, anzi: l’influenza del pensiero di Platone, nella cultura del Medioevo occidentale, è pressoché ovunque per quanto esso sia filtrato attraverso le studiatissime opere di autori cristiani come Agostino, Boezio, Origene, lo pseudo-Dionigi Aeropagita… Senza contare che accanto alla Patristica e alla stessa Bibbia (il testo che fornisce il bagaglio ideologico di tutto il Medioevo,[VI] secondo Jacques Le Goff) rimane imprescindibile e onnipresente l’importanza dei classici latini di cui sopra, per quanto reinterpretati in chiave cristiana (come lo stesso Virgilio, e si ricordino a questo proposito i riferimenti platonico-pitagorici del VI canto dell’Eneide). Una tradizione ben familiare a Dante il quale, forse, potrebbe avere letto anche il commento al Timeo scritto in latino da Calcidio, testo fondamentale in quanto unica fonte medioevale pressoché completa e diretta sulle dottrine platoniche (ipotesi a cui darebbe adito il riferimento, nel II libro del Convivio dantesco, alle Intelligenze Celesti di cui si argomenta nel Timeo).

Secondo il primo tomo della Metafisica, la particolarità e la caratteristica intrinseca dell’essere umano è quella di venire affascinato dal trauma, dalla meraviglia dell’Essere che lo colpisce nel profondo, e lo spinge a muoversi verso di essa, nel tentativo di conoscere il suddetto. Per il dizionario Rocci, θαυμα è «meraviglia», «prodigio», «miracolo» (ma «anche in senso spaventoso e negativo», accezione che è rimasta nell’uso comune del concetto di trauma; proprio nell’Odissea, appunto, Polifemo «era un mostro orrendo», «θαυμα ετετυχτο πελωριον»). Quindi, è la filosofia stessa a nascere dalla meraviglia (Metafisica, A, 982 b 10) conducendo l’uomo nello stato contrario a quello del suddetto θαυμα, in questo modo superandolo e raggiungendo la condizione che Aristotele definisce ἄμεινον (983 a 18), parola che, come la forma latina amoenus che denota la stessa radice, indica lo splendore del Bene che, in quanto tale, si fa comprendere e amare.[VII] L’intelletto umano, dice il Filosofo, ha per presupposto il sensibile: sempre proseguendo nel primo libro, infatti, si legge che «il percepire è cosa comune a tutti». Subito dopo, però, che «le più rigorose tra le scienze sono quelle che hanno per oggetto le cose prime», ovvero le cosiddette scienze teoretiche: matematica, fisica e metafisica (e quest’ultima ha il suo corrispettivo naturale nel Cielo delle Stelle Fisse, sostiene Dante nel Convivio sulla scia di Aristotele). E le cose prime non sono altro che le cause e i principi dell’Essere in quanto Essere, la cui indagine è la Metafisica, la vera sapienza.[VIII]

È la grande prospettiva filosofico-teologica ripresa dalla cultura del pieno Medioevo, che si riflette tanto nelle monumentali architetture delle cattedrali[IX] quanto in opere come la Summa Theologiae di Tommaso e naturalmente la stessa Commedia: il compimento mistico è la meta da perseguire in alto, alla quale si può giungere soltanto attraverso una complessa struttura che poggia su precise, solide e imprescindibili fondamenta. Seguendo il concetto aristotelico, riadattato per quanto possibile alla temperie religiosa e fideistica cristiana, la teologia è quindi il compimento della metafisica, ma la filosofia, compresa ovviamente tutta la tradizione filosofica precedente e successiva all’avvento del Cristianesimo, non può che rivelarsi, al massimo, una ancilla theologiae (un principio teorizzato fin dal pensiero di Agostino per poi radicalizzarsi secoli dopo nella tradizione scolastica, in particolare grazie a Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino). Una disciplina subalterna, quindi, anzi propedeutica e letteralmente al servizio dell’autentica conoscenza della verità religiosa che spetta alla teologia, la domina scientiae: il raggiungimento della conoscenza dell’Ente Sommo di cui già parlava, appunto, proprio il XII libro della Metafisica aristotelica. Ora, teoricamente, se l’uomo non riesce a raggiungere questa realizzazione nella Conoscenza divina, rimane incompleto e quindi infelice; ma, dice Dante (nel solco di Aristotele e del suo interprete Tommaso), l’intelletto umano, per quanto limitato per sua stessa natura, se applicato in modo equo a ciò a cui può giungere realizza sé stesso in un progressivo susseguirsi di nuovi arrivi e di nuove partenze: la conoscenza umana è un viaggio in itinere. Ogni volta che si acquisisce un nuovo sapere, a quel punto l’uomo che vuole sapere è soddisfatto, ed è, fino alla prossima conoscenza, compiuto.

È all’interno del Convivio, o Convito, che si trova la magistrale argomentazione di Dante su questo tema centrale. Il poeta scrive i primi (e unici) quattro libri del trattato tra il 1304 e il 1307, in un periodo nel quale è ormai da anni in esilio per le terre dell’Italia settentrionale (essendo ideologicamente guelfo bianco, è bandito nel 1301 dalla Firenze in mano ai “neri”); in questo periodo è molto probabilmente a Lucca ospite dei Malaspina e a Treviso presso Gherardo da Camino.[X] L’importanza del Convivio è capitale anche “soltanto” considerando il suo essere praticamente il primo trattato filosofico nell’Europa medievale scritto in fiorentino dopo secoli di latino e greco (un caso al quale sono paragonabili soltanto le opere in volgare catalano di Raimondo Lullo e il Trésor di Brunetto Latini, celebre «maestro» dello stesso Dante ricordato in Inf. XV). Qui Dante sostiene come, considerato che la Teologia sia naturalmente la Domina Scientiae, le altre scienze (o Arti Liberali suddivise nel Trivio e del Quadrivio, canone di origine classica rielaborato nel Medioevo attraverso l’opera di Marziano Capella e di Boezio), nella loro subordinazione gerarchica alla suddetta sono comunque in loro stesse perfette e compiute perché realizzano pienamente il proprio essere, ciò che in termini aristotelici è la loro ηνηργεια. E per quanto riguarda l’intelletto umano, la sua propria ηνηργεια, se applicata correttamente, è proprio quella di conoscere: ogni persona è (o meglio, dovrebbe essere…) ontologicamente portata a realizzarsi attraverso l’intelletto e la conoscenza. Per l’uomo, quindi, vivere «è ragione usare» (Convivio IV, 7).

Ora, l’Ulisse del XXVI canto si comporta (apparentemente) proprio nel modo di cui si argomenta nella Metafisica: colpito, anzi ossessionato dai prodigi dell’Essere, cerca di raggiungere con i suoi mezzi, che sono umani ed empirici, ciò che per lui è il più lontano possibile, almeno dal punto di vista fisico e geografico. Perché, quindi, Dante lo “condanna”? Significativo è anche il dato che la sua orazione venga strutturata, strategicamente, in tre terzine (versi 112-120), e la si può quindi intendere come una terzina-sillogismo di palese impostazione aristotelica:

  1. Tutti gli uomini, per loro stessa natura («semenza»), dovrebbero seguire virtù e conoscenza;
  2. Voi, compagni di Ulisse, siete uomini;
  3. ergo, è il momento di andare oltre le Colonne d’Ercole!

Predicando ciò, e agendo di conseguenza, Ulisse non applica quindi correttamente il proprio intelletto umano, in linea con i più alti principi filosofici della tradizione del Medioevo occidentale, invitando peraltro i compagni a fare altrettanto?

La risposta è negativa. Esaminando i fattori più evidenti, è palese che la ricerca di Ulisse non sia quella di una persona che segue un percorso in itinere, una indagine paziente e progressiva: al contrario, il suo è un «ardore», un furor inarrestabile, quasi, si direbbe oggi, una attività compulsiva. Inoltre, la sua furiosa spedizione esplorativa tra i mari e le terre conosciute («L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna», vv.103-105) è una ricerca, come accennato, che si limita alla sfera del sensibile e dell’empirico, e ciò emerge esplicitamente dall’orazione («…a questa tanto picciola vigilia d’i nostri sensi ch’è del rimanente, non vogliate negar l’esperienza…»): l’Ulisse di Dante limita il mondo, quel mondo che tanto brama conoscere, alla sola sfera materiale dei sensi, ignorando la via del Trascendente che, lascia intendere il Poeta, è la sola che possa dare significato all’esistenza umana.

Si ha quindi una decisiva e abissale differenza tra l’Ulisse omerico (ma in particolare, ovviamente, quello della stessa Odissea) e quello dell’Inferno: se il primo è un eroe del mondo tradizionale che ha un’esperienza del Divino pressoché normale e quotidiana (viene costantemente consigliato da Atena, è perseguitato dall’ira di Poseidone –e il suo equipaggio da quella di Iperione–, conosce l’importanza della prassi del rito e del sacrificio, giunge persino a unirsi con una ninfa), il secondo, quello di Dante, pratica un personale “aristotelismo” puramente fisico, e quindi una filosofia atea. È notevole, infatti, la totale assenza di riferimenti metafisici o religiosi nel lungo monologo-racconto, almeno fino all’arrivo della nave al largo della montagna del Purgatorio, che già appare ad Ulisse «bruna per la distanza», avvolta nelle nebbie e nella lontananza dell’Inconoscibile al comune sentire umano. Estremamente rilevante è anche il fatto che l’Ulisse dantesco, così ardito e risoluto a superare ogni limite, non ponga in discussione i suoi limiti di essere umano e perciò soggetto, per sua stessa essenza, alla finitudine e al transeunte. Il Conosci te stesso, e niente di troppo comandato dal Tempio di Delfi (o l’agostiniano In interiore homine habitat veritas, più familiare al tempo di Dante) è del tutto trascurabile e trascurato da parte dell’eroe: il sé stesso di Ulisse è una curiositas implacabile che ignora o forse sopravvaluta la propria natura umana, seguendo il suo unico imperativo di indagare e comprendere sensibilmente e razionalmente. Ancora una volta a scapito, quindi, di un primo legame tra l’uomo e il Trascendente che inizia appunto dall’indagine della propria interiorità: anche qui un riferimento di Dante, e una negligenza da parte del suo Ulisse, agli insegnamenti di Platone e Aristotele.

Al «folle volo» di Ulisse, lanciato senza compromessi alla scoperta di ciò che è fisicamente esperibile e infine volto ad affrontare l’ignoto assoluto, manca perciò il fine ultimo, quello metafisico, in totale opposizione al viaggio che, nella Commedia, sta invece compiendo Dante. Se entrambi i loro percorsi sono diretti verso il Purgatorio (cosa che peraltro Ulisse ignora), quella di Dante è una strada molto particolare dalla schiavitù del peccato alla libertà, che il poeta intraprende gratia dei (a differenza dell’iniziativa personale di Ulisse) e sotto una precisa e particolare guida (quella di Virgilio, poi di Beatrice e Bernardo), contrariamente all’eroe greco che segue solo la sua curiositas e, al limite, la parziale e insufficiente guida dell’intelletto umano che si limita alla sfera del sensibile e del puramente razionale. E questo è sapientemente simboleggiato dallo stesso ambiente naturale in cui prosegue il «folle» viaggio: la stessa espressione «di retro al Sol» (v. 117) è molto eloquente e altrettanto inquietante, poiché per tradizione l’astro diurno è l’orientamento dell’uomo, la guida «che mena dritto altrui per ogni calle» (Inf., I, 18). Il Sole è allegoria di luce divina e intellettuale, fondamento della conoscibilità delle cose (si pensi, naturalmente, al mito della caverna di Platone, o all’incipit del Vangelo di Giovanni «et lux in tenebris lucet», la luce che è anche il Λόϒος), e Ulisse e i suoi seguono la via del Sole declinante, immagine che già nell’antica cultura egizia era in uso per indicare metaforicamente il trapasso. L’eroe e i compagni si inoltrano nell’«alto mare aperto», ed ecco l’immagine archetipica dell’Oceano come simbolo del grande ignoto: quello che ripropone Dante è un concetto fondamentale della visione sapienziale classica, indicando come oltre il πέρας rappresentato dalle Colonne d’Ercole ci si inoltri nell’απέιρων, il mare senza limiti dove, per definizione, ci si perde, e l’infinito rappresenta in questo caso anche il non-ente che, conseguentemente, non può essere conosciuto: la contraddizione insita nell’impresa è perciò evidente, e la lezione (trascurata) dell’oracolo di Delfi incombe sempre più minacciosa. Ancora, Ulisse racconta della vista delle stelle del cielo australe e fa riferimento al lume della Luna (vv.127-132): come osservato da Daniele Mattalia,[XI] dopo il superamento del limite non si accenna più alla luce solare, e l’atmosfera in cui si svolge la navigazione diviene notturna, il che si può intendere tanto come un’allusione simbolica al tema del viaggio, ossia il mistero, quanto all’idea che la luce-guida solare (Dio) venga inadeguatamente sostituita dalla più debole luce lunare e stellare (la ratio umana, guida valida ma non del tutto sufficiente).[XII]

Non è tutto: vi è un altro aspetto fondamentale per comprendere la portata negativa e pericolosa della filosofia “fraudolenta” propugnata da Ulisse diretto verso l’Oceano ignoto. L’Ulisse dell’Inferno racconta che, sempre ricollegandosi a quanto si narra nel XV libro delle Metamorfosi e dimostrandosi ancora una volta in antitesi all’eroe dell’Odissea, lasciata Circe riprende il mare non certo per tornare ad Itaca ma per «divenir del mondo esperto». In questo modo, sovrappone l’importanza della sua ricerca alla «dolcezza di figlio», «la pièta del vecchio padre» e «’l debito amore» per Penelope, trascurando quella che a Roma è la pietas, ovvero la comprensione, il rispetto e l’obbligazione verso i parenti, nonché verso gli amici, i sodali e il prossimo, e che formava con la fides e la virtus la base dell’etica tradizionale romana: l’opposizione della figura di Ulisse è perciò evidente anche rispetto a quella di Enea, per definizione pius verso la stirpe e la patria (quella originaria, Troia, e quella futura in Italia) in quanto votato, per mandato divino, alla missione civilizzatrice che lo conduce nel Lazio. Ecco quindi come il comportamento di Ulisse si ponga negativamente anche alla luce dell’altro grande tema aristotelico caro a Dante, quello appunto dell’etica (da ἔϑος, cfr. latino suesco, sodalis, soleo, ovvero abitudine, consuetudine, “costume” nel senso più alto: quello che mantiene unito un ordine e una tradizione). Dante, nel secondo trattato del Convivio, ricorda che senza amore è impossibile la pratica della filosofia e quindi la ricerca della verità, riprendendo precisamente le dottrine dell’Etica Nicomachea di Aristotele (che aveva conosciuto nella traduzione latina del medico fiorentino Taddeo Alderotti), opera che a sua volta tramandava gli insegnamenti del suo maestro, in particolare del Fedro e del Simposio. Dante ribadisce in questo modo il primato dell’etica per raggiungere virtute e canoscenza, facendo agire il suo Ulisse in modo specularmente inverso: atto finale di incosciente e sistematica autodistruzione è la stessa «orazion picciola», la frode terminale e totale di Ulisse, la retorica più diabolica con la quale convince i compagni a seguirlo nel folle volo verso ciò che non può essere sensibilmente conosciuto.

I messaggi del XXVI canto dell’Inferno, che Dante ha trasmesso attraverso questa figura immensa nella sua contraddittoria tragicità, non possono quindi che rivelarsi ancora una volta quanto mai attuali, drammaticamente attuali: per l’uomo è possibile una realizzazione attraverso il sapere restando nei limiti consentiti, mantenendo il legame con l’etica, mantenendo il legame con la propria interiorità, senza contraddittori tentativi di vie traverse o equivoche verso il Trascendente. Un Trascendente che, come insegnano le grandi tradizioni, può essere compreso e raggiunto, ma non attraverso certe degenerazioni e devianze culturali, scientistiche e “morali” adottate negli ultimi secoli dalla più arrogante mentalità moderna, la quale è giunta addirittura a negarlo.

Ritrovandosi, in questo modo, «di retro al Sol», e ormai molto lontano oltre le Colonne d’Ercole.

 

NOTE

[I] Per quanto il fatto che Ulisse «sfrutti il vento di Borea» per riprendere la navigazione da Ogigia lasci intendere invece un’ubicazione geografica ben più “nordica” per l’enigmatica isola. Autori come Plutarco (nel De facie quæ in orbæ Lunaæ apparet) la collocano infatti a cinque giorni di navigazione dalla Britannia; a latitudini altrettanto settentrionali, per quanto approssimate nella deformazione del racconto mitico, veniva situata per tradizione anche la lontana e caliginosa terra dei Cimmeri dove Ulisse si reca su indicazione di Circe per accedere all’Ade, allo scopo di ottenere responsi divinatori dalle ombre dei defunti e in particolare di Tiresia (Odissea, libro XI). All’interno del poema, entrambi gli episodi accennati sono inseriti nel percorso compiuto dall’eroe per tornare ad Itaca e ristabilire l’ordine nella Casa dei Padri, e naturalmente vanno considerate le possibili letture esoteriche dei rispettivi viaggi, che indicano una simbologia iniziatica: le collocazioni iperboree dei due luoghi, il dettaglio che la semidea ospite di Ulisse porti il nome di «Colei che nasconde» e la discesa agli Inferi da cui l’eroe riemerge e continua il viaggio (tema poi ripreso, non certo casualmente, proprio da Virgilio e da Dante) non lasciano dubbi a riguardo. Sull’argomento, si veda ad esempio René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano 1975; Gianfranco Drioli, Iperborea. Ricerca senza fine della Patria perduta, Ritter, Milano 2014; Vito Foschi, L’isola di Ogigia, in Lex Aurea. Libera rivista di formazione esoterica n.52, aprile 2014, p.4 (consultabile presso il sito web www.fuocosacro.com).

[II] Cfr. Ovidio, Ars Amandi, III 355; Amores, III 4; Metamorphoseon Libri XV, XIV 437-438.

[III] Giorgio Padoan, Ulisse «fandi fictor» e le vie della sapienza, in Giorgio Padoan, Il pio Enea e l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Longo Editore, Ravenna 1977, p.191.

[IV] Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2002, Libro A, 1, p.5, traduzione di Giovanni Reale.

[V] La questione è storicamente complessa, in quanto le opere filosofiche e fisiche di Aristotele vengono riscoperte dall’Occidente latino a partire dal XII secolo (in precedenza si conosceva interamente soltanto la Logica), grazie all’opera dei filosofi e commentatori ebraici e soprattutto islamici come Averroè e Avicenna. Le dottrine aristoteliche avranno comunque seri problemi ad essere accettate e interpretate dalla tradizione teologica cattolica (ed islamica, entrambe le quali non potevano che disconoscere concetti, per esempio, come l’eternità e la necessità del mondo, o la tesi dell’unità dell’Intelletto), problemi in parte “risolti” dai grandi maestri della Scolastica come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, peraltro a sua volta influenzato dalle dottrine platoniche esposte dal persiano Avicenna, dopo una iniziale e intransigente opposizione da parte di autori come Alessandro di Hales e Roberto Grossatesta.

[VI] Jacques Le Goff, Prefazione, in Henri-Charles Puech, a cura di, Storia delle religioni, vol.10, Il cristianesimo medievale, Laterza, Bari 1977, p.24.

[VII] Emanuele Severino, Prefazione, in Aristotele, Metafisica, libro I, RCS Libri s.p.a., Milano 2009, p. V.

[VIII]Cfr. Aristotele, Metafisica, libro IV, Bompiani, Milano 2000, a cura di Giovanni Reale.

[IX] Cfr. Titus Burckhardt, L’arte sacra in Oriente e in Occidente, Rusconi, Milano 1976.

[X] Daniele Mattalia, Cronologia, in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, Rizzoli, Milano 1960, p.54. La prima decade del Trecento, trascorsa da Dante in peregrinazioni presso varie città italiane (nonché, pare, anche a Parigi) nelle quali lui stesso non si è minimamente premurato di lasciare tracce del suo passaggio, rimane a tutt’oggi una parte molto oscura e ben poco ricostruibile della biografia del poeta.

[XI] Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, cit.

[XII] Anche nella tradizione dell’Alchimia occidentale il principio della ragione e della sapienza umana trovi una sua simbolizzazione (tra le varie altre) nell’immagine della Luna, cioè l’astro passivo e mutevole che brilla della luce riflessa del Sole (il quale è invece la stella invece “completa” e virile, in quanto simbolo del regale e del Divino per definizione). A proposito, cfr. Julius Evola, La Tradizione Ermetica, Edizioni Mediterranee, Roma 1971 (III edizione).

L'articolo La filosofia decadente dell’Ulisse dantesco e i suoi ammonimenti all’uomo moderno – Jari Padoan proviene da EreticaMente.

IL SOLE SI LEVA SUL CINEMA: “NIHON EIGA” DI AZZANO, MEALE & ROSATI di Francesco G. Manetti

$
0
0

Su queste colonne mi sono soffermato più volte sul Giappone, parlando – grazie alle pagine di libri illuminanti – di misticismo e di animazione. Mondi meno lontani di quanto uno potrebbe pensare, questi due, perché in molte pellicole del Sol Levante il misticismo non è certo assente. Prova ulteriore di quanto affermo è un prezioso volume uscito qualche anno fa, nel 2010, sotto l’egida di ESF Edizioni. Si tratta di Nihon Eiga: storia del cinema giapponese dal 1970 al 2010, a cura di Enrico Azzano, Raffaele Meale e Riccardo Rosati, un lavoro nato dalla omonima rassegna cinematografica che si tenne a Roma dal 14 ottobre 2010 al 23 giugno 2011; la kermesse romana fu curata dagli stessi autori del libro con la collaborazione del CineClub Detour e dell’Istituto Giapponese di Cultura.

La copertina del libro

Anche se risale al 2010, il volume non è certamente di un’opera “datata”, ma una pietra miliare in un percorso suggestivo come quello dello studio della cinematografia giapponese contemporanea. Spiegava infatti Maria Roberta Novielli nella sua Prefazione:

La storia del cinema giapponese a partire dagli anni Settanta fino a oggi è ricca ed estremamente complessa, talmente variegata nelle sue componenti di stile, di contenuti e di genere, da rendere quasi impossibile una rigorosa schematizzazione del suo corso. Eppure vari mutamenti l’hanno posta a grande distanza dal suo passato più recente, in particolare in termini di struttura produttiva, di tessuto politico e nel suo legame socioculturale con i repertori di tranche de vie da cui trarre ispirazione. Nel definirne le peculiarità, il sociologo Osawa Masachi ha offerto in varie occasioni un’interessante macro-classificazione delle stagioni dell’ideologia dell’ultimo secolo, dividendola in tre periodi fondamentali: il primo, dal 1945 al 1970, rappresenta quello che lo studioso definisce “pre-postmodernismo”, un’epoca di ricerca di ideali e di narrative; il secondo, dal 1970 al 1995, etichettata come “era della fiction” o “primo periodo postmoderno”, vedrebbe il superamento della fiction rispetto alle grandi narrative; il terzo, avviato dal 1995, rappresenterebbe invece l’epoca in cui le grandi narrative sarebbero del tutto scomparse, e che pertanto Osawa definisce come “secondo periodo postmoderno”. Le tre tappe si aprono all’insegna di importanti e tragici eventi: il 1945, attraverso le immagini delle due esplosioni nucleari su Hiroshima e Nagasaki, è il segno del sopravvento della scienza e della tecnologia di matrice occidentale su quel complesso di norme autoctone che costituivano un imprescindibile punto di riferimento tra la storia e il progresso; il 1970 è solcato dagli episodi terroristici dell’Armata Rossa giapponese, l’evidenza di un sommovimento politico-sociale in atto che scalfisce l’apparente unità e armonia del paese; la terza data coincide infine con il tragico attacco al gas sarin effettuato nella metropolitana di Tokyo dalla setta Aum Shinrikyo, episodio subito eletto a simbolo di una mistificazione del reale, ormai pericolosamente estesa nella vita culturale del popolo giapponese.

La questione delle date, che potrebbe sembrare non essenziale e che addirittura potrebbe evocare per molti il non universalmente accettato nozionismo delle scuole di un tempo, ritorna anche nella Premessa firmata collettivamente dai tre curatori:

Riuscire a scovare una data che, senza forzature o manomissioni di sorta, sia in grado di fungere da limite temporale invalicabile per quanto riguarda la storia di una nazione, o addirittura di una cultura, è quasi sempre un miraggio. Il viaggio intrapreso in questo volume – e all’interno della rassegna cinematografica che ne ha agevolato la stesura – parte, come da titolo, nel 1970: si sarebbe potuto scegliere il 1964, anno dello svolgimento delle Olimpiadi a Tokyo e dell’ingresso del Giappone nell’OCSE; il 1960, durante il quale fu firmato il discusso trattato di sicurezza e cooperazione reciproca con gli Stati Uniti d’America; il 1972, con i leggendari giochi invernali di Sapporo, nell’isola di Hokkaido, i primi disputati al di fuori di Europa e Nord America. Volendo infine rimanere nel campo dell’industria cinematografica, si sarebbe potuti risalire perfino al 1951, quando un allora sconosciuto Akira Kurosawa trionfò alla Mostra del Cinema di Venezia con “Rashōmon”, arrivato in laguna grazie all’interessamento di Giuliana Stramigioli, docente di italiano presso l’Università degli Studi Stranieri di Tokyo. Perché, allora, il 1970? Forse la risposta migliore è contenuta nello slogan che accompagnò l’intero svolgimento dell’Expo a Osaka, inaugurata il 15 marzo e conclusa il 13 settembre di quell’anno: “Progresso e armonia per l’umanità”. Nella storia moderna e contemporanea, per la prima volta il Giappone si apriva completamente al mondo: a centodiciassette anni dalla fine dell’isolazionismo volontario per mano del commodoro Matthew Parry, e dopo aver perseguito per molti decenni una politica espansionista, spinti dalla bramosia di assoggettare l’intera Asia al proprio dominio, i giapponesi annunciavano pubblicamente di voler lavorare in armonia con il resto del mondo, per il progresso dell’intera umanità.

Expo di Osaka (1970)

La prima parte del volume si intitola Profilo storico e si apre con Gli anni Settanta di Matteo Boscarol. L’autore ritorna sulla Expo di Osaka, definendola un “Giano bifronte” che guarda contemporaneamente al passato e al futuro, fungendo da spartiacque temporale. Anche il cinema in quel decennio cambia, assorbendo e filtrando i nuovi gusti maturati attraverso la televisione e la “rivoluzione sessuale” nei mezzi di informazione. La televisione, con le sue dirette di cronaca nera, porta anche una nuova “crudezza” nel cinema: la prima vera “maratona” televisiva risale al 1972 quando per 10 giorni i telecronisti raccontarono del sequestro dei clienti di un albergo messo in atto dai terroristi comunisti della Rengo Sekigun, dell’assedio da parte della polizia e della seguente irruzione e liberazione degli ostaggi. Boscarol individua nel regista Kinji Fukusaku il paradigma “politico” del decennio:

Nel 1970 viene scelto assieme a Toshio Masuda per rimpiazzare Kurosawa come regista della parte giapponese di “Tora! Tora! Tora!” (1970). Due anni dopo realizza quel gioiello che è “Under the Flag of the Rising Sun” (“Gunki hatameku moto ni”, 1972) sui ricordi di una vedova di guerra: si trova qui già in nuce quello stile frenetico e libero che esploderà negli otto film della serie “Battle Without Honour and Humanity” (“Jingi naki tatakai”, 1973-74), prodotti dalla Tōei. Qui Fukusaku realizza il suo capolavoro, l’opera che lo renderà famoso anche in Occidente (decenni dopo in verità) e che sarà capace di riempire in un biennio di crisi economica le sale giapponesi. Il primo film esce nel 1973 ed è un pugno nello stomaco per la società giapponese del tempo: anche se ambientato a Hiroshima nei primi anni che seguono il secondo conflitto mondiale, la denuncia del sistema malavitoso giapponese e la sua impietosa descrizione, senza onore e umanità appunto, si discosta parecchio da quelle che erano state portate avanti in passato, anche con ottimi risultati, da altri film. Il delirio di immagini grezze e il montaggio frenetico, caotico, impiegati dal regista concorrono a creare quel ritmo serrato che è una delle caratteristiche peculiari di tutta la serie. A questo proposito, non ci sembra inutile notare che l’uso della cinepresa a mano, così tipica di questo cinema di Fukasaku, è un’influenza derivata probabilmente dalla visione dei documentari della Ogawa Production in cui un giovane Masaki Tamura si gettava nella mischia delle rivolte studentesche. Un’altra novità che questa serie apporta è l’introduzione di uno stile narrativo da documentario che proprio Fukasaku inventa, il “jitsuroku eiga”, una docu-fiction con ampio uso di fotografie, sottotitoli e voce narrante. Una tagliente analisi di come la violenza, sia essa fisica che mentale, nasca e si modifichi in un contesto sociale in pieno cambiamento, allo sbando e informe: come non percepire in ciò una critica del periodo in cui i film vengono realizzati? Ma Fukasaku e collaboratori vanno ancora oltre e ci raccontano, con uno stile godibilissimo e difficilmente noioso, di come detta violenza formi la colonna portante del tessuto sociale e umano, quasi una caratteristica ineliminabile della razza. Valgano per questo i minuti iniziali del primo film, quando accompagnato da una splendida musica ci viene raccontato in pochi intensissimi secondi di come finita l’inaudita violenza della bomba atomica già se ne stia formando un altro tipo, quella appunto organizzata della yakuza.

Sul fronte del diverso modo di interpretare e di rappresentare la sensualità non poteva mancare l’analisi di Ecco l’impero dei sensi di Nagisa Oshima e del “movimento” softcore dei pinku eiga (“film rosa”) e dei roman poruno (“romanporno” ovvero “romantic pornography”):

“Apartment Wife” (1971)

L’attività cinematografica di Oshima viene interrotta nel 1976 con “Ecco l’impero dei sensi” (“Ai no korīda”): lo scandalo è totale. Ancora una volta il regista riesce a individuare ed esporre i nodi vitali con cui la società si sostiene, la totale libertà di una sessualità spinta fino all’estremo in opposizione a una situazione storica che non lascia scampo. Ma ancora di più Oshima riflette sul suo tempo, sulla potenza di liberazione insita nella sessualità, sul suo intersecarsi con la violenza e perversione umane o ancora sul ruolo della censura nelle democrazie moderne. In un gesto cinematico estremo Oshima tenta di mostrare l’osceno, ciò che sta fuori dalla scena e che non si dovrebbe quindi vedere: la follia del regista è proprio questa, voler mostrare il non-mostrabile del cinema. La lavorazione del film, prodotto fra gli altri da Wakamatsu, il processo per oscenità al regista e tutto il polverone che si alzerà attorno all’opera caratterizzeranno fortemente la seconda metà degli anni Settanta giapponesi e non solo. (…) I “roman poruno” usufruiscono di un apparato produttivo da grande casa di produzione con studi, scenografie, attori e sceneggiatori già tutti professionisti e in più un circuito di sale e di distribuzione assai capillare. Dal primo film del 1971, “Apartment Wife: Affair in the Afternoon” (“Danchizuma hirusagari no jōji”) fino all’ultimo, “Bed Partner”, uscito nel 1988, vengono realizzati ben 1133 film con una media durante gli anni Settanta di tre film al mese. Visti i tempi di realizzazione e il budget che comunque non era mai altissimo, la genialità e la bravura a districarsi in tali angusti limiti di tempo di alcuni autori non potrà essere omessa. Senza ombra di dubbio è Tatsumi Kumashiro la punta di diamante di questo nuovo genere: ammirato da Shinya Tsukamoto e da François Truffaut, il regista giapponese è riuscito a far coincidere come pochi altri il successo commerciale e quello della critica. (…) Kumashiro è stato colui che più di qualunque altro, guidato da un istinto filmico e da un amore incondizionato per la settima arte, ha capito le necessità e le problematiche del tempo riuscendo a sfruttare al meglio la libertà espressiva che la (casa di produzione) Nikkatsu concedeva e facendosi anche beffe della censura giapponese. L’articolo 175 del codice penale infatti proibisce immagini di genitali e peli pubici e Kumashiro, talvolta ampliando il non mostrato o l’elemento assente, è riuscito a realizzare ciò di cui parlava Roland Barthes in relazione a Tokyo, “la città il cui centro è vuoto”.

Enrico Azzano scrive L’industria degli anime, occupandosi dunque del cinema d’animazione. Individua nella casa di produzione Toei (alla quale si deve il primo lungometraggio animato giapponese a colori, nel 1958) e nell’artista Osamu Tezuka (soprannominato non a caso “il dio dei manga”) i maggiori artefici di un miracolo, coloro ai quali…

…si devono la nascita, lo sviluppo e il consolidamento dell’industria dell’animazione. È negli anni Sessanta, infatti, che vengono poste, tra piccolo e grande schermo, le basi per il boom degli anni Settanta, decennio che a sua volta spiega buona parte degli odierni successi e riconoscimenti.

Segue una minuziosa cronistoria del cartone animato nipponico procedendo per scuole, grandi artisti, grandi marchi, generi e riconoscimenti. L’animazione giapponese si impone sul mercato globale sia con le serie televisive, sia con i grandi lungometraggi. Una parola magica sembra emergere dal colorato “caos”, una parola che evoca il vento del deserto:

Lo Studio Ghibli, ancor più della Disney dei primi decenni e della attuale ed encomiabile Pixar di Lasseter & Co., è un luogo non replicabile, un esperimento impossibile eppur riuscito. Dal sorprendente utilizzo dei colori alla quasi maniacale attenzione per i dettagli, dalla libertà narrativa allo spessore dei contenuti, le opere dello Studio Ghibli rappresentano costantemente, fin dagli esordi, il migliore connubio possibile tra necessità commerciali e aspirazioni autoriali.

Gli anni Ottanta, continuando il percorso storico, sono affidati a Raffaele Meale. E Meale parla di una crisi, una crisi che coinvolge pesantemente con gli anni Settanta il cinema nipponico, che era stato in costante crescita dal Dopoguerra in poi; gli anni Ottanta segnano dunque un’epoca di reazione:

La crisi coinvolge per intero l’industria mainstream, colpita al cuore dal colpo di stato effettuato dalla televisione: l’elettrodomestico per eccellenza della seconda metà del Novecento catalizza l’attenzione del pubblico giapponese, che alle lusinghe della sala cinematografica preferisce la comodità del proprio salotto. Una storia non solo giapponese, ma che a Tokyo e dintorni viene vissuta con una drammaticità altrove meno accentuata: i cinema chiudono, e le major si defilano gradualmente dalla scena, preferendo agire nel mercato del softcore – che attira ancora pubblico in sala, in un’epoca in cui l’home video è ancora un progetto in fase di studio – o investendo tempo, risorse ed energie nei lavori seriali pensati a uso e consumo del tubo catodico, dove proliferano show live action o d’animazione. Nemmeno i maestri riescono a evitare di essere travolti dalla slavina scaturita dal crollo dell’industria cinematografica e cercano disperatamente di imboccare le uniche vie di fuga rimaste, seppur parzialmente, aperte. La prima risposta possibile è un ritorno all’indipendenza nuda e cruda, facendo magari ricorso all’autoproduzione; la seconda guarda invece ben al di là dei confini nazionali dell’arcipelago, e sospinge il capo dall’altra parte dell’oceano, nell’apparenza dorata di Hollywood che sta, al contrario di quanto avviene in Giappone, vivendo una delle sue palingenesi più esaltanti. Non è dunque certo un caso che “Kagemusha, l’ombra del guerriero” (“Kagemusha”, 1980) di Akira Kurosawa ospiti, tra i produttori esecutivi, Francis Ford Coppola e George Lucas. (…) Il cinema giapponese a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, costretto a confrontarsi con una crisi economica probabilmente inaspettata (almeno nelle proporzioni), sceglie una via produttiva che di fatto allontana dalle sale il pubblico femminile. L’esplosione su scala nazionale dei “roman poruno”, dei “pinku eiga” e dei più estremi “pinky violence”, figli e figliastri dell’ ”ero guro nansensu” degli anni Venti, crea di fatto un divario netto tra il pubblico quotidiano che invade le sale e quello, composto dalle donne e dai bambini, che può avvicinarvisi solo occasionalmente, magari per assistere ai sempre più sporadici “spettacoli per famiglie”. Se gli esercenti nipponici avevano sempre puntato molto, in particolar modo all’interno delle grandi conurbazioni urbane, sul pubblico maschile e sul cinema interessato all’erotismo, mai come durante gli anni che vanno dal finire degli anni Settanta alla metà del decennio successivo, si assiste a un vero e proprio monopolio dei “pinku eiga” e dei generi a lui similari sul resto della programmazione delle sale.

Ma la crisi degli anni Settanta e Ottanta non è solo dovuta della televisione. Meale individua un altro “colpevole” tecnologico:

La Magnavox Odissey

Quando nel 1975 la storica Nintendō kabushiki gaisha (Società per azioni Nintendo), fondata nel 1889 da Fusajirō Yamauchi, irruppe sul mercato giapponese come distributore della console Magnavox Odyssey, il successo fu talmente immediato e clamoroso da consentire alla società di produrre console in proprio nell’arco di appena due anni. L’immaginifico mondo videoludico, con la possibilità per il giocatore di intervenire in prima persona nelle azioni che si succedevano sullo schermo, gettò ulteriore terra sul corpo già agonizzante del cinema nipponico. I giovani cineasti, sbarrate loro in faccia le porte dell’industria cinematografica, si adeguarono ben presto alla situazione: alcuni di loro rivolsero le proprie attenzioni alle produzioni televisive, seguendo le orme tracciate di fresco da registi già affermati come Seijun Suzuki, Shōhei Imamura, Teruo Ishii. Altri, rigettando in toto le convenzioni dell’industria, sia cinematografica che televisiva, le voltarono le spalle per intraprendere la strada dell’autoproduzione, rifacendosi spesso e volentieri all’estetica punk in voga nell’occidente (in particolar modo quello anglosassone) e segnando un ideale punto di contatto con l’eversione, stilistica e contenutistica, della “nuberu bagu” degli anni Sessanta. Venne dunque alla luce il fenomeno che sarebbe stato riconosciuto sotto il nome di “jishu seisaku eiga” semplificato, per convenzione, in “jishu eiga” (letteralmente “film auto prodotto”): l’etica del fai-da-te, diversa per concezione e incidenza sul mercato rispetto al cosiddetto cinema indie, trovò un suo megafono naturale nel magazine “PIA”, che copriva l’intera offerta culturale della conurbazione di Tokyo. La redazione della rivista decise di fondare nel 1977 un festival dedicato alle nuove leve del cinema, dando vita all’omonimo “PIA Film Festival”. Fu anche grazie agli sforzi, coerentemente del tutto auto finanziati, del “PFF”, che il pubblico giapponese non ancora completamente anestetizzato da televisione e videogame ebbe dunque l’occasione di posare gli occhi su nuovi nomi decisi a mettere a ferro e fuoco l’immaginario visivo e culturale nipponico. (…) Le pellicole da 8mm e 16mm usate come vere e proprie armi per combattere una crisi – economica, ma anche e soprattutto culturale – che attraversa una nazione da sempre abituata a trovare da sola le risorse in grado di riportarla in auge.

Anche Meale, durante la sua analisi sul cinema della crisi degli anni Ottanta individua, fra alcune perle, la perla più brillante: la produzione animata dello Studio Ghibli.

Il saggista approfondisce il discorso sulla produzione parallela come rimedio “anticrisi” – un discorso prima solo accennato – nel capitolo successivo, intitolato Un Super-8 vi seppellirà: indipendenza e “jishu eiga”. Quella del cinema indipendente giapponese è una produzione enorme, una produzione che in Occidente conosceremo, in tali livelli quantitativi, solo con il diffondersi di Internet:

La pellicola Super-8 (ma anche il 16mm e le varie potenzialità del video, dall’Hi-8 alle ultime camere digitali) diventa l’arma per combattere l’obesa sonnolenza del sistema industriale: con un’attitudine figlia del punk che dopo aver furoreggiato oltreoceano sta prendendo piede anche nelle principali isole del Giappone, i giovani autori si fanno beffe della prassi produttiva. Avulsi da qualsivoglia calcolo meramente economico, le opere prodotte in completa libertà si dimostrano spesso e volentieri grezze, ma cariche di una vitalità in grado di azzannare in maniera letterale le abitudini consolidate del cinema nipponico. In questo sono forse davvero loro, i registi venuti alla luce tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, gli unici veri figli della “Nuberu bagu”: ed è essenziale non confondere lo stile e l’approccio dei “jishu eiga” a quello dei “dokuritsu eiga”, vale a dire ciò che noi definiremmo cinema “indie”. Mentre l’indipendenza cinematografica si riduce a opere che, pur sfruttando in tutto e per tutto tecniche, stili e modelli lavorativi delle major, non sono direttamente prodotte da loro, i “jishu eiga” i muovono in direzione ostinata e contraria. È il vero e proprio elogio dell’amatore, il regista fai-da-te, il visionario inadatto alla costrizione in regole ferme e preordinate.

Arriva così Riccardo Rosati (un saggista che più volte ho incontrato nelle mie recensioni su “EreticaMente”) con il capitolo L’epica del disastro: il Kaiju Eiga. Detto in soldoni, il kaiju eiga è il cinema fantascientifico dei mostri giganti, il cui campione è l’arcinoto Godzilla di Honda:

Godzilla

I “kaijū eiga”, nati dalla fantasia dei team creativi delle case di produzione nipponiche a partire dal Secondo Dopoguerra, sono storie per la maggior parte legate alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki e che affrontano talvolta anche problematiche di tipo ambientale. Sovente, infatti, sono le radiazioni nucleari a causare le orrende mutazioni genetiche responsabili della nascita di questi enormi mostri. Il più grosso fraintendimento legato a questo genere cinematografico è che si tratti di prodotti esclusivamente di puro intrattenimento, totalmente privi di contenuto. Se questo è pur vero per molti di questi film, è necessario tuttavia prendere atto, come del resto la critica sta già facendo da vari anni, che i principali “kaijū eiga” sono pellicole che trattano tematiche cruciali e spesso scomode. Il fatto che argomenti come le atomiche di Hiroshima e Nagasaki siano affrontati in modo indiretto e in buona parte allegorico, non ha permesso a questo tipo di film di venire apprezzato anche per il suo valore politico. (…) “Gojira” (“Godzilla”) vuole essere una denuncia verso gli orrori della Seconda Guerra Mondiale e in particolare del proliferare nel mondo delle armi atomiche. Infatti, il mostro viene alla luce proprio grazie a questo tipo di arma che tiene in scacco l’intero pianeta da anni. Tutto quello che è collegato a questo mostro si rifà da un lato a elementi tipici della cultura nipponica (come la minaccia che arriva dal mare) e dall’altro alla questione della pericolosità della tecnologia usata per fini non pacifici. Il fatto che Gojira sia un risultato degli esperimenti nucleari statunitensi suggerisce altresì un implicito anti-americanismo, elemento spesso presente nella saga, poiché Gojira è e sempre sarà un “dramma giapponese” causato dagli altri. Il mostro in questione è talmente famoso nel Sol Levante e nel mondo da essere diventato una vera icona della fantascienza, ripresa e mutata negli anni. (…) il “Gojira” di Ishirō Honda non ha soltanto consacrato a livello mondiale un genere, ma rappresenta tutt’oggi una delle più incisive pellicole di denuncia antinucleare mai girate. Honda affresca uno spaccato del Giappone già in buona parte proiettato nell’epoca moderna, intriso com’è di Occidente. Ciò nonostante, si tratta pur sempre di una nazione ancora incapace di dimenticare le profonde ferite di una guerra segnata dall’atomica. Trattasi di un’opera che oltrepassa le barriere dell’arte, per porci domande sconvolgenti e ammonirci sul futuro. Si pensi alla battuta finale del film: “questo non sarà l’ultimo Gojira”.

Meale si occupa anche del decennio seguente, Gli anni Novanta. Con la morte dell’imperatore Hirohito nel 1989, dopo un regno che durava dal 1926 e dopo il duro colpo alla Nazione del 1946, quando il tenno dichiarò la sua “natura umana” e non più divina, il Giappone entra in una nuova era, che coinvolge tutti gli aspetti della vita di quel popolo e dunque anche i mezzi di informazione e di intrattenimento. I grandi maestri come Kurosawa producono le loro ultime opere, il cinema continua nella sua crisi ultradecennale, il mercato dell’home video prende sempre più campo. Nuove figure prendono corpo, figure nuove che stimolano un nuovo “interesse per i generi” cinematografici (in testa a tutti gli yakuza eiga), un interesse che porterà il cinema nipponico alla “rinascita”:

La figura che agli occhi occidentali incarna con maggior precisione l’evoluzione del cinema giapponese di fine millennio è con ogni probabilità Takeshi Kitano: dopo l’esordio alla regia nel 1989 per sostituire Kinji Fukasaku alla direzione di “Violent Cop” (“Sono otoko, kyōbō ni tsuki”), quella che poteva apparire un’attività casuale e saltuaria si trasforma in una vero e proprio lavoro a tempo pieno. Ad appena un anno di distanza da “Violent Cop” esce nelle sale cinematografiche giapponesi “Boiling Point” (“3-4 x jūgatsu”, 1990), attraverso il quale Kitano indaga quel sottobosco criminale dominato dai clan della yakuza che ben presto diventerà uno degli snodi cruciali della sua poetica. Attore straordinariamente poliedrico, regista affermato (anche se in patria sarà sempre visto con malcelato sospetto e in occidente troverà accoglienza solo a partire da “Sonatine”, opera quarta del 1993), romanziere, poeta, pittore, presentatore televisivo, Kitano incarna tutte le possibili derive del cinema nipponico, proponendo di volta in volta tanto l’approccio puramente popolare quanto la riflessione autoriale, non disdegnando affatto l’ibridazione tra i generi.

Ma non è solo il cinema incentrato sulle gesta della mafia giapponese a ridare nuova linfa a un mercato asfittico:

“Ringu” (1998)

Se i film dedicati alla yakuza proliferano, ancor più rappresentativa del cinema giapponese alla fine del millennio è l’esplosione di horror che investe il mercato produttivo nipponico. Tutto ruota intorno a “Ring” (“Ringu”, 1998) di Hideo Nakata, che rivoluziona completamente il cinema del terrore mondiale, operando una sapiente miscela di cliché del genere ed elementi propri della tradizione arcaica giapponese. Nasce così quel fenomeno di massa che sarà solitamente conosciuto come “J-Horror” e che nel giro di pochi anni travalicherà i confini nazionali, espandendosi a macchia d’olio tanto nell’area del sud-est asiatico, trovando adepti soprattutto in Corea del Sud e in Thailandia, quanto a Hollywood. L’orrore di marca giapponese, che agli inizi del decennio aveva trovato cantori in particolar modo negli ambienti del cyberpunk, si identifica in spiriti rancorosi e vendicativi, maledizioni mai sopite, ambienti chiusi e lugubri: rientrano alla perfezione in questa descrizione alcuni dei titoli più significativi tra quelli che apriranno le porte al nuovo millennio.

La fiction non è l’unico obbiettivo del volume Nihon eiga. Non a caso Matteo Boscarol firma il capitolo L’arte documentaria giapponese dai Settanta ai giorni nostri. Negli anni Settanta il documentario cerca di portare al grande pubblico la voce delle contestazioni e della resistenza dei contadini di Sanrizuka contro la costruzione dell’aeroporto internazionale di Narita: dietro l’obbiettivo i registi Ogawa e Tsuchimoto che nel decennio precedente avevano filmato le rivolte studentesche. E poi si va oltre:

La cinepresa di Masaki Tamura, uno dei più grandi direttori della fotografia giapponesi del dopoguerra, che collaborerà con Ogawa fino alla fine, si sofferma a studiare e carpire i sentimenti umani e le tensioni che scuotono i contadini di Sanrizuka, e soprattutto l’esplorazione della terra che li accoglie. Nel 1973 Heta buraku (lett. Il villaggio di Heta) è l’apice di questa nuova sensibilità, che predilige la riflessione all’irruenza, in un cambio di prospettiva già avvertibile, in nuce, in precedenti film della serie incentrata su Sanrizuka. Heta buraku appare animato da una forte componente epica, dispiegando il percorso che porta alla resistenza, i suoi perché, in un’ottica che non si accontenta di “mostrare” ma punta essenzialmente ad avvicinare il più possibile lo spettatore alla vita del villaggio: questo lavoro ci fa percepire quasi fisicamente fatiche, gioie e necessità degli abitanti di Heta. Alcune sequenze arrivano realmente a mettere i brividi: l’alba nei campi di riso con il canto mattutino degli uccelli, la preparazione dell’offerta a una divinità di forma fallica e un’anziana donna che col bambino sulla schiena parla coi poliziotti con voce flebile, intimando loro di tornare a casa. Queste scene non suggeriscono una banale e manichea contrapposizione tra “vita agreste/il passato” e “il progresso/il moderno”: siamo qui in presenza dell’arte politica nel suo senso più alto, quello cioè di presentarci un’organizzazione alternativa della vita in comune, un’altra possibilità che il presente potrebbe offrirci se solo lo sapessimo ascoltare. Heta buraku è in questo senso quasi un’opera di antropologia politica.

Proveniente dai Settanta è negli anni Ottanta che emerge del tutto e si impone a livello internazionale il documentarista Kazuo Hara, con le sue storie di ribellione:

The Emperor’s Naked Army Marches On” (“Yuki Yukite shingun”, 1986) è l’opera che consacra Hara, anche a livello internazionale, come uno dei documentaristi più interessanti e fuori dalle regole in circolazione. Su suggerimento di Shōhei Imamura, che coproduce il film, Hara si interessa a Kenzo Okuzaki, un veterano della Seconda Guerra Mondiale che ha combattuto in Nuova Guinea e che ha dato scandalo tirando palline metalliche contro Hirohito, facendo di tutto affinché il popolo giapponese si rendesse conto della viltà che caratterizzò l’imperatore durante gli anni della guerra. Ma Okuzaki non è certo solo una vittima, anzi: davanti alla cinepresa dichiara senza problemi di aver ucciso e spesso (se non sempre) è guidato da una rabbia talmente radicale da sfiorare la follia. Nei suoi incontri con gli ex commilitoni, riapre le ferite che questi avevano cercato di cicatrizzare e a volte arriva perfino alle mani con alcuni di loro: la cinepresa di Hara è sempre lì vicinissima e non indietreggia di fronte a nulla, rendendosi quasi parte del tumulto che Okuzaki sobilla. È in questo senso che si può forse comprendere i motivi che spingono lo stesso autore a definire il proprio stile “action documentary”: alla fine delle due ore del film si viene sovrastati da tanta energia e dalla durezza e dalla schiettezza con cui le colpe e la memoria della guerra vengono dispiegate davanti a noi. Un documentario che è un pugno nello stomaco, citato da Michael Moore fra le sue influenze maggiori.

“A2”

E infine gli anni Novanta – con un esempio calzante, collegato a un terribile fatto di cronaca che non scosse solo il Giappone, ma tutto il mondo – e oltre:

Il cinema molto spesso riflette la situazione sociale del paese e ci sono casi in cui questo è quasi inevitabile. Nel 1995 la setta Aum Shinrikyo, con una serie di attacchi col gas nervino nella metropolitana di Tokyo, scuote il Giappone dal sogno asettico che cullava la nazione. Il coraggioso Testuya Mori, negli anni che seguono, decide di filmare la vita quotidiana della setta, o di quel che ne rimane: il risultato sono i due documentari “A” (Id., 1998) e “A2” (Id., 2001), mai mostrati però in televisione e che hanno di fatto chiuso la carriera del regista che da allora non sembra essere più molto attivo. La verità è che di fronte a eventi di questo tipo si preferisce la totale demonizzazione, per cui anche mostrare la quotidianità della vita degli adepti è considerata probabilmente propaganda virtualmente pericolosa. Un’attitudine, questa, con la quale non è raro imbattersi nel Giappone contemporaneo: si assiste spesso infatti a una sorta di oblio o, nel caso questo non sia possibile, a una progressiva trasformazione delle problematiche in tabù, argomenti di cui non “è bene parlare”, specialmente quando si tratta di media ad ampia diffusione. È un movimento per certi versi affine a quello che non permette di fatto un’informazione completa sugli orrori perpetrati dalle truppe giapponesi nelle occupazioni di Cina e Corea durante e prima della Seconda Guerra Mondiale. A far le veci dei libri di storia, dove questi argomenti sono tuttora appena sfiorati, se non del tutto assenti, è il bel documentario “The Ants” (“Ari no heitai”, 2006), nel quale il regista Kaoru Ikeya segue un veterano di guerra che incontra i suoi excommilitoni e li accusa di torture e massacri.

Ancora Boscarol con Gli anni Zero, ovvero il primo decennio del XXI secolo, l’ultimo analizzato dal volume. Secondo l’autore per la società, e di riflesso per il cinema, è un periodo di transizione e di consolidamento. Consolidamento della cinematografia degli anni Ottanta e Novanta e transizione verso una nuova sensibilità negativa verso lo “straniero”, inaugurata dall’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001; in questo nuovo clima si innesta, nei primi anni del Duemila, una vera e propria mania per i telefilm coreani e taiwanesi, e l’ascesa di Internet e di videogame sempre più sofisticati e sempre più graficamente simili alla realtà:

Senza voler necessariamente generalizzare, possiamo dire che l’atmosfera generale è agli antipodi di quella degli anni Settanta da cui questo excursus è iniziato, anche considerando il quasi totale disinteresse delle nuove generazioni per la politica e per le rivendicazioni sociali101. La crisi economica, l’aumento dei flussi di persone in corso in tutto il mondo e l’invecchiamento della popolazione mettono poi il Giappone di fronte alla necessità di aprire le proprie frontiere: il risultato parla di un sempre maggiore numero di stranieri presenti sul suolo nipponico. I numeri in realtà sono ancora irrisori rispetto alle esperienze multiculturali europee o statunitensi, ma il Giappone non sembra ancora assolutamente pronto a un’apertura di questo tipo. (…) Continua a svilupparsi (in alcuni casi con ottimi risultati) il cinema della cosiddetta “nuova onda”, quella nata negli anni Novanta grazie a nomi che oggi sono parte della cinematografia internazionale come Takeshi Kitano, Shinya Tsukamoto, Shinji Aoyama, Takashi Miike, Kiyoshi Kurosawa e Hirokazu Koreeda, solo per citare i più noti. Tsukamoto intensifica e stilizza la sua poetica che diviene più essenziale, perdendo un po’ della freschezza degli inizi ma arrivando a comporre una filmografia fra le più interessanti viste negli ultimi decenni. Con la progressiva disintegrazione del nucleo familiare tradizionale così come era concepito fino a qualche decennio fa e la crisi economica che continua a destabilizzare e in alcuni casi a cambiare radicalmente alcuni pilastri su cui si fondano società e animo nipponico, gli anni Zero offrono un terreno fertilissimo su cui Tsukamoto può far germinare le sue fobie e ossessioni. Continua in questo modo la discesa nell’animo e nell’inconscio dell’uomo, in rapporto alla metropoli e alla società, descritta con una lucidità che ha pochi eguali: “A snake of June” (“Rokugatsu no hebi”, 2002) e “Vital” (Id., 2004) sono due esempi anche di come sempre di più sia il corpo il crocevia e il crogiolo attraverso cui passano tutte le problematiche, le tensioni sociali e politiche che animano la contemporaneità. In Giappone così come nel resto del mondo non si può più parlare in maniera assoluta di corpo privato e di spazio completamente privato e distaccato da ciò che succede all’esterno: identità e persona sono due termini che non hanno più la valenza che potevano ricoprire trenta o cinquanta anni or sono. Tecnologia invasiva, sistemi di controllo, social network e scienze mediche stanno mutando in maniera drammatica il concetto che abbiamo di noi stessi. Filosofia, cinema e letteratura già riflettono da molto tempo sulla questione e le sue possibile derive e nel Sol Levante soprattutto le tematiche sul confine fra l’elemento naturale e quello artificiale sono da sempre molto attuali. Tsukamoto con i suoi lavori rimane un autore fondamentale anche in contesti non prettamente cinematografici perché riesce a indicare nuovi possibili percorsi esplorativi da seguire.

“A Snake of June” (2002)

Fra le cose notabili del decennio, secondo Boscarol, anche le nuove produzioni dello Studio Ghibli, l’inesauribile fonte sexy dei pinku eiga e il progressivo ampliarsi della cinematografia al femminile, che negli anni Ottanta e Novanta, pur già esistendo, era ancora marginale:

Una caratteristica degli anni Zero è “l’avvento” nel cinema giapponese di autrici femminili. Processo in crescita e che naturalmente riflette la diversa posizione che progressivamente la donna ha saputo o dovuto conquistarsi in una società, quella giapponese, ancora molto maschilista, specialmente quando si parla del mondo lavorativo. Se è vero che ancora oggi molti nuclei familiari sono composti da un marito che lavora e dalla moglie casalinga, bisogna però notare come le crisi economiche che oramai colpiscono il paese quasi regolarmente, unite a una sorta di indebolimento della figura maschile, hanno fatto sì che la donna stia via via acquistando una posizione sempre più importante nella vita sociale, politica e naturalmente artistica del Giappone.

Federico Ercoli si occupa della tendenza più nuova al momento dell’uscita del libro, il rapporto fra cinema e videogame, nel capitolo Cinema/Videogioco: la meravigliosa chimera giapponese. L’autore, prima di offrire ai lettori una carrellata dei migliori videogiochi assimilabili a quello che i profani potrebbero chiamare “cinema interattivo”, spende chiare parole introduttive:

Per meglio comprendere questa fusione davvero nucleare tra cinema e videogioco nipponico bisogna tuttavia liberarsi di alcuni luoghi comuni che spesso affliggono la stampa generalista quando parla di videogiochi, senza conoscerli e senza di fatto conoscere neanche il cinema. Spesso il linguaggio dei videogiochi viene equivocato con quello dei videoclip o della pubblicità, quando invece i games si esprimono attraverso categorie visive che appartengono al cinema puro, addirittura estremizzandole: il piano fisso, il piano sequenza, la soggettiva, assumono nel videogioco durate iperboliche che nel cinema mainstream sarebbero impossibili. Per cui i videogiochi ripristinano un’estenuante ma sublime classicità e c’è più cinema nel videogioco moderno che in quasi tutto il cinema di oggi, che adesso tende a mimare la brutta televisione (che a sua volta sta tornado a imitare il cinema nelle serie più riuscite).

Festival giapponesi, una breve panoramica è il capitolo che Boscarol dedica alle kermesse cinematografiche nipponiche. L’autore identifica il primo vero festival giapponese nel 1976, quando si tenne la prima edizione dello Yufuin Film Festival, seguito nel 1977 dal già citato Pia Film Festival del cinema indipendente e amatoriale. Il Tokyo International Film Festival, nato nel 1985, rimane uno dei più importanti. Del 1987 è lo Image Forum Festival, mentre lo Yubari International Fantastic Film Festival, che debutta nel 1990, ha dovuto sopportare numerose crisi e periodi di chiusura. Del 1991 è il Fukuoka Asian Film Festival. Boscarol lascia per ultima la manifestazione secondo lui più significativa, lo Yamagata International Documentary Film Festival, fondato nel 1989 dal già citato regista documentarista Ogawa.

Yufuin Festival

Termina così il complesso percorso storico che prende tutta la prima parte del libro.

La seconda parte del volume è dedicata ai registi. Nomi fondamentali, a ciascuno dei quali è dedicata una sostanziosa scheda: Kinji Fukasaku di Raffaele Meale, Shōhei Imamura di Riccardo Rosati, Sōgo Ishii di Donatello Fumarola, Naomi Kawase di Raffaele Meale, Takeshi Kitano di Lorenzo Leone, Satoshi Kon di Enrico Azzano, Hirokazu Koreeda di Gaetano Maiorino, Kiyoshi Kurosawa di Daniele De Angelis, Takashi Miike di Raffaele Meale, Hayao Miyazaki di Enrico Azzano, Mamoru Oshii di Matteo Boscarol, Nagisa Oshima di Riccardo Rosati, Sion Sono di Matteo Boscarol, Isao Takahata di Enrico Azzano, Shūji Terayama di Raffaele Meale, Shinya Tsukamoto di Raffaele Meale e Kōji Wakamatsu di Matteo Boscarol.

I grandi maestri emergono in tre dimensioni dalle parole degli autori del volume. Lorenzo Leone, per esempio, ci avverte su Kitano:

L’errore più grande in cui si può incorrere nell’accostarsi a un cineasta come Takeshi Kitano è di catalogarlo in base a una serie di formule fisse: volente o nolente, gran parte della critica non si è certo astenuta dal farlo, ponendo così le basi per una guerra psicologica con il regista (poi esondata anche nel rapporto con il suo pubblico). Ecco perché, con lo stesso spirito provocatorio che ha sempre contraddistinto il suo percorso, se dovessimo suggerire un’icona che fosse la più emblematica della carriera artistica di Kitano, sceglieremmo quella tratta da un suo programma televisivo di successo, Takeshi’s Castle (Fūun! Takeshi-jō, 1986-1989), una sorta di Giochi senza frontiere dove lo scopo principale dei concorrenti era quello di superare tutta una serie di (demenziali) prove di resistenza per arrivare infine a tentare l’assalto al castello di Takeshi. In quell’essere contro tutto e tutti, continuamente sotto attacco insieme a qualche fidato sgherro, c’è il nocciolo della sua carriera cinematografica.

Per quanto riguarda l’animazione Azzano spende su Miyazaki parole sublimi, che evocano la mitopoiesi:

Il cinema di Hayao Miyazaki, prima ancora della maniacale cura dei dettagli e dei colori, della sorprendente verosimiglianza e ricchezza dei paesaggi e dei fondali, della fluidità delle animazioni e delle ripetute invenzioni narrative, è fatto di passioni e di temi ricorrenti. Nel corso dei decenni, tra serie televisive, lungometraggi cinematografici e cortometraggi che si possono apprezzare solamente al Museo Ghibli, Miyazaki ha disegnato un universo narrativo coerente, immediatamente riconoscibile, eppure mai uguale a sé stesso. Nel fantastico mondo di Miyazaki, sempre rivolto verso l’alto, vivono esseri giganteschi, alberi imponenti, aerei e macchinari volanti si moltiplicano a vista d’occhio, le donne hanno un ruolo fondamentale, la terza età si riavvicina all’infanzia, i giovani eroi hanno rapporti quasi simbiotici con animali spesso straordinari.

Il cinema di Miyazaki

Dopo quelle sui registi seguono le schede sui film: Patriotism, Storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista, Throw Away Your Books Rally in the Streets, Under the Flag of the Rising Sun, Hunter in the Dark, Perché no?, Burst City, Angel’s Egg, Max mon amour., Le avventure del ragazzo del palo elettrico, Il mio vicino Totoro, Violent Cop, Hiruko the Goblin, Shinjuku Triad Society, Maborosi, After Life, Barren Illusions, My Neighbors the Yamadas, Millennium Actress, Linda Linda Linda, Naissance et maternité, United Red Army, Sword of the Stranger, Monster X Strikes Back: Attack the G8 Summit!, Love Exposure.

Interessante, come tutte le altre, la scheda su The Rite of Love and Death / Patriotism (Yūkoku), diretto da Mishima nel 1966, in realtà un film antecedente ai Settanta che aprono il volume, ma è un film di crisi, un film che porta dentro di sé tutti i germi che animeranno il cinema giapponese nel decennio seguente. Prendiamo questa scheda come paradigma. Scrive Riccardo Rosati:

“The Rite of Love and Death / Patriotism” di Mishima

Un tono propagandistico di tipo nazionalista è certamente una caratteristica importante di questa pellicola. Tuttavia, esso non può essere considerato come il fattore cardine dell’opera. Mishima auspicava infatti che con la glorificazione del martirio di Takeyama, egli avrebbe potuto scuotere in qualche modo l’animo dei figli di un Giappone annichilito dalla guerra e che egli stesso giudicava “corrotto”. Yūkoku costituisce dunque un reiterato omaggio a un eroico, quanto avventato, tentativo di riportare il Giappone verso la strada della tradizione. Trattasi però anche di un’opera intimistica, in virtù della scelta di rivelare uno spaccato di vita coniugale in un momento drammatico per una nazione vicina a un colpo di stato, con una vicenda dai contenuti universali: il dramma della giovane coppia è in fondo il dramma di tutto il popolo giapponese, lacerato tra tradizione e modernità. Mishima, divo eccentrico e spesso vanitoso, estrapola pedissequamente dalla struttura narrativa del suo racconto una sceneggiatura ben compatibile con le esigenze del linguaggio cinematografico e del teatro classico giapponese. Questa storia piena di pathos ci regala inoltre un Mishima attore sorprendentemente all’altezza, come del resto lo è anche la talentuosa coprotagonista Yoshiko Tsuruoka, col turbinio di passioni ed emozioni di cui è intrisa la narrazione che viene magistralmente comunicato dalla loro recitazione nonostante la totale assenza di dialoghi. Il bianco e nero poi non attenua, ma anzi enfatizza i contrasti onnipresenti nell’opera: il candore del kimono di Reiko, contrapposto al nero sangue che sgorga dalle ferite nel ventre del marito. La luce illumina il volto diafano della donna, mentre Takeyama è spesso in ombra, acuendo, nel contempo, il confronto e l’unione tra due amanti appassionati nell’ultima notte della loro vita.

Il volume termina con la sezione Appendice, nella quale troviamo un’ampia Bibliografia, le Note Biografiche sugli autori e un indispensabile Glossario sulle terminologie e i generi cinematografici citati a piene mani nell’opera.

Nel leggere Nihon eiga il profano scoprirà un mondo affascinate, a tratti imprevedibile. Una cinematografia vastissima, per molti versi ancora sconosciuta nel nostro Paese che da sempre è orientato sul cinema italiano, europeo e statunitense. Grazie a Internet è possibile, durante la lettura, godersi spezzoni dei film citati, rendersi conto del linguaggio della cinematografia giapponese, del modo diverso di intendere la scansione temporale, dell’occhio con cui guarda i personaggi femminili e il sesso, del suo amore per il “genere”, un amore molto più sentito che in Occidente con vere e proprie “canonizzazioni” di figure (maschere), situazioni, trame. Una lettura indispensabile.

Enrico Azzano, Raffaele Meale e Riccardo Rosati

NIHON EIGA: STORIA DEL CINEMA GIAPPONESE DAL 1970 AL 2010

Prefazione di Maria Roberta Novielli

pagg. 230 – € 15,00

ESF Edizioni, 2010

L'articolo IL SOLE SI LEVA SUL CINEMA: “NIHON EIGA” DI AZZANO, MEALE & ROSATI di Francesco G. Manetti proviene da EreticaMente.

Anti-moderno Sol Levante! Riflessioni leggendo “Un mistico giapponese: Kagawa Toyohiko” di William Axling – Francesco G. Manetti

$
0
0

In un mio intervento apparso qualche tempo fa su queste colonne avevo presentato il volume Viaggio tra i mistici del Giappone di Paul Arnold, nell’edizione italiana Iduna del 2021. Rimaniamo nel paese del Sol Levante, con la biografia di un personaggio animato da una spiritualità completamente diversa rispetto a quella che illuminava i grandi saggi incontrati da Arnold nei suoi lunghi pellegrinaggi nipponici. Sto parlando di Un mistico giapponese: Kagawa Toyohito di William Axling (Iduna, aprile 2025): il libro risale al 1932 e in Italia fu pubblicato per la prima volta nel marzo del 1945. Axling (1873 – 1963) – un missionario battista americano che dedicò gran parte della sua vita al Giappone, dove visse per oltre quaranta anni diventando rettore universitario e cittadino onorario di Tokyo, ottenendo anche prestigiosi riconoscimenti e onorificenze imperiali – si occupa del suo contemporaneo Kagawa Toyohito (1888 – 1960), un convertito evangelico, noto per le sue battaglie pacifiste e in favore dei lavoratori, sostenitore del suffragio universale, celebre per il suo attivismo politico-sociale e religioso, per il suo impegno nei quartieri poveri – gli slum – delle grandi città nipponiche, contro la malavita, la prostituzione e l’alcolismo.

La prima edizione italiana del 1945

Come spiega Riccardo Rosati, che cura l’introduzione alla nuova edizione dell’opera, Axling

dà una visione “cristica” di Kagawa: «Aveva in tal modo l’occasione di mettere in pratica il Sermone della Montagna in uno dei momenti in cui il mondo ne aveva più bisogno […]». Questo biografo, il quale non cela minimamente la enorme stima per il confratello orientale, delinea nella sua esposizione la immagine di un “redentore”; vedasi per l’appunto il capitolo sugli slum, indubbiamente il più avvincente, in cui la narrazione lascia trapelare quasi una “follia evangelica” in Kagawa. A questa, spiega l’autore, si affiancava una ricerca dal taglio marcatamente antropologico, con quel “laboratorio degli slums” che fungeva da terreno di coltura per la creazione di un nuovo Comunitarismo, fondato sui pilastri del “giusto” e del “bene”. Kagawa riteneva quei reietti da tutti disprezzati come dei possibili nuovi apostoli: «[…] veder Dio, che è fra i miseri, andarsene altrove. In verità, colui che dimentica i disoccupati dimentica Dio». Se volessimo ricollegare una siffatta percezione al contesto dei nostri giorni, verrebbe pressoché spontanea l’associazione a quel Pauperismo che connota la Chiesa retta da Jorge Mario Bergoglio, centrato non su una scrupolosa impostazione teologica, bensì incline a un moralismo spinto; e se intendessimo trovare un’altra consonanza con tempi abbastanza recenti, in queste parole sofferte e, in parte in contraddizione con quell’amore per gli ultimi (…), lo scrittore e predicatore giapponese ci ricorda la medesima ossessione, quasi una “tassazione di sangue” per dirla in termini taoisti, che turbava l’animo di Pier Paolo Pasolini (1922-1975).

Solo il caso ha voluto che il sottoscritto iniziasse a scrivere queste note il giorno stesso della morte di Jorge Bergoglio (21 aprile 2025), citato sopra. Il riferimento al papa argentino ci avverte che la lettura del libro di Axling deve essere per forza critica in ambito tradizionale. Rosati infatti continua:

Volendo mantenere integra una imparziale esegesi del libro e del personaggio, possiamo affermare di essere consapevoli che, in particolare per un cattolico, la peculiare visione di Dio di Kagawa possa essere reputata troppo antropocentrica e talvolta sincretica, con i rimandi che il nipponico fa sovente al Buddhismo. Tuttavia, dobbiamo tenere a mente che quella di Axling è una biografia e non un testo di teologia, né tantomeno un saggio dottrinario. Se nelle pagine che si andranno a sfogliare, a fronte di affermazioni altisonanti come «abbozzo di santo» oppure «Toyohiko Kagawa si considera, a buon diritto, un miracolo», potrebbero insorgere giustificate perplessità, invitiamo comunque a valutare equamente i meriti specifici di un volume sotto parecchi punti di vista prezioso, giacché ci fa scoprire un Giappone, sì, non molto rappresentativo della totalità del Paese, ma che è innegabilmente esistito e, parallelamente a esso, l’avventuroso percorso di un uomo di religione colto e spavaldo, che ha saputo guadagnarsi con le sue sole forze una considerevole notorietà in una parte dell’Occidente. (…) Quantunque non ci sentiamo personalmente vicini alla Dottrina Sociale della Chiesa e al “dialogo col mondo” che la caratterizza, il quale persiste vigoroso nel pensiero di Kagawa, siamo rimasti intrigati dal racconto di quello che Axling non esita a chiamare un «socialista cristiano». Fondatore di una rivista in favore dei diritti dei contadini dal titolo “Il Suolo e la Libertà” (…) Kagawa fu una sorta di crociato nel teatro di battaglia delle disparità sociali, e che, malgrado talune intermittenti prossimità col Marxismo – vedasi la sua aspra campagna contro le Zaibatsu – non cessò per la sua intera esistenza di essere “pazzo di Cristo”. Decisamente un giapponese inconsueto costui, e sta qui il suo potente fascino.

Angelo Merlin, autore dell’introduzione italiana originale del 1945, fu uno dei fondatori del giornale cattolico “L’Uomo”, ed era dunque molto vicino (politicamente e spiritualmente9 alla singolare figura oggetto dello studio di Axling che andava a introdurre. Così scriveva Merlin, poco tempo prima che si concludesse la Seconda Guerra Mondiale, sottolineando da credente le numerose “incongruenze” di Kagawa:

Kagawa è un mistico, anche se a chi s’accosti a lui attraverso la sua opera di riformatore sociale ciò possa sembrare strano. Strano quando si dimentichi la caratteristica discontinuità dell’irrequieto spirito giapponese, ondeggiante fra un attivismo spesso incomposto e violento e una nirvanica atarassia; strano sopratutto se, indulgendo a un luogo comune, si consideri il misticismo solo come trasumanazione, annegamento dell’io, dissolvimento di ogni distinzione fra soggetto e oggetto: immobilità paga ed estatica. (…) Eckhart ammonisce che la vera gioia mistica non è quella che, elevandosi da uno stato del sentimento, conduce all’unione suprema, giacché «l’amore non unisce», o meglio «unisce ad un’opera, non ad un’essenza». Insomma, «l’anima resta l’anima, Dio resta Dio»: e, fra l’una e l’Altro, una vita da spendere per gli uomini. (…) Prima fra tutte (le contraddizioni di Kagawa) — quella originaria — il concetto dell’esistenza di Dio, inteso in modo dualistico e personale prima, e poi dissolto nella «vita medesima», nella «vita eterna che sì sviluppa». Un Dio «né soggettivo né oggettivo », perché — afferma egli — «cercarlo fuori di noi equivarrebbe cadere nell’idolatria, e cercarlo dentro di noi in un narcisismo nichilistico». Di qui il corollario di tutte le contraddizioni minori, aspetti molteplici dei due momenti dello spirito di Kagawa: quello teocentrico e quello antropocentrico; o, se si vuole, proiezione rifratta su diversi schermi della contraddizione maggiore. Così, a volta a volta, egli può dichiararsi indifferente alla sopravvivenza dell’anima («elemento non originario della religione» ed «egoistico»), salvo poi riconoscere nella morte la via che conduce a Dio: quella che consente di «rimettere l’anima a Lui». Può dirsi scettico sulla necessità della preghiera, e pregare a lungo ogni giorno. Può essere infiammato discepolo della povertà francescana, che è prima di tutto umiltà interiore, e troppo spesso immodesto e compiaciuto biografo della propria santità. Socialista e avversario del marxismo; assertore e fautore della macchina, anch’essa creatura di Dio, e avversario della medesima, soffocatrice di ogni personalismo costruttivo. E ancora: nemico del capitalismo e collaboratore delle forze conservatrici governative; realista o addirittura scientifizzante indagatore di problemi sociali, e utopista vagheggiatore di città con non più di 30.000 abitanti; pacifista seguace della non resistenza, e appassionato spettatore di risse all’ultimo sangue.

Kagawa Toyohiko

L’azione delle forze invisibili è il primo capitolo del testo e si occupa dell’infanzia e della prima gioventù del protagonista. È un racconto “di formazione”. La figura di Kagawa, come in un’agiografia, emerge immediatamente quale perla preziosa in un universo familiare dissoluto o in dissoluzione, feroce e alieno. Sradicato, costretto dopo la morte dei genitori a vivere con la prima sposa del padre, con una nonna burbera, con una sorella bisbetica, con un fratello maggiore scapestrato e dissipatore di fortune economiche…

…rampollo della ricchezza e dell’aristocrazia, ebbe — profeta del proprio futuro destino — un amico: un condiscepolo maggiore di due anni, figlio di uno dei fittavoli che coltivavano il podere famigliare e che viveva in una capanna di terra contigua alla proprietà.

Si tratta della prima esperienza con qualcuno estraneo alla sua classe sociale, che lo vedeva proprietario terriero a capo di svariati piccoli villaggi di contadini, un individuo, questo contadinello, prototipo di quelli che saranno i diseredati urbani dei quali – vedendo in essi il riflesso delle proprie vicissitudini – si occuperà in futuro. La religione entra ben presto nella vita del piccolo Toyohiko:

Come ogni ragazzo d’avvenire, allora, lo si mandava regolarmente al tempio buddista, per studiare i classici del Confucianesimo o esercitarsi negli elementi fondamentali del Buddismo. Dai primi imparò il posto che occupa nel pensiero del suo popolo la pietà filiale e l’amor di patria, mentre i secondi con il loro minuzioso rituale nutrirono nel suo animo un sentimento d’adorazione mistica e di tranquilla prosternazione che gli divenne abituale e assunse con gli anni un’importanza dominante nella sua vita.

Ecco poi la scoperta, nella casa di famiglia, ricca di polverosi ripostigli e bui anfratti, di testimonianze storiche che risalivano fino all’ultima epoca dello shogunato: armi, spade, corazze, attestati, libri, quadri, stampe… In un’epoca preindustriale o comunque di scarsa industrializzazione, e di preponderanza assoluta dell’artigianato Kagawa, nelle pause scolastiche e del tanto amato studio sui libri, scopre il suo legame con il Creato, un’attrazione fortissima per la vita in ogni sua forma:

Il suo spirito e il suo cuore, il suo temperamento e i suoi gusti, tutta la sua personalità nascente, furono prima di tutto formati dalla natura, quale si rivelava a lui nei campi: la pianura, il fossato, le rive e i banchi di sabbia del fiume. Fu là ch’essa esercitò, sempre ugualmente bella, un’influenza penetrante sulla sua vita in pieno sviluppo e diede stabilità alla sua anima.

La svolta avviene per il giovane Kagawa al momento di lasciare la casa di famiglia per essere accolto alla scuola media maschile di Tokushima. Ragazzino estremamente maturo per la sua età, non lega con i suoi compagni e diventa oggetto di scherno: questa situazione lo fa precipitare nella tristezza e nelle lacrime; ma, come recita il titolo del secondo capitolo, Le tenebre annunciano l’aurora. Il sole torna a splendere nella vita di Kagawa grazie a tre insegnanti cristiani – uno giapponese e due occidentali. Il ragazzino è soprattutto attirato dagli stranieri, i dottori Myers e Logan, missionari evangelici che, insieme alle rispettive consorti, accoglievano a braccia aperte nelle loro case questi “piccoli pagani”. Leggendo la descrizione che fa Axling di questo incontro con un mondo totalmente diverso rispetto a quello asiatico i dubbi che affiorano sono molti (incontro o sottomissione?):

Le porte di casa Myers e Logan, a Tokushima, non erano mai chiuse, ed erano lì come ad invitare gli scolari intraprendenti a gettare un’occhiata su un mondo più vasto. Esiste forse un solo studente giapponese che non si drizzerebbe sulla punta dei piedi per rischiare una tale avventura? Ne capitavano dunque a tutte le ore, e certo essi avevano delle buone ragioni per varcare a frotte codeste porte. Infatti, oltre la cordialità dell’accoglienza, questi ragazzi, lontani per la prima volta da casa, trovavano colà una confortevole atmosfera familiare. C’era sempre una tazza di tè, delle focacce, e buone cosette dai nomi stranieri. Meglio ancora, vera gioia, musica, canto: un luminoso squarcio nella grigia e languente monotonia della loro vita di scuola e di camerata. Era anche un’occasione di provare parole e frasi inglesi davanti a perfetti conoscitori della lingua ch’erano inoltre assai compiacenti, e di escogitare con il loro aiuto qualche novità per stupire i compagni e i professori. Era una possibilità di vedere da vicino come vivono gli occidentali e di ascoltarli parlare di quel mondo meraviglioso al di là del mare.

I ragazzi sembravano come stregati da questi educatori, dai loro ninnoli e dal loro cibo. Ma forse la conversione di Kagawa fu sincera se Axling scrive, con trasporto, che dopo la lettura di un brano del Vangelo di Matteo, Toyohiko ebbe quasi un’esperienza estatica:

Egli lesse e rilesse questo passo, imparò a memoria tutto il capitolo, s’inginocchiò; l’aspirazione a lungo compressa esplose nel grido: «Dio, fammi simile a Cristo!» Era a un tempo preghiera e consacrazione del suo essere a un imperioso programma di vita. L’alba si levò: il suo spirito era inondato di luce e di vita, ogni melanconia si dissipò come la nebbia al sole nascente: egli era rigenerato.

Il Kagawa erede delle più antiche e nobili tradizioni del Sol Levante sembra non esistere più dopo l’incontro con la religione cristiana. Capisce fin da subito che la sua nuova vita sarà consacrata ai diseredati. Il paragone che ci viene spontaneo è sicuramente quello con Francesco d’Assisi, che, agiatissimo, rinuncia a tutto per seguire la sua vocazione:

Una violenta opposizione si levò nella famiglia del ricco zio che l’ospitava, ma la gioia gli cantava nel cuore quando scivolava sotto le coperte e comunicava con Dio. Lo zio gli chiese di rinunciare alla sua nuova fede e ai suoi progetti: egli rifiutò d’accondiscendere e si vide perciò diseredato. Ed ecco che questo discendente dell’aristocrazia e dell’opulenza fu scacciato dall’orgogliosa casa dei Kagawa, senz’altro bene che i vestiti che portava indosso. La povertà non era più un ideale di puro sentimento, ma una cruda realtà, di cui assaporò l’amarezza fino alla feccia.

Nella nuova scuola, il collegio presbiteriano di Tokyo, nel quale entrò nel 1905, Toyohiko si distinse per la sua passione sterminata per le letture, scientifiche e filosofiche, e per l’amore verso i randagi animali e umani: nella sua camerata accolse gatti, cani e straccioni trovati per strada; il suo borsellino era sempre vuoto e ogni suo centesimo se ne andava in elemosine. Ma non c’era solo la religione, questo particolare “francescanesimo nipponico”, a guidare il giovane mistico. C’era anche la politica:

Dopo aver letto Tolstoi divenne un fervente partigiano della non-violenza. S’era allora nella fase più critica della guerra russo-giapponese: la tensione in tutto l’Impero aveva raggiunto il punto di rottura. I patrioti al cento per cento davano caccia accanita alle spie e ai pacifisti, e li gettavano in prigione con qualsivoglia pretesto e persino senza pretesto. Kagawa non sosteneva per questo meno apertamente e coraggiosamente le sue convinzioni pacifiste. S’opponeva alla guerra dall’alto della tribuna della scuola attirandosi così la collera del corpo studentesco che lo stimmatizzò come un parvenu, come un traditore, e lo colpì d’ostracismo.

Sopravvisse alle botte dei suoi compagni di classe, a una seria minaccia di espulsione da parte del rettore e anche a una delle malattie più tremende per l’epoca, la tubercolosi. Axling non lo dice apertamente, ma descrive questo continuo accumularsi di asperità sulle spalle di Kagawa che si dissipano come neve al sole grazie alla preghiera e al trascinare gli altri nella preghiera come qualcosa di estremamente spirituale – forse addirittura miracoloso. Stiamo assistendo alla nascita di un santo?

Il terzo capito del libro è dedicato ai bassifondi di Shinkawa, agli slums, come vengono sempre indicati nel libro utilizzando un termine inglese proveniente dal gergo londinese cockney. Il fumettista che per un attimo qui fa capolino non può dimenticare che proprio negli slums era nato il fumetto moderno, quando gli editorial cartoonist, i vignettisti di satira politica americani, a cavallo fra il XIX e il XX secolo, si erano ispirati ai ragazzini straccioni dei vicoli poveri di New York immortalati dai primi foto-reporter per creare gli iniziali eroi della “letteratura disegnata”, della “narrazione per immagini in sequenza”, della cosiddetta “arte sequenziale”: il riferimento a Yellow Kid e a Richard Felton Outcault è puramente voluto. Ma gli slums di Kagawa non hanno proprio nulla di umoristico. La descrizione che ce ne fa Axling è epocale e stride con l’immagine del Giappone “perfetto” che un occidentale potrebbe farsi:

Nel tempo in cui l’industrialismo moderno invase il Giappone, gli slums sono stati i focolai d’infezione delle sue grandi città. La polizia lo sapeva, ma accettava la loro esistenza. I criminali vi si davano convegno, le case di prostituzione vi cercavano le loro reclute. All’occasione, un giornalista temerario vi faceva un’incursione dalla quale tornava con qualche storia terrificante cui nessuno credeva. È là che si indirizzavano i contadini alla ricerca d’un figlio o d’una figlia traviati. Per la massa erano un paese sconosciuto. (…) Dieci mila abitanti vi erano pigiati come sardine in capanne di sei piedi quadrati, più simili a carceri buie che a dimore. Spesso una di queste capanne doveva bastare per una famiglia di cinque persone, o anche per due famiglie con nove o dieci individui. Di solito non v’erano finestre: la luce e l’aria penetravano per la porta aperta. Una cucina comune, un solo rubinetto, un’unica latrina servivano ai bisogni d’una ventina di famiglie. Queste casupole davano su vicoli non lastricati, larghi da tre a sei piedi, ammorbati d’immondizie: i rifiuti della casa, i resti delle latrine e il rigurgito delle fogne ingorgate. Gli abitanti erano spazzini, noleggiatori, braccianti, operai, panierai, bottai, barcaioli, stradini, aggiustatori di pipe, carbonai, cenciaiuoli, venditori di dolciumi da pochi soldi, facchini, fattucchieri, giocatori di professione, accattoni, ladri, assassini, ruffiani e prostitute. Il loro incasso medio giornaliero oscillava da un franco e venticinque a due e cinquanta, quando c’era lavoro; ma molto tempo passavano in ozio forzato. Il quartiere brulicava di fanciulli denutriti, scrofolosi dalla testa ai piedi e coperti di malattie cutanee. La mortalità infantile raggiungeva la spaventosa percentuale del cinquanta per cento, contro il trenta per cento di altre parti dell’Impero. Malattie di ogni natura svolgevano incessantemente il loro mortale lavoro fra questa popolazione. Sotto il velo della notte, il crimine e l’impurità si mettevano svergognatamente in mostra nelle oscure viuzze e nei sudici sgabuzzini che usurpavano il nome di focolare.

In una delle baracche dei bassifondi, teatro di un omicidio e scansata da tutta la “gente perbene” perché ritenuta una casa infestata dai fantasmi, si insediò Kagawa e lì ospitò ogni genere di rifiuti umani, sordidi personaggi che non avevano più un tetto, più un centesimo per mangiare: un poveraccio afflitto dalla rogna, un alcolista all’ultimo stadio, un criminale assassino, un tubercolotico, un malato di mente, una prostituta sifilitica, un mendicante malato agli occhi e via dicendo. Kagawa si ammalava di tutte le malattie che soffrivano i suoi disperati ospiti e le superava, “miracolosamente”. Dovette lottare contro giocatori d’azzardo rapinatori, contro malfattori di ogni genere, contro le peripatetiche che entravano in casa sua per adescare gli uomini al quale stava predicando, contro la piaga delle “false adozioni” fatte solo per riscuotere il denaro dovuto al mantenimento del figlio adottivo. Il mistico divenne colui che seppelliva i cadaveri dei fanciulli della baraccopoli: quando un bambino moriva era una doppia disgrazia per le famiglie povere allorché il funerale e l’inumazione avevano costi inavvicinabili per i diseredati. Ci pensava Kagawa. Il colpo di fortuna arrivò quando l’editore di una rivista, capitato nella capanna del religioso, ebbe modo di leggere le bozze di un romanzo che aveva iniziato a scrivere tempo prima; il giornalista lo stimolò a completarlo; Kagawa lo riprese, vi aggiunse le sue esperienze negli slums e quel titolo diventò uno dei più venduti in Giappone.

Osaka: slums ancora negli anni ’60

Con gli anni Kagawa intraprese un vero e proprio studio socio-politico sulle cause del pauperismo, ovvero nel tramonto del Giappone “tradizionale”:

Non era soddisfatto soltanto di riformare degli individui poiché la sua esperienza ogni giorno lo persuadeva che il problema degli slums non si sarebbe mai risolto in quel modo. Istituì di conseguenza una vasta inchiesta sociale, risalì fino alla sorgente del pauperismo; ne scrutò le cause, — anche quelle concomitanti —, gli effetti, e si sforzò di scoprirne il rimedio. Fu attraverso codesto studio che divenne socialista cristiano, campione delle classi diseredate, organizzatore intraprendente degli operai, critico perseverante e documentato dell’ordine sociale attuale, capitalista e profittatore. La sua analisi, di fatto, lo aveva condotto alla convinzione che le radici del pauperismo sono nelle condizioni del lavoro. Nel sistema d’artigianato a domicilio, che caratterizza il Giappone d’un tempo, si trattava l’operaio come un essere umano: condivideva la vita famigliare del suo padrone, mangiava alla sua tavola, lavorava nella stessa camera e s’associava veramente alla sua impresa. Il datore di lavoro e il lavoratore si consideravano mutualmente come uomini; le loro relazioni erano cordiali: si conoscevano e si comprendevano. Il più delle volte lo stesso datore di lavoro era mosso da un interesse paterno verso coloro che lavoravano sotto la sua immediata sorveglianza. Ciò creava abbondanti occasioni di lavoro realmente produttivo. L’industrialismo moderno, con le sue superfabbriche, le sue macchine potenti e la sua produzione in serie, aveva cambiato tutto ciò. Il datore di lavoro e il lavoratore non erano ormai più che estranei l’uno per l’altro; i diritti erano esclusivamente dalla parte del datore di lavoro mentre l’operaio, privato di qualsiasi libertà di scelta, non aveva una parola da dire sul genere di lavoro che gli si dava, le condizioni, il numero d’ore o il salario. Ciò avveniva prima dell’esistenza del Bureau International du Travail e della legge sulle fabbriche attualmente in vigore in Giappone. Il datore di lavoro non aveva che una preoccupazione, giacché non gli si chiedeva che questo: satollare l’azionista e il suo insaziabile appetito di grossi dividendi. In parecchi casi le condizioni di lavoro erano uno scandalo. Le ore erano molte e i salari minimi. Kagawa s’accorse, studiando, che molti dei mali che affliggevano Shinkawa risalivano direttamente a questo stato di cose. Constatò, per esempio, una relazione matematica e costante fra la percentuale di mortalità infantile e il salario dei genitori: quando il salario era basso la percentuale di mortalità saliva, e viceversa; a causa dell’insufficienza delle entrate, la metà dei bambini era denutrita e moriva prima d’aver raggiunto il quinto anno. Constatò che le cause principali della tubercolosi e delle altre malattie che menavano strage negli slums erano la denutrizione e l’eccessiva durezza del lavoro. Osservò che intorno a lui si ricorreva al bere per narcotizzarsi e dimenticare così le proprie sofferenze; o, prostrati dal destino, si cercava uno stimolo per sferzare le energie. Era ancora la miseria l’alimentatrice della prostituzione che insozzava gli slums.

Da qui l’interesse di Kagawa per le organizzazioni sindacali, delle quale divenne uno dei promotori in Giappone, animando proteste e scioperi contro i grandi gruppi industriali e portuali – proteste e scioperi che all’epoca erano illegali. Kagawa fu dunque pedinato dalla polizia e infine arrestato. Rimase in carcere per due settimane e quando uscì c’era una folla di mille operai ad aspettarlo. Axling però è chiaro nel suo pensiero:

I movimenti operai hanno talvolta la tendenza a mostrarsi aspri e turbolenti, a mancare di correttezza, a eliminare il lato bello della vita. Questo patrono degli operai, tuttavia, era innanzi tutto un idealista. Era artista e poeta per temperamento e per cultura. Si opponeva alla lotta di classe, all’azione diretta, alla violenza. Anche nel culmine dello sciopero, quando le autorità dei docks e della polizia si sforzavano di spezzare il morale degli scioperanti ricorrendo alla forza bruta, egli scongiurava di rispondere ai colpi con l’amore e non con l’odio, e di cercare appoggio nella giustizia della causa e nella loro forza d’animo.

Non vi erano però solo le città, densamente popolate, e piagate dai quartieri poveri. Kagawa scoprì che il numero degli abitanti degli slums cresceva continuamente perché decine di migliaia di contadini lasciavano le campagne per le grandi aree urbane, incapaci ormai di sostentare con il lavoro e i frutti dei campi loro stessi e le loro famiglie, piegati com’erano dai debiti. Questo scatenava una reazione a catena dando vita a tutti i problemi che abbiamo visto (malavita, malattie, prostituzione, gioco d’azzardo), alimentati dalla povertà. Per evitare il pernicioso spopolamento delle campagne – un male che avrebbe colpito tutto il mondo nel XX secolo, un male che i socialismi nazionali europei cercarono, talvolta con successo, di arginare – nacquero dunque associazioni di contadini. I loro scopi erano ben precisi e seguivano un chiaro programma che…

…considerava in sostanza: l’istruzione complementare per le popolazioni di campagna; il perfezionamento delle cooperative agricole di produzione; l’organizzazione del credito; il miglioramento delle abitazioni rurali e delle condizioni sanitarie; l’incoraggiamento dei metodi scientifici d’agricoltura e la fondazione d’una assicurazione sui raccolti.

Kagawa diventa una sorta di “profeta utopista”, uno scrittore, un poeta, un crociato a fianco degli ultimi, che scorge un futuro diverso per il Giappone e il pianeta intero, un domani che però non potrà realizzarsi senza lottare; Axling tratteggia scenari che sembrano rimandare al capolavoro di Fritz Lang, Metropolis:

Egli scorge nel ventesimo secolo tre tendenze che concorrono a complicare la vita. Dapprima i grandi agglomerati urbani con ciò che comportano di pericolo fisico, morale e psicologico. Kagawa dichiara che delle personalità armoniche e complete non potrebbero svilupparsi senza aver per compagni gli alberi, senza i profumi dei prati, senza il ronzio degli insetti e la canzone del vento, senza attardarsi sulla riva di acque tranquille e riposanti, bagnarsi nella luce del sole quand’essa brilla sulle vallate, sulle colline, sul declivio delle montagne; senza insomma comunicare con la natura in tutti i suoi aspetti mistici. Egli considera trentamila anime come la massima popolazione tollerabile d’una città normale, e chiama calamità le città con più di 200.000 abitanti: nell’esistenza contro natura di questi centri sovrappopolati la civiltà procede, con i piedi incatenati, verso una decadenza precoce. La seconda tendenza è lo sviluppo della macchina e il dominio di questa sull’uomo. Ne risulta un’eterna e monotona ripetizione del medesimo gesto che paralizza l’opera creatrice. Ciò fa del lavoratore un automa togliendogli qualsiasi iniziativa; si contrappone al suo istinto creatore, uccide in lui il bisogno di eccellere, soffoca l’ansia del progredire e infine trasforma lui stesso in una macchina, o lo manda ad ingrossare l’esercito crescente dei disoccupati. La terza tendenza è la concentrazione del capitale nelle mani di un numero ristretto di persone, con tutte le inevitabili conseguenze: una sempre più ingiusta ripartizione della ricchezza, lo sfruttamento, la miseria, il determinismo economico.

Una visione politica che potrebbe essere fraintesa. Ma le cose non stanno come potrebbero sembrare:

Kagawa è un «ingegnere sociale » tutto teso a realizzare programmi d’azione piuttosto che a combinare speculazioni accademiche. Tuttavia i suoi programmi sono costruiti su fondamenta ben profonde e su pilastri ben solidi. Crede nel comunismo, ma in quello della Chiesa cristiana primitiva e di Tolstoi piuttosto che in quello di Marx. Contro l’odio di classe del comunismo russo, egli difende e pratica appassionatamente l’amore fraterno. Contro la lotta di classe di Carlo Marx, si fa patrono della non resistenza tolstoiana. Per l’istituzione d’un ordine sociale migliore e più giusto, egli crede piuttosto nell’evoluzione che nella rivoluzione. Intravvede uno stato di cose in cui gli uomini sono vicini l’un l’altro, in cui i valori umani sono al vertice, mentre il denaro e i beni materiali in secondo piano; un ordine in cui lo sviluppo dell’individuo non è più ostacolato da mille impedimenti in cui le ricchezze sono equamente ripartite e i mezzi di sussistenza assicurati a ciascuno. Insiste sul fatto che la ricostruzione sociale deve venire effettuata attraverso cambiamenti successivi e un’organizzazione graduale, piuttosto, che per mezzo della violenza e della distruzione. Egli ricorda con insistenza che le rivoluzioni francese e russa, realizzate l’una e l’altra con la violenza, furono accompagnate da rovine spaventose, sia economiche che morali e spirituali.

Kagawa scrisse infatti:

V’ha un comunismo-furto che proclama: “Quello che è tuo è mio”, e che per conseguenza accaparra senza scrupoli, e un comunismo-donazione che proclama: “Ciò che è mio è tuo”, e che perciò non tiene nulla per sé. Sotto lo stesso nome sono quindi due attitudini esattamente antitetiche.

Negli anni in cui Kagawa predicava il suo sindacalismo pacifista, il suo comunismo-donazione, il suo socialismo cristiano e sempre più gente lo seguiva nei suoi visionari programmi di riforma e leggeva sempre più le sue opere l’idillio con il popolo cominciò a vacillare e…

s’iniziò l’invasione dell’estrema sinistra con la sua interpretazione materialistica del mondo e della vita, il suo programma antireligioso e mediocre, il suo appello alla violenza. Codesta propaganda volò sulle file degli operai e dei contadini con gli stivali delle sette leghe, dividendoli in due e rendendo la sinistra sempre più forte ed aggressiva. Allorché Kagawa si rifiutò di «veder rosso», di far ricorso alla forza e di porre le classi le une contro le altre, i contadini e gli operai si rivoltarono simultaneamente contro la sua autorità. Gli voltarono le spalle in gran numero e lo lasciarono alla testa d’un movimento di minoranze. (…) Sulle orme dell’estrema sinistra venne il comunismo russo, con la sua propaganda esplosiva. Esso infisse ancora più profondamente il cuneo fra gli aderenti di Kagawa, e minacciò di eclissarlo del tutto. Ma v’è in quest’uomo una tale passione di costruire un ordine nuovo, da trarre la propria forza dall’opposizione stessa, dalla sofferenza e dal sacrificio. Intrepido, abbrancò stretto per la vita questo nuovo avversario. Si rivelò focoso difensore d’una democrazia sociale fondata sul parlamentarismo, il suffragio universale, il rispetto delle minoranze, la libertà per tutti. Attaccò la dittatura del proletariato, l’azione diretta e immediata, la soppressione delle minoranze e la violenza, predicata e praticata dai bolscevichi. Dichiarò che quello era «rinnegare la democrazia, e incatenare la libertà.» Egli era stato l’idolo delle classi operaie; in seguito a queste dichiarazioni divenne il bersaglio delle loro critiche e l’oggetto del loro odio feroce. Lo misero alla gogna come traditore della causa e come alleato della democrazia borghese in cui pur sempre è implicito un certo qual dispotismo. (…) L’Unione dei contadini del Giappone, di cui era stato il genio tutelare, fu pure sgretolata dalla propaganda comunista.

Nella seconda metà degli anni Venti (ovvero poco tempo avanti la pubblicazione della prima edizione americana del saggio di Axling), la galassia del sindacalismo comunista si allontana sempre più dalla figura del profeta degli slums. Kagawa, che per certi versi era stato il loro “padre”, diventa il loro più acerrimo nemico e al contempo si fa più “istituzionale”, sempre meno inviso alle autorità costituite che sopportano il suo predicare il cristianesimo in quanto sostenuto da forti spinte anti-comuniste:

Kagawa, come tutti gli uomini dalle forti convinzioni, che sanno ciò che vogliono e non esitano a dirlo forte, è oggi uno degli uomini più appassionatamente amati e a un tempo detestati dell’Impero: il comunista rivoluzionario ed il socialista antireligioso, come il capitalista sfruttatore che non vede se non il proprio profitto, il politicante reazionario e il clericale adoratore dello statu quo, non vedono più in lui che un fautore di disordini e, conseguentemente, un pericolo. I suoi avversari amano dire che la sua stella è tramontata. Negli ambienti dell’estrema sinistra, ai quali bisogna aggiungere gli studenti marxisti, ha, è vero, perduto del suo prestigio e non è più acclamato come un profeta. (…) La risoluta opposizione della polizia e del governo durante la sua prima attività da molto tempo si è rilassata. Per uno strano capovolgimento, ora è piuttosto ostacolato dal Direttorio del movimento socialista. Quando egli intraprende le sue campagne in provincia, le autorità centrali di Tokyo ne informano spesso in anticipo i direttori delle scuole pubbliche, dando l’istruzione d’accordargli udienza e obbligare gli scolari ad ascoltare i suoi discorsi, malgrado il loro accentuato carattere cristiano. Egli allora, per la sua lotta contro il materialismo antireligioso comunista e rivoluzionario, appare, ed è una situazione ben strana, quasi un emissario delle autorità.

Già nel 1923, quando un potente terremoto devastò Tokyo e altre grandi città giapponesi, causando fino a 100.000 vittime, Kagawa – un tempo guardato con sospetto dalle istituzioni come agitatore – fu nominato membro della Commissione Economica Imperiale che doveva consigliare il Governo sulla ricostruzione. Questo cambiamento di orizzonte di Kagawa e del modo in cui viene percepito, da nemico dell’ordine a fautore di un “nuovo ordine”, porta in Giappone cambiamenti straordinari:

Nel 1926 il Governo, mosso dalle parole e dagli scritti di Kagawa, iniziò la soppressione degli slums nelle sei maggiori città dell’Impero: Tokyo, Osaka, Yokohama, Kobe, Kyoto e Nagoya, da portarsi a termine nello spazio di sei anni, e consacrò all’impresa cinquanta milioni di franchi. È uno degli atti più arditi della legislazione sociale moderna, uno di quelli più lungimiranti. Le abitazioni-carcere di Shinkawa non esistono più. Gli impuri slums delle sei grandi città giapponesi, questi focolai di malattia e queste scuole di delitto, non sono più. Le minuscole catapecchie sono state demolite e grandi case municipali s’elevano al loro posto. Le strette e sudice viuzze hanno ceduto alle strade pavimentate e debitamente munite di fogna. Il sole, la luce e l’aria hanno ora via libera per compiere la loro opera redentrice e benefica. Vorremmo poter aggiungere che anche le folle miserabili che abitavano gli slums non esistono più. Su ciò Kagawa così si esprime: «Migliori condizioni di alloggio non sono tutto. È necessario completarle con un’altra legislazione sociale. È necessario fissare un minimo di salario, casse soccorso-malattia, un’assicurazione contro la disoccupazione, pensioni per i vecchi e per le partorienti, prima che il pauperismo possa dirsi vinto».

Nel 1927 lo vediamo sferzare, durante un convegno religioso, i capi delle tre maggiori religioni del Giappone – il Buddismo, lo Scintoismo e il Cristianesimo – accusandoli di guardare più alle apparenze che al vero obbiettivo della spiritualità: la triste condizione umana. Con il terribile inverno del 1930-31 e con i debiti contratti dall’amministrazione di Tokyo per le opere di ricostruzione dopo il terremoto di otto anni prima lo spettro del crac economico ammorba l’aria: i disoccupati non si contano più e le condizioni di numerose famiglie, soprattutto quelle degli indispensabili battellieri che riforniscono la capitale di merci e derrate alimentari, sono disperate. Kagawa viene incaricato dal sindaco di Tokyo di occuparsi dell’ufficio di beneficenza per alleviare le condizioni dei più poveri e i risultati non si fecero attendere:

Istituì dame visitatrici, fondò dormitori per fanciulli, case di riposo per i loro genitori. Creò undici stabilimenti sociali nei quartieri in cui il bisogno si faceva più vivamente sentire. Prese misure per assicurare, alla gente povera che moriva, funerali decorosi. Cinque mesi dopo la sua entrata in carica, concepì e fece approvare dal Consiglio Municipale un progetto d’assicurazione contro la disoccupazione, grazie al quale i disoccupati di Tokyo vengono registrati dall’ufficio municipale di collocamento, il quale procura loro lavoro oppure versa un sussidio ogni tre giorni finché dura l’ozio forzato. Prevede anche che il lavoro disponibile debba essere ugualmente ripartito fra tutti i disoccupati.

Kagawa viene definito da Axling un “pacifista militante”, un “combattente del pacifismo”; un aspetto della sua personalità che avrebbe frapposto sul suo cammino parecchi ostacoli:

Convinto che i movimenti individuali e sociali debbano fondarsi unicamente sulla forza dello spirito e sulla potenza dell’amore, si dichiara assolutamente contrario alla guerra, così come a tutto ciò che ad essa si riferisce. Egli fu il solo giapponese a firmare il manifesto contro la coscrizione militare, presentato alla Società delle Nazioni, forte dei nomi di Tagore, di Gandhi, di Einstein, di Romain Rolland ed altri illustri esponenti della lotta contro la guerra. Ciò lo fece annotare per primo sulla lista nera dagli ultra-nazionalisti e dai militaristi del suo paese. Nel 1928 creò la Lega nazionale giapponese contro la guerra. Tale organizzazione non comprende solo l’ala destra operaia e proletaria, ma anche gli spiriti progressisti degli ambienti borghesi, intellettuali, religiosi e letterari. (…) Questa iniziativa attirò su Kagawa la collera dei reazionari e degli ultra-nazionalisti; dall’alto dei loro pulpiti, attraverso la stampa, l’accusarono d’essere strumento nelle mani dei pacifisti americani e dei comunisti russi. Lo denunciarono come traditore del paese e sollevarono una tale ostilità contro di lui che la sua vita ne fu minacciata, tanto che la polizia, per proteggerlo, dovette… arrestarlo. Fu pure oggetto di sospetto da parte dei poteri costituiti, che adottarono misure per mettergli il bavaglio, a lui e agli aderenti alla Lega.

Fra le sue numerose “battaglie pacifiche” anche quelle contro le malattie, la prostituzione, il fumo e l’alcol, cause di quasi tutti i problemi che affliggevano gli slums, battaglie combattute con piglio virile, “guerre sociali” che portò avanti arditamente ottenendo numerosi risultati a livello istituzionale:

Kagawa ha scoperto l’equivalente morale della guerra. Attacca di fronte la malattia, l’alcool, il tabacco, i vizi erotici, perché desidera «che i giovani siano moralmente e fisicamente validi e virili». È uno dei capi più attivi dell’Associazione per l’abolizione della lebbra e della Società per l’estirpazione della tubercolosi. In seguito alla sua esperienza negli slums, considera le bevande alcooliche come uno dei flagelli più esiziali della nazione. A Shinkawa era circondato da schiavi del vizio; piangevano dirottamente per cattivarsi la sua simpatia; gli tenevano discorsi interminabili. Certuni restavano seduti per delle ore intere, in profondo silenzio; altri si scatenavano sì da far parere la sua casupola un campo di battaglia. Mai però respinse questi ubriaconi. (…) Codesto pacifista militante, animato da una fede ben munita d’idee, ma armata solo d’amore e di forza spirituale, s’accinge a vincere la sua battaglia. Il Governo ha preso recentemente misure per sradicare la lebbra, costruendo una serie d’ospedali d’isolamento. La nazione affronta seriamente il flagello della tubercolosi. Il movimento antialcoolico s’estende e prende forza: cinquantatré villaggi hanno adottato il proibizionismo; due milioni di membri si sono aggiunti alle leghe di temperanza. I difensori della prostituzione pubblica sono ridotti alle strette. Sette prefetture hanno dichiarato fuori legge le loro case, e campagne sono in corso in altre trentasette per ottenere un decreto che le sopprima.

Fumetto ispirato alla vita di Kagawa (Fujio Gō e Ōsaki Teizō, 2015)

La vicinanza maggiore con Kagawa il saggista cristiano Axling la sente quando descrive in lui non il riformatore politico-sociale, ma l’evangelizzatore, il “crociato” (così lo definisce nel IX capitolo). Ma forse siamo oltre: Kagawa è essenzialmente un “mistico moderno” (nella definizione del X capitolo) che ha una nuova visione del divino rispetto a quella del Cristianesimo e non rifiuta la Scienza, con una visione di Dio valida quasi erga omnes:

Per lui Dio è infinitamente di più che l’Assoluto, l’Energia Cosmica o l’Impulso vitale. Non è «marginale e vago, ma centrale e dinamico». Egli è il Padre, l’Amico, il Consolatore, il Grande Alleato, tutto ciò che il cuore umano, in tutte le sue età, ha desiderato fosse. La Sua presenza immediata è realtà suprema. (…) Considera tutti i problemi modernamente; accetta le invenzioni della scienza moderna e se ne rallegra. Esamina ogni problema dal punto di vista scientifico altrettanto che da quello mistico. Per comprendere l’uomo, indaga anche la biologia; per prepararsi al suo compito d’«ingegnere sociale», studia a fondo la psicologia e la sociologia, con tutto ciò ch’esse oggi comportano. Nella sua passione di fondare un ordine sociale più giusto, diventa uno specialista di questioni economiche, con tutte le loro ramificazioni, e scruta le molle segrete della finanza contemporanea. I suoi metodi di lavoro sono moderni. Persuaso che ogni nuova capacità dell’uomo sia data da Dio, s’impadronisce di qualsiasi ritrovato e di qualsiasi innovazione, e li utilizza come strumenti venuti dal Cielo per costruire un ordine sociale di cui Dio sia il centro e la volontà direttiva.

Non solo la scienza e la tecnica, e le altre capacità “artificiali” dell’uomo: Dio, per Kagawa, si rivela soprattutto nella Natura, nei suoi aspetti più potenti, anche in un devastante temporale. Una visione che sicuramente va oltre il Cristianesimo e pare tornare alle radici del Paese che gli ha dato i natali.

Nell’undicesimo capitolo (intitolato Alcuni tratti caratteriali) un fin troppo inspirato e entusiasta Axling rasenta di nuovo l’agiografia. Descrive quasi in trance l’aspetto fisico e l’abbigliamento del mistico, insiste sulla “povertà” del suo alloggio, sul suo assoluto disinteresse per il danaro se non come mezzo materiale per aiutare gli sfortunati. Fa di Kagawa una sorta di “santo vivente”, che riesce persino a guarire da una perniciosa cecità:

Le sue sole stravaganze sono quelle che si riferiscono alla fede e alla devozione. Qui non conosce limiti. La sua fede supera tutti gli ostacoli e il suo amore non s’arresta dinnanzi a nessun sacrificio. Egli rasenta ad ogni passo l’abisso della povertà personale nei suoi sforzi incessanti per alleviare quella degli altri. (…) Gli ignudi si rivolgono a lui ed egli li riveste; più e più volte, d’inverno torna a casa, la sera, senza il mantello. I malati confidano in lui ed egli provvede ai loro bisogni. I disoccupati bussano alla porta ed egli li accoglie alla sua tavola. Dà loro asilo, per settimane e settimane. (…) Nella buona società, come fra la gente del popolo, egli indossa la sua tuta operaia da dodici franchi che gli sta come un sacco; ma sotto questo aspetto grossolano non si tarda a scoprire la luce d’un’anima che può infischiarsene del lustro esteriore.

E le donne? Finora abbiamo visto solo prostitute e povere madri… Ma quando Kagawa predicava, accoglieva gli indigenti e persino i criminali da redimere a casa su non era solo. Dietro il mistico, come una fedele ombra, si muoveva sempre una figura femminile, la signora Primavera (Haru), sua moglie e madre dei suoi due figli. Una giapponese anche lei attivista, anche lei convertita alla dottrina cristiana evangelica, anche lei predicatrice, anche lei scrittrice e studiosa delle Sacre Scritture. Fu una specie di alter ego del marito, una donna rimasta comunque “tradizionale” in senso nipponico:

Essa dava da mangiare ogni mattina a dieci o a quindici persone, riceveva da cinquanta a sessanta visitatori al giorno, leggeva centinaia di lettere e ne curava le risposte. S’abboccava continuamente con i dirigenti dell’Unione operaia e con loro prendeva le misure necessarie per mantenere alto il morale degli scioperanti. (…) Ciononostante è persuasa che il focolare resta per la donna il più fertile campo d’azione, che richiede il meglio di lei: abbellire la casa, allevare bene i fanciulli: questo il cammino più sicuro per ricostruire l’ordine sociale. Considera l’educazione famigliare di primaria importanza per la soluzione di alcuni grandi problemi, quali la purezza sociale, la giustizia fra gli uomini, le avversioni di razza e la guerra.

Kagawa con la moglie Primavera (Haru)

La biografia di Kagawa termina con tale ritratto della moglie, soffuso a tratti di morbida luce spirituale. Il libro si chiude con un appendice dedicata alla raccolta di “pensieri sparsi” del moderno mistico giapponese, estratti da “Meditazioni” e da altre opere, come spiega una nota a piè di pagina. Alcuni – soprattutto quelli che non riguardano direttamente la religione e la fede cristiane – sono davvero interessanti o curiosi. Quello sulle avversità, per esempio:

Non pensate che l’oscurità non abbia a finire: al l’alba, il sole vi saluterà da Oriente. Il temporale non durerà in eterno; quando sarà passato, una gran calma scenderà.

O quello sugli extraterrestri, dove “Marte” può essere letto come paradigma del “pianeta alieno”:

Se degli esseri viventi, dotati d’intelligenza, abitano il pianeta Marte, io credo ch’essi siano fisicamente molto simili alla razza umana di quaggiù. Ammettiamo pure che i principî che governano l’Universo siano di numero illimitato… quelli che reggono la vita non lo sono altrettanto. Inoltre, benché questo sembri, e sia veramente, meraviglioso, le tendenze dell’evoluzione variano poco da una specie all’altra e, in larga misura, sono identiche. Grande, certo, è la distanza fra la Terra e Marte, ma il principio della vita sui due pianeti sarebbe verosimilmente unico, e le tendenze dell’evoluzione non certo differenti. Non si tratta di impennate fantastiche! Lo studio delle tendenze che si manifestano attraverso le molteplici e diverse forme della vita rivela l’esistenza d’un principio fondamentale comune. Questo principio trascende lo spazio. Secondo ogni probabilità, dunque, la vita non fa distinzione tra Terra e Marte.

Oppure le posizioni di Kagawa sulla delinquenza:

Per chi è troppo occupato, anche la possibilità d’affrontare la voce della coscienza è perduta. Se le grandi città pullulano di delinquenti giovanissimi, bisogna ricercarne la causa nel fatto che non si offrono più al fanciullo occasioni di riflettere. L’imperversare della demenza omicida in America, ove la macchina ha compiuto i maggiori progressi, è un fenomeno analogo. Che l’uomo moderno, distaccato dalla natura e privato di raccoglimento, s’allontani dalla religione, si spiega allo stesso modo.

Fanno poi riflettere i pensieri che il mistico espresse riguardo ai rapporti fra le religioni orientali e quelle occidentali, con una sorta di critica ante litteram alle tendenze new age:

In questi ultimi anni, gli Occidentali si son messi a stimare grandemente le religioni dell’India. Queste religioni sono essenzialmente negative. È spiegabilissimo come l’Occidente che brancola sempre più nell’effimero, e che soffre tutt’ora della stanchezza prodotta dalla guerra mondiale, possa essere influenzato fuor di misura dal pensiero negativo dei credo dell’India. Va da sé che un atteggiamento negativo, il quale procuri sicurezza, è una benedizione maggiore d’uno positivo che conduca alla rovina. Ma la negazione incoerente, quella che nega la realtà pur continuando ad aggrapparvisi, deve presto o tardi mutarsi in Mahayanismo basato su una affermazione. Dal punto di vista della logica pura e semplice, credo quindi che per adottare la via negativa non basti allontanarsi da un materialismo in lotta per dei vantaggi, per il piacere e per il potere, ma che sia necessario elevarsi ad un positivismo basato sulla riflessione e su un risveglio di cui la coscienza sia il fattore dominante. La vita trascende negazione e affermazione a un tempo, e c’impegna ad avventurarci verso il mondo ideale. Ma non vi sono frontiere nel regno dello spirito. Budda non è né indiano né giapponese: appartiene al mondo dello spirito. Così è per Cristo: nacque in Giudea, ma non è giudeo. Appartiene al mondo intiero. Che dico? All’Universo! (…) Ugualmente, non dobbiamo elevarne nel mondo dell’anima. Si può essere orgogliosi dell’amor di patria giapponese; ma è puerile tessere l’apologia della conquista nel regno dello spirito. Sono lieto che i Giapponesi abbiano fiera coscienza della loro tradizione nazionale: non è certo necessario essere affetti d’occidentalismo!

E di grande interesse sono infine le posizioni “anti-moderne” di Kagawa riguardo ai più recenti meccanismi di produzione e alle metropoli:

Ogni volta che si torna in città, dopo aver lasciato le bellezze della Natura, ci prende, con forza rinnovata, la certezza che la civiltà moderna si è assurdamente cacciata in un labirinto. La vita è divenuta comoda, progredisce enormemente, ma è innegabile che la semplicità sparisce gradualmente, insieme ad ogni caldo contatto umano. Ciò dicendo, non intendo rinnegare in alcun modo la nostra civiltà meccanica. A mio parere, però, una tazza da tè accuratamente lavorata a mano sembra assai più desiderabile d’una mezza dozzina di quelle fabbricate a macchina. Non m’importa del suo luccichio, il prodotto della macchina finisce sempre per lasciare un’impressione di sazietà. Le cose fatte a mano, invece, per quanto imperfetta e maldestra possa essere la loro esecuzione, ci fanno attenti e ci procurano una soddisfazione sempre crescente. Le città del Medio Evo non avevano le comodità di quelle moderne; ma in ogni loro pietra, in ogni embrice, si nasconde un’intimità umana che ci tocca il cuore, dandoci un senso acuto d’inesprimibile simpatia e benevolenza. Il massimo tollerabile per la popolazione d’una città è di trentamila anime. Quando questo numero è superato, un desiderio folle di radere al suolo questa città mi assale.

Un libro, questo di Axling, che a tratti sorprende, che apre uno spiraglio su un’altra dimensione della spiritualità; non sappiamo se il minuzioso ritratto di Kagawa tratteggiato da Axling corrisponde in tutto e per tutto al Kagawa reale… il lettore critico è invitato ad avvicinarsi a questo pregevole recupero letterario di Iduna per formarsi una propria idea.

William Axling

UN MISTICO GIAPPONESE: KAGAWA TOYOHIKO

Introduzione alla nuova edizione di Riccardo Rosati

Pagg. 260 – € 20,00

Iduna, aprile 2025

L'articolo Anti-moderno Sol Levante! Riflessioni leggendo “Un mistico giapponese: Kagawa Toyohiko” di William Axling – Francesco G. Manetti proviene da EreticaMente.

Viewing all 538 articles
Browse latest View live