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L’antica tradizione delle motte e dei castellieri nel territorio della Marca Trevigiana e le loro connotazioni sacrali e astronomiche – Jari Padoan

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[Un ringraziamento all’amico Mirko Filippetto e a mia madre per il supporto bibliografico, la compagnia durante i “sopralluoghi” e i suggerimenti per la stesura di questa ricerca]   Introduzione: cenni sulla visione cosmica degli antichi, dal Neolitico alla letteratura classica

Una particolarità che si riscontra in modo pressoché universale nelle più varie culture preistoriche, protostoriche e antiche (in una parola, tradizionali) è l’allineamento di importanti strutture di tipo sacrale o civile impostato su particolari orientamenti astronomici.

Le suddette costruzioni, di tipologia varia ed eterogenea, venivano erette in modo da poter osservare direttamente certi punti del paesaggio circostante, punti che fin da epoche lontanissime avevano rivestito un particolare interesse da parte delle popolazioni locali, specialmente dal punto di vista calendariale, e quindi anche sacro e religioso. Gli esempi sono innumerevoli e ben noti: dai tipici osservatori-santuari megalitici diffusi in tutta l’Europa mesolitica e neolitica, all’orientamento del tempio greco diretto ad Est (concetto di tradizione dorica e in seguito ampiamente recuperato dal Cristianesimo antico e medievale), fino ai magnifici e colossali templi di pietra delle civiltà dell’America centrale e meridionale, eretti in linea con particolari posizioni del Sole e degli altri astri (ad esempio il pianeta Venere, particolarmente considerato nella cultura Maya, o la stella Capella della costellazione dell’Auriga, la cui levata al solstizio d’Inverno era attesa dagli Zapotechi di Monte Albán  per iniziare la semina del mais).

È il caso di ricordare e considerare una volta di più, infatti, come l’umanità primordiale vedesse e vivesse il legame profondo, pressoché simbiotico tra i cicli dei fenomeni celesti e il regolamento della vita e dell’attività umana. La vita dell’agricoltore e dell’allevatore è necessariamente regolata dalla conoscenza dei ritmi cosmici, fin dai tempi (se non da prima ancora) delle civiltà stanziali del Neolitico (complessivamente situato tra il 9000 a.C. circa fino al III millennio a.C., ma la periodizzazione varia alquanto a seconda dell’area mondiale e delle rispettive culture): l’attenta osservazione delle potenze naturali celesti e terrestri, legate all’alternarsi delle stagioni, deve essere seguita non solo per gli appositi lavori legati alle coltivazioni, ma anche per officiare i relativi riti, sacrifici, preghiere. Per l’uomo antico, ogni fenomeno naturale, ogni manifestazione delle forze cosmiche (non casualmente il greco χοσμος indica un «ordine» universale e interconnesso) è appunto il fenomeno di ciò che ci appare, e che in realtà si trova molto più oltre; sempre in greco il verbo φαίνω, ovvero «apparire», «fare apparire», «manifestare», mantiene la stessa radice lessicale di φως: la luce che fa apparire, che svela ciò che illumina, come ricordano tanti indimenticabili brani dell’opera di Platone. È sempre a ciò che si riferisce un’altra criptica e bellissima immagine, quella del Fuoco universale di Eraclito, definito πύρ e anche λόϒος del Cosmo, che si manifesta nel suo continuo, ordinato espandersi e ritrarsi.

Anche la grande letteratura antica, infatti, testimonia puntualmente e in infiniti casi questo concetto, che ritroviamo ad esempio al centro delle opere di Esiodo (Le opere e i giorni), Arato di Soli (i Fenomeni e pronostici, poema didascalico dedicato appunto agli eventi astronomici e meteorologici), Marco Manilio (gli Astronomica) e Virgilio (le Georgiche), solo per restare nell’ambito della cultura classica.

Naturale, quindi, che la naturale concezione del mondo come un terribile e meraviglioso spettacolo foriero di profondi significati e scandito da ritmi precisi sia stata assolutamente tipica e radicata anche presso le antiche culture del Nordest d’Italia, che hanno espresso questa visione attraverso l’erezione dei tumuli artificiali noti tradizionalmente con i termini di motta, mutera o montiron (plurale montironi) in area veneta, e con quello di gradisca in ambito friulano.

Si tratta di collinette costruite in terra battuta, solitamente di altezza media dai due ai dieci metri e di larghezza variabile, talvolta anche di un centinaio di metri, la cui costruzione si rivela una tradizione ripresa in vari momenti della lunga storia di queste terre, ma la cui origine si perde nell’oscurità dei tempi primigeni.

  Sulle culture venete preistoriche e protostoriche

Pare che fin da tempi lontanissimi l’antica terra veneta si sia rivelata florida e ospitale per i vari popoli che vi si sono insediati nel corso dei millenni; questo grazie alla ricchezza delle acque, la fertilità della terra e gli abbondanti territori di caccia, incentivi fondamentali per una vita meno dura e per lo sviluppo delle comunità. Le più antiche tracce di una attività umana nella regione sono state rinvenute in provincia di Verona, nei siti di Quinzano, Riparo Tagliente, Torbiera di Barbarago e Grotta di Fumane, che hanno restituito reperti risalenti al Paleolitico medio e inferiore.

Decine di millenni più tardi, nel Veneto neolitico, si sviluppano numerosi e importanti siti della cosiddetta civiltà dei vasi “a bocca quadrata”, cultura ampiamente diffusa in tutta l’Europa dell’epoca. Nell’Età del Bronzo Antico (collocabile all’incirca tra la fine del III millennio e il 1500/1200 a.C.) si ha la comparsa della cultura di Polada, una civiltà palafitticola diffusa nell’Italia settentrionale dell’epoca e particolarmente radicata in Veneto nelle zone del Lago di Garda, dei Colli Euganei e nella Valle dell’Adige. Gli agricoltori di Polada utilizzano le tecniche lavorative tipiche dell’epoca, come l’uso dell’aratro e degli animali da traino; è in quest’epoca che il cavallo diviene un animale da allevamento molto importante nel territorio, tanto che nei secoli seguenti i cavalli veneti diverranno molto apprezzati e richiesti presso i popoli limitrofi e soprattutto nel mondo greco e romano. Successivamente si manifesta la cultura dei castellieri, caratterizzata appunto dalla diffusione di abitati fortificati, costituiti da pietre a secco accatastate, posti in cima alle colline nelle zone pedemontane (valli alpine e valle dell’Adige), che saranno riutilizzati e manomessi in epoca romana e altomedievale.

Originata dalla precedente cultura terramaricola diffusa in Emilia, Lombardia e Veneto occidentale, è approssimativamente tra il XI e il IX/VIII secolo a.C. che si sviluppa la cosiddetta cultura protovillanoviana, che nel giro di qualche secolo avrebbe poi originato, o almeno mantenuto delle considerevoli influenze, sulle culture tirrenica ed etrusca che introducono intorno al IX secolo l’uso del ferro.

Tra VIII e VII secolo compare invece la celebre civiltà atestina o paleoveneta, cultura proveniente dall’Europa orientale che parla una lingua indoeuropea vicina al latino e utilizza un proprio alfabeto (mutuato da quello etrusco) di cui si hanno iscrizioni databili dal VI secolo.

La civiltà degli Atestini/Paleoveneti, o Veneti in senso stretto poiché proprio loro per primi si sarebbero fregiati di questo nome (che significa probabilmente «i vincitori»), ha lasciato numerose e rilevanti tracce di un alto livello artistico e tecnologico: elaborate ceramiche, situle, vasi, figurine votive scolpite in metallo o bronzo offerte presso importanti santuari sono stati ritrovati nelle aree di Vicenza, Abano, Lagole nel Cadore, fino a certe zone dell’attuale Friuli (come provano reperti rinvenuti nell’area di San Vito al Tagliamento). Tra le sedi urbane più importanti della civiltà paleoveneta c’è Este, ovvero l’antica Ateste, seguita dagli antichi nuclei di Vicenza, Treviso, Asolo, Oderzo e Altino, e naturalmente Padova, fondata da Antenore transfuga da Troia secondo una tradizione riportata dal patavino Tito Livio (la leggenda si ricollegherebbe alla teoria della provenienza dei Veneti dall’Est, forse dall’Illiria o più probabilmente dalla Paflagonia).

La cultura paleoveneta fiorisce anche attraverso le vive attività commerciali intraprese con gli abitanti dei territori confinanti, come i Reti a nord, gli Euganei diffusi dall’Istria al Garda e le varie popolazioni germaniche d’oltralpe, fino alle comunità etrusche stanziate nella Pianura Padana presso il Po e perfino con la Grecia arcaica e la civiltà cipriota (attraverso la laguna e le principali vie fluviali come l’Adige, il Brenta, il Sile e il Livenza). Tra il VI e il III secolo si verificano progressivamente contatti commerciali, nonché scontri, tra i Paleoveneti e i popoli di cultura celtica diffusi tra la Pianura Padana, il Friuli e le Alpi orientali. Nel corso del I secolo a.C., la forte pressione dei Celti nel territorio determinerà l’alleanza e l’amicizia tra Paleoveneti e Romani, che dopo le vittorie sulle popolazioni galliche locali (Insubri, Gesati, Carni, Boi), estenderanno ai nuovi alleati i benefici della cittadinanza romana con la Lex Roscia del 49 a.C. Pochi decenni dopo, il Veneto diviene ufficialmente la X Regio augustea, in seguito Venetia et Histria, entrando definitivamente nell’orbita di Roma.

  La centralità culturale delle motte nel Veneto antico: dimore funerarie, osservatori-santuari e altro ancora

Il senso del Sacro degli antichi Veneti non si esprime in vere e proprie costruzioni templari, ma all’aperto, in ambienti naturali come boschi, campi e le varie zone legate alla presenza dell’acqua (fiumi, laghi, sorgenti). Il culto autoctono più importante e diffuso è quello della dea Reitia, multiforme principio femminile di fecondità e salute legata alle acque e agli animali, ma anche alla rigenerazione e quindi alla morte. Ad essa si usava consacrare offerte come piccoli ex voto bronzei raffiguranti parti del corpo risanate o da guarire, oppure un particolare tipo di tavolette votive. Molto sentito era il culto dei defunti, ai quali veniva riservata la pratica tipicamente indoeuropea della cremazione seguita dal seppellimento delle urne cinerarie in apposite tumulazioni, per l’appunto quelle che in seguito verranno denominate motte, accompagnate da monili e oggetti personali.

L’erezione dei tumuli artificiali era infatti volta anche e soprattutto a questa funzione funeraria, ed è interessante notare come la tradizione delle motte venete e friulane dimostri una evidente analogia con svariate culture del mondo antico. Molto più a nord, infatti, le società norrene praticarono la medesima tradizione nell’ambito delle ritualità funebri, come prova ad esempio il sito archeologico di Gamla Uppsala, in Svezia, caratterizzato dalla presenza di grandi tumuli funerari contenenti ceneri inumate, risalenti all’epoca di Vendel (VI secolo d.C. - fine dell’VIII). Allo stesso modo, il ruolo di ultime dimore era attribuito ai tumuli eretti dalla preistoria fino all’Età del Ferro in varie zone dell’area mongola e siberiana (espressione delle cosiddette culture Kurgan), proprio come avveniva fino a pochi secoli fa presso vari popoli nativi del Nord America; è significativo, inoltre, che nell’antichissimo massiccio montuoso di Snowdonia, nel Galles nordoccidentale, la vetta del monte sacro delle tradizioni locali porti il nome di Yr Widdfa, che significa nientemeno che «tumulo sepolcrale».

La storia e la religiosità delle genti venete sono quindi rappresentate anche dalla vasta diffusione di questi manufatti, testimonianza plurimillenaria di una usanza atavica (di cui rimane traccia anche nel toponimo della località di Motta di Livenza, in provincia di Treviso, il cui riferimento sarebbe da ricercare proprio nell’esistenza di una antica fortificazione militare romana e preromana posizionata su uno dei suddetti tumuli). Di grande interesse sono le possibili etimologie di questo nome tradizionale: «mutera» e «motta» risalirebbero probabilmente all’antica forma indoeuropea *mut, indicante appunto un rilievo del terreno (ed è notevole come il termine sembri ricollegarsi al latino mater e al tedesco mutter, forse per un sottile ma preciso riferimento alla terra come principio di fecondità e maternità, e quindi di rinascita dopo la morte). Del resto, si ritrova lo stesso significato in termini antico-germanici come il frisone mot, il bavarese mott e lo svizzero motte. Altre suggestive e particolari analogie linguistiche riportano al sostrato culturale indoeuropeo: mentre in gaelico troviamo l’espressione pressoché identica mota, ovvero «collina», si nota una certa assonanza con il nome di Mide (e soprattutto Meath, l’attuale forma anglicizzata con cui esso è tramandato), ovvero l’antico regno situato nella regione centrale dell’Irlanda celtica. René Guénon, in Il Re del Mondo, sottolinea inoltre come, oltre a significare letteralmente «nel mezzo di» denotando una somiglianza con il latino medium, il nome della contea irlandese indicherebbe l’esistenza di una pietra di grandi dimensioni eretta a Ushnagh, località che, evidentemente non a caso, occupa il centro della regione.

Tornando a noi, la presenza delle antiche motte è ampiamente distribuita nelle zone di pianura del Veneto centrale, orientale e nordorientale, grosso modo corrispondenti all’area dell’attuale provincia di Treviso (la medievale Marca Trevigiana, comprendente importanti centri dalle antiche origini come Montebelluna, Conegliano, Vittorio Veneto) e dell’entroterra rurale tra Venezia e Padova (ad esempio nelle località di Scorzè, Martellago, Massanzago, Noale, San Pietro in Gu’), senza dimenticare importanti esemplari nell’area del Vicentino e del Veronese, fino a sconfinare in Trentino-Alto Adige e in Friuli dove sono particolarmente numerose le motte e i castellieri di datazione preistorica.

Le rispettive edificazioni dei numerosissimi siti risalgono, come si è accennato, ad epoche molto diverse e a motivazioni altrettanto varie: tumuli funerari (secondo le ricerche dello studioso e speleologo friulano Lodovico Quarina, vissuto tra XIX e XX secolo, le motte diffuse tra Veneto orientale e Friuli adibite alla funzione tombale assommerebbero a ben 314), osservatori astronomici volti alla contemplazione dei movimenti celesti in momenti topici dell’anno come i solstizi e gli equinozi, nonché postazioni difensive, specialmente se circondate da strutture apposite come aggeri o terrazzamenti. Alcune di esse sono di datazione preistorica, altre protostoriche e ricollegabili soprattutto alla cultura atestina poi assimilata dalla romanizzazione, mentre altre ancora sono di molto successive risalendo all’epoca medioevale o addirittura moderna, essendo state realizzate soltanto qualche secolo fa. Le motte di età più recente, infatti, sono spesso resti di quelle tipiche “ricostruzioni del paesaggio” volte ad arricchire i giardini di certe ville venete, progettate da architetti del XVII e XVIII secolo (come nel caso della mutera sita in Villa Toderini a Codogné, presso Conegliano), mentre altre fungevano da ghiacciaia naturale per conservare le provviste di carne isolate termicamente in una cavità scavata all’interno della collinetta.

I primi studi storico-scientifici sulle motte e i castellieri più antichi conosciuti in Veneto e Friuli risalirebbero già al XVIII secolo, grazie all’opera dell’archeologo Gian Domenico Bertoli, in seguito proseguiti da studiosi come Carlo De Marchesetti (1850-1926), il già citato Quarina, il cui pionieristico lavoro ha portato inoltre alla suddivisione in tipologie di “tombe coniche” e “tombe mammellonari”, e altri ancora. Ma è soprattutto dalla seconda metà del Novecento, grazie a discipline specialistiche e relativamente nuove come l’archeoastronomia (fondata dall’astronomo inglese Norman Lockyer a inizio XX secolo) e l’archeologia del paesaggio (sviluppata soprattutto dagli anni Sessanta e Settanta), che è proseguita una nutrita e autorevole serie di ricerche sugli antichi tumuli veneti.

Prendiamo ora in considerazione, per una breve panoramica su alcuni dei casi più importanti e rappresentativi, alcune delle più celebri motte distribuite nella provincia di Treviso.

La caratteristica di questi siti, che certifica con evidenza la loro grande antichità, è quella di dimostrare delle connotazioni sacrali legate tanto alla ritualità funeraria quanto all’orientamento astronomico e alle osservazioni celesti. Tra gli esemplari più interessanti ve ne sono di situati nelle zone rurali presso frazioni del comune di Oderzo (centro urbano molto antico il cui territorio ha restituito numerosissime vestigia romane e preromane), come la motta di Colfrancui, quella di Prà dei Gai e quella di Campomolino.

[caption id="attachment_47715" align="alignright" width="300"] Mutera di Colfrancui[/caption]

La mutera di Colfrancui, come è appunto chiamata secondo l’espressione locale, è una delle più importanti della zona dell’Opitergino per la particolarità della sua disposizione e per le numerose funzioni che ha assunto nel corso dell’antichità. L’edificazione del tumulo, in terra battuta e di forma tipicamente conica, risale all’epoca paleoveneta e allo stato attuale raggiunge l’altezza di circa 5 metri. Nei primi anni Ottanta, una campagna di scavo riportò alla luce dei frammenti di vasellame e lo scheletro di un cavallo in buono stato (oltre a stabilire che la collinetta venne riutilizzata in epoca romana come fornace): reperti che indicherebbero quindi la funzione tombale della struttura, forse riservata a persone di alto lignaggio. Inoltre, l’area che circonda la motta è delimitata da due lunghi e bassi terrapieni rettilinei oltre i quali due canali di scolo convogliano le acque piovane, ciò evidentemente per finalità volte a qualche rito propiziatorio (il quale ci rimane totalmente ignoto) basato sui due elementi principalmente legati alla fertilità, l’acqua e la terra. Alla fine degli anni Settanta, uno dei maggiori studiosi italiani e internazionali di archeoastronomia, il professor Giuliano Romano (1923-2013), svolse una ricerca sulla struttura dell’area della motta che ha confermato le particolari misure astronomiche secondo le quali essa è orientata. I due terrapieni sono disposti, rispettivamente, uno proprio verso la levata del Sole nel solstizio d’inverno da una parte, e sul solstizio estivo dall’altra; l’altro rilievo, invece, è diretto sulla levata della Luna in corrispondenza della sua periodica massima distanza dall’eclittica, ovvero ogni 18,6 anni (periodo legato al fenomeno detto retrogradazione dei nodi lunari, la cui manifestazione è un percorso più ampio del solito e un culmine molto alto sull’orizzonte da parte del satellite).

La stessa programmatica posizione per osservare questa congiunzione lunare si è riscontrata presso una delle quattro piccole motte site in località Colbertaldo (le quali sono peraltro chiaramente edificate secondo l’orientamento solare nei giorni dei Solstizi e degli Equinozi), nel comune di Vidor presso il Montello, a nord di Treviso: si tratta di un orientamento alquanto particolare ed interessante, volto all’osservazione di questa singolare congiunzione lunare durante la quale, probabilmente, si riteneva maggiore la potenza magica dell’astro notturno.

Nei pressi di Ponte di Piave è invece raggiungibile la mutera in località Campomolino (frazione di Gaiarine), che “svetta” tra le vigne dei campi di una proprietà privata. Documenti locali datati 1464 e 1533 confermano all’epoca la presenza della collinetta artificiale, così come le mappe topografiche del Catasto Napoleonico-Austriaco risalenti al 1830, ma non si è ancora giunti a stabilire se essa fungesse da fortino difensivo o da strumento di osservazione astronomica, né tantomeno a dedurre un’età approssimativa per la sua origine. Alcuni scavi nei pressi della collinetta diretti nei primi anni Ottanta dal professor Marco Tonon (in seguito divenuto direttore del Museo di Scienze Naturali di Brescia), coadiuvato dal già citato professor Romano, hanno permesso il ritrovamento di alcuni cocci e frammenti risalenti all’Alto Medioevo, forse di epoca longobarda, che non dimostrano un utilizzo funerario della struttura precedente a tale periodo.

Tornando nel comune di Oderzo, a non molti chilometri di distanza, troviamo la mutera presso il fiume Rasego, in località Prà dei Gai. Il piccolo tumulo (di poco più di un metro di altezza) è circondata da un terrapieno, denominato castelir nel dialetto locale, presso il quale scavi archeologici hanno restituito reperti in ceramica risalenti all’Età del Bronzo. Come nel caso della motta di Colfrancui siamo di fronte a un tipo di “santuario astronomico”, e specificamente volto all’osservazione solstiziale: sulla parte meridionale del rialzamento circostante la motta, è possibile ammirare la levata del Sole la mattina del solstizio invernale. È curioso e interessante notare come la chiesetta bassomedievale di Borgo Servi, ubicata a circa un chilometro di distanza da Prà dei Gai in prossimità di Portobuffolè, denoti a sua volta un orientamento dell’abside proprio in direzione della levata eliaca del solstizio d’Inverno, a dimostrazione di come questa antichissima tradizione fosse mantenuta nell’architettura sacra delle campagne venete ancora nel XIV secolo dopo Cristo.

[caption id="attachment_47714" align="alignright" width="300"] Chiesetta di Borgo Servi presso Portobuffole[/caption]

Notevole in questo senso è anche il sito delle cosiddette Motte di Sotto, situate tra la località di Castello di Godego (TV) e quella di San Martino di Lupari (PD), raggiungibili sulla Treviso-Vicenza pochi chilometri dopo Castelfranco Veneto. Il luogo è stato oggetto nel corso del Novecento degli studi di Alessio de Bon, di Ludovico Quarina e del celebre ricercatore Cino Boccazzi, che in una campagna di scavo nel 1953 ritrovò dei cocci risalenti probabilmente all’Età del Ferro. In realtà il nucleo più antico della costruzione risale all’incirca al XIV secolo a.C. e si tratta perlopiù di un antico castelliere della tarda e media Età del Bronzo, ovvero ciò che rimane di un vero e proprio villaggio arginato a forma di grande parallelogramma i cui lati misurano una lunghezza superiore a circa 200 metri. Fatto singolare e significativo, il castelliere è disposto in modo asimmetrico rispetto al tracciato della centuriazione romana che appare ancora oggi evidente nella topografia delle strade e dei campi della zona. Ciò dimostra, probabilmente, un evidente rispetto dei Romani nei confronti delle antiche strutture civili, già vetuste di secoli ai tempi della romanizzazione del territorio veneto. Non è tutto: anche in questo caso, dall’analisi dei resti dell’antico villaggio arginato delle Motte di Sotto ritornano gli orientamenti astronomici solstiziali.

È stato dimostrato che i due aggeri circostanti, posti ad Est e ad Ovest, puntano quasi esattamente da una parte ove leva il Sole al giorno del solstizio invernale, dall’altra dove tramonta in occasione di quello estivo. Nonostante le non buone condizioni della struttura, sono tuttavia ancora evidenti la precisione e la preparazione nell’ambito dell’osservazione celeste da parte di coloro che abitarono il Veneto dell’Età del Bronzo: l’elevazione dell’aggere era infatti strategica per individuare le date fondamentali dell’anno agricolo, tramite l’osservazione delle levate e dei tramonti solstiziali all’orizzonte.

Per comprendere questo concetto molto diffuso, quasi sistematico nell’edificazione delle motte antiche e preistoriche concentrate nelle aree rurali del Nordest, è il caso di ricordare quanto  l’evento del solstizio invernale, con la sua apparente e temporanea morte del Sole seguita dalla lunga rinascita verso l’equinozio di Primavera, fosse profondamente atteso e magnificato dalle varie tradizioni dei popoli europei (e non solo, come si è accennato per quanto riguarda le civiltà mesoamericane). Ad esempio presso i Celti era indicato come «Alban Arthuan» (la rinascita del dio Sole), per i Germani era «Yule» e in Scandinavia «Jul» (la Ruota dell’anno o Ruota solare), senza ovviamente tralasciare il Dies Natalis Solis Invicti romano (apice del periodo festivo dei Saturnalia nella seconda metà di dicembre) e la nascita di Mithra, importante divinità della Tradizione Indo-iranica assimilata e “naturalizzata” in quella di Roma imperiale.

La preistoria e la protostoria europea hanno lasciato numerosissime testimonianze di luoghi adibiti a templi astronomici che, da quanto si è riscostruito, erano dedicati proprio all’osservazione dello spettacolo offerto dal tramonto o dalla levata del Sole in questo particolare momento cosmico, la cui importanza simbolica e rituale era assolutamente centrale nella visione dell’uomo. L’esempio più arcinoto rimane il complesso megalitico di Stonehenge, in Gran Bretagna (che dimostra ben 24 orientamenti astronomicamente significativi), ma si possono citare luoghi affini e altrettanto importanti come il sito di Newgrange in Irlanda e Kermario in Francia, oppure il complesso megalitico del monte Croccia, in Basilicata, frequentato dalle popolazioni locali dal Neolitico fino ai primi secoli avanti Cristo. Si attribuisce un impiego magico-rituale legato al giorno del solstizio anche alle numerose incisioni preistoriche a carattere esplicitamente solare, come quelle che caratterizzano i siti paleolitici di Bohuslän e Nämforsen in Svezia, o il Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri sito a Capo di Ponte in Valcamonica (Lombardia), i cui reperti datano dal Neolitico all’Età del Bronzo.

Gli stessi Reti, antica popolazione preindoeuropea diffusa tra l’attuale Trentino Alto-Adige, la Svizzera e l’Austria, che come si è detto entrarono in contatto con i Veneti, praticavano riti propiziatori a base di roghi di sterpi per aiutare il percorso della rinascita solare in occasione del solstizio. Si tratta chiaramente della stessa usanza tramandata nella cerimonia del Panevìn veneto e del Pignarûl friulano, ovvero l’accensione, in periodo solitamente post-natalizio, dei falò notturni a scopo scaramantico e divinatorio (attraverso le ceneri o la direzione del fumo), diffusa nel Nordest italiano fino all’Emilia occidentale. Da ciò che si è ricostruito, come nel caso delle Motte di Sotto di Oderzo o quella sita a Colfrancui, numerose mutere paleovenete e gli annessi “castellieri”, spesso ad esse precedenti di secoli, rientrano in questa tipologia di osservatori solstiziali. Potremmo citare anche il caso del cosiddetto castelar di Volpago, purtroppo in parte demolito, che ci riporta sulle pendici del Montello. Dalla chiesa parrocchiale di Giavera del Montello (probabilmente costruita anch’essa su un antico castelliere), posta a poca distanza, si può ancora oggi osservare il tramonto del Sole nel solstizio d’Inverno, proprio in coincidenza del castelliere di Volpago.

[caption id="attachment_47713" align="alignright" width="300"] Mutera di Campomolino al crepuscolo[/caption]

Concludiamo questa breve rassegna di alcune tra le più importanti mutere della campagna trevigiana (oltre a rimandare ovviamente alla corposa e documentata bibliografia relativa, di cui indichiamo più in basso qualche titolo significativo), rimarcando che questi importanti monumenti dell’antichità veneta non possono che essere rispettati e salvaguardati: di tante motte e castellieri, oggi, rimangono infatti ben poche tracce non tanto a causa dell’incuria e del passare dei secoli, ma soprattutto per un apposito sventramento a causa dei lavori legati alla nuova edilizia e alle modifiche della viabilità. È il caso ad esempio del grande aggere di Veronella Alta, località tra Vicenza e Verona in cui è ubicato il suddetto tracciato dell’Età del Bronzo Antico (ciò che rimane del solco primigenio circostante un antico villaggio), la cui originaria forma perfettamente ovale è sfigurata ormai da vari decenni, ma si potrebbero indicare altri esempi nel territorio trevigiano, come il citato castelliere di Volpago, e oltre.

Oltre a essere parte della deturpazione (ma si dice “rimodernamento!”) di una delle campagne più splendide d’Italia, che nell’ultimo mezzo secolo è stata ampiamente ricoperta di asfalto e cemento in vilipendio alla salute dei cittadini e alla bellezza estetica del paesaggio naturale, la demolizione degli antichi monumenti veneti denuncerebbe né più né meno che uno sradicamento della nostra più antica cultura autoctona, un’offesa alla meraviglia e al rispetto che i nostri avi nutrivano verso la natura e l’universo, stabilendo un ideale punto di contatto fra la terra e il cielo. Non certo una novità, in un’epoca in cui si tende troppo spesso a dimenticare che, da che mondo è mondo, un albero non può crescere e mantenersi saldo senza le proprie radici.

  Bibliografia consultata: AA.VV. Manuale di cultura veneta. Geografia, storia, lingua e arte, a cura di Manlio Cortelazzo, Regione del Veneto / Marsilio, Venezia 2004. AA.VV. Popoli Italici. L’Italia prima di Roma, Giunti, Firenze 2006. AA.VV., Primo seminario sulle ricerche archeoastronomiche in Italia, in Giornale di astronomia, voll. 12-13, 1986-1987. AA.VV., Venetkiens. Viaggio nella terra dei veneti antichi, Marsilio, Venezia 2013. Fabio Calabrese, L’Italia megalitica, pubblicato su www.ereticamente.net in data 23 marzo 2020. Loredana Capuis, I Veneti. Società e cultura di un popolo dell’Italia preromana, Longanesi, Milano 1993. René Guénon, Il Re del Mondo, Adelphi, Milano 1977. Silvano Lorenzoni, I Veneti preromani nel contesto europeo, pubblicato su www.centrostudilaruna.it in data 1 gennaio 2000. Paola Moscati, Ogni cosa a suo posto. Sole, Luna, costellazioni e altri corpi celesti: esiste davvero un rapporto con l’archeologia?, in Archeo n.191 anno XVII, De Agostini – Rizzoli, Milano, gennaio  2001. Saba Mariani Sparvoli, I Comuni della Marca Trevigiana, Editoriale Del Drago, Milano 1991. Giuliano Palmieri, Treviso dalla preistoria all’età romana, in AA.VV., Treviso Nostra. Ambiente Storia Arte Tradizioni, Associazione Tarvisium, Treviso 1980. Simone Pedron, Simone Deola, Le motte. Un’ipotesi intrigante per l’entroterra veneziano, pubblicato su Il Rivolo. Associazione culturale a Rio San Martino di Scorzè in data 26 gennaio 2010. Giuliana Poli, Il Solstizio d’Inverno tra Mithra ed Ekate, pubblicato su www.ereticamente.net in data 22 dicembre 2016. Giuliano Romano, Michele Notarangelo, Enio Vanzin, L’uomo e il cosmo. Attraverso antiche testimonianze venete e vecchi strumenti d’osservazione, Società Industrie Tipolitografiche s.r.l., Treviso 1997. Giovanni Sessa, Tempo e cosmo. Il significato occulto del calendario, pubblicato su www.centrostudilaruna.it in data 16 febbraio 2015.  

TIBERINALIA – Giuseppe Barbera

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“Tiberine Pater te sancte precor”

Tito Livio Lib. II

 

La data dell’8 dicembre, nell’antica Roma, corrisponde alla festa del Dio Tevere, l’intelligenza divina connessa al corso dell’omonimo fiume attraversante l’Urbe eterna.

Con questa giornata si aprono le feste del ciclo dicembrino, oggi definite natalizie, che culminano al 25 dicembre con la festa dedicata alla nascita del Sole Invitto.

Durante i Tiberinalia (così era chiamato questo giorno di festa) la popolazione si recava presso il fiume Tevere per onorare questo “antico padre” che salvò Romolo e Remo e che perennemente, con le sue acque, portava vita e salubrità alla città. All’alba, dopo i primi riti propiziatori, i pescatori uscivano con le barche per pescare il pesce con cui si sarebbe consumato il banchetto per entrare in comunione con questo Dio, elargitore di prosperità. Nel frattempo altre chiatte salivano a monte a ricercare alberi e rami sempreverdi da condurre in città. Si preparavano ghirlande che venivano imbarcate da sacerdoti e sacerdotesse su piccoli navigli decorati di stoffe, nastri e fiori. Da queste barche venivano disposte le ghirlande sui cippi collocati ai lati del fiume e svariate offerte venivano direttamente versate nel fiume.

Rientrate le imbarcazioni venivano distribuiti gli alberi per collocarli in prossimità dei crocicchi, adornati di nastri, oscilla (gli antenati delle nostre palle dell’albero di Natale) e dolci che poi venivano staccati e mangiati nelle feste compitali tra il 5 ed il 6 gennaio. Lo scopo di queste decorazioni era ritualmente legato al fine di ottenere prosperità dagli spiriti delle piante che non perdono le foglie in inverno, affinchè analogicamente neppure gli uomini patissero il freddo e superassero l’inverno evitando fame e carestie. Parimenti i fruscelli dei sempreverdi appesi sulle porte di casa erano un ulteriore auspicio di prosperità per la famiglia.

In questo periodo il giungere del freddo ed il prolungarsi delle nottate a discapito delle ore di luce rievocava ancestrali immagini di buio e terrore, di forze fauniche e silvestri affamate e portatrici di morte. Tutto ciò veniva esorcizzato con il festeggiare le forze della Natura portatrici di benessere e prosperità e con le preghiere al Sole affinchè rinasca e riporti la Luce ed il calore agli uomini. Il ciclo delle feste solari si accrescerà ulteriormente dall’11 dicembre (festa del Sole Indigete) fino al 25 dicembre (festa del Sole Invitto), momento in cui le giornate ricominceranno a crescere a discapito delle nottate.

Le decorazioni di questo periodo, ancora oggi utilizzate, richiamavano i colori del Sole (l’oro ed il rosso) e la vitalità perennemente trasmessa dall’astro divino (rappresentata dai folti rami verdi).

La richiesta di Luce, in lotta contro l’avanzare del buio, era ribadita alla sera di questo dies di apertura delle feste, con una fiaccolata durante la quale si disponevano torce in prossimità del fiume, dove i sacerdoti purificavano con lustrazioni le barche e le reti dei pescatori.

Al termine di questa giornata rituale il fiume e l’intera città erano addobbati a festa e le fiaccole, simboli delle preghiere e delle speranze degli uomini, erano affidate alle acque del Tevere, simbolo del perenne scorrere della vita e del cosmo.

Ancora ai nostri tempi attuali, la Tradizione popolare ha serbato l’uso di avviare le decorazioni natalizie nel giorno dell’8 dicembre e quelli che prima erano riti di offerte agli spiriti degli alberi, con fumigazioni d’incenso ed offerte di dolci, oggi sono il porre dolci (tra cui panettoni e pandori) e doni sotto l’albero, che poi a Natale vengono distribuiti ad amici e parenti, così come facevano gli antichi nei medesimi giorni con le strenne, distribuite tra il 21 ed il 25 dicembre.

La Tradizione è immortale, la coscienza sopisce ma prima o poi si risveglia ed intende; così come il Sole è sempre destinato a risorgere ed a mantenere la promessa di una nuova primavera.

Per chi è interessato a rivivere e praticare culti e le feste dell’antica Roma, si rende noto che presso i templi della Pietas è possibile ricevere i riti da appositi sacerdoti preposti alla distribuzione di essi. Per maggiori informazioni scrivere a info@tradizioneromana.org o consultare il sito www.tradizioneromana.org 

(N.B.:  Tutti i diritti sono riservati. E’ concessa la condivisione parziale o completa del presente articolo purchè si menzionino AUTORE, TITOLO DELL’ARTICOLO E SITO DAL QUALE VIENE ESTRATTO)

Massimo Donà ed Julius Evola: apologia dell’immediato – Giovanni Sessa

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Julius Evola, considerato autore irredimibile e, per questo, relegato nel ghetto dei reprobi, da qualche tempo ha suscitato l’interesse di un drappello sparuto di coraggiosi accademici. Tra essi, si è distinto il filosofo Massimo Donà, che ha attraversato, sine ira et studio, l’esperienza speculativa del pensatore romano. Per avere contezza dei risultati cui è giunto in tema, il lettore dovrà confrontarsi con il volume, Apologia dell’immediato. Itinerari evoliani, nelle librerie per   InSchibboleth (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 187, euro 18,00). Fin dal titolo si evince come Evola vada letto in sequela agli assunti della sinistra hegeliana. Con una differenza, egli ha fatto: «della categoria dell’immediatezza […] un compito, più che un semplice e astratto punto di partenza» (p. 13). La filosofia evoliana è ultrattualista, sorse quale tentativo di superamento del limite meramente gnoseologico incontrato dall’attualismo. L’atto puro del pensatore di Castelvetrano per Evola non è mai compiutamente realizzato, è entità di conoscenza, ma non potenza attiva. Attraverso il recupero di Fichte, nota Donà, nella contrapposizione di Io e non-io, l’idealista magico avverte qualcosa che non ci: «limita affatto definitivamente» (p. 17), oltre la quale è possibile riconoscere un’ulteriorità cui tendere. Siamo chiamati da questo oltre e ciò rende evidente: «il suo far già parte della mia (nostra) esperienza» (p.18). Tutto quel che è, esiste in quanto posto dall’Io: l’incontro con il mondo innesca lo sforzo. Il limite agisce da motore dell’Io, permettendogli di essere, a tutti gli effetti, atto sempre all’opera. L’Io gentiliano tale situazione l’aveva conosciuta, mentre Evola vuole renderla reale, fattiva. Va mostrato, nelle cose, che l’oggetto non è altro da noi! Allo scopo esso va trasfigurato ma, si badi, la sua trasfigurazione è possibile a condizione che l’Io stesso si metamorfizzi. Se l’azione trasmutante si fosse manifestata solo nei confronti del mondo, Evola sarebbe rimasto all’interno della prospettiva della Sinistra hegeliana, al prassismo di Marx. Il filosofo romano è ben più radicale, sa che l’Io: «in quanto incondizionato, non può venire identificato con alcuna forma» (p. 21), deve negare ogni norma inconfutabile, sottrarsi ad ogni imperativo, anche quando a vincolarlo: «dovesse essere la stessa incondizionata libertà» (p. 22).

L’individuo assoluto incapace di trovar pace in un positum, pur non essendo limitato, non manca del non-io, non esclude il limite. Tale situazione lo induce a ri-fare, ri-fondare, alla luce della infondatezza del principio, la libertà, sé stesso ed il mondo. Ciò rende il pensiero evoliano alieno dal dualismo discendente dalla logica identitaria e, come ben spiega Donà, nonostante l’influenza che sul romano esercitò Carlo Michelstaedter, l’individuo assoluto non conosce l’aut-aut, analogo a quello eleatico, che connota la Via del Persuaso. La Via dell’individuo evoliano, non esclude la «rettorica», la Via dell’altro. Per Evola: «in ogni singolo momento del suo processuale esistere, l’Io deve poter non essere mai stato ciò che è stato», senza che il già-stato risulti invalicabile. In ciò, il Nostro, chiosa Donà, è davvero nietzschiano: vuole all’indietro. L’impossibile è: «volontà capace di volere il passato; allo stesso modo in cui tutti noi, di norma, ci sentiamo autorizzati a volere il futuro» (p. 59). Tale contesto esegetico-esperienziale fa si che il già-stato assuma i tratti di ciò che ancora non è stato. Parliamo di esperienza perché Evola fa, in più luoghi del proprio percorso, esplicito riferimento alla tradizione ermetica, al magismo, quali forme di pensiero-azione atte a realizzare la possibilità dell’impossibile. La stessa che attualizza nel suo fare ogni poietes, ogni artista. Da ciò la straordinaria interpretazione della musica jazz fornita da Evola, fin dagli anni Trenta. Il filosofo, nota Donà, comprese, meglio del «progressista» Adorno, che tale tipologia musicale, evocante forze di pura azione e di puro ritmo, poneva gli uomini nuovamente al centro di evocazioni menadiche e, tanto negli strumentisti, quanto nei fruitori, era in grado di indurre un potente incipit vita nova. Così Donà: «proprio nel jazz questa capacità di affermare e negare in uno - senza che il negare si ritrovasse costretto […] a risolversi […] nella semplice indicazione di “altro” positivo - stava ridando voce alla vera Tradizione» (p. 144).

La perfezione musicale nel jazz non è pensata come l’al di là dell’imperfezione, ma è continuo farsi, re-invenzione. Le riscritture sono altro dalla staticizzante partitura che, a livello musicale, svolge il ruolo attribuito, in logica, al concetto:  sospendere nella datità escludente la metamorficità della vita. Per questo, le riscritture jazzistiche risorgeranno a vita «assoluta»: «proprio in quanto rigorosamente nuova (e). E proprio per questo davvero “originante(i)» (p. 146). Non solo il jazz, ma le produzioni Dada, movimento artistico nel quale Evola svolse un ruolo teorico-pratico di primo piano, testimoniano la medesima tendenza a sintonizzarsi sulla vita nova, l’eterna primavera dionisiaca. La negazione Dada per Evola è sintonica a quella dell’idealismo magico, è l’Io stesso: «che si realizza in un “potere di arbitrio assoluto”» (p. 84), in pura indifferenza. Diversamente dal precedente hegeliano, in Evola la potenza negatrice non si trasforma in strumento di un’affermazione superiore, in un nuovo universale positivo, ma indica la «pura libertà». Essa ci dice che tanto il fare in un certo modo, quanto il non fare, sono la medesima cosa. La Gioconda o un biglietto di tram, hanno la stessa valenza artistica, perché Dada attribuisce allo spettatore tratto demiurgico.  Ricorda Donà, nel capitolo dedicato al confronto Evola-Jünger, che il filosofo-mago agisce-senza-agire, consapevole della presenza in lui di una forza che pur presentandosi come volontà, non lo è. Essa si dà nella «prova» dell’amore, nella quale l’individuo assoluto si mostra capace di amare: «ognuna delle alterità istituite dalla sua stessa volontà» (p. 35).

   Tali tematiche si evincono anche nella dottrina della razza di Evola. Questi non ebbe, in tale ambito, nulla in comune con la visione biologica, naturalista, «zootecnica» del nazismo, la sua concezione, sostiene Donà, rinvia, sia pure con una certa ambiguità, al «possesso della personalità», allo spirito, a valori aristocratici. Anzi, ci dice l’autore, Evola dice qualcosa di straordinario: «che a fare una razza […] non è altro che la forza in grado di farla procedere al di là di se stessa. Aprendola alle più inusitate contaminazioni» (p. 171), una «razza assoluta», proprio come l’individuo, che diviene tale oltre se stessa, oltre ciò che la «de-finisce». Questo secondo Donà, sarebbe il cuore antifascista del fascismo, o il fascismo utopico di Evola, tradito da quello storicamente realizzatosi. La Via dell’Individuo assoluto avrebbe potuto essere davvero il cuore antitotalitario e tradizionale del regime, ma così non fu…

   Il libro di Donà ripropone all’attenzione critica, con forza speculativa e persuasività di accenti, la Via evoliana, attuale nella sua inattualità.

Giovanni Sessa

 

Rinasce ufficialmente la Religione Gentile in Italia – Giuseppe Barbera

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E’ con grande piacere e soddisfazione che comunichiamo la nascita dell’ente giuridico per la Religione Gentile in Italia, denominato: “Pietas – Comunità Gentile”. Il progetto di rifondare ufficialmente la Religione Romana e quella Magno Greca e di accorparle in un’unica comunità di stampo nazionale, giuridicamente valida, venne approvato dal Consiglio Direttivo dell’Associazione Tradizionale Pietas il 21 aprile dell’anno MMDCCLXXII A.V.C. (2019 dell’era volgare). Da allora il presidente dell’A.T.P. Giuseppe Barbera ha lavorato, coadiuvato dai membri del direttivo, alla stesura di uno statuto che potesse definire al meglio il sistema meritocratico spirituale antico, adeguato e rapportato all’epoca odierna nel più completo rispetto delle normative vigenti in Italia. Infine suddetto statuto è stato approvato in data 15 novembre MMDCCLXXIII A.V.C. (2020 e.v.) dal Consiglio Direttivo dell’Associazione Tradizionale Pietas e quindi legalmente ufficializzato in data 9 dicembre MMDCCLXXIII A.V.C. (2020 e.v.) con atto firmato dal presidente Barbera e dai membri spiritualmente più evoluti della comunità della Pietas.

Nella seduta di fondazione del suddetto ente di culto classico italico è stato eletto Pontefice Massimo della Comunità Gentile il presidente dell’ATP Giuseppe Barbera. Questo nuovo ente giuridico dei gentili d’Italia nasce per rispondere all’esigenza di sviluppare a livello estensivo l’organizzazione della pratica dei culti greco-romani, conseguentemente alla crescita esponenziale dei membri praticanti in Pietas, alla costruzione di templi ed alla collaborazione con analoghe organizzazioni estere già riconosciute come enti religiosi nei rispettivi ordinamenti nazionali.

Il culto gentile costituisce veicolo di valori eterni, definiti dal “mos maiorum”, modello di virtù universalmente riconosciuto, fondamento di ogni convivenza civile e di una società sana. Questo momento è molto importante per la comunità gentile della Pietas: con questo atto è stato raggiunto un grande traguardo, risultato da anni di lavoro e di pratica. Da qui si avvia un nuovo percorso finalizzato alla crescita della religione classica nel belpaese. La nomenclatura “Pietas – Comunità Gentile” vuole chiaramente fare riferimento al valore del sentimento religioso romano, la Pietas, e contemporaneamente chiamare a raccolta tutti coloro i quali si sentono legati da questo profondo valore, in un’unica entità, la comunità, col fine di stringere i rapporti di amicizia, fratellanza e collaborazione tra i membri, i quali a loro volta saranno tutelati e protetti dal nostro ente per tutto ciò che concerne i loro sentimenti religiosi e pii.

Tutti gli iscritti all’Associazione Tradizionale Pietas che manifestano l’interesse ad intraprendere la pratica tradizionale, vengono automaticamente inclusi nell’ente in oggetto. Gruppi esterni interessati ad aderire, integrandosi completamente od anche soltanto creando ordini o collegi interni all’ente, saranno bene accetti.

La scelta della fondazione del nostro ente religioso in questo anno ed in questo mese non sono casuali. In dicembre ricordiamo Gianfranco Barbera, il fondatore dei nostri gruppi umani, oltre a festeggiare la rinascita del Sole nel suo dì Natale. Per l’anno il collegio augurale della Pietas individua nel 2020 dell’era volgare un periodo gianuale e dunque di passaggio epocale. Janus è il dio romano delle porte, dal doppio volto (da cui l’appellativo bifronte), da Ovidio comparato con il greco Caos (Me Chaos antiqui vocabant. Ovidio, Fasti.). Quando la condizione di una divinità permea un’epoca, alcuni aspetti della medesima si manifestano negli eventi che la caratterizzano. Ad esempio al doppio volto di Giano corrispondono attualmente la presenza di due papi in contemporanea nello stato Vaticano, due presidenti in contemporanea negli Stati Uniti (l’eletto Biden e l’uscente Trump che cerca di perpetrare la sua posizione con l’accusa di brogli elettorali) e via dicendo. Il fenomeno gianuale implica un ritorno alle origini del mito, che avvierà una nuova epoca: Il Caos della Teogonia corrisponde alla singolarità della scienza moderna (ossia il cosiddetto atomo primordiale), un momento di sospensione temporale in attesa del giungere nel nuovo universo, che è trasformazione del precedente. Tutti noi sul pianeta, in quest’anno di restrizioni, abbiamo vissuto questa condizione, chi più e chi meno.

Platone ci insegna che all’interno del Caos delle origini vi è il Dio Eros (l’Amore primordiale), il quale d’improvviso con una scintilla innesta il mutamento e la trasformazione per la nascita dell’Universo. La medesima scienza attuale ipotizza che al momento della nascita del cosmo vi sia stato un momento di intenso calore, chiamato eupaco, che ha innestato il big bang, trasformando così l’energia dei primordi in materia (insomma l’inverso di una bomba atomica che invece trasforma atomi di materia in energia). Noi crediamo che la nascita ufficiale di un ente giuridico per la comunità gentile oggi, sia come immettere il seme di Amor nel Caos attuale per poter così sviluppare la nascita di un nuovo mondo spirituale fondato sui valori della pietas classica, che possa essere strumento di evoluzione per le anime che vengono a popolare il nostro pianeta.

Il mito nella sua eternità si ripete ciclicamente ed i prossimi anni saranno manifestazioni di forze uraniche, saturnie ed infine gioviane. Chi vorrà prepararsi spiritualmente nella forma del culto classico al giungere del regno di Giove, ossia della giustizia divina che si manifesta nei felici connubi tra gli uomini, nella convivenza e nella prospera pace tra i popoli, sarà bene accetto in questa comunità, dove ognuno lavora per migliorare se stesso affinchè la stessa collettività, giorno dopo giorno, possa migliorare e crescere. Ad majora semper,

Giuseppe Barbera Presidente Associazione Tradizionale Pietas Pontefice Massimo di Pietas

Un ricordo di Giorgio Galli – Massimo Chiapparini

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Il grande politologo Giorgio Galli è morto il 27 dicembre. Aveva 92 anni. Non è possibile e non è il fine di una nota riassumere un percorso intellettuale che è impressionante per lo sforzo di una libera intelligenza di superare e travolgere gli schemi e le limitazioni della accademia. E' invece un elemento per me umanamente significativo ricordare il mio breve rapporto diretto con il professore e ricordando capire perchè sono rimasto scosso dalla sua morte.

Ho conosciuto il prof. Galli alla Statale di via Festa del Perdono alla fine degli anni '80. Volevo dare la mia seconda tesi con lui e cominciai a presentarmi nella sua ora di ricevimento spiegando il mio percorso fatto alla facoltà di Filosofia a Pisa con la mia tesi finale su "LE CATEGORIE INTERPRETATIVE NELLA PRIMA OPERA DI RENÉ GUÉNON: <<INTRODUZIONE GENERALE ALLO STUDIO DELLE DOTTRINE INDU>>": si trattava di mettere a fuoco un argomento che si raccordasse alle ricerche del professore e concordare una seconda tesi che fu delineata sulla analisi delle letture italiane dell'opera di Guènon diverse da quella di Julius Evola. Avrei presentato le differenze di Evola con Reghini, ma anche con Guido de Giorgio per dedicare ampio spazio alla vicenda della torinese RIVISTA DI STUDI TRADIZIONALI che spesso aveva chiarito le diversità indubbie tra Evola e il metafisico francese.

Purtroppo dovevo anche relazionarmi alle strutture della facoltà, ma incontrai a quel punto ostacoli. Chi doveva analizzare i miei piani di studio non fu molto favorevole e pochissimi esami pisani mi furono considerati validi. Per un seconda laurea mi chiesero quasi tutti gli esami. La mia impressione fu che l'ostilità era anche verso gli argomenti del prof. Galli che erano fuori dal coro. Abbandonai la ambizione di una seconda laurea.

In una situazione non modificabile l'unico lavoro che riusci a fare fu di aiutare uno studente che stava facendo una tesi su Guènon con relatore lo stesso professore Giorgio Galli . Trasmisi quindi la mia bibliografia e articoli relativi che furono inseriti nella tesi di Gianfranco Massetti “Qualità e quantità nella cultura della destra tradizionalista: René Guénon”: questa tesi ora è disponibile su internet.

Nel tempo continuai ad andare al ricevimento del professor Galli sempre gentile e disponibile e anche sulla base di questo rapporto fu possibile la partecipazione del professore al convegno che il Rito Simbolico organizzò nel 2004 a Milano sulla grande figura di Arturo Reghini. Il convegno era intitolato " Arturo Reghini - Un intellettuale neopitagorico fra esoterismo, massoneria e politica" e la relazione del professor Galli era precisamente su Arturo Reghini e la politica ( anche questa è su internet ). Grazie alla passione e alla libera intelligenza di Giorgio Galli la figura del grande iniziato pitagorico poteva di nuovo varcare i confini di ambienti di validissimi, ma ristretti e riaffrontare il mare aperto.

Massimo Chiapparini

Neoplatonismo e Gnosi davanti alla Modernità – Umberto Bianchi

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Tra tutte le narrazioni filosofiche occidentali, quella di Platone, ad oggi, ha mantenuto intatto tutto il proprio fascino e tutta la propria potenza evocatrice, connessa come fu al mondo ellenico, del quale rappresentò il massimo grado ed il completamento di un lungo processo ideologico che, partito dalle istanze pre socratiche, raggiunse il proprio culmine grazie all’immagine di un mondo inteso quale imperfetto riflesso di una superiore dimensione ideale, a cui quest’ultimo anelava in un continuo tendere ad uno stato di perfezione, sia dal punto di vista esteriore, che da quello interiore. La luminosa statuaria greca dei vari Fidia, Prassitele, Policleto e di altri ancora, è lì ad offrirci una luminosa testimonianza di quel clima culturale. Ma il messaggio di Platone, non è rimasto né inascoltato, né isolato. L’inizio del declino della civiltà classica, rappresentato dalle conquiste di Alessandro Magno e dall’inizio dell’Età Ellenistica, assisterà ad un ulteriore sviluppo delle istanze platoniche, attraverso tutta quella serie di autori comunemente definiti “neoplatonici”, a partire da Plotino in poi, passando attraverso i vari Giamblico, Porfirio, Proclo, Prisco ed altri ancora. Allievo di Ammonio Sacca, presso la scuola di Alessandria e successivamente influenzato da Filone di Alessandria e Numenio di Apamea, Plotino apporterà all’edificio ideologico platonico un apporto di portata tale, da segnarne in modo decisivo l’intero percorso attraverso i secoli a venire. Due sono gli elementi centrali in tutta la narrazione plotiniana e che caratterizzeranno anche quella neoplatonica successiva. Il primo è rappresentato dal tema dell’emanazione che, già in nuce nella narrazione platonica, qui conosce la propria definitiva esplicitazione ed inquadramento in un ben determinato sistema metafisico. Il secondo, è quello legato all’idea di un “Uno” da cui l’intera realtà discende, stavolta però, caratterizzato da una quanto mai incolmabile distanza dal mondo della materia, tanto da far asserire la propria “non esistenza”, poiché quest’ultima sarebbe una proprietà tutta connaturata al mondo della materia. E pertanto, il sistema plotiniano si presenta come un tutto armonico, un vero e proprio sistema di interrelazioni, al cui vertice sta un Uno , la cui irreconciliabilità con il mondo della materia, fa sì che quest’ultimo discenda e derivi da questo per indiretta “emanazione”.

Tra la materia e l’Uno tutta una serie di gradi intermedi, rappresentati da una miriade di personalità numinose, collocate in diversificate regioni celesti, nell’ambito di un ben coordinato sistema metafisico. A stemperare la radicale inconciliabilità tra spirito e materia, l’idea appunto di quel sistema metafisico a cui abbiamo poc’anzi accennato che, animato da una fitta rete di corrispondenze tra i vari stati dell’Essere, conferisce armonia, funzionalità e pari dignità a tutte le sue componenti.

Diverso è, invece, il discorso per quell’altra branca del sapere filosofico sviluppatasi dal platonismo, quasi contemporaneamente al Neoplatoniosmo di Plotino e che viene comunemente definita Gnosi o Gnosticismo. Accomunata al Neoplatonismo dall’idea di una realtà trascendente ed inconoscibile, (Uno…) dalla quale promana la materia, attraverso una scala gerarchica di entità, si differenzia nettamente da questo per il marcato pessimismo ontologico, che ne caratterizza l’intero costrutto. Quello della materia, costituisce lo stato più infimo dell’Essere; le stesse anime degli esseri umani, altro non sono che particelle della luce divina precipitate e decadute in un miserevole stato di costrizione, quello della materia, da cui aspirano il distacco, al fine di ritornare alla luminosa “casa del padre”. Il radicale disprezzo verso la materia che caratterizza la Gnosi, viene interpretato in differenti modalità dai vari gruppi e dalle varie personalità che se ne faranno interpreti, considerando anche l’appartenenza religiosa dei singoli. Valentino, Basilide, Bardesane, Marcione e tanti altri, si faranno via via portavoce di una Gnosi cristiana, ebraica o pagana, tutte egualmente accompagnate da una idea più o meno negativa della creazione, a cui farà sempre, anche se spesso sottaciuto, da sottofondo l’antico motivo platonico di un Demiurgo, nel ruolo di malvagio creatore del mondo.

Contrariamente al Neoplatonismo, sicuramente meno dottrinariamente confuso e più impostato su alcuni e ben definiti contesti religiosi, la Gnosi oltre ad influenzare di sé molte narrazioni religiose, in virtù di quello spirito sincretistico che caratterizzava l’Ellenismo, prenderà a prestito numerosi elementi religiosi sia da Oriente (Egitto, Mesopotamia Caldaica e Babilonese, Iran) che da Occidente (paganesimo greco-romano), al fine di creare delle proprie forme di religiosità “ibride” che, alla fine determineranno una vera e propria confusionaria profusione di figure divine, che tanto polemico disprezzo genereranno in filosofi più rigorosi, quali Plotino. Con il suo radicale disprezzo per la materia, la Gnosi costituirà l’humus idelogico su cui si imposterà l’intero Evo Medio. La fine del mondo antico e della civiltà classica, non costituirà però la fine di Gnosi e Neoplatonismo, che continueranno a vivere sotto mentite spoglie. Ma anche qui, le due derivazioni del Platonismo, vivranno differenti percorsi. Contrariamente a quel che si potrebbe ritenere, la Gnosi, anche se scacciata e demonizzata dalla cristianità, a partire dal Concilio di Nicea in poi, (tramite l’esclusione dei Vangeli Gnostici dalla dottrina ufficiale cristiana, oramai saldamente impiantata sui Vangeli Sinottici, sic!), sopravviverà in gruppi quali Bogomili, Pauliciani, Catari e financo nel famoso Ordine Cavalleresco Templare, mentre il Neoplatonismo, dopo una iniziale fase di successo con Agostino di Ippona (conosciuto come S. Agostino, sic!), dovrà aspettare il Rinascimento per ritornare agli onori della cronaca, (con le vicende legate alla corte fiorentina di Cosimo de’ Medici e le relazioni con il Cardinal Bessarione e gli scritti di Michele Psello…).

Nonostante le persecuzioni e le ostracizzazioni, con la tragica fine di gruppi come i Catari ed i Templari, la Gnosi lascerà una pesante eredità al mondo occidentale, al pari del suo “fratello” neoplatonico. Un’eredità la cui prima causa risiede in quel processo che, caratteristico dell’Ellenismo, porterà alla progressiva “astrattizzazione” della realtà divina. Di questo processo i vari emanazionismi Neoplatonici e Gnostici, sono il sintomo più evidente. Quella realtà trascendente che, nel mondo antico era vissuta in tutta la sua immediata pienezza,viene successivamente percepita sempre più distante e lontana (la famosa teologia “apofatica” di Plotino, sic!), facendo del divino un elemento sempre più lontano ed astratto. La qual cosa, nella Gnosi, viene amplificata a dismisura, proprio attraverso quella radicale negativizzazione della materia e la radicale ed irresolubile inconciliabilità tra la dimensione trascendente e quella materiale, che stanno alla base del suo impianto teorico.Per un paradossale processo di eterogenesi dei fini, proprio laddove si voleva anelare allo spirito, si finisce con il vivere appieno l’immediatezza materiale, nell’ attesa di una catarsi spirituale sempre più eterea e lontana, spalancando così le porte all’attuale fase di meccanicistico materialismo. Quello dell’emanazionismo è il classico specchio per le allodole al quale, oggidì, cedono, in ispecial modo, tutte quelle forme di sapere che, nel contrapporsi allo scientismo materialista, aspirano alla conoscenza (ed al dominio, sic!) dell’essenza della realtà, attraverso un processo a tappe (iniziazione…) che deve coinvolgere tutte le forze spirituali di coloro che, a tali saperi si avvicinino. Stiamo parlando di tutte quelle tipologie di conoscenza che, ad oggi, possiamo definire “esoteriche” e che in Oriente trovano i propri riferimenti in ben definite e vitali tradizioni religiose, come nel caso del Tantra Yoga di ambito Hindu o del Buddhismo tibetano, solo per citare alcuni esempi. In ambito occidentale, di converso, il pensiero “esoterico” non fa riferimento ad una precisa e vitale tradizione religiosa, bensì a tutto quel fiume carsico di conoscenze, frutto delle elaborazioni e delle sintesi ellenistiche, rappresentato in primis da Gnosi ed Ermetismo, su cui si sono innestati i filoni dell’ idealismo magico e del vitalismo a partire dal 18° secolo.

Ad Oriente ed ancor più in Occidente, le varie forme di sapere iniziatico e le strutture che ne sono espressione, non sembrano esser in grado di fornire delle vie d’uscita concrete, alle continue sollecitazioni di una Modernità Tecno Economica che, ad ora, sembra farla da padrona “urbi et orbi”. La forma mentis “emanazionista” ed il suo humus astrattizzante, hanno informato di sé tutte queste narrazioni, riducendole in uno splendido isolamento, assolutamente incapace di reimpostare in una direzione “altra” le coordinate di un mondo che, come abbiamo già fatto notare, va ain ben altra direzione. E qualora un gruppo esoterico riesca a reimpostare o influenzare la realtà, sarà solo in virtù di un processo di degenerazione interna, tutto in direzione del materialismo Tecno Economico, così come accaduto con la maggior parte di quella miriade di raggruppamenti esoterici occidentali, definiti con il termine, ad oggi sempre più generico e desueto, di “Massonerie”. Permane, dunque, viva, la necessità di una via d’uscita a quella che, al momento potrebbe sembrare una situazione di pesante stallo.

E’ dall’apertura alla molteplicità dell’Essere, cercando di mettere in disparte l’idea di un onnipresente ed omologante Principio Unico, che può partire una reale risposta alla attuale situazione. La percezione del Molteplice deve partire dal dato materiale, che non dovrà più essere svalutato, anzi. L’adorazione degli infiniti aspetti della realtà materiale, imperniata su un pensiero in grado di farsi evento, in virtù di una heideggeriana “ereignis”, spingerà l’umanità verso nuovi ed inesplorati lidi. L’abbracciare una forma di “Politeismo del pensiero”, ci riporterà ad una immediatezza di contatto con quella “natura naturans” di cui avevamo perduto la percezione, in direzione, invece, di una folle ed insensata autodistruzione. E come ci direbbe il filosofo Rocco Ronchi, è proprio attraverso una divinizzazione della Materia, che passa quella via maestra, già indicataci, molto tempo prima, dalle parole di Nietzsche e di Heidegger. Un sentiero ancora lungo e tortuoso quello da percorrere, tra le insidie di una fatiscente Modernità ma che, stiamone pur certi, ci riserverà non poche sorprese.

Umberto Bianchi

La democrazia di Atene: storia di un mito – Alessandra Iacono

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«Su tutta la terra

la componente migliore della società

si oppone alla democrazia»

 (Costituzione degli Ateniesi I,5)

«Amo con passione la libertà

ma non la democrazia»

(Alexis de Tocqueville)

Chiunque abbia avuto tra le mani (e davanti agli occhi) un qualsiasi manuale di storia greca sa bene che la democrazia ateniese non fu, mai, nemmeno sotto il Pericle del demagogico, populistico, propagandistico e abusatissimo “noi-ad-Atene-facciamo-così”, una dittatura del proletariato; tanto meno fu il regime liberal-social-popolare che il progressismo moderno vorrebbe, oggi, avocare a sé. Occorre allora dirlo, chiaro e tondo, una volta per tutte: la polis ateniese, così spesso idealizzata dai  demo-sfegatati, era in realtà un circolo molto esclusivo. Tratti distintivi e condiciones sine qua non per fregiarsi del titolo di polítes (cittadino) erano il possesso della terra, la militanza nell'esercito, l'isegoría – la libertà di parola in assemblea –, diritti riservati ai soli maschi adulti e liberi: donne, minori, stranieri e schiavi ne resteranno sempre esclusi. Lo storico Tucidide arriva a definire il governo pericleo “una demokratía solo di nome, ma di fatto il potere di un primo cittadino”.

«Nonostante si ricada spesso nella prospettiva ideologica dell'antichità ascrivendo Pericle alla fazione democratica e contrapponendogli trinariciuti oligarchi illiberali, va da sé che la sua azione fu un'ulteriore prova della natura elitaria del governo ateniese, al di là dell'assetto democratico dello Stato. Non era un regime nato ed alimentato dalla partecipazione attiva delle masse: non nasceva dal basso, ma fu sin dagli inizi una costruzione dall'alto». Ecco, dunque, l'essenza della democrazia ateniese, ben condensata in queste parole del classicista e filelleno Francesco Colafemmina, autore dello splendido saggio “La democrazia di Atene. Storia di un mito”, edito da Passaggio al Bosco.

Colafemmina, prendendo le mosse dalla Costituzione degli Ateniesi dello Pseudo-Senofonte – e propro qui ne propone una nuova traduzione –, ripercorre le tappe principali della sofisticata ed appassionante storia greca, attraverso l'analisi e l'evoluzione delle istituzioni politiche (politico-militar-religiose, per la precisione) elleniche. Una parabola politica che, stringi stringi, potrebbe ri[con]dursi all'eterna lotta dei principî aristocratici – tradizionali, sacrali, solari – contro gli impulsi democratici – pseudo-progressisti, umanitari, terreni –, e dunque tra le fazioni che di volta in volta incarnarono quei valori.

La dimensione sacrale del potere aristocratico contro la saggezza urania del potere delle legge, «un contrasto fra due economie e due stili di vita in opposizione tra loro che si traduce, da una parte in una esaltazione della vita dei padri, fatta di parsimonia e lavoro nei campi, e di quelle società che, come la spartana, continuavano a rappresentare un modello di tale vita (il miraggio spartiata), dall'altra l'esaltazione del consumismo, in un'economia di mercato che rompeva gli argini dell'Attica, stabiliva relazioni con il resto del mondo greco e non greco, e favoriva implicitamente in questa visione mercantilistica il superamento insieme dell'autarchia e del nazionalismo greco, e il superamento dell'antitesi fra Greco e barbaro, fra Greco e straniero […] questo contrasto fra due etiche, fra due visioni diverse del passato e del presente».

L'idea che i moderni si sono fatti dell'Atene del V secolo ruota intorno alla figura di Pericle, lo strategós che nell'immaginario collettivo è assurto a sovrano illuminato, progressista e paladino delle masse. Va fatta una premessa. Ad Atene non esistevano politici di professione. La strategía era una carica militare, gli strateghi comandanti militari, responsabili del destino della polis e dei suoi cittadini; se all'altezza del compito, essi potevano essere eletti per molti anni consecutivi, e chi ricopriva a lungo la strategia dominava di fatto la scena politica. Dunque se permanessero dubbi in tal senso l'Atene classica, sebbene democratica, è ancora una società basata sulla guerra,  conserva ancora un importante germe tradizionale nel suo ventre.

Ad ogni modo, con la primazia dello stratego Pericle rispetto alle lotte politiche del tempo, «la rottura della struttura aristocratica della paidéia, compiuta sotto la spinta della sofistica con il suo carico di scetticismo nei riguardi del divino e di esaltazione dell'individualismo […] finì col diventare il bagaglio insostituibile dell'ideologia democratica».

Con senno di poi e vocabolario moderno, potremmo quindi dire che la natura della democrazia ateniese era “transnazionale”, come lo erano gli esponenti della nuova cultura, sofisti e naturalisti; e persino “globalizzata”, anti-identitaria, avendo perso il suo centro ed essendosi allontanata dai valori religiosi tradizionali. Ed ecco una prima, grande differenza col mondo spartano.

Se, come sostiene l'Autore, nell'ambito del grande conflitto civile che li oppose agli Ateniesi, l'intento degli Spartani non era di contrapporre una visione alternativa, l'operato di Pericle testimonia, invece, oltre a una maggior consapevolezza dei rivolgimenti in atto, «lo scivolamento delle élites cittadine verso nuovi valori, nuovi modi di pensare in aperto contrasto col passato, sintetizzabili nel ripudio progressivo di forme di religiosità ufficiale e di etica tradizionale – un'etica rurale –, a favore di una sempre maggiore spregiudicatezza del pensiero e in nome di una fiducia nel progresso». Abbagliata dal “sol dell'avvenir”, «per quella generazione l'età dell'oro non era il paradiso perduto di un nebuloso passato, come aveva creduto Esiodo; per loro l'età dell'oro era nell'avvenire, e in un avvenire non troppo lontano».

Superata e “sconfitta” l'era dei tiranni, ad Atene permane lo spauracchio del potere autoritario di un singolo, un incubo ricorrente del démos, tanto che Aristofane si farà beffe di questa costante paura popolare della tirannide. Pericle, l' “aristocratico trasgressivo che diede pieno compimento alla democrazia”, non era tuttavia uomo del popolo; anzi, la dimensione mimetica tra leader di estrazione niente affatto democratica e massa popolare è tratto saliente e contraddizione insita nella democrazia; senza dubbio in quella ateniese, di cui qui si ragiona, ma con buona probabilità nel concetto stesso di democrazia. Come bene illustra Colafemmina, l'accesso delle masse alla gestione dello Stato nasceva per concessione delle élites: «Solo le élites  razionaliste potevano illudersi di troncare la relazione fra il popolo e quell'insieme di credenze, riti e abitudini irrazionali sedimentate nell'identità ellenica […] La società democratica acquisisce come propria regola interna quella della sollecitazione e dell'ampliamento dei piaceri: è il meccanismo di controllo più efficace e meno costoso per ogni forma di élite dominante, cui fa seguito la crescita a dismisura della città rispetto alla campagna». Tuttavia, continua l'Autore, «certo, è espressione della retorica democratica l'identificazione dell'élite filodemocratica con “i più” e della ridotta élite anti-moderna con una oligarchia: in entrambi i casi a dividersi sul regime da promuovere erano sempre gli olígoi, non di certo le masse». Dunque, niente altro che un'illusione.

Da parte di questo popolo trasformato in massa, funzionale al regime democratico, non tarderà la reazione all' “illuminismo” dell'età periclea: «è infatti tipico delle epoche 'illuministiche'  e di 'liberalismo razionalistico' il fatto che producano individui eticamente assai elevati, grandi e appassionati idealisti, che lottano contro il pregiudizio e l'ingiustizia. Ma essi non possono sostituire la religione nella mente del popolo, così che quelle idee e quegli ideali razionalistici soccombono ad opera di forze irrazionali». L'uomo greco proverà a colmare un vuoto improvviso con nuove forme – bizzarre ed estreme – di religiosità.

«L'etica eroica è tramontata, il mito si stacca come un mosaico non più tenuto dalla malta, resta il rifugio nell'arte e nella bellezza quasi a voler trattenere nell'eterno una realtà inafferrabile e sfuggente. Il sovvertimento dei valori dell'aristocrazia tradizionale non poteva prescindere da una profonda revisione dell'immaginario religioso popolare, così la messa in discussione della tradizione […] si associava inevitabilmente all'accrescimento di uno iato fra mondo materiale e spirituale».

Il conflitto fra tradizione e modernità, dunque, risale almeno all'Atene del V secolo, risiedendo la natura di tale conflitto in uno scontro di visioni, ideali e valori attuale in ogni epoca, e proprio per questo cristallizzato nel mito ciclico di decadenze e rinnovamenti.

Già a quel tempo non mancarono voci autorevoli, se non esplicitamente in difesa della Tradizione, senza dubbio inequivocabilmente critiche verso la democrazia. Fanno scuola il già citato Aristofane, Isocrate, Erodoto, Senofonte, Socrate, l'Anonimo pseudo-Senofonte della Costituzione opera fondamentale di cui si raccomanda la lettura integrale, insieme al circostanziato commento dell'Autore Colafemmina – e, naturalmente, Platone: rimangono indenni, a distanza di secoli, l'inestimabile valore intellettuale e letterario di quella che potremmo considerare la prima vera articolata teoria politica della storia, espressa nella Politéia, e il mito di Atlantide contenuto in Timeo e Crizia. Sarà lo stesso Platone, nell'Alcibiade maggiore, l'unico a tentare la via della riconciliazione  del pensiero con la tradizione.

Tra i moderni anti-moderni – si perdoni il gioco di parole – il nostro autore riserba, giustamente, un posto d'onore a Yukio Mishima, nel quale ritroviamo intatti tutti i tópoi della lotta alla modernità già presenti nell'Atene classica, a partire dall'isegoría, «la licenza nel parlare, camuffata da libertà»; il vacillare dell'aidós, il pudore, nei costumi sessuali, lo porterà a profetizzare che «la nostra si avvia a diventare l'epoca della cosiddetta neutralità».

C'è da dire che qualche altro provocatorio paragone tra la polis dell'Attica e le democrazie moderne si può ben azzardare: i tribunali erano sovraccarichi esattamente come oggi, e come oggi serpeggiava una tendenza al sadismo giustizialista, specie tra le classi meno abbienti, non a caso chiamate a partecipare come “giuria popolare” ai processi pubblici e privati in cambio di un misero compenso, e per tal ragione facilmente corruttibili... Come oggi.

La grande differenza con l'oggi sta, semmai, nella consistenza intellettuale, nella statura politica, nella competenza amministrativa degli esponenti delle élites dominanti (di una fazione o dell'altra, poco importa): «la genialità del programma culturale pericleo mirante a trasformare Atene nella 'scuola dell'Ellade' e a scatenare le energie creative» oggi ce la sogniamo...

“Come potrebbe pilotare uno stato, un cittadino che non sa neanche padroneggiare un discorso?”, si domanda retoricamente Euripide nelle Supplici. Già, come può? Davanti ai politicanti del nostro secolo Euripide si caverebbe gli occhi e si taglierebbe lo orecchie. Comprensibilmente.

Attenzione, però: si badi – per carità! – di non calcare troppo la mano con questi Antichi, di non scivolare in parallelismi antistorici: la mentalità antica rimane diversa, distante da quella moderna. Due esempi a caso. Uno, è la differente concezione della pederastia, marginalizzata nella dimensione democratica ateniese, in quanto considerata una «pratica elitaria estranea all'impeto omogeneizzante della democrazia ateniese», costume sentito come fortemente reazionario, riservato alla sfera privata, relegato all'ambito aristocratico, iniziatico, esoterico; mentre oggi lo sdoganamento di qualunque forma di omosessualità con tutte le sue derivazioni (e degenerazioni) appartiene al sentire della massa democratica, progressista, modernista, è ostentato in pubblico, ostinatamente proteso al riconoscimento normativo e istituzionale.

L'altro è il rapporto con xénoi e bárbaroi, gli stranieri. Sappiamo già che a chiunque non avesse genitori ateniesi purosangue erano negati i diritti politici, conseguenza – non causa – del sospetto, anzi dell'ostilità, con cui gli Ateniesi guardavano fuori dai propri confini: gelosi del loro diritto di cittadinanza, essi si sentivano parte di quella comunità esclusiva in cui gli stranieri non erano ben visti; ed anche la xenía, la legge dell'ospitalità, era più un ideale che un dato di fatto: non, quindi, una generica propensione dei greci ad accogliere l'altro, piuttosto – così lontanamente dalla concezione oggi volgarmente invalsa – una forma di mutuo soccorso tra gli aristocratici delle città greche (xénos è infatti, propriamente, l'ospite, lo straniero di origine greca, contrapposto al bárbaros non-greco), che si riconoscono tra loro come affini, “pari”, al di là dell'appartenenza alle singole póleis. C'era, insomma, la forte consapevolezza di una comune identità greca, a cui gli Ateniesi aggiungevano un elemento specifico: il mito dell'autoctonia, cioè la  pretesa di essere da sempre originari della propria terra e di non essere mai stati contaminati da presenze allotrie. E Atene si vantava di codesta purezza etnica, tanto che Platone nel Menesseno può candidamente affermare che “i greci sono puri e senza mescolanza con i barbari”.

Tornando al nostro saggio, per illustrare un quadro più preciso possibile dell'Atene del V secolo, l'Autore si districa egregiamente attraverso storia, filosofia, religione, mito, politica e geopolitica, economia, psicologia, letteratura, musica e arti figurative; e fa bene, perché sono ambiti inevitabilmente interconnessi, in maniera palese per ciò che attiene all'antichità, e in gran misura anche oggi, sebbene si sia un po' perso di vista il filo rosso che le lega insieme.

Colafemmina indaga tutte queste discipline, conosce la lingua greca e le fonti antiche, tesse una tela che attraversa la Storia: dall'antica Grecia, all'Occidente moderno e contemporaneo, fino ai nostri giorni – forse il passaggio finale, fin all'attualità più recente, è lasciato al buon Lettore, che viene tuttavia accompagnato con la manina e rinfrancato da un invidiabile ottimismo: «La verticalità del miglioramento dell'uomo, la dimensione morale dell'agire individuale e il rapporto col divino, non sono incompatibili con la reale impostazione elitaria di ogni democrazia. Lo sono, piuttosto, con l'ideologia democratica fondata sull'assoluta libertà dell'uomo da ogni passato, da ogni tradizione, da ogni canone estetico o spirituale, fino a renderlo schiavo della sua hýbris»  – per sfociare infine in una riflessione aporetica: «Se davvero la costruzione democratica è un processo che nasce all'interno di élites trasgressive, non occorrerà forse smontare opportunamente la costruzione ideologica che vi si annida e ripristinare una aristocrazia spirituale nelle nostre società in bilico tra anarchia e occhiute tirannidi? Tutto dipende, forse, dalla posizione che il potere definisce per l'uomo in una data epoca. Il nostro nómos sarà quello della terra di Sparta o quello del mare di Atene? O sarà diverso da entrambi?».

Per concludere: di quest'opera si può senz'altro affermare che è un saggio rigoroso, che lascia spazio anche a riflessioni di stringente attualità, come ampiamente osservato. Se da un lato si dà per scontata la conoscenza della storia greca almeno per grandi linee, dall'altro esso può costituire un validissimo strumento di supporto alla storia greca, intesa come disciplina universitaria (non osiamo spingerci fino alle scuole, visto lo stato deteriore in cui versano oggi),  per comprendere a fondo la natura delle istituzioni politiche ateniesi, in relazione a quelle moderne, in ispecie occidentali. L'Autore, se applica il rigore del filologo, la precisione dello storico e l'argutezza del politologo, alleggerisce l'opera nella comprensione del pubblico e ne agevola la lettura grazie a uno stile di scrittura classicheggiante, sì, ma letterario, molto più che piacevole, una delizia per l'occhio del Lettore – se ce n'è rimasto ancora qualcuno – che abbia nostalgia della lingua italiana, della sua bellezza, del polisindeto e di un vocabolario ricercato, data la degenerazione linguistica – orale e scrittoria – a cui assistiamo.

Grazie, Colafemmina: l'ammiriamo per questo prezioso lavoro, per ciò che ha scritto e per come lo ha scritto.

Alessandra Iacono

Alla ricerca di ciò che si ha: è mai esistita la formula della super-medicina capace di allungare la vita? – Rita Remagnino

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Personalmente mi sono fatta inoculare vari tipi di vaccino, avendo bazzicato a lungo in paesi in cui molte vaccinazioni sono indispensabili, ma l’aura che circonda questo vaccino mi ha colta impreparata. Aerei e camion dell’esercito, scorte dalla polizia, l’onnipresente discorso pubblico, dosi agognate e mai sufficienti hanno riesumato nella mia memoria una storia vecchia come il mondo: quella del siero che salva, o allunga, la vita. Neppure nella più remota antichità la pozione miracolosa era alla portata di tutti. Presso le culture sciamaniche primordiali, ad esempio, l’uso di super-medicine e di funghi allucinogeni era un privilegio riservato agli «dèi», cioè ai diretti discendenti della stirpe originaria. Lo stesso uomo-Adamo, prototipo dell’«escluso» dal beneficio, non fece in tempo ad allungare le mani sul prezioso frutto dell’Albero della Vita che subito venne cacciato dal Paradiso Terrestre. Una sorte toccata ad altri personaggi leggendari, segno che in un dato periodo le trasgressioni erano all’ordine del giorno. Tra questi vi fu Adapa, il figlio che Ea-Enki «aveva fatto mortale» a causa di un’unione ibrida. Il suo mito si trova in un testo del XIV secolo a.C. ritrovato ad El-Amarna, in Egitto. Vagamente nominato come «uno degli Dèi», il mezzosangue in realtà non era un «dio» ma un super-dotato fisico con un’intelligenza fuori del comune. Tante qualità non sottrassero comunque alla derisione degli appartenenti alla Prima Razza, che si divertirono a fargli passare sotto il naso la droga di lunga vita senza dargliene neppure una goccia.

In via eccezionale poteva succedere che gli dèi decidessero di donare il segreto dell’elisir a un umano che non fosse di sangue blu, ma in questi rarissimi casi il beneficiario doveva sparire dal mondo, che, in ultima analisi, era un modo differente di morire. Accadde a Utnapishtim il «giusto», ad esempio, scampato all’inondazione che circa 5.500 anni fa alzò di tre metri il Golfo Persico sommergendo la piana di Sumer, il quale fu confinato con la consorte su un’isola misteriosa alla foce del Tigri e dell’Eufrate. Lì fu trovato da un affranto Gilgamesh, disperato per la perdita del compagno amatissimo Enkidu e sgomento davanti al mistero della morte. Utnapishtim indicò al re di Uruk un vegetale che cresceva sul fondo dell’Apsû, l’abisso d’acqua sotterraneo, il cui fiore era capace di ringiovanire enormemente il corpo. Il re lo trovò, ma posandolo un momento a terra per poter bere da una pozza d’acqua dolce se lo vide soffiare via da un serpente, che dopo aver ingerito la pianta uscì dalla sua vecchia pelle più splendido di prima e visibilmente ringiovanito. Il binomio sangue-longevità è una costante nei racconti più antichi. Il sangue di Adapa non era puro come non lo era quello di Gilgamesh, descritto come un lillu, un «uomo con caratteri demoniaci», che, tradotto in lingua corrente significa appunto «mezzosangue». Sua madre era una entu, una specie di dea, descritta come «altissima» e molto bella, mentre suo padre era Lugalbanda. Un nome quasi nordico, che ricorda vagamente quello del mitico eroe irlandese Lúg Lámfada. Il termine celtico Lug significa sia «verbo» che «luce». Parola e illuminazione. Ma due esseri umani straordinari non fanno un essere divino, e difatti i nostri eroi arrivarono a un passo dalla droga della longevità senza riuscire a farne uso. La strada di Adapa fu sbarrata da un Uccello-sciamano, quella di Gilgamesh fu deviata da un Serpente-sciamano. Entrambi i tutori dell’ordine tradiscono sotto la propria forma mitologica una natura primordiale. Un fatto che rivela la convinzione dei Sumeri, probabili autori di queste narrazioni, che i primi dèi-civilizzatori fossero realmente in possesso di un farmaco capace di allungare la vita, ma se ne riservassero l’uso esclusivo.

Ogni civiltà si è affidata ai suoi farmaci per prolungare la vita su questa Terra, che per brutta che sia è sempre meglio di niente. L’attuale stato dell’arte registra un raddoppio dell’aspettativa media di vita dei vermi Caenorhabditis elegans e la «scoperta» che nel DNA degli islandesi, uno dei popoli meno meticciati della Terra, è presente un gene (battezzato «Matusalemme») che incide in modo significativo sulla durata media della vita di un essere umano. Non si sa come, né perché. Secondo la scienza popolare mangiare mele aumenterebbe l'aspettativa di vita del 10%. Quella ufficiale sottolinea invece la presenza di un moscerino della frutta che va matto per le mele, la Drosophila melanogaster, il quale sarebbe il portatore di un gene capace di raddoppiare la durata della sua vita. Il discorso non vale ovviamente per le mele insapori e inodori del supermercato, che sembrano (o forse sono) fatte di plastica, ma riguarda le «mele antiche», originarie, che potrebbero avere avuto particolari proprietà in grado di produrre effetti benefici sugli organismi viventi che le ingerivano. Siamo in presenza di una rivisitazione dell’adagio popolare “una mela al giorno toglie il medico di torno”? D’altronde, se venisse fuori che gli Antichi erano al corrente di «dettagli scientifici» a noi ignoti bisognerebbe riscrivere la Storia, e nessuno sembra intenzionato a farlo. Assumerebbero un nuovo significato anche tanti racconti tradizionali, a partire da quello legato alla mela del peccato di Eva, che altrimenti sembra una favola per bambini, ma i nostri remoti antenati non avevano l’abitudine di raccontare favole ai bambini.

Nella Grecia classica l’albero del melo, e non quindi il pesco o l’arancio, era sacro al dio iperboreo Apollo, che condivideva il suo gradimento con Nemesi e Artemide. L’usanza era scesa probabilmente dalle terre del Nord, dove la bella Idun, moglie del sommo poeta Bragi e dea di Asgard, custodiva le mele della giovinezza. Quando qualcuno degli Asi cominciava ad accusare i primi segni di decadenza, la dea apriva lo scrigno di legno di frassino e ne estraeva una mela d’oro capace di fermare il tempo. Non che le mele fossero davvero fatte d’oro, altrimenti gli dèi avrebbero dovuto avere i denti d’acciaio. Probabilmente si trattava di un’allegoria riferita all’Età dell’Oro, i cui racconti giunsero in discreta salute almeno fino al Ragnarök, a cui peraltro il segreto della sostanza miracolosa non sopravvisse. In seguito la ricetta dell’elisir di lunga vita rimase nell’immaginario collettivo solo sotto forma di ricordo, o immagazzinata in qualche cerimoniale. Esempi longevi furono certi riti legati al soma nell’India vedica, o i bouphonia di Atene, la cui funzione era sempre quella di rammentare e ravvivare i perduti tempi della sapienza divina.

Dalla Scandinavia alla Mesopotamia, dall’India proto-dravidica alla Cina, il farmaco prodigioso capace di allungare la vita assunse le forme più disparate, e talvolta non si trattava neppure di una droga in senso stretto. Il Mahābhārata parla ad esempio di «sorgenti che eliminano la vecchiaia», le malattie e la morte, rivelando in questo modo che l’allungamento della vita poteva derivare dall’utilizzo abituale di certe acque. Mentre in Irlanda il magico elisir era sinonimo di «birra di Goibniu», la bevanda che gli invasori Túatha Dé Danann consumavano nei loro banchetti per mantenersi giovani a lungo. In modo più raffinato la tradizione estremorientale identificò il nettare dell’immortalità con la rugiada. Gli stessi insegnamenti del Buddha nel Sutra Mahayana sono spesso paragonati a questa dolce acqua che non aveva uguali al mondo, non assomigliando né all’acqua di superficie né all’acqua piovana. Anche se i cercatori di elisir più accaniti furono senza dubbio i Cinesi.

Lo stesso taoismo, lanciato da Lǎozǐ tra i secoli IV e III a.C., si spese parecchio nel tentativo di mettere a punto strategie capaci di recuperare il segreto perduto. Si andava dalle tecniche respiratorie volte a raffinare il soffio vitale [] fino all’accoppiamento degli aspiranti matusalemme con ragazze giovanissime che dovevano tenere viva l’energia virile del ricercatore magico. Sebbene con poco godimento, dato che la ritenzione del seme era considerata un fattore imprescindibile per assicurarsi il prolungamento della vita.  Ai mitici saggi che riuscivano a «raggiungere il paradiso», cioè ad ottenere il segreto dell’immortalità, venne dato il nome di xiān e una nobile collocazione tra geni e dèi che formavano il variegato pántheon taoista. Liberi dalle molteplici costrizioni del mondo materiale questi super-uomini potevano così librarsi nello spazio viaggiando su draghi e gru (chiari simboli astronomici), o volando direttamente per mezzo di ali (dello sciamano) su nuvole lontane oltre le quali si spalancava il «grande varco», l’«abisso senza ritorno» in cui le acque terrestri confluivano nella Via Lattea. Cronache cinesi relativamente recenti parlano addirittura di spedizioni organizzate da superbi imperatori e ricchi mercanti desiderosi di ritrovare le favolose isole degli xiān, custodi della ricetta del farmaco della longevità. Non si conoscono gli esiti di tali imprese, ma si sa che nel II secolo a.C. ci riprovò un megalomane autocrate unificatore del Zhōngguó, intenzionato ad impossessarsi del Tempo per vivere in eterno. Come un novello Ulisse uno dei suoi capitani fece ritorno dopo parecchi anni, raccontando che un enorme mostro marino gli aveva sbarrato la strada proprio sul più bello, impedendogli così di raggiungere le Montagne dei Beati.

Con un magistrale colpo di scena nel canto V dell’Odissea la ninfa Calipso offre a Ulisse la magica droga dell’eterna giovinezza in cambio del suo amore, ma l’eroe vagabondo respinge al mittente ciò che altri andavano ricercando per mare e per terra, e il significato di quel rifiuto ancora c’interroga. Ulisse libero da utopie e tentazioni di sfuggire alla sorte, oppure consapevole di una diversa verità? Ci si sente «più umani», facendosi carico del proprio destino di mortali? E se la morte non fosse un dramma bensì una liberazione, come pensavano gli antichi più antichi? Su un punto tutte le tradizioni convergono: l’uomo non perse subito l’immortalità, da intendersi come estrema longevità, ma se la giocò strada facendo a causa di un temperamento instabile e allergico a qualsiasi tipo di regola. Non doveva mischiare il sangue della Prima Razza con quello di stirpi geneticamente inferiori, ma lo fece. Non doveva sperperare il patrimonio sapienziale ereditato dai Padri fondatori, ma lo disperse ai quattro venti. Non doveva allontanarsi dalla legge di corrispondenza che collega ogni cosa nell’Essenza universale, ma la dimenticò coscientemente con i risultati catastrofici che conosciamo. Il risultato fu l’insorgenza di una duplice realtà: da una parte «noi», la stirpe umana, dall’altra tutto quello che stava «al di fuori di noi», cioè il mondo. Sul cambio di prospettiva pesò una serie di fattori, il primo dei quali fu il graduale venir meno delle capacità percettive della specie. Facoltà basilari, visto che niente è in possesso di una vera e propria esistenza al di fuori della nostra percezione sensoriale animale. Neppure Spazio e Tempo, che sono modalità cognitive animali, possiedono realtà indipendenti, essendo semplici schemi interpretativi che appartengono alla logica mentale del nostro organismo animale, il quale può essere paragonato a un software che modella le percezioni in oggetti multidimensionali.

Senza la percezione, legata alla subcoscienza, non possiamo raggiungere quella zona psichica occulta rispetto alla coscienza ordinaria, che è essenzialmente «natura». In assenza di un osservatore che «guarda con il cuore» e di un universo generoso che si «lascia guardare», esisterebbe solo uno stato indeterminato di onde di probabilità. Il «fuori» non è altro che l’estensione della logica spazio-temporale del Sé, e questo pensiero in un certo senso ci conforta. Se fossimo solo corpi dovremmo morire con loro ma se siamo la nostra subcoscienza, le nostre esperienze, le nostre sensazioni ed emozioni, allora non possiamo morire con il corpo. Questo nucleo di forze può essere espresso in maniera sequenziale ma, in ultima istanza, non è limitato da alcun confine.

Un mucchio di tempo e un sacco di fatica per scovare l’elisir di lunga vita, e alla fine si scopre che «l’immortale» è già dentro di noi. Sembra una beffa del destino. La stessa toccata ad Adapa e Gilgamesh. Può succedere, quando l’uomo vive per troppo tempo all’insegna dell’inganno e dell’occultamento. E oggi più che mai, visto che manca persino il tempo per pensare. Sono sparite le sane pause di ozio, tutto fugge via e l’attenzione si è abbassata al livello di quella di un pesce rosso. Mentre qualcosa d’importante accade solo quando la mente si prende una pausa, quando scappa dalla sua cella fatta di abitudini verbali, nervose e capricciose, quando si sposta in un’area più intima e riservata. Negli ultimi secoli ci siamo «mentalizzati» troppo. Sappiamo con un alto livello di precisione che Marte ruota su se stesso in 24 ore, 37 minuti e 23 secondi ma abbiamo perso completamente di vista l’insieme. Cerchiamo instancabilmente il pelo nell’uovo, senza pensare che l’Universo non è affatto quel gioco arido di miliardi di palline che sbattono una contro l’altra come insegnano a scuola, mentre il Big Bang, nella migliore delle ipotesi, è solo una descrizione parziale di un singolo evento all’interno di un continuum probabilmente senza collocazione temporale.

Nel complesso le nostre teorie sul mondo fisico sono limitate. Non che la scienza sia rimasta al palo per secoli, sarebbe ingeneroso sostenerlo, ma la bellezza di un tramonto, il miracolo dell’innamoramento, il gusto di un pasto delizioso rimangono per i suoi schemi degli eventi inafferrabili. Eppure il mondo incognito chiaramente correlato al processo biologico è il fulcro della comprensione dell’intero Universo. Ci sarà pure un motivo se le leggi universali sembrano formulate apposta per rendere possibile la nascita della vita animale, se le sue costanti fondamentali - non previste da alcuna teoria fisica - sembrano essere state scelte accuratamente, spesso con altissima precisione, proprio per permettere l’esistenza della vita biologica. Si direbbe che l’evoluzione delle specie sia funzionale al miglioramento dell’intero sistema. Nel mio piccolo non saprei dire quale grandioso architetto abbia realizzato un simile progetto, ma tutto questo è stato fatto. Esiste. E chissà se l’antenato delle Origini possedeva qualche informazione in più al riguardo.

  Rita Remagnino

Il retaggio uomo-animale dalla società tradizionale contadina alla globalizzazione – Walter Venchiarutti

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"L’uomo è un animale, ma non è solo un animale" (Konrad Lorenz)   La diversa concezione di natura nel decorso storico

Analogie e differenze tra uomo e animale hanno da sempre suscitato l’interesse per la discussione tra le diverse partigianerie. Da una parte emergentisti e specisti, fautori della convinzione secondo cui la distinzione tra specie corrisponde ad un concetto invalicabile (1), dall’altra i riduzionisti, che equiparano materialmente e spiritualmente l’uomo all’animale. Tra questi ultimi fautori di una teoria gender riguardante uomo-animale gli studi di Yves Christen (2) considerano che tra i due soggetti esistono differenze ma non la differenza e tutti gli animali sono da considerare persone. Per contro c’è chi, come Giorgio Locchi (3), ritiene che ridurre l’essenza dell’uomo alla sfera biologica equivalga a spogliarlo della sua piena storicità. Se l’animale vive guidato da una programmazione istintiva, fornitagli dalla natura e dall’abitudine, l’essere umano ha dalla sua il lógos, la ragione, la consapevolezza, il pensiero con la forza dell’immaginazione. Entrambi sono accomunati dal soffio vitale chiamato anima che anche semanticamente si identifica nella radice del nome “animale”. Aristotele sosteneva che l’anima dell’uomo differisce perché può accedere al pensiero concettuale. Il cristianesimo ha derivato dalla biblistica la credenza per cui gli animali non possiedono un’anima mentre l’uomo è stato creato a immagine divina. Solo a lui compete la grazia, elemento individuale e immortale. Da ciò provengono ai figli di Adamo tutta una serie di attribuzioni:

– La dimensione storica o triplice completa consapevolezza di passato, presente, futuro. L’animale può avere idea della morte quando sta per morire, l’uomo, giorno dopo giorno, vive conscio della sua finitezza (4).

– È umano il libero arbitrio, la capacità nel saper programmare volontariamente scelte con la prospettiva di imparare sperimentando, con la possibilità di sbagliare. Se il regno minerale è inerte, l’animale è un povero abitatore del mondo, l’uomo resta l’unico in grado di plasmare con opzioni anche originali e meditate il proprio destino (5).

– La cultura non è solo bagaglio mnemonico, un magazzino di nozioni, ma capacità nel saper collegare, immaginare, fantasticare (teoria della mente) e trovare soluzioni innovative nei campi del sociale, politico, istituzionale, giuridico, normativo. A questo sarebbero da aggiungere i cambiamenti d’opinione, l’intenzione altruistica, il senso del dovere, ecc. L’attività sessuale nell’uomo non è unicamente un fatto naturale e istintivo poiché trova essenziale completamento nell’erotismo.

– Il linguaggio umano non costituisce una semplice struttura comunicativa ma diventa visione del mondo: letteraria, poetica, artistica.

Lungo il corso della storia il rapporto uomo-animale è stato caratterizzato dall’apparente contrasto derivante tra le due specie: dominante e subalterna. A questo antagonismo si è aggiunta l’ambiguità costituita nel saper proiettare simbolicamente nelle singole categorie zoologiche (6) le proprie prerogative positive e negative. Tali elementi sono passati attraverso un lungo processo di elaborazione mitica, connesso ai presupposti della forte ereditarietà totemica. Se il millenario vassallaggio ieri si è sviluppato grazie al predominante antropocentrismo, giustificato dalla volontà di predazione e da ragioni di sopravvivenza, oggi lo spettro del crescente impoverimento della diversità biologica porta alla ribalta tardivi ravvedimenti, timori favoriti dalla logica del destino comune. Tra le due categorie viventi, la teorizzata comune provenienza originaria ha permesso il sussistere di atteggiamenti solidali, fondati su relazioni non esclusivamente strumentali e utilitaristiche bensì suscitati da spontanei sentimenti affettivi. Come è noto l’essere umano ha da sempre esercitato, anche nei confronti dei suoi simili, comportamenti ambivalenti, improntati alla prepotenza, alla riduzione in schiavitù ma anche all’amore. Conseguentemente numerosi casi attestano che il passaggio all’addomesticamento animale abbia visto il sorgere di una spontanea alleanza, il nascere di una affezione reciproca non disgiunta dal sacrificio. Gli esempi sono disparati: il pastore e il suo cane, il cacciatore e il segugio, il nobile e il falcone, il mandriano e gli armenti, il mulo e il montanaro, la massaia e il pollame e così via. Specialmente oggi per combattere la solitudine esistenziale viene consigliata la terapeutica compagnia di amici-animali. Assistiamo giornalmente al propagarsi di nuove iniziative promosse da un associazionismo animalista che combatte con determinazione e reclama, anche in piazza, trattamenti meno crudeli e comprensivi da riservare a questi compagni di viaggio. Infatti qua e là permangono ancora forti sacche di resistenza favorite, più che da larvate forme di razzismo biologico, da un mai sopito prometeico egoismo e da un edonismo economico, non più giustificabili dall’ormai acquisito incontrastato predominio antropico esteso a tutto il pianeta. La malvagità gratuita dell’uomo non trova più attenuanti nella necessità biologica ma nei precedenti biblici, derivati dall’aggressività di Caino. Sebbene ogni comportamento di prepotenza gratuita verso il mondo animale vada condannato occorre altresì considerare che comprensione non significa equiparazione. La matrice comune che ha portato alla coabitazione non pregiudica il fatto che la natura e le esigenze prospettiche siano diverse. Alla stessa stregua non si ravvisa odio nel leone che sbrana la sua preda. Un tempo esistevano strette connessioni tra divinità e animale soggetto all’arte venatoria. Nelle società tradizionali (7), dal paleolitico fino quasi alla contemporaneità, il cacciatore non uccideva per piacere ma per difesa, per sfamarsi e in modo non superiore alle proprie necessità (8). In questo serbava coscienza d’aver compiuto un atto di bisogno al tempo stesso trasgressivo (9). Il sacrificio serviva a consolidare il rapporto con la divinità per l’animalicidio (10). Da qui la consuetudine di offrire agli Esseri Supremi un pezzo di ogni animale ucciso in quanto ...i sacrifici cruenti, praticati sia dai coltivatori sia dai pastori, ripetono in fin dei conti l’uccisione della selvaggina da parte dei cacciatori (11). La finalità era quella di attutire il senso di colpa, potersi riconciliare con lo spirito della preda e riequilibrare la stabilità dell’ordine naturale che era stato infranto.

  Le variazioni del panorama zoologico

Pur non avendo la pretesa di rimpiazzare esperti zoologi o etologi qualificati, ma solamente confrontando lo scenario animale odierno con quello faunistico che popolava la campagna al tempo della nostra prima infanzia, possiamo notare l’intervento di tutta una serie di sostanziali variazioni. In questi ultimi anni, le trasformazioni sono state favorite dallo sviluppo delle attività antropiche e dai cambiamenti climatici che hanno prodotto notevoli spostamenti della fauna selvatica. Tali mutamenti hanno comportato l’introduzione di nuove specie alloctone e il contemporaneo declino o la sparizione di altre autoctone. La percezione trova riscontro negli articoli della rivista di scienza e storia dell’ambiente padano che per quanto riguarda il Cremonese è documentata dalla rivista Pianura. Il fenomeno ha riguardato indistintamente vertebrati (caprioli, cinghiali, scoiattoli, ardeidi, rapaci, uccelli ecc.) e invertebrati (ragni, farfalle, insetti ecc.). Nel circondario alla sparizione del colubro liscio, all’estinzione dello saettone comune, derivati dalle alterazioni ambientali si è accompagnata la prima comparsa delle mantidi esotiche, del geco verrucoso e comune. Notevoli sconvolgimenti hanno prodotto nella fauna ittica l’introduzione di pesci siluro e di varietà estranee. Non meno problematiche sono state le sopraggiunte incursioni del visone americano e del gambero della Louisiana a cui ha fatto da contrappunto la quasi totale sparizione di rondini, faine, tassi, allocchi. Nei boschi superstiti lo scoiattolo rosso europeo sta scomparendo, soppiantato dall’avanzata di quello grigio americano. Da questa alternanza qualcuno non ha mancato di rimarcare una premonitrice sudditanza etnocentrica che apre ad un nuovo dominio culturale.

  L’animale dalle tradizioni aristocratiche alle leggende popolari letterarie e locali

Nel passato dalla condizione zooantropica si traevano, in positivo o in negativo, i caratteri, le qualità comportamentali che hanno finito per diventare stabili archetipi: il leone esprimeva il coraggio, la volpe/ astuzia, l’aquila/ superiorità, il cerbiatto/ leggiadria, il gatto/ agilità, il cane/ fedeltà, il topo/ furbizia, la formica/ laboriosità, ecc. Per contro l’onagro è fatto segno di pigrizia, il toro ha rappresentato l’irruenza, il maiale/ la sporcizia, la cicala/ lo sperpero, il lupo/ la malvagità, la lumaca/ la lentezza, il coniglio/ la codardìa, ecc. L’animale poteva assumere le forme più mostruose che popolavano la fantasia (12) oppure diventare una rappresentazione teriomorfa nel ruolo di antenato mitico. Faceva allora bella mostra di sé, raffigurato sui blasoni di famiglia. Gli stemmi araldici riportano frequentemente sembianze di leoni ruggenti, cavalli rampanti, draghi volanti (13) a cui si facevano risalire le lontane origini caratteriali della propria stirpe e nell’onomastica gentilizia abbondavano le derivazioni tratte dai bestiari locali (14). Solitamente una coppia di animali, dall’alto delle colonne laterali fiancheggiava cancelli e portali delle dimore patrizie, con il compito di vigilare l’accesso. Spesso agguerrite fiere o mansueti animali erano riprodotti nei picchiotti. I battiporta in sembiante di solerti guardiani della soglia allertavano la presenza di visitatori (15). Lascito della classicità miti greci e romani proponevano ibridi, per metà uomini e per metà animali, che occupavano un pantheon variegato, fatto di centauri, tritoni, sirene, chimere, fauni, minotauri, cinocefali ecc. Per tutto il medioevo la vasta gamma della zoologia reale o immaginaria è stata rappresentata sulle guglie e facciate delle cattedrali; la tradizione religiosa imputava corrispondenze tra queste presenze e i vizi o le virtù dei fedeli. La simbologia iconografica ha conservato giudizi e pregiudizi dall’evo antico e che ancor oggi nutriamo nei confronti di serpenti, scorpioni, lupi, aquile, cavalli, capre ecc. Nella letteratura dei più conosciuti racconti fiabeschi raccolti dai Grimm, Basile e Collodi la zoologia degli saggi aiutanti magici si alterna a quella dei diavoli o bricconi dispettosi e crudeli (16). Le Avventure di Pinocchio propongono una categoria di animali che giocano un ruolo essenziale e interferiscono attivamente, nel bene e nel male, a determinare le prove iniziatiche incontrate dal burattino-bambino. Nei racconti popolari non si contano le quantità di coppie miste. La leggenda dello sposo/a bestia, maschio o femmina, costituisce un significativo esempio. Quasi sempre il ritorno alla normalità avviene allorquando il partner umano sventa il tremendo incantesimo. La letteratura fantastica (17) annovera una grande varietà di orsi, ranocchi, asini e porcospini che si trasformano in altrettanti bellissimi principi e giovani aitanti; dietro le sembianze di un cigno, cervo, pesce, uccello, lupo si possono celare leggiadre fanciulle o terribili streghe. Grazie all’intraprendenza e all’intelligenza il protagonista o la sua compagna riescono sempre a rompere il sortilegio e ripristinano lo sconvolto ordine naturale formando una coppia felice. Tali storie magiche, secondo l’interpretazione di V. Propp (18), potrebbero celare la realistica pretesa di interventi decisi a raffinare e ingentilire i comportamenti del compagno di turno. Nelle storie narrate durante i raduni invernali nelle stalle, i protagonisti della più importante

Racconto popolare cremasco sono due animali: la cagnolina e il lupo. Rispettivamente corrispondono agli archetipi della furbizia e dell’ingordigia. Sottolineano come questi personaggi identifichino il secolare dualismo sociale tra il contadino, impersonato dal lupo (grezzo, forte, ingenuo, ingordo, prepotente, goffo) e la cagnolina (furbastra, debole, schizzinosa, imbelle, astuta e falsa). Questa dicotomia ripropone il dualismo presente nella tradizione popolare ed è in stretto rapporto con le secolari dispute folcloriche tra gagèt e schitì, ovvero tra villici e cittadini (19). Ancor oggi nel carnevale cremasco, manifestazione che si è mantenuta ininterrottamente e sull’onda lunga della consuetudine veneziana, gli animali costituiscono una compagine affatto trascurabile dei soggetti mascherati. Nel mondo alla rovescia delle maschere i ruoli si invertono le identità si mischiano. L’uomo assume le sembianze dell’animale e l’animale quelle dell’uomo (20). L’umanitarismo animalista negli ultimi anni è intervenuto affinché le oche, inseparabili compagne del gagèt, fossero sostituite da finte sagome di cartapesta, ma non sono rari gli esempi di cani, gatti, somari, cavalli, compagni dell’uomo, che dal vivo ostentano beffardi oggetti e motteggiano comportamenti che sono una esclusiva prerogativa umana. Anche sui carri allegorici le rappresentazioni non trascurano ma passano in rassegna tutti i rappresentanti della fauna domestica ed esotica. Quest’ultima costituita da elefanti, scimmie,coccodrilli, pappagalli, serpenti, né mancano le inquietanti mitiche rappresentazioni di draghi che ricordano i tempi remoti in cui si riteneva che terribili sauri sguazzassero indisturbati lungo le rive del mitico mare Gerundo.

  L’animale nella tradizione religiosa popolare e nella cultura folklorica

Gli animali allevati in cascina (equini, bovini, suini e avicoli) costituivano una rendita irrinunciabile alla sussistenza della famiglia contadina. I derivati alimentari e l’indispensabile aiuto offerto nel lavoro dei campi stavano alla base di questo sodalizio. Non deve quindi stupire se il cavallante nelle scuderie, il mungitore nelle stalle, la massaia nel cortile dialogassero amabilmente con essi. Prima ancora che i pedigree costituissero una regolare consuetudine il colono e la casalinga chiamavano per nome o con un vezzeggiativo ogni capo posseduto. A questi riservavano la precedenza e le solerti attenzioni riguardanti l’accudimento e l’alimentazione. Solo secondariamente venivano esaudite le esigenze parentali e quelle personali. A tali comportamenti non seguivano contrapposizioni nel considerare il sereno rapporto di convivenza con compagni con cui si divideva la quotidianità. Una esistenza ricca di gioie, speranze ma anche e soprattutto di privazioni e fatiche. Dal benessere di questi collaboratori dipendeva la sopravvivenza stessa dell’uomo e della famiglia. La salute dell’animale (da traino, da latte, da guerra) spesso era connessa con la vita dell’ambulante, del contadino, del cavaliere e conseguentemente la salute dell’intero gruppo familiare. La responsabilizzazione rendeva il padrone un alleato. Era invalso l’uso secondo cui la provvida regiùra (padrona di casa) chiamava con nomi di fantasia ogni gallina del pollaio. Allo stesso modo il mungitore e il cavallante battezzavano con famigliarità mucche e cavalli per i quali nutrivano sincero affetto. Questo sentimento era ben documentato negli ex-voto dei santuari locali (Pallavicina, Marzale, Misericordia, S. Maria della Croce, Ariadello, Caravaggio). Ancora intorno agli anni ’60 le pareti di questi templi periferici erano tappezzate dai quadretti votivi. La loro presenza testimoniava l’indiscussa bontà del santo patrono. Al soccorso celeste si ricorreva in casi estremi, quando le cure empiriche non sortivano più gli effetti sperati nella salvaguardia delle greggi e dei branchi decimati dal malrossino, dall’afta epizootica, dalla tubercolosi o da altre intossicazioni. Le gallerie delle pitture votive degli ex-voto costituiscono exempla alquanto emblematici. I mandriani sono raffigurati prostrati dal dolore, inginocchiati insieme ai loro armenti, anch’essi genuflessi nell’atto di sollecitare il provvido intervento divino. Manufatti semplici ma eloquenti, spie altamente significative e commoventi di atteggiamenti consuetudinari. Il numero di questi quadretti in cui sono rappresentati soggetti animali era rilevante. In base ad una indagine condotta dal Gruppo Antropologico Cremasco (21) costituivano un quarto dell’intera campionatura.

  L’animale nella società dei mass media

L’animale non sarà mai uomo, anche se l’uomo non sempre agisce e si comporta utilizzando la razionale intelligenza ma riesce spesso, con rapacità, a mortificare le sue prerogative. Un eccesso inverso ma altrettanto dannoso è quello di equiparare con attenzioni maniacali e affettazioni l’amico dell’uomo, sottomettendolo a rituali soffocanti e umilianti (pettinature, profumazioni, corredini insieme a fiocchetti, cappottini, scarpette e corredini ultima moda) che anziché procurarne il benessere esasperano la sottomissione, limitano e ne ridicolizzano la libertà. Il continuo processo di industrializzazione ha comportato l’urbanizzazione e lo spopolamento delle campagne. A questo allontanamento dall’ordine naturale è conseguito l’estinguersi del rapporto di diretta convivenza. Il risultato è stato l’abbandono di una esperienza conoscitiva millenaria che assommava la tradizione alla pratica dell’esperienza. Si è perso un patrimonio sapienziale maturato faticosamente, che non comportava conoscenze teoriche ma era frutto della frequentazione quotidiana, sviluppato all’insegna del buon senso. I cacciatori nomadi e gli agricoltori stanziali del neolitico possedevano conoscenze intorno alle abitudini reali del mondo animale e vegetale che ai più restano oggi precluse o sono divenute retaggio di pochi. La pubblicità moderna fin da bambini, ha abituato il pubblico ad assimilare concetti surreali e spesso menzogneri. I mass media diffondono storie assurde e fiabe ingannevoli così, venendo meno la frequentazione diretta, i più piccoli con difficoltà possono distinguere le notizie vere dalle false.

- Nei caroselli più diffusi una rinomata marca di cioccolato presenta pascoli popolati da mucche dal manto viola.

- I cani di razza bassotto sono diventati araldi delle piccole e comode rate per ottenere mutuo bancario.

- Il tonno ha abbandonato il nuoto nei mari aperti e oggi nasce direttamente, già confezionato, in scatolette metalliche sott’olio. - I pulcini neri cadendo nel mastello del bucato si lavano e ricompaiono bianchi. - I segugi non si limitano ad aiutare il cacciatore, scovando la preda ma divenuti supereroi del risparmio danno validi consigli per la spesa quotidiana. - I topi dei cartoni animati sono intelligenti, amabili e sempre più furbi dei gatti. - I galli di una nota marca di riso alimentare non cantano più al suono di “chicchirichì” ma di “chicchi-ricchi”. Di fronte ad un disarmante panorama, così vasto e fatto di seducenti mistificazioni non dobbiamo meravigliarci che le ultime generazioni di giovanissimi crescano disorientate.   Un bestiario poetico nel vernacolo

Sorgono domande e riflessioni relative a calzanti paragoni diacronici così come vengono proposti nell’anteprima di un bestiario costituito da poesie dialettali (22). L’analisi considera le peggiorate condizioni ambientali, affronta le problematiche di una crescita illimitata fine a se stessa. L’inquinamento terrestre, la lenta e inesorabile scomparsa della biodiversità sono fenomeni attentamente vagliati insieme alle abitudini, all’aspetto e all’indole degli animali. Entra in gioco la dimestichezza che ha caratterizzato l’equilibrio naturale. Popoli tradizionali, come ad esempio i Pellerossa, in osservanza al Grande Spirito della natura, per millenni hanno calpestato la terra lasciandola come l’avevano trovata (23). Essere in sintonia con l’universo, grazie alla religiosità presente nella sapienza antica, è l’equilibrio, la misura che ha saputo conciliare l’umanizzazione dell’animale con l’animalizzazione dell’uomo. Un processo, che sta alla base dell’esperienza millenaria assimilata dalla ruralistica e ha trovato prova concreta nello sterminato numero di calzanti metafore verbali che accompagnavano il lessico quotidiano. Tale consuetudine ha assunto valore rafforzativo nei perentori modi di dire e nelle sentenze proverbiali (24). Gli esempi sono infiniti. Le nostre nonne frequentemente nel frasario quotidiano ripetevano:

A ès bu s’è bo, bufà gref tàm mè ‘na tenca, mȍt cumè an pès, ampadelent cumè ‘n ròi, fűrbo cumè al rat da culmègna, nigre tan mè an quarnàc, menagram cumè an sietù, scalcagnàda cumè la raböba, stűfù cumè ‘na sensala, ès cumè an ca rabius, ‘ngurd cumè an sat, curiùs mè le pole òrbe,strach cumè ‘n sumàr, fresùsa cumè ‘na gata,lȍstre cumè an panaròt, ecc. ecc..

Ogni elegia coglie in pieno non solo le qualità fisiche dell’animale, ma sottolinea le peculiarità primarie archetipiche che ne sintetizzano l’universalità totemica. I testi sono lontani dall’assecondare presunte pretese animaliste quanto dalla indifferente sete di sfruttamento, idealità care alle opposte tendenze che occupano il pensiero moderno. Indubbiamente tali campionature possono aiutarci a considerare approcci più adeguati, a rivedere le condizioni relazionali con questi coabitanti della superficie terrestre. Le barriere protettive, l’esasperante asetticità, la supremazia etnica, l’isolamento individualista professati dalla modernità sono servite a garantire l’umanità dalle ipotetiche aggressioni e dalle eccessive interferenze del mondo esterno, per contro l’hanno privata di una ricchezza di sentimenti, confidenze ed affetti. Sarebbe forse utile, grazie alle osservazioni poetiche, rivedere i futuri programmi. L’antitetica prospettiva potrebbe prefigurare un regno solitario, popolato dai superstiti di una vittoria che ci ha privato però di tante amicizie. Nei ritratti poetici scritti con immediatezza e precisione, dedicati ad un coleottero che quotidianamente ci affrettiamo a calpestare, ad un animale da cortile o ad una fiera, incontriamo la ricchezza espressiva di un mondo popolare che reca intatte doti di innata arguzia e genuina purezza, distanti anni luce dalle mode utilitariste e consumiste che spesso ipocritamente preoccupano la quotidianità. Dietro queste tracce scorgiamo la dote di chi ha saputo cogliere il vero significato della vita. Sono piccole immagini da salvaguardare, fissare nella memoria e se possibile trasmettere perché rappresentano la vera ricchezza di un grande lascito.

Note: 1 )A. De Benoist, Uomini e animali, Diana Ed., Bologna 2014, p. 47. 2) Y. Christen, L’animal est-il une personne?, Flammarion, Paris 2009, p. 352. 3)G. Locchi, Ethologie et sciences humaines, in Nouvelle Ecole, 33, 1979, p. 64. 4) A. Schopenhauer, Le monde comme volontè et comme representation, PUF, Paris 1966, p. 67. 5 )M. Heidegger, I concetti fondamentali della metafisica, Adelphi, Milano 2000. 6) Sul significato simbolico degli animali: A. Cattabiani, Bestiario. Dialoghi sugli animali simbolici, Editoriale Nuova, Novara 1984.
  1. Charbonneau-Lassay, Il bestiario del Cristo, Voll. I,II, Ed. Arkeios, Roma 2001.
7) Per il concetto di società tradizionale intendiamo quello espresso da René Guénon nella sua vasta e complessa opera. 8 )P. Galloni, Storia e cultura della caccia, Ed. Laterza, Bari 2000. 9) M. Centini, Animali Uomini Leggende, il bestiario del mito, Xenia, Milano 1990, p. 30. 10) M. Mauss, L’origine dei poteri magici, Newton Compton, Roma 1977, p.75. 11 )M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Vol. I, Sansoni, Firenze 1979, p. 48. 12) U. Aldrovandi, Mostri, draghi e serpenti, a cura di E. Caprotti, Ed. Mazzotta, Milano 1980. 13) M. Lunghi- W. Venchiarutti, Storie parallele. Uomo e animale in cammino dal totemismo universale all’araldica cremasca, in Insula Fulcheria N°XIX. Leva Artigrafiche, Crema 1989, p. 87. 14) Alcuni esempi: Griffoni, Passerotti, Draghi, Codelupi, Quaglino, Lucini, Zurla (da zurlino= merlo),Marazzi (da Marrazzo=uccello da palude), ecc. 15) W. Venchiarutti, I guardiani della soglia, in Quaderni della Geradadda N.24, Grafiche GM, Spino d’Adda 2018, p. 217. 16) V. Propp, Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton Ed., Roma 1977. 17 )S. Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, Il Saggiatore, Milano 1967 18) V. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Ed. Boringhieri, Torino 1972. 19 )W. Venchiarutti, Longobardi e longobardismi, spunti e suggestioni antropologiche nelle consuetudini del Cremasco, in Insula Fulcheria N. Walter  Venchiarutti

Per una concezione spirituale della vita – Balbino Giuliano, Guido Ferrando, Arturo Reghini (a cura dell’Associazione Culturale IGNIS)

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Le Conferenze a cura di Roberto Sestito

Prefazione

Le conferenze pubblicate in questo volume, sono parte di un vasto ciclo di letture tenute durante il 1907 nella sala della Biblioteca Filosofica di Firenze. Di tali letture molte hanno già visto la luce in periodici e riviste italiane, o in pubblicazioni separate; ed ora queste sei, che per l’unità fondamentale dell'argomento trattato e per lo spirito che le anima, formano un tutto armonico, riunite in un volume vengono presentate al pubblico a cura della stessa Biblioteca Filosofica.

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Con questa sua prima pubblicazione la Biblioteca Filosofica comincia ad attuare un nuovo lato del suo ampio programma che è quello di cooperare efficacemente e direttamente al rinnovamento della cultura nazionale.

Sorta con questo intento precipuo, la Biblioteca Filoso-fica, eretta in Ente Morale con R. Decreto del gennaio scorso, ha saputo in breve tempo affermarsi nel campo del pensiero italiano come fattore notevole di alta e serena educazione spirituale e intellettuale. Educare non è già istruire; e se purtroppo i così detti istituti di cultura in Italia, sono riusciti a creare un acuto dissidio tra educa-zione e istruzione e hanno reso quest'ultima una cosa troppo spesso vuota ed inutile separandola dall'esperienza pratica della vita e privandola di ogni contenuto spirituale, tanto più vivo e sentito è il bisogno di una istituzione che si adoperi efficacemente alla formazione del carattere e della mente dell'individuo e che tenga alto, ben alto, l'ideale della vera cultura. Questo è il compito che si è assunto la nostra Biblioteca: noi crediamo che educare significhi sviluppare armonicamente tutte le possibilità, tutte le facoltà dell'animo umano, e che per educare sia necessario possedere un ideale che ci illumini e una fede che ci sospinga. Noi crediamo che il valore d'un individuo possa esser determinato dall' elevatezza del suo ideale, come il suo carattere viene determinato non dalla bontà delle sue intenzioni, ma dalla forza e dalla sincerità dei suoi atti. Noi crediamo infine che la cultura sia il risultato ultimo di una compiuta educazione, la realizzazione del nostro ideale, l'attuazione pratica di tutte le nostre capacità ed energie. La cultura riguarda così il cuore che la mente, così l'animo che il cervello; è uno stato d'equilibrio in cui l'uomo può esplicare liberamente e con perfetta armonia la sua attività infinita. Essere colto significa essere uomo, aver sviluppato la propria razionalità; e solo la persona colta si trova in un'attitudine di perfetta rispondenza col mondo che lo circonda. Intesa così, la cultura costituisce la vera finalità dell'uomo, la nobile meta verso cui egli deve tendere con ogni suo sforzo. Ma per raggiungere, almeno in parte, questo fine altissimo che a molti parrà utopia, bisogna che i nostri sforzi siano armonizzati tra loro, sì che nessuna energia vada perduta, nessuna attività si svolga a danno delle altre.

Ora la Biblioteca Filosofica, che vuol esser centro di vera cultura, tende appunto a render possibile uno sviluppo completo di tutte le facoltà mentali e spirituali dell'individuo, e si serve di molteplici mezzi coordinati e armonizzati tra loro sì che si integrino e completino a vicenda. E così, oltre che col prestito dei libri la Biblioteca manifesta la sua complessa attività con conferenze, gruppi di studio, pubblicazioni. Il prestito dei libri offre il materiale di studio, materiale scelto con un criterio ben determinato, quello cioè di presentare allo studioso una raccolta per quanto è possibile completa delle opere dei grandi pensatori, dei veri mistici e dei sommi poeti, delle opere insomma, che hanno giovato all'evoluzione spirituale dell'uomo e che ci danno una visione alta e filosofica della vita.

Le conferenze, che si tengono ogni anno regolarmente nelle grandi sale della Biblioteca, sono espositive o critiche, mirano cioè o ad esporre in forma chiara e precisa il pensiero di un dato autore o a richiamare l'attenzione del pubblico sui problemi che più possano interessarlo e aiu-tarlo nella formazione della sua cultura. I gruppi di studio poi, che la Biblioteca ha formato ispirandosi al più sano eclettismo, danno modo di discute-re, e possibilmente di risolvere le questioni, i dubbi, le domande che la lettura dei libri e le conferenze hanno fatto sorgere nell’ animo dei nostri associati.

Vengono infine le pubblicazioni che hanno per scopo di allargare il campo d'azione della Biblioteca, interessando il pubblico italiano al nostro lavoro e facendo conoscere al mondo il pensiero e gli scritti di autori degni di essere letti e meditati. Così la nostra istituzione per la sua varia e pur armonica attività, può ben vantarsi di essere un centro di cultura spirituale, un fattore notevole nel rinnovamento della vita e del pensiero italiano.

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Questo volume che ora presentiamo al pubblico, ha tutti i difetti propri di ogni nuovo tentativo ed è ben lungi dal rappresentare l'attuazione del nostro ideale in questo campo, tanto più che le conferenze in esso comprese non furono tenute coll’ intento di esser poi date alla stampa. Pure queste sei conferenze, nonostante tutte le loro deficienze, dovute in gran parte al fatto che trattano argomenti troppo vasti per esser svolti nel breve giro di un'ora, hanno un significato ideale che forse potrà sfuggire al lettore disattento. Esse sono la glorificazione dell’energia creatrice dello spirito umano, e costituiscono un tentativo abbastanza riuscito di una concezione ottimistica della vita, basata sulle aspirazioni più profonde e irriducibili della natura umana. È a questo loro significato ideale che esse debbono la buona (o cattiva?) ventura di esser presentate al pubblico, perché ci e parso appunto che esse illuminassero in parte la mèta verso cui tende la nostra Biblioteca, che è quella di render gli uomini forti e liberi, padroni, per quanto è possibile, del loro destino.

FIRENZE, GIUGNO 1908.

Associazione Culturale IGNIS Amazon.it: PER UNA CONCEZIONE SPIRITUALE DELLA VITA: Conferenze - Balbino, Giuliano, Ferrando, Guido, Reghini, Arturo - Libri  

Cadmo e Armonia: il senso del Mito – Umberto Bianchi

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Qualcuno l’ha accusato di eccessivo intellettualismo, qualcun altro, invece, lo ha lodato al massimo livello, fatto sta che, al di là delle singole opinioni, andando a leggere questo libro, non si può non finire letteralmente trascinati nel gorgo delle storie mitiche che, una dietro l’altra, si snocciolano trascinando il lettore verso i lidi di un’altra dimensione. E’ quanto accade con la lettura de “Le nozze di Cadmo e Armonia” di Roberto Calasso, che ci apre le porte alla magica ed atemporale dimensione del mito greco. Con molta cura ed originalità, il testo narra e descrive a getto continuo ed in gran profusione, tutta una serie di miti ellenici ai quali, di volta in volta, conferisce degli spunti interpretativi, non senza intervallare il ritmo narrativo, immettendo qua e là, taluni spunti di riflessione “laica”, basati su vicende o aspetti della società greco-classica (come nel caso della pratica dell’omosessualità…) che,forse contrariamente alle intenzioni dell’autore, non scalfiscono minimamente quella che dell’intera narrazione mitica, rappresenta l’asse portante: e cioè la sua vocazione, integralmente archetipica e simbolica. Si inizia con la narrazione del mito del ratto di Europa, sul dorso di Zeus trasformatosi per l’occasione in un bianco toro, e via via, si procede a snocciolare le innumerevoli versione con altrettanto innumerevoli finali. Si passa poi, in crescendo alla figura di Arianna, vergine ed amante dell’eroe Teseo e di Dioniso, e delle altrettante sue versioni. Suicida per amore, a seguito dell’abbandono di Teseo o uccisa da Dioniso, dopo esser divenuta la sua amante, o intrepida combattente e baccante accanto al dio dell’ebbrezza. In un continuo crescere, il mito greco si rivela ai nostri occhi, in un’infinità di figure e di concatenarsi di eventi, tutti egualmente animati da una logica simbolica, ben lontana, pertanto,  da certe interpretazioni evoluzioniste che vedono nel politeismo antico, una forma di involuta e pertanto, immatura religiosità.

L’immagine di Zeus che pare intento alla spasmodica ricerca di amanti con cui accoppiarsi continuamente,sino alle figure di giovanette e giovanetti che, da amanti o pretendenti della mano di un dio,vengono da quest’ultimo, in altro trasformati o, addirittura, uccisi. Si va dalla moltitudine di donne che, da compagne fedeli di eroi e re, finiscono con il divenire le loro assassine, come nel caso di Medea e Clitemnestra e delle Danaidi. Le gesta eroiche di Apollo, Eracle, Teseo, Giasone, Bellerofonte, volte ad abbattere mostri, sino alle tragiche saghe familiari degli Atreidi Tieste ed Atreo, in cui il mostro da abbattere è il sangue del proprio sangue. La guerra di Troia, falciatrice di eroi e di virtù guerriere, sotto la supervisione degli Olimpi, accanto ai misteri di Eleusi ed alla storia del rapimento di Core fanciulla da parte di Ade, re dell’Oltretomba, fratello di Zeus ed al suo periodico rilascio che, nel far visita alla sua augusta madre Demetra, mette in moto la rinascita di una natura addormentata dal mortale freddo invernale. E l’immedesimazione di Zeus fanciullo, nella grotta sul monte Dikteo a Creta, con suo figlio Zagreo, ucciso, squartato e divorato dai Titani e che rinasce come Dioniso…Tutto questo e molto più, ci indica che quella classica è  la mitologia della trasformazione; è la più pregante espressione di un’estroflessione dell’Essere in mille e mille aspetti che si rincorrono, si incontrano, si annullano vicendevolmente, per poi ricomparire trasformati e continuare all’infinito. Nel suo palesarsi, la mitologia classica, si fa espressione di un’apertura al molteplice, agli infiniti aspetti di una realtà in continuo mutamento, senza pari. Ed in questo contesto, rientra anche la sfera della sessualità. Il principio primo divino (in quel momento Zeus…) si accoppia continuamente con un’infinità di fanciulle o deità, lasciandoci intravvedere la capacità di espressione dell’uno nel molteplice. Le stesse vicende di omosessualità, incesto e via discorrendo, sono viste quali espressione di un continuo “solve et coagula” di forze identiche ed opposte, in un perenne auto annullamento dell’ “io” ed in un suo altrettanto perenne rinnovarsi.

Importante, a questo punto, il tenere a mente quanto l’autore ci fa notare sulla peculiare natura del corpus mitologico classico: esso non è di unica spettanza del tempio, al contrario di quanto accade in Egitto, India e in minor misura, in Mesopotamia, ove i centri templari si fanno interpreti e diffusori dei mitologemi e delle loro implicazioni teologiche. Nell’Occidente greco-latino a farla da padrone sono gli aedi, quegli oscuri cantori, che si tramandano nel silenzio e nell’oscurità di secoli senza storia, motivi archetipici che risalgono alla notte dei tempi, probabilmente alla stessa genesi delle varie specie umane sul pianeta Terra. Omero, Esiodo, Plutarco, Pausania e via via altri, altro non fanno che raccogliere e ripetere, quanto l’atemporale vento senza tempo del mito, va soffiando nelle orecchie di coloro che possono e sanno ascoltare. La cecità di Omero è virtù pura, perché apre in lui quel terzo occhio dell’anima, che la illusoria visone della Maya della circostante realtà, avrebbe obnubilato. Quella virtù gli fa vedere eroi e Dèi, in guerra,  come in pellegrinaggio, alla ricerca di quel sapere che illuminando l’anima, dà senso e direzione all’agire dell’uomo nel mondo, così come accade per Odisseo, colui che rifiuterà la statica condizione dell’immortalità, offertagli dalla ninfa Calipso in Ogigia.

Sì, perché se ce ne fossimo dimenticati, per i Greci la perfezione sta nel limite, nell’antropomorfico contenimento della sostanza divina nell’infinità delle umane forme, ma anche degli oggetti in terra e degli eventi. La mitologia greca è quindi espressione di questa “finità dell’infinito”. Di uno stesso motivo, esistono una molteplicità di versioni. Tutto si interseca e corre. Qui non esistono “libri sacri”, perché, come abbiamo già rilevato, è l’archetipo e lo stesso inconscio dei popoli a palesarsi, senza soluzione di continuità.

Gli Dei stessi, sono destinati a succedere l’uno all’altro. Urano viene spodestato da Crono-Saturno, a sua volta spodestato da Zeus, che dopo aver precipitato i Titani nel Tartaro, diviene il Padre ed il generatore sommo degli Dei Olimpi. Quello stesso Zeus che, a detta della mitologia orfica, sogna e vede il mondo prima di lui, diviso nel Chaos primordiale in cui, soli presenziavano Tempo senza Tempo ed Ananke- Necessità, dal cui coito, nasce Fanes-Protogonos, il “primo nato”, la “luce dell’apparire”, dalla cui copula con Notte, nasceranno Gea ed Urano,  a cui succederà con violenza, Cronos-Saturno, destituito poi da Zeus, al quale, in seguito, riuscirà ciò che a nessuno, tra gli Olimpi era prima riuscito: accoppiarsi con  Ananke-Necessità. Ma lo stesso Zeus sa e teme, il proprio Fato che, predettogli dalle Parche, prevede la sua sostituzione da parte del figlio di un eroe semi-divino (Achille?....) ed a poco servirà quindi, l’aver incatenato sul Cucaso il Titano Prometeo…

Ecco, gli infiniti aspetti della realtà si congiungono, sostituendone altri. Quello stesso Essere si fa sostanza sfuggente, ogni volta che una ninfa o una fanciulla vengono sacrificate o in altro trasformate. Quegli stessi motivi che riguardano l’antropofagia o l’uccisione per squartamento, anche in questo caso, altri non stanno a significare che l’annullamento della singolarità ontologica e la sua dispersione nella molteplicità, sino al totale ricongiungimento nell’armonia cosmica, così come accade per tutte quelle uccisioni di eroi da parte di personaggi femminili. L’elemento femminile, a sua volta, in quanto generatore di nuova vita, ha la funzione di sopprimere qualunque elemento sovrasti l’armonia rappresentata dal limes cosmico. E così, alla strabordante e sovrumana fisicità di Eracle, verrà posto un termine da Deianira. Lo stesso uccider mostri, è un riportar ordine ad un turbamento, che riguarda sia l’ordine microcosmico, afferente all’animo umano, che quello esterno, macrocosmico. Ben lontano, dunque, da una ingenua ed involuta interpretazione della realtà, il mito si fa atemporale e simbolica descrizione di essa, in virtù del fatto che le strutture di pensiero degli antichi erano peculiarmente differenti dalle attuali nostre. Secoli di razionalismo e di empirismo, ci hanno portato a ragionare per unilineari e consequenziali “griglie” di pensiero, che ci rivelano ogni aspetto della realtà, nella sua singolarità e non in rapporto con il Tutto.

Gli antichi, invece, non conoscendo questa modalità di pensiero e avendo necessità di dare un senso al mondo, riunificavano e sintetizzavano i vari aspetti di una specifica realtà, nel simbolo (dal greco “sun-ballw/metto assieme”) che, in tal modo costituiva il metodo più abbreviato per descrivere ciò che, a parole, sarebbe stato impossibile a descriversi. La manifestazione più immediata del pensiero “simbolico” era data dalla conoscenza iniziatica, che, attraverso i misteri, spalancava le porte alla comprensione dell’Essere e ad una più profonda e partecipata osmosi con l’elemento numinoso. Gruppi mitici come Dattili, Coribanti e Menadi, ma anche eroi come Eracle, Giasone e Teseo, erano tutti o lo divennero in corso d’opera, tutti iniziati ai vari Misteri del tempo.

Questo, almeno, sino all’avvento della filosofia e della mediazione concettuale e linguistica, derivanti dal progressivo allontanamento e distacco dell’animo umano, da un rapporto di immediata interazione con l’Essere. Da allora in poi, la conoscenza simbolica, sempre più avrebbe dovuto convivere con un altro tipo di conoscenza. Resta lo stimolo alla riflessione sull’essenza del mito, che il testo del Calasso ci ha qui offerto. Di fronte ad una visone ciclica del Cosmo e degli eventi che coinvolgono gli Dei stessi, di contro ad una finalistica unilinearità, di fronte ad una visione aperta alla Molteplicità,di contro ad una soffocante unicità e monotematicità, nonostante i già accennati tentativi di renderne appetibili e apprezzabili alcuni aspetti, in un’ottica di occidentale e spettacolaristico, insensato esistenzialismo, si viene posti di fronte ad una ben differente visione della realtà.

Un fatto questo che, con buona pace dei portatori d’acqua, di un quanto mai raffazzonato evoluzionismo culturale, ben poco ha a che spartire con il desolato panorama offerto da una grigia e malaticcia Post-Modernità…

UMBERTO BIANCHI

L’orbo e il monco – Rita Remagnino

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Alzi la mano chi negli ultimi mesi non ha scosso la testa almeno una volta davanti all’infimo spettacolo offerto dagli illusionisti della politica. Il discorso vale per tutte le democrazie occidentali, nessuna esclusa. Ormai i capi, cioè le persone in vista che si gloriano di fare parte della cosiddetta «classe dirigente» della società, sono delle macchiette. I loro maneggi per rimanere a galla toccano vette d’ilarità mai raggiunte in precedenza. Idem dicasi per la «realtà dominante», che per apparire più reale delle altre deve continuamente difendersi dagli attacchi degli oppositori, e nel fare ciò è talmente ridicola che è impossibile non sorridere davanti al susseguirsi incessante delle sue azioni maldestre. Come non pensare ai tempi remoti in cui l’uomo era disposto a «dare un occhio, o un braccio» per chi lo guidava. Nel caso in cui fosse in gioco l’incolumità e la sopravvivenza del gruppo, anche tutti e due. L’accoppiata «orbo-monco», infatti, è un classico della narrativa mitologica e tradizionale eurasiatica. Messe insieme queste figure simboleggiano le prime due funzioni sovrane della cultura indoeuropea, ovvero quella magico-giuridica (l’occhio) e quella guerriera (il braccio), nonché tutte le forme di sacrificio rituale ad esse connesse. Il monocolo più famoso d’Europa è senza dubbio il nordico Odino, ritenuto dai suoi contemporanei «colui che conosce più cose al mondo». Secondo i bardi che ne cantavano la gloria, il sovrano sapeva recitare melodie che rendevano malleabili le rocce, spostavano le pietre, calmavano le acque, aprivano i tumuli e abbindolavano i nemici in battaglia «legandoli con un laccio invisibile». Esclusa l’origine aliena del re degli Æsir, rimane percorribile solo la strada dell’iniziato, cioè del «conoscitore di tutte le cose del Primo Tempo». Inclusa la famigerata scienza sonica appartenuta ai primi dèi-civilizzatori, i quali sollevavano in aria pietre che mille uomini non sarebbero riusciti a spostare attraverso giochi di onde sonore a noi sconosciuti. Si vedano certe pratiche riconducibili ai sacerdoti Bön-po, o a quelli di On. Da vero campione di un’umanità nuova, solare e bellicosa, riunita sotto il sigillo dell’utopia e rigenerata attraverso la scienza, Odino esordì sul palcoscenico della Storia con uno «smembramento rituale», quello del gigante primigenio Ymir, la cui carcassa servì a ri-forgiare Cielo e Terra. Un gesto pregno di suggestioni sciamaniche. Ma i tempi erano molto cambiati da quando Purusha si era «diviso» in due per «liberare» i contrari necessari a dare una fisionomia all’universo. Senza contare che il grande re, in qualità di essere non-presente all’origine della Creazione, non era neppure un uomo cosmico. Per questo motivo dovette sacrificare se stesso per ottenere le rune.

Profondamente coinvolto nel grande dramma succeduto alla catastrofe che aveva segnato la fine di un mondo, Odino fu il riformatore che diede l’avvio alla «seconda epoca» dell’uomo, quella propriamente storica. A questo scopo “rimase appeso all'alto tronco sferzato dal vento del frassino Yggdrasill per nove intere notti, ferito di lancia” (un rituale che fa pensare alla Wiwanyag Wachipi, la Danza del Sole dei Pellerossa). Offrì anche uno dei suoi occhi alla sorgente di Mímisbrunnr, fonte di ogni sapere, in cambio della sapienza pura, primordiale e originaria. Un gesto potente poiché la perdita della vista, o di parte di essa, nella più remota antichità eurasiatica si accompagnava alla comparsa di una percezione ben più acuta e importante: quella dell’occhio interno, il «terzo occhio», che permetteva di guardarsi dentro ottenendo il massimo della sapienza. Molti sono i ciechi dotati di singolari proprietà compresi nelle mitologie di origine indoeuropea. A cominciare dall’indiano Bhaga, il dio cieco che conquistò il potere di comandare il futuro grazie alla sua menomazione. Era un non vedente anche l’indovino tebano Tiresia. Mentre il legislatore Regulus narrato da Plinio il Vecchio, per pronunziare le sue sentenze di carattere «magico» usava dipingersi a mo’ di benda un ampio cerchio intorno a un occhio. Altrettanto diffuso nelle narrazioni tradizionali eurasiatiche è il profilo di un dio/uomo, o di un eroe, che perde un arto o una mano per proteggere e conservare l'ordine cosmico-sociale all’interno del suo gruppo. Si pensi ad esempio a Týr, uno dei massimi rappresentanti della funzione guerriera, che perse una mano in battaglia cacciandola incautamente nelle fauci del lupo Fenrir. Emblematica sotto questo aspetto appare una storia importata in Europa dagli invasori sciti Túatha Dé Dánan, eredi spirituali di quei «popoli delle steppe» che sparsero il loro seme per tutta l’Eurasia a partire dal IV millennio a.C., i quali strapparono agli aborigeni Fir Bólg il dominio sull’Irlanda, la mitica Ériu.

La stirpe guerriera dei Túatha apparteneva probabilmente alla variegata famiglia etnica che una volta l’anno (stando ai racconti di Erodoto) immolava vittime umane dinanzi a un’immensa catasta di fascine dominata da una spada, simbolo della guerra. L’uomo da sacrificare veniva scelto tra i «nemici più accaniti», cioè tra i prigionieri che si erano distinti in battaglia per ferocia e crudeltà. Prima gli si versava del vino sulla testa, poi lo si sgozzava sopra un vaso. Il celebrante saliva quindi sulla catasta di fascine e irrorava la sua spada con il sangue della vittima.  Quando invece le sorti della battaglia volgevano al peggio, si cercava di tagliare il braccio destro con la spalla al re o al campione che guidava l’esercito nemico. L’arto veniva lanciato in aria e poi lasciato cadere a terra tra urla di disprezzo e grida oscene. Un’azione rituale in piena regola. Incappò in un simile incidente persino il leggendario re Nuada mac Echtain. Ucciderlo sarebbe stato controproducente perché i bardi lo avrebbero glorificato, tramandando il poema delle sue gesta per chissà quante generazioni. Mentre sfregiarlo un attimo prima del trionfo equivaleva ad umiliare con un ultimo atto d’orgoglio sia il campione che la sua stirpe, dando un gusto amaro alla vittoria. Ma in questo caso gli aborigeni Fir Bólg non avevano fatto i conti con le conoscenze sciamaniche degli invasori Túatha, i cui medici e fabbri di corte si lanciarono subito in un delicato intervento chirurgico. Il guerriero ne uscì con un braccio d'argento con tanto di mano e dita mobili, ma il regno non era più nelle sue mani. A quei tempi era inconcepibile avere un invalido sul trono. Nel mondo indoeuropeo il principio della sovranità temporale era percepito come il prolungamento di un’autorità famigliare perfettamente integra. In qualità di «padre del suo popolo», il re doveva godere di una buona salute mentale e fisica per esercitare la potestà genitoriale. Il concetto di «diversamente abile» non era ancora nato, per cui perdere una mano in battaglia, o tagliando la legna nel fienile, costituiva un motivo più che valido per lasciare lo scettro del comando e tornare a fare l’allevatore di capre. Nessun re doveva essere inoltre troppo vecchio per reggere il peso di una spada. La vecchiaia nell’Età del Metallo era una iattura da cui rifuggire, non solo per chi l’attraversava ma per l’intera comunità. I gruppi umani erano spesso in movimento e perennemente in guerra, avevano bisogno di uomini e di donne fisicamente efficienti che combattessero, lavorassero e si riproducessero con facilità. Nel gruppo quando un soggetto maschio toccava i sessant’anni di età (eventualità assai rara in tempi in cui la morte in battaglia giungeva sempre prematura), pensava lui a togliersi di mezzo, senza aspettare che i suoi figli lo facessero al posto suo. Tra le morti più onorevoli vi erano il salto rituale giù da una montagna o l’ultimo tuffo nel mare dall’alto di una roccia.

Privato del potere il povero Nuada passava le giornate a sospirare pietosamente, esaminandosi la protesi vergognosa che aveva minato alle radici il suo valore di capo spirituale e di combattente. Finché un giorno si presentarono alla sua porta due guaritori stranieri. Tu trova un braccio umano di uguale lunghezza e spessore, gli dissero, e noi ricostruiremo il tuo come nuovo. Furono prese le misure a tutti, decidendo alla fine che il braccio compatibile era quello del porcaro Modan. Un chirurgo fu mandato allora a tagliare l’arto adatto per portarlo ai guaritori venuti da lontano. Rimesso a nuovo Nuada divenne re per la seconda volta, risollevando così le sorti politiche della leggendaria stirpe dei Tuatha De Danann. Mentre Modan, la cui vita terrena sarebbe altrimenti finita senza scalpore, entrò legittimamente nella Storia. Correva l'anno 3311 dalla Creazione del Mondo, ovvero 1887 anni prima della nascita di Cristo. O, almeno, così raccontavano i bardi.  Una soluzione del genere oggi sarebbe improponibile. Non per niente l’antico detto popolare “darei il braccio destro per …” si è trasformato in un confuso “darei non so che cosa per …”. Inadeguatezza e mediocrità sono la cifra dell’Età Oscura, e menomare qualcuno in nome di una cosa o di una persona insignificante non avrebbe alcun senso. Diversa era la situazione quando alla guida di un popolo c’era il Migliore, l’Eroe che infiammava il cuore del popolo, il Re capace di fare la storia anziché un Signor Nessuno reclutato all’ufficio di collocamento. Solo una guida autorevole, un «capo» integro nel corpo e nella mente, poteva celebrare il Sacro in nome della comunità, ricevendo stima e rispetto in cambio. Solo ieri affermazioni simili avrebbero fatto drizzare i capelli in testa agli antifascisti in assenza di fascismo. Ma la paura di un virus, cioè della morte, sta cambiando molti punti di riferimento. Cresce l’insofferenza verso i potentati anonimi che dominano l’umanità e il disgusto per le fabbriche di opinione. Non va meglio per le istituzioni, enti astratti svuotati di significato. Anche le scienze vacillano, non potendo offrire certezze, mentre le socialdemocrazie costrette a taroccare le elezioni per rimanere in sella sono sempre meno rispettabili. Per chi/cosa si dovrebbe dare un occhio o un braccio? Ormai sono un ricordo lontano certe aristocrazie dell’antichità, autorevoli senza essere sprezzanti, i veri sovrani senza affettazione né albagia, la sana e laboriosa borghesia, il popolo genuino dotato di buon senso. Tutto morto e sepolto perché la Cupola si è pappata le categorie umane con tutto quello che c’era dentro. E comprensibilmente nessuno sacrificherebbe un’unghia per chicchessia, né per il bene del «suo» gruppo, non essendoci più alcun gruppo da salvare. Uno vale uno, è il nuovo dogma. Quando, invece, uno vale niente perché la società non sa cosa farsene della monade.

Ma la storia di Nuada non è finita. Un giorno si presentò alla sua corte un campione di nome Lúg Lámfada, che letteralmente significa «Lúg lunga mano», il cui nonno era Balor, re dei Fomóraig, una stirpe autoctona di antiche origini europee che depredava senza sosta alcuni territori dell’isola, imponendo tasse insostenibili alle tribù sottoposte al suo protettorato. Il ragazzo aveva un bell’aspetto e sfoggiava una parlantina sciolta. La potenza guerriera in lui pareva fluire sotto la pelle in fiammeggianti lingue di metallo fuso. Ma al netto della prima buona impressione, Núada volle metterlo alla prova. A quei tempi non esistevano i curricula e ciò che si diceva di saper fare bisognava poi dimostrarlo nei fatti. Al giovane venne proposta dunque una gara a fidchell, il «legno dell’intelligenza». Un gioco da tavolo simile agli scacchi che fu inventato dai nobili, a quanto sembra, per ingannare il tempo tra un attacco e l’altro durante la lunga guerra di Troia. Avvenuta, guarda caso, proprio in concomitanza con la battaglia di Mag Tuired (in lingua gaelica, Cath Maige Tuired) con cui i Túatha conquistarono Ériu. Per i guerrieri nordici di stirpe reale vincere una sfida a fidchell era una specie di obbligo di Stato, in quanto l’intelligenza era considerata emanazione della regalità. Ma anche i re d’Oriente erano soliti scambiarsi gli enigmi tra di loro come se fossero dei doni preziosi. Complicati rompicapo venivano proposti inoltre ai pretendenti di una sposa reale poiché il matrimonio dipendeva dalle capacità intellettive del giovanotto. Gli stessi oracoli si esprimevano in modo enigmatico, e sarebbe un vero spasso poter osservare oggi senza essere veduti la faccia di un campione dell’antichità davanti ai discorsi sconclusionati della politica. Lúg vinse la partita, insinuando nella mente di Núada il pensiero che forse quel giovane brillante e lontanamente imparentato con i Fomóraig avrebbe potuto aiutarlo a sbarazzarsi per sempre dei molesti vicini. Fu riunito il Gran Consiglio nella Sala dei Banchetti della fortezza di Temáir, e dopo un acceso confronto si giunse alla decisione di cedere la regalità a Lúg a tempo determinato (tredici giorni) allo scopo di risolvere il problema. Il giorno di Samhain (il 1°novembre, quando cominciava la metà «oscura» dell’anno) gli eserciti dei Túatha e dei Fomóraig si schierarono uno contro l’altro nella piana di Mag Tuired, dove trent'anni prima i Túatha avevano sconfitto i Fir Bólg. Purtroppo Núada morì nel corso di un combattimento con Balor (re dei Fomóraig e nonno di Lúg), il quale morì a sua volta per mano del nipote che, ignaro dell’identità del reale antenato, gli fece saltare la testa con un tathlum, una palla che i guerrieri ottenevano cementando il cervello dei nemici uccisi. La vittoria non servì purtroppo a fermare il declino dei Túatha, ormai bene avviati sul viale del tramonto, che finirono per dissolversi nel rimescolamento delle stirpi di quei giorni bellicosi e raminghi. Nonostante qualche bene informato sostenga ancora oggi che i loro discendenti continuino a giocare a fidchell in un misterioso regno sotterraneo. Ma questa è un’altra storia.

Troppe per essere casuali sono le analogie tra la biografia del celta Lúg (che significa «il luminoso») e il mito di Perseo, l’eroe solare che indossava il berretto frigio come Mitra e i Magi persiani. A Balor, signore dei Fomóire, viene profetizzato dai veggenti reali che morirà per mano del figlio di sua figlia e per questa ragione il re segrega la primogenita Ethné nella torre di Tór Mór, vietandole di incontrare qualsiasi individuo di sesso maschile. Ad Akrísios, re di Argo, viene predetto che morirà per mano del figlio di sua figlia e per questa ragione il sovrano segrega la giovane Danae in una torre inaccessibile, vietandole di incontrare qualsiasi individuo di sesso maschile. A dispetto delle precauzioni, il prode Cian penetra nella torre e si unisce a Ethné, che subito rimane incinta. Trasformatosi in una pioggia d'oro Zeús visita la bella Danae, che ben presto partorisce un bimbo. Balor ordina che il neonato venga gettato in mare e annegato. Re Akrísios ordina che madre e figlio siano rinchiusi in una cassa di legno e gettati in mare. Il bimbo celta cade fuori dal fagotto, viene trovato piangente in una baia e diventa un campione. Le onde greche trasportano la cassa sull'isola di Serifo, salvando madre e figlio, che crescendo rivela la tempra di un giovane eroe. Dopo qualche anno la profezia si avvera: Lúg scaglia un dardo e uccide Balor, ignaro di esserne il nipote; Perseo centra accidentalmente con un giavellotto il nonno Akrísios nel corso di una gara. L’ennesima similitudine sta nello sguardo letale delle vittime: Balor ha il potere di uccidere chiunque su cui posi semplicemente il suo occhio malefico; il peggior nemico di Perseo, Medusa, può trasformare in pietra chiunque incroci il suo sguardo. E ancora: il sangue di Balor spacca in quattro pezzi la pietra su cui Lúg pone la sua testa; il sangue di Medusa diventa fatale per chiunque lo tocchi. Non è finita: rovesciandosi all’indietro l'occhio di Balor sconvolge le schiere dei Fomóire; Perseo si serve della testa di Medusa per sconfiggere i nemici. Volendo fare una piccola digressione esotica: anche l’eroe mesopotamico Gilgamesh decapita il gigante Humbaba il cui occhio, unico come quello del Ciclope e di molti altri esseri precedenti compresi nella narrativa eurasiatica, trasforma i nemici in pietra.

 Inutile chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina. E’ sempre difficile, per non dire impossibile, stabilire a chi appartenga la paternità di un’idea. Secondo Robert Graves queste storie deriverebbero da un comune substrato neolitico, partirebbero cioè da narrazioni precedenti all'invasione indoeuropea dell’Eurasia, nonostante l’Occidente «grecofilo» faccia dipendere d’ufficio molti miti nordici da quelli greci anziché il contrario. Verosimilmente le gesta degli orbi e dei monchi sono state ricostruite dai bardi sulla traccia di antichi miti indoeuropei, dei quali rappresentano una specie di collage. La stessa vicenda di Lúg /Perseo potrebbe appartenere a una tradizione orale millenaria che scendendo a cavallo dal Nord è diventata sedentaria al Sud, dove è stata messa per iscritto.  E quando un bel momento i forti sentimenti legati alla stirpe e alla guerra finirono in soffitta, il tema della principessa segregata in una torre e raggiunta (o salvata) da un amante eroico fu ripescato dalle fiabe popolari, che romanzarono fatti di cronaca antichissimi, preservandone tuttavia il ricordo. In cosa possono esserci utili oggi queste narrazioni? Nella riflessione, sicuramente. Premesso che nessuno ha intenzione di farsi cavare un occhio o amputare un braccio, appare chiaro che neppure in un’epoca artificiale come la nostra l’uomo-ponte che traghetterà l’oggi verso il domani potrà essere poco intelligente, poco autorevole, poco coraggioso, poco rispettato. Alla Storia non serve l’ennesimo ripetitore di slogan preconfezionati e basati su previsioni inattendibili. Ogni nuova visione necessita di personaggi trasversali e non ricattabili, inseriti nel mondo ma consapevoli della profondità delle proprie radici. Persino le decantate tecnoscienze devono poggiare su solide basi culturali per stare in piedi, altrimenti crollano.

Rita Remagnino

Il simbolismo animale nella Tradizione occidentale – Manuele Testai

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Fin dalle epoche più remote gli esseri umani hanno venerato gli animali come fossero Dei. Cani, uccelli e cavalli non solo hanno fornito supporto agli uomini nelle loro attività quotidiane, ma hanno assunto in tutte le tradizioni una vera e propria funzione simbolica. Un simbolo può essere definito come la matrice da cui prendevita ogni forma di pensiero e di comportamento, sia per ciò che riguarda la vita spirituale che materiale di una persona o di un popolo. Il linguaggio simbolico è universale e rivela sotto forma di immagini o ideogrammiqualità e proprietà invisibili di oggetti concretamente visibili. Dal culto dell’animale di potere all’animale totemico, la presenza del simbolismo animale ha caratterizzato i rituali religiosi, le pratiche magiche, l’insieme dei miti dell’intero bagaglio culturale di ogni società. Gli esseri umani hanno utilizzato le altre forme di vita come mezzo per comprendere se stessi e le leggi che regolano la vita in natura. Ancora oggi tendiamo inconsciamente a paragonarci alle altre creature. Basti pensare a quante espressioni gergali come “essere furbo come una volpe, coraggioso come un leone, veloce come un giaguaro”, siano mutuate dal comportamento animale. L’uomo associa da sempre agli animali un'idea, un valore o delle qualità particolari. I greci, gli etruschi e i romani attraverso l’ornitomanzia (la lettura del comportamento degli uccelli) interpretavano gli auspici, il buono o il cattivo presagio di un raccolto o di una battaglia. L’ornitomanzia si basava sul principio di interdipendenza tra l’Uno e il molteplice, tra macrocosmo e microcosmo. Le pratiche divinatorie non erano da considerarsi soggette al principio di causa-effetto;non erano gli uccelli a influenzare gli eventi in sé per sé. Gli uccelli avevano determinati comportamenti in quanto riflettevano nel mondo sensibile ciò che avveniva sul piano cosmico e soprasensibile.

Nei miti delle società tradizionali abbondano racconti di uomini e bestie. Ad esempio l’immagine del lupo evoca immediatamente nel nostro immaginario la Lupa capitolina, simbolo di Roma e animale sacro al Dio Marte, o il lupo reso mite da San Francesco nella celebre leggenda. Nella mitologia Norrena, Odino, Re degli Dei, è accompagnato da quattro animali: due lupi, Geri e Freki, due corvi Huggin (pensiero) e Munnin (memoria) e un cavallo a otto zampe chiamato Sleipnir. I due corvi viaggiano per il mondo dall’alba al tramonto per raccogliere e portare informazioni al Dio. Per questo motivo, il corvo fu un animale particolarmente rispettato e venerato tanto da venire disegnato sulle bandiere di guerra e inciso sugli scudi. Nel Ragnarok, (tramonto degli Dei) prima della battaglia finale compaiono anche altri due lupi,Skoll e Hati che divoreranno Sol e Mati, (il sole e la luna) dopo averli inseguiti fin dalle origini del mondo, facendo precipitare la terra in una tenebra eterna. La guerra tra le potenze celesti e le forze oscure sarà annunciata da tre galli. Uno avviserà i giganti nello Jotunheim, un altro i morti del regno di Hel, e il gallo Víðópnir, dalla cima di Yggdrasil, avvertirà gli Dèi. Il grande albero, che contiene nei suoi rami e nelle sue radici i Nove Mondi, tremerà scuotendo l’universo con terribili terremoti che squarceranno la Terra distruggendo intere montagne. Il Dio Loki e suo figlio Fenrir, il grande lupo, si libereranno dopo una lunga prigionia e vagheranno per il mondo seminando morte e distruzione. Anche il serpente del mondo, figlio di Loki, finora confinato nelle profondità oceaniche, riemergerà dalle acque, provocando maremoti e alluvioni.  Nella storia Norrena la relazione uomo-animale è particolarmente importante. Basti pensare al ruolo che hanno avuto i guerrieri Berseker e Ulfheðnar. Questa casta di sciamani-guerrieri la cui vita era completamente consacrata a Odino non portava armature, ma pellicce di orso (berseker) e di lupo (ulfheðnar.)Armati con spade e asce scatenavano la loro furia senza seguire nessuna strategia militare. Attraverso rituali che compivano prima di una battaglia, venivano pervasi da una furia sovrumana poiché ritenevano fosse lo stesso spirito di Odino a scendere dentro di loro per renderli forti come orsi o lupi. Furono proprio le storie sugli ulfheðnara contribuire alla diffusione delle leggende sui lupi mannari.

In tutta la mitologia indoeuropea esiste un filo sottile che collega Dei, uomini e animali. Nella mitologia induista, Vishnu cavalca un’aquila che si chiama Garuda; Shiva cavalca un toro di nome Nanda; Ganesha, il Dio Elefante cavalca un topo. Nell’Antica Grecia, fin dalle sue prime raffigurazioni Atena è dipinta con una civetta posata sulla testa. Più volte Omero definisce la Dea Greca della sapienza, della saggezza e della strategia militare come “Dea dal volto di civetta". La stretta associazione con il rapace notturno sottende probabilmente alla capacità di muoversi senza farsi sentire, alla saggia pianificazione strategica. Va ricordato che Atena è infatti protettrice di Ulisse, eroe e stratega per eccellenza. Tutti i rapaci notturni possiedono delle caratteristiche che rendono possibili molti parallelismi con i comportamenti umani. Ad esempio, la loro retina funziona in condizioni di scarsa visibilità, sono in grado di ruotare il collo fino a 270°, e soprattutto, grazie alla lunghezza delle loro ali rispetto a un corpo molto piccolo, riescono a muoversi nella notte senza farsi sentire dalla preda. Gliuccelli rapacihanno da sempre avuto un ruolo di prim’ordine in ogni cultura come simbolo di potere. Julius Evola in Simboli della tradizione Occidentale pone enfasi nell’evidenziare il carattere dell’aquila nella tradizione occidentale, più precisamente nell’ambito delle culture a carattere spiccatamente olimpico. Scrive Evola:

“Il simbolismo dell’aquila ha un carattere tradizionale in senso superiore. Dettato da precise ragioni analogiche, è tra quelli che testimoniano un “invariante”, cioè un elemento costante e immutabile, in senso ai miti e ai simboli di tutte le civiltà di tipo tradizionale. Le particolari formulazioni che riceve questo tema costante sono però naturalmente diverse a seconda delle razze. Qui diciamo subito che il simbolismo dell’aquila nella tradizione delle genti arie ha avuto un carattere spiccatamente “olimpico” ed eroico, cosa che ci proponiamo di chiarire nel presente scritto con un gruppo di riferimenti e di ravvicinamenti. Circa il carattere “olimpico” del simbolismo dell’aquila, esso risulta già direttamente dal fatto, che quest’animale fu sacro al Dio olimpico per eccellenza, a Zeus, il quale a sua volta non è che la particolare figurazione ario-ellenica (e poi, come Jupiter, ario romana) della divinità della luce e della regalità venerata da tutti i rami della famiglia aria. (...) era parimenti nella tradizione classica, e poi specificatamente romana, che l’aquila fosse segno di vittoria, cioè l’idea, che attraverso la vittoria della gente aria e romana fossero le forze stesse della divinità olimpica, del Dio della luce, a vincere; la vittoria degli uomini, riflesso di quella stessa di Zeus su forze antiolimpiche e barbariche, era preannunciata dall’apparire stesso di Zeus, dall’aquila”(1).

Da queste parole si evince come l’aquila, l’uccello iniziatico per eccellenza, è il mezzo attraverso il quale l’uomo si eleva a divinità passando attraverso la gerarchia degli stati dell’essere simboleggiati dagli uccelli su cui regna l’Aquila stessa. Il raggiungimento di questa condizione fa sì che l’iniziato, al pari dell’aquila, possa penetrare direttamente i segreti divini, acquisirne il segreto e procedere alla propria rigenerazione spirituale.

Il significato iniziatico degli animali

Il ruolo assunto dagli animali nelle società arcaiche può essere definito iniziatico e terapeutico. Basti pensare ad esempio al simbolismo del serpente. Nell’Antica Grecia Asclepio Dio della medicina portava in mano un bastone con attorcigliato un serpente. Quando il serpente viene posto in alto e avvolto intorno all’asse verticale di un albero, la sua sapienza occulta diventa terapeutica. Nella Grecia Antica i malati si recavano ad Epidauro per guarire dalle malattie. Dopo aver purificato l’anima nei bagni del tempio, i malati entravano nel tempio di Asclepio. Nella notte ricevevano un sogno o una visione. La malattia, creata dagli Dei veniva curata dagli Dei. Asclepio sarebbe entrato col suo serpente nell’anima del malato per liberarla. L’individuo si sarebbe lasciato mordere dal serpente per ricongiungersi ai suoi antenati. Da questa esperienza sarebbe uscita purificato e rigenerato proprio come un serpente che in primavera cambia pelle. Nella Genesi il serpente iniziatore seduceva Eva facendole mangiare dall’albero della conoscenza. Il serpente rappresenta la conoscenza della morte e della rinascita simboleggiata dal suo annuale stato di ibernazione durante il quale muta la propria pelle e riappare quasi fosse rinnovato. Simboleggia la funzione trascendente della psiche. In India i serpenti sono dei Naga, demoni della divina energia tellurica, simboli di fertilità e vegetazione (2). Nelle società antiche, gran parte delle attività svolte con gli animali avevano un significato sacro.Ad esempio,nel Medioevo la Falconeria, ossia la caccia con falchi addestrati, non era un semplice passatempo, ma l’espressione manifesta del potere regale.Vide  trai suoi più illustri esponenti Carlo Magno e i suoi discendenti, Enrico I di Sassonia detto appunto l’Uccellatore fino a Federico II di Svevia, autore del più celebre trattato sulla Falconeria, Il De arte Venandi cum Avibus (3).

A partire dall’anno mille, nel momento in cui la Falconeria si diffuse in tutto l’Occidente, solo i nobili possedevano un falco. Il motivo è da ricondursi al fatto che certe pratiche erano destinate solo agli Arya,i rappresentanti dell’elemento divino. Una delle prime testimonianze proviene dall’arazzo di Bayeux, narrazione iconografica della conquista normanna dell’Inghilterra, dove i più nobili tra i guerrieri a cavallo sono individuabili grazie al falco sul pugno. Esiste infatti una stretta associazione simbolica tra gli uccelli rapaci e la gerarchia sociale. Nel libro di Saint Albain, un trattato sui costumi della nobiltà del Trecento, erano indicati la gerarchia dei rapaci associata al rango sociale del falconiere. All’imperatore era destinata l’aquila, al Re il girfalco, al principe il falco pellegrino, al cavaliere il falco Sacro, al nobile di campagna l’Astore. Il falco nella Tradizione occidentale era l’animale consacrato al Dio Horus, il Dio dalla testa di falco. Rappresenta il principio di evoluzione superiore a cui deve aspirare l’uomo. A livello biologico, oltre ad essere l’animale più veloce in natura, (un falco pellegrino in picchiata riesce a raggiungere anche i 350 Km/h), grazie alla sua vista riesce a vedere ogni minimo movimento sia in cielo che in terra senza essere abbagliato dal sole. Per questo motivo, il falco esprime simbolicamente il potere della visione. Sin dall’età più remota gli egiziani adoravano alcuni animali come immagine sacra: lo sciacallocome personificazione del Dio Anubi, lo sparviero, iconografia in forma animale della Dea Iside, Il coccodrillo che allude a Sobek, Dio della fertilità e l’Airone Cenerino associato il dio Benu, simbolo di rinascita e resurrezione (4).

Ogni animale nella sua espressione simbolica e archetipica era per gli antichi un’energia portatrice di significato. Offriva visioni, presagi attraverso una comunicazione diretta, non mediata dalla razionalità. Nei riti di caccia delle civiltà tribali, ancora oggi gli uomini prima delle battute sono soliti indossare pelli e maschere di animali. Questa pratica ha lo scopo di entrare in contatto diretto con l’anima dell’animale per assicurarsi la buona riuscita dell’impresa. Il grande studioso delle religioni Mircea Eliade descrive così l’identificazione dello sciamano con l’animale:

“Sappiamo che lo sciamano recita una parte ben precisa nell’assicurare sia l’abbondanza di selvaggina che la buona sorte dei cacciatori. Ma non dobbiamo dimenticare che i rapporti tra lo sciamano (e in realtà il primitivo in generale) e gli animali, sono di natura spirituale e di un’intensità mistica tale che è difficile immaginare per una mentalità moderna desacralizzata. Indossare la pelle dell’animale era diventare quell’animale, sentirsi trasformato in animale. Abbiamo ragione di credere che il risultato di questa trasformazione magica fosse un “uscire da se” che, molto spesso, trovava la propria espressione in una esperienza estatica” (5).

Oggi, gli esseri umani hanno scelto di allontanarsi sempre più fisicamente dalla natura. Al contrario dei suoi antenati il borghese moderno, nella società del politicamente corretto sa vestirsi con raffinatezza, è sensibile, delicato nei modi, ma è totalmente incapace di cavarsela quando è in contatto con gli elementi; Non solo: ha un’idea desacralizzata e umanizzata sia della natura che degli animali. Il massimo del rapporto uomo animale è quello con il cagnolinoo col gattino di casa, che il più delle volte viene sterilizzato col fine di renderlo mansueto e meno selvaggio. L’uomo medio, dentro al suo casermone di periferia, protesta contro la caccia, ma continua a mangiare Hamburger. Vive sempre meno internamente la natura, salvo poi fotografarla per gettarla in pasto ai mi piace. Eppure, la perdita del contatto con la natura, anche nei suoi aspetti più selvaggi corrisponde a una perdita di una parte di se, un allontanamento dagli istinti. Come avevano già osservato gli psicoanalisti Jung e Hilmann, la rimozione dell’istinto porta inevitabilmente all’aumentare delle nevrosi che si manifestano esternamente attraverso conflitti, malattie e guerra. Ci troviamo di fronte a un paradosso: se da un lato il barbaro, l’incivileviolento che fatica a integrarsi armonicamente in una società, non riesce a controllare le proprie pulsioni e ad addomesticare la propria natura animale vivendo ancora allo stato selvatico, l’uomo medio, nel sopprimere i propri istinti, ha aumentato paradossalmente la propria aggressività. Più cerca di diventare conciliante, buono, inclusivo a tutti i costi, più diventa aggressivo, violento, separato dall’altro. Basta aprire un social Network per rendersi conto come sentimenti di rabbia e ostilità siano all’ordine del giorno. Il processo di civilizzazione passa proprio attraverso il dialogo con le parti oscure.Si diventa civili a patto di continuare ad ascoltare il proprio animale interiore. Attraverso il dialogo con le parti istintuali e arcaiche è possibile realizzare quella complexio oppositorum che può rendere omogenee e compatibili le pulsioni e le motivazioni individuali profonde con le esigenze della vita collettiva. Oggi più che mai abbiamo bisogno di riscoprire una sacralità animalee un rapporto autentico con la natura.

La desacralizzazione della natura, che va di pari passo con la distruzione delle zone incontaminate e la perdita di parte del patrimonio faunistico, rischia di distruggere quel luogo fisico e metaforico senza il quale non è possibile un recupero dell’ordine fuori e dentro se stessi. Quando una cultura tende al disfacimento deve tornare invece alla foresta, alla fonte della vita per rigenerarsi e rinnovarsi. La cultura moderna ha dimenticato che esiste una ricchezza della terra da conservare, una ricchezza che sfugge alle logiche di profitto, di cui possiamo godere senza bisogno di uno scambio in denaro (6). Pecchiamo di Hybris quando pensiamo che la tecnologia ci consenta di fare a meno della natura e del divino. Allontanandoci dalla natura selvaggia si diventa sempre più deboli spiritualmente finendo per fratturare quel legame con gli aspetti simbolici e archetipici che ci legano al resto della creazione. In un mondo sempre più dominato da una tecnica priva di anima, è urgentemente necessario unpassaggio al bosco (7).

Note

1 - Julius Evola. Simboli della Tradizione Occidentale. Arktos 1988 p. 63

2 - Neil Russack.Animali Guida. Nella vita, nel mito, nel sogno. Moretti e Vitali2006 pp. 52,58

3 - Nel trattato sull’Arte della Falconeria De Arte venandi cum avibus. (Laterza 2000, pp.30) scritto da Federico II di Svevia, sono elencati i sovrani che si dedicavano alla caccia col falco. Figurano tra questi Pipino Il breve, Carlo il Calvo, Enrico I di Sassonia. La caccia col falco fu prerogativa della casta guerriera.

4 - Jean Marquès – Rivière. Storia delle dottrine esoteriche. L’aspirazione dell’uomo al divino nell’insegnamento spirituale di ogni tempo.  Edizioni Mediterranee 1997 pp. 30. Secondo la cultura religiosa egizia l’essenza autentica di una divinità elude la comprensione sensoriale. Gli Déi si manifestavano, in parte o in toto, con aspetto umano o con figure della fauna o della flora o in attributi e simboli. Ad ognuno degli Dèi egiziani, era associata l’immagine di un animale. Un esemplare, scelto con particolari criteri, era considerato l’immagine vivente della divinità, il corpo nel quale aveva stabilito di “abitare” per vivere con gli uomini. Sin dall’età più remota gli egiziani adoravano alcuni animali come immagine sacra: lo sciacallo, lo sparviero, l’ibis ed il coccodrillo.

5 – Fonte già citata in Animali Guida. Nella vita, nel mito, nel sogno. Moretti e Vitali. 2001. pp.42 in riferimento al testo Shamanism di Mircea Eliade

6 - Lo psicanalista Claudio Risè, nel saggio “Vita Selvatica. Manuale di sopravvivenza alla modernità”. (Lindau 2017. pp 19,20) mette in relazione l’aumento delle nevrosi con la perdita del contatto con gli istinti e la natura. Secondo l’autore, di formazione Junghiana, il perfetto equilibrio psichico è reso possibile dal dialogo tra le pulsioni arcaiche e selvagge dell’essere umano con le necessità imposte dalla vita civile.

7 – Il concetto di passaggio al bosco, seppur con accezione differente è un riferimento al pensiero di Junger espresso Nel Trattato del Ribelle. Adelphi Edizioni 1990.

Approfondimenti bibliografici

James Hilmann. Presenze animali. Adelphi 2016

Georges Dumézil.Gli Dei dei Germani. Adelphi 1974

Gianna Chiesa Isnardi. I miti Nordici. 1991

Julius Evola. Rivolta contro il mondo moderno. Edizioni Mediterranee 1998

Mircea Eliade. Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi. Edizioni Mediterranee1983

Massimo Cisternino. Natura e anima nel pensiero di Ralph Waldo Emerson. Stamen 2015

Massimiliano Kormuller. Iniziazione alla Divinazione Etrusca. Edizioni Mediterranee 2018

Giorgio Zauli. Animali e cacce nella Divina Commedia. Dante falconiere ed etologo -Sarnus 2009

Carl Gustav Jung. Psicologia e Alchimia. Bollati Boringhieri 2006.

Dati sulla deforestazione: https://www.lifegate.it/deforestazione-globale-raggiunto-livelli-record-tra-2016-e-2018

https://www.falconeria.org/trattato-sulla-falconeria-de-arte-venandi-cum-avibus/

https://www.rigenerazionevola.it/laquila-e-il-fascio-littorio-simboli-cosmici-i-parte/

Manuele Testai

La fortuna di Pitagora presso i Romani – Arturo Gianola (a cura di Roberto Sestito)

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Dedica

"Ci limiteremo pel momento a ricordare la leggenda dei legami tra Numa ed il pitagorismo, leggenda che secondo il Gianola dovrebbe accettarsi come rispondente a verosimiglianza e che certamente non avrebbe potuto persistere nel modo tenace deplorato da Cicerone se non avesse trovato almeno l’apparenza di una conferma nel carattere pitagorico delle istituzioni stesse di Numa"

(Pietro Negri, Sulla Tradizione Occidentale, UR, 1928).

L’edizione originale del libro di Alberto Gianola, pubblicato per la prima volta a Catania dall’editore Francesco Battiato nel 1921, mi fu donata dall’amico e fratello Piero Fenili a Roma quando, seduti ai tavolini di un bar nella piazza di fronte al Pantheon, consumavano una gustosa granita di caffè di squisita fattura siciliana.

Pertanto dedico la ristampa di questo libro a Piero Fenili nel ricordo delle bellissime giornate trascorse a Roma, tra le rievocazioni del grandioso passato di RCM (Roma Caput Mundi) ed i nostri progetti filosofici ed esoterici per il futuro.

Gennaio 2021                                                               Roberto Sestito

Prefazione

La filosofia di Pitagora, che è generalmente conosciuta appena in alcuni dei suoi punti fondamentali, come la metempsicosi, l'armonia delle sfere, la scienza dei numeri, l’astensione dai cibi carnei e dalle  fave, era in realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine, un vero e proprio sistema di speculazione e di morale, la cui conoscenza ci è tuttavia possibile soltanto in piccola parte, sia per la scarsità dei documenti scritti originali, dovuta alla nota tradizione della segretezza che i più dei suoi cultori osservarono scrupolosamente, sia per le amplificazioni, le falsificazioni e le invenzioni che partorirono le fantasie di tardi seguaci, di pseudo eruditi e di mistificatori. È però indubbio che tale filosofia fu non dilettantismo di mistici fanatici, ma vera e ragionata speculazione, a cui si accompagnò, parallela, una conseguente e logica ragione di vita, sicché, mentre da un lato poté attrarre, seducendole col fascino delle verità da essa chiarite e con l'armonica bellezza dei suoi insegnamenti, le anime di molti cui pungeva l’assillante aculeo della conoscenza, incontrò dall’altro ostacoli e derisioni da parte di aristocrazie interessate o di volghi sciocchi.

Divulgata, se non creata interamente ex novo, nel secolo sesto a. C. per opera di Pitagora, del quale, come di Omero, alcuni misero perfino in dubbio l’esistenza, osteggiata, nella Grecia ed in Roma. Ricca, com’essa era, di principii che oggi si direbbero idealistici e trascendentali, ed accompagnandosi, come ho detto, a una sua particolare armonica concezione della vita individuale e collettiva, teorica insomma e pratica nello stesso tempo, essa era ben atta ad informare di sereligione e scienza, politica e morale, consuetudini e leggi.

Essa fu da molti connessa non pure con anteriori antichissime dottrine della Grecia, dell’Egitto, dell'India e perfin della Cina, dalle quali sarebbe in tutto o in parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di somiglianza, ma altresì con la posteriore filosofia di Platone, in molte parti ricalcata sulle sue orme. Conservata poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e tramandata, senza il sussidio della scrittura, nel segreto delle scuole, essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filosofi alessandrini quando, inalveatesi nel suo letto altre correnti di pensiero, alimentò le speculazioni della teosofia neoplatonica e neopitagorica di Plotino, di Porfirio c di altri molti, e diede origine a molteplici scritture, quali più quali meno profonde ed attendibili, intorno alla vita ed ai primi insegnamenti dell'antico maestro. Da essa infine trassero ispirazione alcuni filosofi della rinascenza, e qualche sua derivazione può dirsi non del tutto spenta anche oggi.

Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque, massime per noi Italiani, lo studiare la storia di questa dottrina e il ricercarne e narrarne le vicende nei vari tempi: e nei vari paesi: poiché, sebbene molti abbiano fatto studi e ricerche in proposito — basterà ricordare, fra tanti, i lavori del Ritter (1), dello Zeller (2) del Gomperz (3), dello Chaignet (4)e del Mullach (5), e, in Italia, del Capellina (6) del Centofanti (7), del Gognetti De Martiis (8), del Ferrari (9), del Ferri (10) — e benché da tuttiquesti e da altri studiosi non solo si siano raccolte molte notizie, ma si siano anche esaminate e discusse quistioni importantissime, pure troppe cose ancora rimangono da chiarire e da risolvere della storia ch’io chiamerò esterna del Pitagorismo; e fors’anche, riprendendone  in esame il contenuto, ossia tenendo l'occhio alla sua storia interna, che è poi, per la filosofia, la sola importante, qualche verità, io penso, già acquisita e insegnata dall’antico saggio, potrebbe dimostrarsi anche oggi validamente fondata e tale da poter resistere agli assalti del nostro più acuto criticismo.

Gli studi raccolti in questo volume furono già da me in gran parte pubblicati, dal 1904 in poi, o in opuscoli o in Riviste -, ma poiché ho dovuto, nel corso delle mie ricerche, modificare alcune delle conclusioni alle quali ero giunto, e nuovi fatti ho potuto chiarire, mi sono indotto, anche per aderire al desiderio e alle sollecitazioni di benevoli amici, a ristamparli tutti insieme.

Spero che il tenue contributo ch'io porto alla storia che or ora dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno a dimostrare che intorno a queste importantissime dottrine non si è detto ancora tutto e che molto ancora si può indagare e scoprire.

Note:

1 - HEINRICH RITTER, GeschichtederPythagor. Philosophie, Ham-burg, 1826.

2 - EDUARD ZELLER, Pythagoras und die Pythagorassage, in Vortrcige und AbhandlungengesekicktliehenInhalts, Leipzig, 1865 e Die PhilosophiederGriecheneoe., voi. I° pp. 279 e segg.

3 - THEOD. GOMPERZ, Lespenseurs de la Grèce, trad. de la 2 éd. allem, par A. Reymond, Paris, Alcan, 1904.

4 - A. E. CHAIGNET, Pythagore et la philosophiepythagor., Paris, l873.

5 - Fr. G. A. MULLACH, De Pythagoraeiusquediscipulis et successoribus, in Fragmentaphilosoph. graecor. v. II, Paris, 1881, pp. I-LVII.

6 - DOMENICO CAPELLINA, Delle dottrine dell’antica scuola pitagorica contenute nei Versi d’oro, in Memorie della E. Accad. di Scienze di Torino, serie II, t. XVI (1857), pp. 37-109.

7 - SILVESTRO CENTOFANTI, Studi sopra Pitagora (1846) nel volume La letteratura greca, Firenze, Le Monnier, 1870 (Opere, vol. I, pp. 359 e segg).

8 - COGNETTI DE MARTIIS, L’Istituto Pitagorico, in Atti della R.Accad. delle Scienze di Torino, 24 (1888-89) e nel volume Socialismo antico, Torino, Bocca, 1889, pp. 459-496.

9 - SANTE FERRARI, La scuola e la filosofia pitagorica, in Rivista ital. di filosofia, 1890, I e II.

10 - L. FERRI, Sguardo retrospettivo alle opinioni degl’Italiani intorno alle origini del pitagorismo, in Atti della R. Accademia dei Lincei, Rendiconti, serie 4, 6, 1890, 1 pp. 532-547.

Alberto Gianola

(a cura di Roberto Sestito)

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Dall’altare alla pentola – Rita Remagnino

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“C'erano tre uomini che venivano da occidente, per tentare la fortuna / e questi tre uomini fecero un solenne voto / John Barleycorndeve morire (…) Loro avevano assoldato uomini con falci veramente affilate per tagliargli via le gambe / l'avevano avvolto e legato tutto attorno, trattandolo nel modo più brutale /avevano assoldato uomini con i loro forconi affilati che avevano conficcato nel [suo] cuore (…)Assoldarono uomini con bastoni uncinati per strappargli via la pelle dalle ossa / e il mugnaio lo trattò peggio di così / perché lo pressò tra due pietre (…)”

Le strofe sopra riportate sono tratte da una celebre ballata anglosassone che evoca la morte di John Barleycorn, incarnazione dello spirito dell'orzo destinato alla distillazione. Una raccolta folklorica del Seicento ripescò la lirica dalla tradizione orale del Medio Evo, ma tutto fa pensare a un’origine ben più antica. E non dubito che gli amanti del rock abbiano già fatto i debiti collegamenti con l’indimenticabile John Barleycorn Must Die” dei Traffic (1970), non tralasciando naturalmente le versioni di SteeleyeSpan, Martin Carthy, John Renbourn ed altri. Il testo della canzone riassume le fasi di una remota usanza diffusa fino al secolo scorso in alcune zone agricole della Scozia e del Devonshire. Il mietitore che finiva per ultimo di lavorare nel giorno del solstizio d’estate veniva legato e addobbato come un covone (proprio come nei disegni tradizionali di John Barleycorn) prima di essere simbolicamente ucciso con brutalità dai suoi compagni. Il taglio delle gambe rappresentava il culmine del sacrificio ed era accompagnato dalle grida rituali degli altri mietitori, che dovevano essere sentite a miglia di distanza (fino alle orecchie degli dèi) per annunciare ai quattro venti il compimento della missione. Anche per quell’anno, il patto era stato rispettato. Ora non è un caso che nella versione del poeta scozzese Burns ((1759-1796) si parli apertamente di «bere il sangue di John Barleycorn», che è uno Spirito della vegetazione, poiché «bere o mangiare il dio» per acquisirne la forza equivaleva nelle civiltà contadine dell’antichità a potenziare la fertilità dei campi, ossia ad avere buoni raccolti per la propria famiglia e la propria comunità. Il rituale potrebbe essere il retaggio di qualche «raduno sacro»infrannuale celebrato dai Celti nelle radure delle allora vaste foreste europee, dove i druidi pronunciavano formule ancestrali alla luce dei fuochi mentre le loro voci, coperte dalle note di canti e musica, rivelavano verità immutabili nell’intreccio di tele mitologiche. Gli invasori Romani non capirono mai bene il significato profondo di simili celebrazioni, e a scopo prevalentemente denigratorio fecero molte chiacchiere su certe pratiche sanguinarie che sarebbero state in uso presso le tribù celtiche.Giulio Cesare (De Bello Gallico, VI, 16) confermò i pettegolezzi attraverso la descrizione del sacrificio umano realizzato dai druidi mediante il rogo di un’enorme figura di vimini riempita di uomini «offerti» agli dèi per il bene della collettività. Ma «dimenticò» di aggiungere che si trattava di casi rarissimi,e neppure si degnò di risalire alle radici di un’usanza proveniente dall’abisso dei tempi.

Nonostante le numerose ricerche sul campo, sono insignificanti le prove archeologiche capaci di confermare la pratica del sacrificio umano in seno a quella che viene definita l’«ultima Razza dello Spirito». Nella logica di “una vita in cambio di una vita, è possibile tuttavia che il cruento gesto rituale si sia reso necessario in casi eccezionali per rafforzare la richiesta del gruppo davanti alla divinità. Le vittime erano di solito prigionieri di guerra o malfattori, ma molte volte si trattava di appartenenti alla classe druidica che offrivano se stessi per il rituale di morte. Un dono che ben s’inserisce nella mentalità di sprezzo del pericolo e assenza di paura tipica delle genti celtiche.

Dal sublime al superstizioso

Nella logica della conservazione attardata di un rito sicuramente indoeuropeo, i sacrifici umani in Eurasia erano rari e corrispondevano a una richiesta di aiuto al dio per affrontare problemi di vitale importanza quali, ad esempio, un’annata agricola disastrosa o un esercito impari di forze. Alcuni popoli vi rinunciarono prima mentre altri, come ad esempio i Balti, seguitarono a celebrarli fino al Medioevo. Nelle terre fredde del nord sferzate sovente dalla neve, al termine di una battaglia i vincitori legavano come un salame il prigioniero più grande e grosso, gli ficcavano la testa tra le ginocchia, aprivano con la spada la sua schiena e,dopo avergli tirato fuori le scapole a mo’ di ali, esaminavano il getto del sangue che colava giù per colonna vertebrale cercando di divinare il «risultato della guerra». Anche i Greci sacrificavano giovani vergini prima della battaglia e, in caso di calamità, lapidavano a morte un mendicante trascinandolo fuori dalle mura dopo averlo nutrito e vestito sontuosamente per un anno. Credevano ingenuamente di potersi disfare delle proprie sventure insieme al poveraccio. Per favorire la partenza verso Troia della flotta bloccata da una persistente bonaccia, Agamennone giunse al punto di offrire la figlia Ifigenia. Il pietoso intervento degli dèi impedì la realizzazione del progetto, ma fu un salvataggio tra centinaia di altre stragi andate a buon fine. A quell’epoca non era infrequente il ricorso al sacrificio umano finalizzato alla «salvezza» della comunità, del regno, della guerra, della stirpe. Omero stesso non ne fece mistero. Achille uccise dodici giovani Troiani presso la pira di Patroclo e il fatto che quei giovani venissero immolati in occasione di un funerale mostra il carattere sacrificale, e non militare, dell’offerta. Non si trattava di una crudeltà bellica bensì di un rituale religioso. Sono noti anche i sacrifici dei discendenti di Atamantesul Monte Liceo. In caso di grave carestia «il dono» era spesso lo stesso re, o uno dei suoi figli, poiché il responsabile del tempo atmosferico e dei raccolti era il sovrano, che doveva pagare con la vita l’inclemenza dell’uno o la scarsità degli altri. Ancora nel VI secolo, cioè in piena età storica, nelle colonie ioniche dell'Asia Minore si celebravano sacrifici annuali pubblici a carattere purificatorio in cui la vittima (sempre meno consenziente) era un essere umano. Diffusi in tutta l’area mediterranea erano anche i culti del «re sacro» in cui il vecchio re veniva ucciso per far posto ad un giovane sovrano che doveva rappresentare la fecondità del popolo con la sua forza e la sua salute. In memoria del sacrificio originario del Gigante antropocosmico, il corpo del defunto veniva poi sottoposto allo smembramento rituale, e talvolta le sue carni finivano in pentola. Sacrifici umani erano praticati anche dai Persiani. E’ noto che il re Serse fece seppellire vivi nove giovani traci per propiziare il successo della sua campagna militare contro la Grecia, mentre la moglie Amestri sacrificava quattordici ragazzi di nobile stirpe a un dio sotterraneo.

Nella terra dominata da Yahweh vigeva invece il precetto sulla consegna dei primogeniti finalizzato al loro utilizzo nei sacrifici. Il Signore se li faceva consegnare quando avevano otto giorni, esattamente come i cuccioli degli altri animali, e pretendeva che fossero bruciati per lui, come afferma egli stesso in Ezechiele. L’odore di affumicato sprigionato dalle carni da latte gli rilassava i nervi. Naturalmente la dottrina non ha mai accettato questa versione dei fatti e il dibattito filologico sul termine ebraico nichoach[odore del riposo, o riposo della cenere?] è tuttora in corso, nonché oggetto di accesi dibattiti. Tuttavia i sacrifici umani nella società ebraica delle origini erano presenti e proseguirono almeno fino al 622 a.C., altrimenti il re Giosia non avrebbe avuto bisogno di varare una riforma che imponeva di sostituire ai neonati gli agnelli, premurandosi nel contempo di cancellare il ricordo delle pratiche precedenti.

La Roma imperiale avvolse i suoi sacrifici in un alone d'imbarazzata segretezza. Ciò nonostante Plutarco cita, nell'atmosfera di terrore determinata dall'invasione dei Galli Insubri, il sacrificio di vittime umane per propiziarsi gli dèi. Calando un velo pietoso sullo spettacolo del Circo, con i gladiatori che si massacravano a vicenda o venivano fatti sbranare da fiere affamate per divertire il pubblico. Anche per i Germani la «più bella delle vittime» era l’uomo. E se qualcuno crede che gli orientali fossero estranei a certe usanze, sappia che si sbaglia. Vero è che a una prima occhiata l’India narrata dal Rigveda sembra essere lontana dalle pratiche cruente, ma non bisogna dimenticare che i figli dell’Eurasia escono tutti dalla medesima matrice culturale. E difatti in Aitareya-Brahmanasi afferma il principio secondo cui «la prima e la migliore delle vittime sacrificali è l'uomo». Come surrogati si potevano accettare, in ordine decrescente: il cavallo, il bove, la pecora e la capra.  I riti a base di sangue presenti nella civiltà indoaria si estesero fino alla potente casta sacerdotale dei Magi, il cui nome era già appartenuto a una tribù dei Medi, che fin dal suo esordio si distinse per il sangue, cioè per l’atto di uccidere. Un’inclinazione che a quei tempi non aveva uguali né in Egitto né in Grecia. Narrava Erodoto che l’atto sacrificale con spargimento di sangue era per i Magi l’azione suprema. Il celebrante uccideva con le sue mani qualunque creatura vivente, tranne il cane e l’uomo. Allo squartamento delle carni seguiva la cottura, dopo di che s’intonava il canto che evocava «la nascita degli dèi, come loro dicono che sia avvenuta».

Idee da esportazione

In sintesi le cose sono andate così per parecchio tempo, procedendo di male in peggio. Ma forse è inevitabile che allontanandosi dall’Origine le paure umane (in primis quella della morte) diventino sentimenti terrificanti capaci di generare a loro volta dei mostri orrendi. Non fece eccezione il sacrificio umano, che da azione rara e finalizzata alla sopravvivenza del gruppo si trasformò gradualmente in una sanguinosa catena di montaggio a cui non furono estranee le superstizioni, né le perversioni. Per millenni il sangue umano fu ritenuto l’espressione massima del vincolo eterno che legava l’uomo a dio. Anche i pitagorici lo consideravano «la sede dell’anima», che cominciando dal cuore giungeva al cervello. Mentre i ragionamenti, invisibili come l’etere, erano da ritenersi i «respiri dell’anima». Ad un certo punto, però, si cominciò a credere che la divinità reclamasse tutta per sé la «parte migliore dell’uomo» e che questi fosse tenuto a fargliene dono. Non «a gratis», s’intende, ma in cambio di qualcosa. I sacerdoti preposti al rito s’ingegnarono così per velocizzare la «restituzione dell’anima» e facilitare il ricongiungimento famigliare di uomini e dèi. Ma se il tempo presenta una successione di stati degeneri, figurarsi cosa può succedere quando un’idea viene esportata in contesti culturali e ambientali lontanissimi da quelli che l’hanno vista nascere. Una circostanza inevitabile, visto che l’uomo sedentario è solo un intermezzo tra due poli in movimento.  Gli spostamenti furono particolarmente intensi nel periodo che chiuse l’ultima Era Glaciale. Un’epoca tribolata, come rivelano le cicatrici geologiche impresse sulla scorza coriacea della Terra. Dopo tre episodi di temporaneo raffreddamento, detti Dryas, attorno agli 8mila anni fa venne una fase climatica piuttosto calda. Crollò definitivamente anche la Laurentide, cioè la calotta glaciale posta a nord-est del Canada, l’ultima a sparire dalla faccia della Terra, e i livelli marini salirono addirittura di 25 metri in poche centinaia d’anni. Per completare l’opera di riassetto dell’emisfero settentrionale, una formazione rocciosa grande quanto l’Islanda si staccò dalla costa della Norvegia tra Bergen e Trondheim, scivolando nelle profondità marine. Onde alte venti metri s’infransero sulle coste dell’arcipelago, distruggendo buona parte delle terre nordatlantiche. Tra le tante terre colpite vi fu anche una vittima eccellente: la «Siria primitiva» o «terra solare» messa da Omero «al di là di Ogigia», a sua volta collocata da Plutarco “a cinque giorni di navigazione dalla Britannia, in direzione occidente … più oltre si trovano altre isole, poi c’è il grande continente che circonda l’oceano … dove il sole in estate su un arco di trenta giorni scompare alla vista per meno di un’ora per notte, anche se con tenebra breve, mentre un crepuscolo balugina ad occidente.” In realtà «Ogigia» è un aggettivo, come riconobbe Wilamowitz, che significa «primordiale». Storicamente parlando, ci troviamo dunque nella dimensione a-temporale che precedette la Storia. Dal punto di vista geografico, siamo invece sul tetto del mondo. Presumibilmente in prossimità di un’isola nordatlantica sparsa tra le Fær Øer, comprese nel Paleolitico Superiore in una vasta area di terre emerse che si stendeva tra Groenlandia, Islanda e Scandinavia.

Da Tula all’eternità

In lingua sanscrita la «terra siria»veniva chiamata Varahi, dalla radice var, o vri, che ha il significato di «coprire», «proteggere», «nascondere». Cosa? Probabilmente le conoscenze superiori appartenute ai Padri fondatori, cioè un sapere capace di difendere il mondo con la sua influenza invisibile. Da chi? Dai barbari delle generazioni successive e dal declino della Storia. Il termine «terra siria» andrebbe esteso dunque alle «colonie» nordatlantiche messe sotto chiave da generazioni di iniziati allo scopo di salvare il salvabile. Ne consegue che le «terre», o isole, erano più d’una, nonostante gli Antichi ritenessero che la sola «fatta a immagine e somiglianza del Centro Primordiale» fosse la mitica Tula, o Thule iperborea. A una colonia nordatlantica ritenuta una tarda immagine del Centro Spirituale polare alluderàanche la cultura ellenica,che tramandò fino a noi il mito dell’isola leggendaria degli Iperborei, gli uomini che abitavano “al di là del vento del Nord”.Il nome «Iperborea»fu appunto un’idea dei Greci, i quali presero in prestito dalle lingue nordiche la radice del termine «cinghiale», che era bor, da cui -borea. Quando il loro mondo venne spazzato via dalla furia dell’oceano, i discendenti diuna civiltà che godeva da millenni di una consolidata tradizione navale cercarono una via di fuga in mare. Spostandosi dall’area islandese giunsero così in Groenlandia, per poi gettare l’ancora nell’isola di Anticosti, accesso all’attuale Grand Fleuve del Canada, un enorme specchio di cristallo verde che continua ad ispirare un sacro timore reverenziale. Da qui, costeggiare il Nordamerica per scendere fino al Messico era una strada tutta in discesa. Per secoli e secoli l’Islanda deve essere servita da «ponte» naturale,e chissà quante navi di solari «civilizzatori piumati» avranno lambito le sue coste, o si saranno infrante sulle sue scogliere, prima di proseguire verso l’ignoto o in direzione dell’Aldilà. Il ricordo di quelle scorribande marine si impresse a tal punto nella memoria degli aborigeni islandesi, che ancora oggi da quelle parti si crede che nei vulcani alberghino tutti gli spiriti e le ombre dei marinai annegati. Certi giorni le loro figure spettrali si presentano così ben definite da rendere impossibile distinguerle dai vivi. Ma purtroppo svaniscono prima che, incontrandole, si possa stringere loro la mano.

Sulla scia del sangue

Provenendo da un’isola vulcanica come l’Islanda, i navigatori nordici della preistoria avranno accolto come un vecchio amico il senso arcano che aleggiava sopra i coni fumanti del Sudamerica. Viste da lontano le vette incappucciate di neve del Popocatépetl e delloIztaccihuatl non erano poi tanto diverse dall’Eyjafjölle dal Vatnajökull, mentre il profumo di fresco che emanava dal verde ondulato steso ai loro piedi invogliava i visitatori nordici a restare. Oggi la costruzione di Teotihuacan, Palenque, Tikal, Cahokia e Chaco Canyon viene attribuita con convinzione ai popoli toltechi, nei miti dei quali s’incontra appunto il ricordo nostalgico di una «patria primordiale» nordatlantica. Tuttora la comunità amerindia dei Kuna (o Guna), ridotta ormai a circa 40.000 unità, conserva nelle sue tradizioni il nome di Thule/Tula mentre sulla bandiera degli Indiani di San Blas sventola la swastica solare, da loro chiamata kikire interpretata come il simbolo della forza vitale. Proprio i Toltechi potrebbero avere esportato in Mesoamerica l’uso dei sacrifici umani, non immaginando certamente che le popolazioni amerinde avrebbero poi personalizzato il progetto, portandolo alle sue estreme conseguenze. Gli storici hanno calcolato che all’inizio del XVI secolo il numero delle vittime sacrificali in tutto l’impero azteco viaggiava al ritmo di circa duecentocinquantamila l’anno. Sembra che lo scopo di questa maniacale distruzione di vite umane fosse quello di preservare la vita del Quinto Sole, ritardando così la fine del mondo, già avvenuta quattro volte in precedenza. Interpretando in modo distorto chissà quale astruso concetto ereditato dai civilizzatori toltechi, gli Aztechi promuovevano in continuazione «guerre giuste» allo scopo di nutrire le divinità con il cuore e il sangue dei prigionieri. In effetti l’idea che l’uomo fosse il dono prediletto dagli dèi era presente tanto nella mentalità eurasiatica quanto in quella amerinda, ma il modo di realizzarla risultò completamente diverso perché nel frattempo le cosiddette «motivazioni spirituali» erano venute meno. Si racconta che Ahuitzotl, l’ottavo e più potente imperatore della dinastia azteca, “celebrò la consacrazione del tempio di Huitzilopochtli a Tenochitlán facendo condurre quattro file di prigionieri accanto a squadre di sacerdoti, le quali impiegarono quattro giorni per ucciderli. Quella volta, nel corso di un unico rito, furono trucidati in ben ottantamila”. A prescindere dal numero di squadre all’opera, fossero una, quattro o quaranta, ogni gruppo di sacrificatori era in grado di «trattare» una vittima più o meno ogni due minuti. C’erano sempre elementi imponderabili che in alcuni casi potevano far durare l’estrazione del cuore e la macellazione del resto qualche secondo in più o in meno, ma in media l’operazione richiedeva due minuti. Ne consegue che ogni squadra uccideva trenta vittime all’ora. Così si racconta, almeno. Ma per fare il verso a Manzoni: tra gente smaliziata si sa far la tara ai comunicati ufficiali. Se Giulio Cesare e i Romani si sperticarono per denigrare i popoli celti di Britannia che intendevano sottomettere e derubare della terra, i preti cristiani impegnati nella conversione di massa del Nuovo Mondo non furono da meno raccontando ogni sorta di nefandezze a carico dei «selvaggi» che pretendevano di catechizzare. Al primo posto ci furono naturalmente i popoli più avanzati, cioè gli Aztechi, che chiamavano loro stessi con il nome di «mexica», da cui il moderno nome di Messico.

Il fiero pasto

Non sempre ma abbastanza spesso, dopo l’estrazione del cuore gli amerindi mettevano «il resto» in pentola con cacao e peperoncino. Non che fossero dei buongustai che avevano scoperto la ricetta perfetta, visto che l’intento era quello di acquisire la forza dell’altro mangiandone le carni. Ma, se proprio bisognava … Memore della tradizione indoeuropea anche il prete «finge di mangiare» il corpo di Cristo in chiesa durante l’Eucarestia. E’ nota l’idea di «transustanziazione» con cui avverrebbe «la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del Suo Sangue». Per fortuna in questo caso non c’è alcun spargimento di sangue, ma neppure gli antropofagi rituali dell’antichità erano posseduti dall’aspetto malvagio del cannibalismo. Un uomo integro e originario come Kronos, il grande sciamano che vedeva nel futuro, non si sarebbe mai sognato di mettersi a mangiare i figli se non avesse saputo che un giorno la sua stessa prole lo avrebbe detronizzato, cancellando così l’antico mondo dalla faccia della Terra. Zeus non mangiò per puro sfizio la prima moglie e il feto che portava in grembo, lo fece solo dopo aver saputo che Metis, dea dell’astuzia e dell’intelligenza, stava per dare alla luce il figlio che lo avrebbe spodestato, creando un nuovo mondo. In questo caso il vantaggio fu duplice: in un colpo solo il re dell’Olimpo scongiurò il pericolo della rivoluzione e inglobò le caratteristiche della consorte. Tuttavia i tempi erano molto cambiati dall’Era originaria di Kronos, la specie si era notevolmente indebolitae neppure gli dèi erano più quelli di una volta. Dopo il fiero pasto Zeus cominciò così a stare male. Venne chiamato Efesto, il fabbro divino la cui fucina si trovava nelle viscere dell'Etna, che con un colpo d’ascia gli aprì la testa dolente da cui Atena uscì fuori già adulta. Narrazioni dal forte significato iniziatico come quelle citate rivelano il più struggente dei desideri umani: radunare i pezzi sparsi, ricongiungersi all’androgino boreale, ripristinare l’unità primigenia. A questo scopo nella remota antichità ci si mangiava l’uno con l’altro, e fa specie che la nostalgia del femminino albergasse persino nell’animo di uomini-dèi bellicosi dediti all’arte della guerra. Nessun popolo si è mai cibato dei suoi simili per il semplice gusto di farlo. Sebbene non si possa escludere completamente la possibilità che durante i 100mila anni di gelo dell’ultima Era Glaciale il bisogno di acidi grassi omega-3 per il cervello, scarsamente rintracciabili in animali che non siano pesci, abbia spinto alcune tribù delle pianure e delle montagne verso il cannibalismo.

Nel sito di Cheddar, in Gran Bretagna, sono state rinvenute delle tazze-cranio che confermano l’usanza di mangiare carne umana con finalità rituale, non certamente alimentare. Si apprende da un racconto di Erodoto (II, 26) poi ripreso da Pomponio Mela (II, 29) che gli Issedoni, un popolo dislocato a nord degli Sciti, avevano la consuetudine di fare a pezzi i cadaveri dei genitori e di consumarli durante banchetti rituali insieme con carne di pecora, così da non perdere la loro «essenza». Nel nostro piccolo, anche noi diciamo a un bambino o a un amante “ti mangerei di baci”. Di fatto non c’è niente di più profondo, intimo e intenso che si possa esprimere nell’ambito dell’amore. E proprio per un travisato sentimento d’amore i nostri antenati finirono per mangiarsi a vicenda. Amavano dio, si amavano l’uno con l’altro, amavano la propria comunità. Forse amavano troppo, e comunque la necessità non c’entrava con i loro rituali a base di sangue. Notoriamente la nostra carne è di gran lunga meno nutriente di quella di un cervo, di un rinoceronte o di un mammut, non c’è alcun motivo di mangiarla.

Teste parlanti

Il legittimo disgusto moderno per certe pratiche ritualistiche non deve mettere in secondo piano il profondo significato spirituale del sacrificio umano. Il che, ovviamente, non può in alcun modo giustificarlo. Più in generale il sangue delle vittime era ritenuto il corrispettivo dell’anima, che da dio era venuta e a dio doveva fare ritorno. Con tutti gli onori esso veniva infatti raccolto e offerto alla divinità mentre il corpo, ormai privo del suo contenuto sacrale, poteva essere tranquillamente abbandonato all’appetito insaziabile degli uccelli e degli animali del bosco. Oppure, finire in pentola. Pensiamoci su, prima di arricciare il naso. Al netto dei semanticismi politicamente corretti, la violenza ideologica e le torture dei Tribunali dell’Inquisizione erano più «rispettabili» dei rituali pagani? Senza il manto di altruismo che le abbiamo messo addosso, cosa sarebbe la nostra regola del «silenzio assenso» che dichiara morta una persona dalla curva cerebrale piatta (ma con il cuore battente)?

Certe azioni rituali del passato, per lo meno, erano supportate da una visione cosmica di ampio respiro. Il gigante norreno Ymirnon fu fatto a pezzi per donare 5-10 anni di vita a Tizio, ma per permettere alla stirpe umana emergente di trarre il nuovo mondo dall’abisso. Il suo corpo servì a modellare la Terra, con le sue ossa furono innalzate le montagne, i denti crearono pietre e massi, il cervello fu scagliato in aria per disegnare le nubi. Addirittura, la volta del cielo non avrebbe potuto nascere senza il suo immenso cranio. Un fatto che diede la stura a varie congetture. Se il destino dell’uomo era scritto nel firmamento, allora voleva dire che lo si poteva leggere anche nella sfera ossea che all’inizio dei tempi era servita a costruire la sfera celeste. Partendo probabilmente da questo assunto, in Eurasia i crani montati in oro (come nel kintsugi giapponese) venivano usati come tazze e spesso svolgevano una funzione oracolare. Un esempio sublime di questa usanza ci viene offerto dal mito di Orfeo, dio degli Inferi, la cui testa mozzata continuò a «cantare» anche dopo essere stata gettata nelle acque del fiume Ebro, e fino all’arrivo a Lesbo, dove venne raccolta dalle locali sacerdotesse che la misero in una caverna per farne un oracolo. Finché un serpente (un «concorrente» magico?) non tentò di divorarla. Ma il più antico tra gli Antichi,Apollo, impedì lo scempio tramutando la testa in pietra. L’utilizzo dei teschi umani per scopi oracolari si protrasse grosso modo dal Neolitico fino ai Sabei di Harran, i «figli delle stelle», fra gli ultimi ad avvalersi delle «teste parlanti» a scopo divinatorio. Sebbene ogni tanto la nostalgia del passato assalisse qualcuno, come ad esempio Clemente di Sparta che conservava la testa di Arconide nel miele per consultarla prima di intraprendere qualsiasi impresa importante.

Si fa quel che si può

Non è intenzione di queste righe mettersi ad analizzare dal punto di vista psicologico il desiderio divorante nascosto nell’animo di ciascuno. Né tantomeno soffermarsi sulla rinascita di riti iniziatici ispirati alle forme d’istinto legate al «principio di vita», di crescita e di sviluppo. Sappiamo tutti che questa storia è vecchia come il mondo: si toglie l’energia all’altro per farla propria, oppure se ne fa dono al Superiore. Non sempre, tuttavia, il gesto sacro e straziante dell’offerta di vite umane che rinnovail sacrificio primigenio del Gigante antropocosmico ha qualcosa a che fare con il dottor Hannibal Lecter. E poi, chi siamo noi per giudicare? L’uomo religioso della preistoria cavava il sangue dal corpo dei suoi simili per donarlo alla divinità, l’individualista moderno preleva gli organi da uno per donarli all’altro. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, come si dice, e non è il caso d’illudersi che i posteri saranno con noi più indulgenti di quanto noi lo siamo con i nostri predecessori. C’è infine il tema della sopravvivenza. Come sappiamo in casi estremi gli uomini sono capaci di tutto, anche di divorarsi a vicenda e di bere il sangue dei propri simili, pur di non morire di fame e di sete. Ne abbiamo avuto una riprova in occasione di disastri aerei e navali che hanno allontanato per mesi le persone dalla cosiddetta «società civile».   Molti non sono disposti ad arrivare a tanto, tuttavia la scelta di sopravvivere anche uccidendo e divorando i propri compagni di sventura appartiene alla maggioranza. E chi rifiuta di aderire ad azioni cruente, trovandosi in minoranza, spesso non può impedire che esse avvengano, ma solo andare incontro alla morte piuttosto che venir meno alla voce della propria coscienza. Corre l’obbligo quindi di rispolverare uno dei dogmi teologici fondamentale di Lutero: il libero arbitrio non esiste.

Rita Remagnino

Vie della Tradizione 177 – Rassegna semestrale di Orientamenti Tradizionale

Il Ritorno oltre il tramonto: il labirinto di un’anima cangiante – Luca Valentini

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Una torcia finta e bagnata, scambiata per una stella, ha consegnato nuove orde di credenti al termitaio mondiale che tollera le differenze solo se risultano illusorie e prive di fuoco” (1).

Siamo abituati ad una standardizzazione della vita, dei costumi, ed anche il pensiero, la riflessione, purtroppo, soggiacciono alla logica imposta della consuetudine, della banalità, della logica ordinaria. Ciò vale anche nell’ambito della cultura, della letteratura, addirittura dell’esoterismo. Tutto deve sottostare ad un nesso di consequenzialità che ovviamente stride aspramente con il dominio dell’immaginazione, della fantasia, del racconto ispirato, quasi non si avesse paura di condurre l’uomo, l’ignaro lettore in domini che l’odierna società ha ormai abbandonato, quelli dell’ignoto, dell’invisibile, della sfera introspettiva. Un fulgido esempio controcorrente ci è stato offerta da una recente pubblicazione delle Edizioni baresi “L’Arco e la Corte”, nella collana Primordia, diretta dal noto giornalista Manlio Triggiani, firma storica della Gazzetta del Mezzogiorno e da tanti anni ormai animatore della longeva rivista Vie della Tradizione. Nello specifico, ci riferiamo al racconto immaginifico “Il Ritorno oltre il tramonto, redatto da un anonimo autore, che si sigla col solo pseudonimo de “Il Solitario”. Lo stesso titolo presente in nuce due apparenti ossimori con la logica ordinaria: il ritorno presuppone che il protagonista, che nella trama in verità è rappresentato dall’anima stessa dell’uomo, sia originario di un luogo di cui ha perso le tracce, una patria ideale o meno a cui vorrebbe omericamente far ritorno e ciò già si pone in netta antitesi con uno spirito di società, come quella contemporanea, che rifugge dalle radici, che nega ogni atavica appartenenza, che si svolge e si dinamizza in linea retta, verso una perenne proposizione in avanti, smarrendo ogni senso ciclico, tradizionale, spirituale dell’esistenza; il tramonto, inoltre, rappresenta, nella suddivisione della giornata, l’abdicare apparente della luce, il momento dell’oblio, quando, al contrario, secondo ogni intendimento sapienziale, proprio al declinare della luce naturale, si desta ed è possibile riconoscere la luminescenza spirituale. Vi presentiamo, pertanto, un itinerario labirintico, nelle contrade meno logiche o standardizzate che ci possano essere, quelle dell’interiorità umana:

Il labirinto è il luogo dove oggi ci si perde soprattutto perche, al suo interno, intento e volontà degradano facendosi mero sguardo…Nel labirinto, infatti, c’è la dimora del Minotauro, l’essere ibrido, per metà ragione e per metà arcana forza di distruzione e di riproduzione” (2).

Siamo dinanzi alla trama centrale del racconto, siamo dinanzi alla destrutturazione profonda delle secolarizzazioni filosofiche, della morale, dell’ordinario raziocinante, macerati ove l’uomo stesso sacrifica se stesso e, come in tutte le sublimazioni alchimiche e misteriche, tale palingenesi non può che avvenire che nell’oscurità. La metanoia ovvero il rivolgimento d’orizzonte verso l’origine non può che compiersi in quell’atmosfera ove il Sole non sorge ad Oriente, ma illogicamente ad Occidente, ed ove risuona quella “Canzone del Nottambulo” di nietzschiana memoria, ove gli enti diversi che organicamente affollano la nostra coscienza, si ritrovano nella loro purità esistenziale:

Ogni diletto vuole eternità di tutte le cose, vuol miele, vuol feccia, vuol ebbra mezzanotte, vuole tombe, e vuole conforto di cordoglio sulle tombe, vuole il fulvo oro del vespro” (3).

Il Fanciullo a cui è affidato l’inesorabile compito di dirimere la matassa intrigata del labirinto, è chiamato, senza esitazioni ad un duplice superamento, dello spazio e dello Spirito. Ove il tempo volge in senso antiorario, quindi ricapitolizza il senso perduto, la dualità spaziale si presenta come un non senso, perché il fondamento non si percepisce secondo una via, ma nella profondità della materia e nella totalità della natura. E quale elemento caratterizza inesorabilmente l’incedere della nostra avventura terrena? Ciò che ci terrorizza massimamente ed la cui apparizione ci rammenta fulmineamente il carattere essenziale di noi stessi, del mondo, della coesistenza pacifica o meno, dell’amore, come dell’odio:

L’uomo è chiamato a realizzare il proprio cammino con la Morte al fianco” (4).

Il Solitario ricorre al più potente degli aceti filosofali, cioè la paura della dipartita, in cui ci pone dinanzi ad un bivio: la sublimazione o l’annientamento. Se la seconda opzione è dinanzi a noi tutti con la psicopatia imperante della pandemia tecno-liberista, la prima può condurre al senso ultimo della metafisica concreta ovvero l’esperienza, tramite cui lo spirito si fissa e si concilia, equilibrandosi, tramite la propria alterità:

Non solo i dogmi dell’utilità e della pubblica opinione (ivi compresa quella più volantile ed “elementare” migrata in rete), persino le idee più nobili e la “religione, se non diventano esperienza e realizzazione, rimangono inerti e laiche, come un qualsiasi astratta elucubrazione” (5).

Tutto ciò conduce il Fanciullo protagonista al secondo superamento, quello inerente alla fede, quale supporto esterno, quale vincolo che necessariamente deve essere infranto. Nel racconto l’unica via del narratore si configura essere quella della drittura interiore, che trova, oltre il dogma, la propria sussistenza nella determinazione autocosciente dell’Io. Quanto è possibile ritrovare anche nell’insegnamento tradizionale

In un’epoca di dissoluzione, questo è dunque il fondo essenziale di una visione della vita appropriata per l’uomo rimesso a se stess che deve  dar prova della propria forza. Essere centrali o rendersi centrali a se stessi, constatare o scoprire la supreme identità a se stessi…” (6),

similmente nel labirinto animico è concesso di realizzare in termini di autarchia spirituale, in direzione unica, nella modernità, ove tutti i supporti esterni si presentano illusori:

io sono, prima che tutto il resto sia” (7).

Infine, la narrazione ivi commentata si presenta come utile strumento di autodiscernimento per il lettore, che liberamente potrà infrangere, immedesimandosi, la logica standardizzata dell’evoluzione lineare del falso progresso. Insomma, il Solitaria potrà ritrovare una degna e qualificata compagnia...

Note:

1 – Il Solitario, Il Ritorno oltre il tramonto, Edizioni L’Arco e la Corte, Bari 2020, p.161;

2 – Ivi, p. 83;

3 – Friedrich Nietzsche, Queste le parole di Zarathustra, Edizioni di AR, Avellino 2011, p. 567;

4 - Il Solitario, op. cit., p. 172;

5 – Ivi, p. 173;

6 – Julius Evola, Cavalcare la Tigre, Edizioni Mediterranee, Roma 1995, p. 60;

7 - - Il Solitario, op. cit., p. 217.

Luca Valentini

Domenico Bocchini: L’Atlantide

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Questa “Atlantide” di Domenico Bocchini (1775-1840) – il celebre Geronta Sebezio (o Nicodemo Occhiboni, come anche talvolta si firmava), maestro osirideo e discepolo del grecista Onofrio Gargiulli, come ci ricorda nello splendido saggio introduttivo Luca Valentini, alla cui sensibilità è dovuta questa proposta editoriale – è tratta da un manoscritto inedito nel quale l’autore coniuga i miti relativi alla favolosa isola delle origini – da Esiodo a Platone, fino alle tradizioni rinascimentali ed oltre – con la concezione ermetica caldaico-egizia partenopea, della quale fu autorevolissimo rappresentante e portavoce. Molte altre sorprese ancora saprà riservarci questa viva fonte del pensiero partenopeo. Per ora, il lettore potrà godere di un nuovo tassello per quell’articolato mosaico che è il pensiero dell’enigmatico avvocato-filosofo napoletano.

Per ordinarlo: L’Atlantide – Stamperia del Valentino

Il problema della conoscenza: utilità di una via iniziatica alla conoscenza – Umberto Bianchi

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Dibattiti, conferenze ed una miriade di testi che invadono gli scaffali di quasi tutte le librerie; sembra che quella particolare forma di conoscenza che noi potremmo per maggior comodità e facilità di comprensione, definire “magica” o “iniziatica”, stia vivendo un momento di particolare fortuna. A parte i soliti e gettonatissimi testi sull’astrologia o sui tarocchi, ad andar per la maggiore, ora sono anche quei testi di orientamento più decisamente specialistico riguardanti, cioè, particolari forme o vicende di questo ambito. Il tramonto delle grandi narrazioni ideologiche novecentesche, accompagnato ad un progressivo e globale appiattimento delle coscienze al modello tecno-economico, ha sicuramente incrementato e favorito la ricerca di nuove forme di coscienza che né la piatta e conforme narrazione liberal democratica, né la atea religiosità a buon mercato occidentali, riescono a dare. Il problema di questa forma di conoscenza, sta nell’infinità degli aspetti della realtà, che essa va a toccare e diviene quindi soggetta a quanto mai facili interpolazioni o ad interpretazioni tali, da finire con il porre ad un qualsivoglia attento osservatore la classica domanda, su quale possa essere la reale utilità a fini pratici o lo scopo di tali conoscenze. Ed in una civiltà come la nostra, unicamente incentrata sull’aspetto pratico, su quella “praxis”, che è conoscenza settoriale ed al contempo manipolativa della realtà, la “vexata quaestio” sull’utilità di qualunque tipo di conoscenza che non sia solo ed unicamente legata a questo aspetto, è quanto mai urgente e merita una adeguata risposta. Cominciamo con il dire che, in base alla premessa a cui abbiamo poc’anzi accennato, riguardante la natura della nostra civiltà, la domanda non può riguardare solo ed unicamente la conoscenza di tipo iniziatico o esoterico, ma anche tutti quegli aspetti del conoscere slegati dal freddo empirismo materialista che oggidì costituisce la base dell’attuale visione del mondo tecno economica. E pertanto, la nostra domanda andrà giocoforza andare ad interessare implicitamente anche ambiti diversi da quello iniziatico, quali quelli rappresentati dalla filosofia, dall’arte o dalla stessa riflessione religiosa, solo per citarne alcuni…

Iniziamo con il dire che la conoscenza della realtà nei suoi molteplici aspetti,trova il suo fondamento nell’atavica necessità di fermare, o quanto meno, di dare un indirizzo, all’irrefrenabile flusso del divenire, che tutto travolge e muta, lasciando l’individuo privo di certezze stabili. Se la religione (dal latino “religare/dare un ordine”) ci offre una narrazione del mondo completa ed esaustiva, perché parte dalla premessa dell’assioma di una soverchiante presenza del divino, la filosofia, invece, ci offre una visione del mondo, in grado di travalicare la stessa dimensione del divino, dando di quest’ultima una definizione che, in quanto tale, ne limita i contorni in un più ampio contesto ontologico. La filosofia, pertanto, rispetto alle altre forme di sapere, acquisisce la valenza di quello che, senza ombra di dubbio alcuno, può essere definito il più micidiale strumento di dominio della realtà, proprio a causa del fatto che, tramite la conoscenza della sua più intima struttura, si dovrebbe essere in grado di dominarne o quanto meno, prevederne gli esiti manifestantisi in quel tanto temuto divenire.

Ma vi è un’ulteriore conseguenza connessa al sapere filosofico. Nel suo radicale anelito di conoscenza, l’uomo arriva a comprendere e, pertanto, a circoscrivere la dimensione del sovrannaturale e dell’infinito, sino a poterne controllare od orientare le energie, limitatamente al proprio stato di essere finito. E questo atteggiamento è alla base di ogni forma di sapere iniziatico o magico che dir si voglia. Esso nasce inizialmente quale correlato di un determinato orientamento religioso, di cui costituisce l’aspetto più prettamente manipolativo, sino ad assurgere, con il tempo, a forma di sapere autonoma, da questo distaccata, nel ruolo di vera e propria “mathesis” filosofica.

L’Occidente in questo, costituisce lo specchio perfetto di questo percorso. In una iniziale fase di pensiero “mitopoietico”, nella quale narrazioni come quelle, in ambito ellenico, rappresentate dai poemi omerici o dalle opere esiodee, sono accompagnate da pratiche iniziatiche, come quelle rappresentate dai Misteri Eleusini o da quelli di Dioniso e dall’Orfismo. Con l’arrivo della filosofia e la conseguente definizione e limitazione dell’ambito divino a quello umano, la pratica iniziatica andrà sempre più distaccandosi dall’originale alveo fideistico. A far da battistrada sarà il Pitagorismo, che conferirà al proprio sapere matematico-filosofico, una valenza di mistica iniziatica, successivamente seguito da Empedocle.

Con L’Ellenismo si assisterà all’affermarsi di vere e proprie religioni “misteriosofiche” quali il Mitraismo, il culto di Iside, quello di Men/Sabazio ed altre ancora, tutte maggiormente propense a dar sempre più rilievo all’aspetto iniziatico, piuttosto che a quello prettamente fideistico. Ma sarà con l’Evo Medio che avremo quel vero e proprio “salto di qualità” che continua, ad oggi, a caratterizzare l’intero impianto di pensiero occidentale. Difatti, dai Concili di Efeso e di Nicea in poi, la “Ecclesia” cristiana andrà arroccandosi sulle proprie posizioni, all’insegna di un rigido formalismo letteralista, sino ad arrivare ad abbracciare “ad integrum”, l’aristotelismo della Scolastica, emarginando ed estromettendo dallo scenario, qualunque forma di riflessione religiosa di tipo iniziatico o esoterico, che dir si voglia. A farne le spese, in primis, tutti quei gruppi di ispirazione gnostica come i Catari che, specie in Provenza e Linguadoca, avevano mantenuto una presenza ufficiale.

In Occidente, pertanto, le correnti del pensiero esoterico seguiranno un percorso proprio, autonomo, totalmente distaccato da quello delle varie forme di religiosità ufficiali,(considerazione questa, che vale anche per il mondo Protestante, Calvinista e, con le dovute eccezioni, anche per quello Cristiano-Ortodosso) contrariamente, invece, a quello che si verificherà e continua, tuttora, a verificarsi in ambiti come quello Ebraico, con la Cabalistica o in quello Islamico, con il Sufismo, con le Scuole Indù di Yoga Tantrico e le varie appendici esoteriche del Buddhismo tibetano o quello Zen, tanto per citare gli esempi più famosi.

Il sapere iniziatico, va assumendo pertanto, la valenza di una vera e propria forma di sapere autonomo, partendo inizialmente dalla valenza di correlato di una narrazione religiosa alla quale può o meno, rimanere attaccato, a seconda degli sviluppi storici, così come abbiamo avuto modo di esaminare in brevi linee. Come abbiamo già detto, in quanto correlato della religione o della filosofia, il sapere esoterico si pone l’obiettivo di pervenire ad una definizione dell’essenza intima della realtà, arrivandone a manipolare le energie, al fine di promuovere la crescita interiore del miste. Una crescita che , è bene ricordarlo, si differenzia dall’afflato mistico e fideistico, in quanto frutto di un percorso di attiva ricerca e sperimentazione sull’ “io”. Che poi, questa ricerca porti il miste ad identificarsi sic et simpliciter con la divina “energheia” o esso stesso ad assurgere a Nume, questo non può che dipendere dal tipo di dottrina preso in esame e dall’individuo che ne segue la pratica. Resta il fatto che, questa forma di sapere, al pari di quello filosofico, andando a disceverare l’essenza intima, “occulta” della realtà, costituisce un potente stimolo delle facoltà intellettuali di un individuo, una vera e propria modalità di potenziamento di queste ultime. Il sapere filosofico, nella sua valenza di “mathesis universalis”, costituito da una doppia valenza razionale-descrittiva e pratico-manipolatoria, arriva a toccare le corde più intime della sostanza dell’Essere potenziando le facoltà intellettuali e rendendo più completo chi, allo studio di tali discipline si avvicini. Ben lontana, quindi, da tutto il ciarpame spiritista e superstizioso da quattro soldi, la sapienza ermetica, ad oggi, potrebbe andare a costituire un valido supporto a quella scienza ad oggi messa in evidente difficoltà, davanti ai propri limiti  teoretici e pratici. Una forma di sapere meccanicistico, priva di anima, non è in grado di risolvere i gravi problemi, che il mondo globale ci va presentando perché ne è essa stessa la causa, avendo indissolubilmente legato i propri destini a quelli dell’economia.

Non resta che auspicarsi l’interazione e la compenetrazione di queste due forme di sapere, quello scientifico e quello filosofico-iniziatico. Una via d’uscita questa, già tentata dall’ermetista inglese Robert Fludd, i cui tentativi di contatto con Keplero, nel 17° secolo, naufragarono contro l’ottuso spirito di supponenza di quest’ultimo, sancendo la definitiva messa in minorità di una forma di sapere, a detrimento di una civiltà che poi, ne avrebbe finito per pagare il salato prezzo. Un percorso che partendo dalle intuizioni del pensiero Vitalista, attraverso le voci dei vari Schopenauer, Nietzsche e Stirner, arriva alla fine del 19° secolo, a confluire nel filone di una originale sintesi tra Avanguardia Vitalista e Pensiero Esoterico, passando anche attraverso gli studi e le esperienze di menti proiettate nel Futuro come quelle di un Bergson, di un Marinetti, di un Balla, di un Depero o di quelle di maestri ed iniziati come quelle di uno Steiner, di un Kremmerz, di un Reghini, di un Evola, di uno Scaligero  e di tanti altri ancora, sino ad arrivare alle intuizioni di un pensiero “aurorale” e parmenideo, così come negli scritti di un Heidegger. Un percorso lungo ed irto di difficoltà, quello rappresentato dal tentativo di sintesi tra Archè e Futuro, ma che rappresenta l’unica via d’uscita per i problemi, sia individuali che collettivi del genere umano e di un’intera civiltà e che, stiamone pur certi, non tarderà a riservarci altre sorprese.

    UMBERTO BIANCHI

De Occulta Sapientia: Via Regale e Geometria Sacra – Michele Perrotta

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Quella che può sembrare una sorta di contraddizione in termini nell’utilizzo della parola Geometria sacra, in cui si unisce una ‘scienza matematica’, quindi tangibile e misurabile, con ciò che è sacro, e quindi con Dio che invece è un’entità trascendente e un concetto non tangibile, in realtà non lo è. La Geometria sacra è il modello che rivela l’ordine divino presente in ogni aspetto della nostra realtà fisica oltre che della nostra interiorità.   Possiamo individuare questo sacro ordine partendo dall’atomo fino ad arrivare ad esaminare la natura dei vari pianeti o delle innumerevoli stelle, scoprendo in loro la stessa matrice che è presente in noi.  Per queste ragioni possiamo considerare la Geometria sacra come un’impronta marcata della divinità.    Questa ‘scienza’ è un sapere funzionale che porta a capire come è strutturata la matrice determinante in cui Dio esercita la sua funzione primaria, vale a dire come la ‘forza creatrice’ genera, forma e plasma ogni cosa nel creato pur rimanendo sempre attiva e produttiva in ogni punto del Cosmo.  Cioè costantemente viva e presente in questa interminabile emanazione in cui l’Universo continua ancora ad espandersi.   La scienza oggi è in grado di dimostrare come tutto quello che esiste nell’Universo materiale sia costituito principalmente da ‘Luce’, o più precisamente ‘Energia’ (misura), e ‘Vibrazione’ (peso/frequenze/intervalli).   La gravità e i legami elettromagnetici sono, pertanto, gli ‘scultori’ delle svariate simmetrie presenti in Natura.    Tutte le geometrie che osserviamo nell’Universo fisico sono dunque, ancora prima di essere ‘numeri’ che offriranno forme ben precise, ‘pensiero pensato’ da una ‘Mente superna’: sono creazioni elaborate da una ‘Legge divina’ non scritta ma sempre vigente.  Le incalcolabili forme presenti nel mondo fisico sono a tutti gli effetti simboli della vita sviluppatasi grazie all’intervento di una precisa logica come se questa fosse realmente guidata dalla ‘mano’ di Dio.   Sono da considerarsi a tutti gli effetti un’epifanìa, cioè manifestazioni terrene della divinità creante ed emanativa.   Se c’è una ‘Logica’ ci deve essere di conseguenza un Artefice, un ideatore responsabile di tutto ciò.    Molte cose presenti nella manifestazione materiale, così come le antiche strutture edificate dagli iniziati ai misteri con precise proporzioni geometriche, indicano per ‘numeri’ ed ‘immagini’ l’ordine divino o il ‘codice dell’Universo’ stesso con cui Dio dà origine alle infinite cose che esistono nel regno fisico.   Questo saggio non vuole limitarsi ad essere il solito trattato incentrato sugli aspetti oscuri di una o più tradizioni che tenta di svelare chissà quale verità alternativa tenuta finora nascosta, o il solito scritto che tratta di Geometria sacra in senso generico, bensì ha l’ambiziosa pretesa di mettere in funzione, con un metodo che al lettore risulterà del tutto inatteso, quelle dinamiche interiori che sembrano essere andate perdute nonostante siano da sempre operative e presenti in noi.

La conoscenza presentata in questa ricerca è poggiata su degli studi millenari basati sulla struttura dell’intero Cosmo ideato e modellato dalla Mente divina per mezzo di ‘energie vibrazionali’ conformi alle nostre ‘emozioni’, e dunque concatenate alla nostra reale natura o essenza.  Si tratta di un vero e proprio excursus nel ‘Mondo dell’anima’.   Le perfette forme che noi osserviamo su questo piano di realtà, così come i misteriosi ‘Solidi platonici’, sono in grado di trasformare il nostro sentire e la nostra essenza rendendola più vicina a Dio, ‘forza vitale’ presente in ogni dove.    In questo scritto è presente una conoscenza che è stata in passato volutamente occultata da alcuni grandi pensatori e mistici. Da qui il titolo.   Con questo nome l’autore vuole soprattutto indicare una serie di conoscenze, di matrice misterica, che sono state volutamente celate nei secoli dalle varie tradizioni esoteriche.   Insegnamenti celesti funzionali a smuovere le nostre ‘acque inferiori’.

… Le religioni, come più volte da noi indicato, sono abiti diversi che ricoprono in realtà gli stessi ‘Principi universali’; sono ‘Mondi’ distinti che conducono all’Uno.  Noi possiamo scegliere di seguire quale tradizione o quale percorso intraprendere per visionare e magari ‘visitare’ uno o più di questi ‘Mondi’, ma il fine sarà sempre il medesimo: Dio.  Una volta conquistata questa ‘iniziazione’, che mette la nostra coscienza in perfetta armonia con le dinamiche proprie della Geometria sacra di cui la vita stessa è pregna, entriamo in contatto diretto con l’essenza del Divino, cioè assimiliamo attraverso la nostra Mente e la nostra coscienza come la Sua essenza si sviluppa e continua ad emanare l’energia vitale all’interno di ogni particella della materia.    Questa peculiarità è propria della cosiddetta ‘evoluzione platonica’ dei ‘Solidi’ che sono inequivocabilmente connessi alle emozioni dell’‘Anima dell’Universo’ e di conseguenza anche alle nostre anime.  Non si tratta di ‘creazione’ come viene esposta dalle varie religioni in cui Dio si separa da quest’ultima una volta terminata, ma una continua ‘emanazione’ in cui il Divino è presente in ogni dove, in ogni punto della galassia: Dio che agisce continuamente all’interno di ogni atomo presente in Natura.  Tutte le storie esposte nelle varie tradizioni religiose dove si parla di un ‘Dio personale’ che avrebbe creato il mondo e si relazionerebbe con noi, il quale addirittura in passato avrebbe anche assunto un corpo fisico per mezzo dell’incarnazione o attraverso una Sua emanazione, come insegnato nel Cristianesimo e nel Vaishnavismo di cui ci siamo occupati nei nostri precedenti lavori, sono funzionali alla conoscenza di Dio per mezzo della devozione (correnti devozionali), ma a nostro avviso l’uomo deve fare uno sforzo in più se vuole realmente conoscere la reale natura di Dio; deve riuscire, in parole povere, a trascendere (senza rinnegare) queste dinamiche sentimentali e devozionali che sono alla base di ogni dottrina monoteistica per andare incontro all’Infinito, vale a dire verso la ‘dimensione metafisica’ in cui dimora la vera essenza di Dio, Spirito Supremo.    Questo è possibile capirlo mediante l’Esoterismo dove tra le altre cose è presente quella scienza di cui ci stiamo occupando in questa ricerca: la Geometria sacra.  La sola visualizzazione (anche interiore – ad occhi chiusi), oltre che la contemplazione, di queste speciali figure geometriche equivale ad una efficace meditazione in cui si mettono in moto all’interno di noi ‘energie emotive’ capaci di infondere ‘sostentamento energetico’ dal regno sottile e/o metafisico.    Si tratta della stessa produzione emotiva che è connessa a quei ‘Principi universali’ di cui l’essenza creante dell’Anima mundi risulta essere realmente ‘Principio’ e ‘Causa’ incessantemente operosa di tutto ciò che ci circonda.   I desideri sani, i ‘pensieri creanti’, sono ‘atti di luce’ che forgiano la nostra realtà, ossia sono capaci di purificare la nostra Mente e generare nuove concezioni esistenziali.  Una volta riconquistate queste nozioni, secondo il processo di ‘anamnesi’, le ‘verità primordiali’ (archetipi) che sono alla base dell’intera esistenza sboccerebbero in noi come un giardino all’albeggiare di una nuova primavera

UN’INTRODUZIONE NEGLI INFINITI ‘MONDI’

L’essere umano si rafforza compiendo cose ardue, soprattutto quando quest’ultimo avanza notevolmente nel cammino intimo che porta all’incremento della conoscenza. La conoscenza è quell’ineguagliabile strumento che agisce come mezzo che sottrae terreno da ciò che per noi prima era occulto, ignoto, celato. E’ la luce che dissipa le tenebre del mistero fornendoci sempre più  consapevolezza.  Tutti gli argomenti e le varie tradizioni che abbiamo studiato, fatto nostre, e messe per iscritto nei nostri precedenti lavori sono come delle ‘iniziazioni’ acquisite, ovverosia sono da considerare come delle ‘conoscenze conquistate nel nostro intimo’ e non necessariamente come insegnamenti distinti fini a se stessi. Motivo per cui riteniamo le varie dottrine e le differenti pratiche delle molteplici religioni come tasselli fondamentali o mattoni su cui edificare un nuovo Sé. Le religioni sono da intendere come abiti diversi che ricoprono da sempre i medesimi ‘Principi universali’ e non come vie settarie chiuse all’incontro tra le diverse fedi e tradizioni: sono linguaggi distinti che tentano di decodificare, decifrare, e spiegare la medesima ‘Realtà Suprema’ figlia di una ‘Logica superiore’ che tutto predispone in ogni dove al di là del Tempo. L’essere umano, essendo fatto ad ‘Immagine di Dio’ (nella sostanza), è molto di più di un semplice mammifero: è un essere ‘multidimensionale’ ricco di  ‘potenzialità illimitate’. Esistono quindi due realtà dell’esistenza su cui dovremmo principalmente concentrarci, quella trascendentale e quella immanentistica. La prima è di competenza della Teologia, mentre la seconda è studiata dalla Scienza. Attraverso la Geometria sacra è però possibile investigarle entrambe. L’uomo, non abitandonelle ‘sfere angeliche’, è collocato in una dimensione in cui il vuoto conoscitivo può e deve alimentare in lui la sete di conoscenza.Questo processo è volto principalmente a far conoscere Dio per mezzo di tutto ciò che ci circonda. Ecco perché pensiamo che la Geometria sacra sia una disciplina fondamentale per la conoscenza dell’Assoluto. Attraverso lo studio di questa nobile materia è possibile scovare le impronte del Divino lasciate in ogni forma presente nel ‘Mondo fisico’.  Purtroppo oggigiorno molte persone vedono il ‘Mondo’ in maniera troppo ‘piccola’ e questa concezione, figlia di un’illusione sviante, si riflette in loro non lasciandoli concepirelontanamente l’idea che possono esistere altri aspetti del Sé oltre che altre realtà. Per costoro il ‘Mondo’, ossia la visione delle cose che il loro livello di coscienza è in grado di concepire,sarà destinato a rimanere molto stringente esempre pronto a conservarsi e a chiudersi.

Per questa tipologia di persone è quasi del tutto impossibile andare oltre il loro recintato e limitante senso della vita. La gente che fa parte di questo nucleo, purtroppo costituito dalla maggior parte delle persone prigioniera di determinati schemi mentali, sono anime attaccate alla limitata realtà dei cinque sensi e, soprattutto, alle figure di questo ‘Mondo’ (Divinità, Idoli, Santi, Pontefici, Guru, Re, Statisti, Artisti, etc., etc.,) create dalla parola di altri uomini: le cosiddette ‘verità preconfezionate’ dai poteri costituti. Nelle pagine che seguono cercheremo di andare al di là di tutto ciò per conoscere meglio quei ‘Mondi lontanissimi’ di cui parleremo in quest’opera; gli stessi che, nonostante tutto, per qualche oscura ragione sono da sempre raggiungibili dalla Mente del libero pensatore. Con il termine ‘Mondi’ facciamo riferimento a determinati modiche ha la nostra psiche di concepire la realtà circostante. Sono differenti ‘dimensioni interiori’ con cui possiamo interagire eccezionalmente. I ‘Mondi’, oltre a rappresentare concreti piani di realtà che nel corso della storia svariati mistici hanno sperimentato, visionato, e certe volte persino visitato, sono un complesso di ‘fenomeni’ e ‘funzioni psichiche’ che consentono al nostro ‘Io’ di formarsi un’esperienza di sé e dell’oggettività in modo progressivo. Anche la concezione di Aldilà non indica necessariamente una dimensione oltre la vita, ma una regione percettiva della Mente che conduce i nostri pensieri fuori dall’idea comune. Si tratta, in sostanza, di una visione diversa del ‘Mondo’ e di ciò che viene comunemente accettato come concezione normale di realtà. A nostro avviso, tutte le strade, così come tutti i ‘Mondi’ da noi presentati in questa ‘ricerca del profondo’, portano chiaramente a Dio. Attraverso il ‘pensiero’, ebbene, è possibile avvicinare e concepire la dimensione spirituale ed energetica del Divino senza l’intercessione di nessun potere ‘temporale’ e ‘spirituale’ proprio perché tutto ciò che ci circonda altro non è che una proficua ed incessante ‘emozione’ di Dio. Secondo la Fisica l’energia posseduta o liberata da uno o più corpi può essere dovuta a varie cause: al movimento (energia cinetica), alla posizione (energia potenziale), a deformazioni (energia elastica), all’agitazione termica (energia termica), a reazioni chimiche (energia chimica) o nucleari (energia nucleare), a una corrente elettrica (energia elettrica), etc. Essa può, con maggiore o minore spontaneità e difficoltà, trasformarsi da una forma nell’altra seguendo i due principi della conservazione e della degradazione dell’energia.

La ‘teoria della relatività’ ha convalidato una peculiare relazione tra ‘massa’ ed ‘energia’, che si può interpretare come  aspetti diversi della medesima realtà. Noi siamo convinti che l’essere in sé, oltre ad avere un corpo grossolano (materiale), sia costituito da ‘energie sottili’ in totale connessione con le ‘emozioni’ che noi proviamo, vere e proprie ‘forze dinamiche celesti’ combinate al ‘Mondo dello Spirito’; le stesse energie che possono essere veicolate dall’uomo grazie alla sua volontà per mezzo di meditazioni, preghiere, atti magici.  Le emozioni sono come delle onde gigantesche che ci investono di continuo e noi siamo spesso il balia di loro nell’arco della nostra esistenza come un vascello in mare aperto durante una tempesta. La ‘Sapienza misterica’ che presentiamo nei prossimi capitoli, oltre ad estendere e ad elevare il nostro pensiero al fine di controllare le nostre ‘forze interiori’ ed ampliare la conoscenza del nostro ‘Mondo’ per andare oltre noi stessi, unisce l’Eterno con l’impermanente, l’Infinito (Dio) col finito (l’uomo).

Michele Perrotta

Il libro "De Occulta Sapientia: Via Regale e operativa della Geometria Sacra tra Scienza e Magia"  di Michele Perrotta è ordinabile al seguente indirizzo:

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