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L’ortodossia eterodossa di Pavel Florenskij – Umberto Bianchi

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Nella più comune accezione del termine, l’ortodossia ci richiama qualcosa di rigido ed immutabile riguardante, in primis, l’ambito di quella forma di religiosità, nell’ambito dell’ecumene cristiana, che ad oggi qualifichiamo quale “ortodossa”. I volti ieratici, le barbe fluenti, la suggestiva ritualità, sembrano riportarci ad una dimensione di immobile atemporalità, nella quale a prevalere è una dimensione esclusivamente contemplativa. Il russo  Pavel Florenskij (1882-1937), sembra stravolgere tutto questo. Religioso e teologo, ma anche filosofo e scienziato, si fa portatore di una visione filosofica che colloca l’ortodossia in un’ottica ben diversa da quella alla quale, il grande pubblico, è solitamente abituato a fare riferimento.

Coerentemente con le radici greche ed orientali del cristianesimo ortodosso, Florenskij si fa fautore di una forma di neoplatonismo, mutuata da quanto elaborato da Palamas (1296-1359), monaco del Monte Athos nell'Impero bizantino ed in seguito Arcivescovo di Tessalonica. L’idea di una interconnessione tra la sfera divina e quella terrena, allo stesso tempo accompagnata  da una netta cesura tra le due è, in questa particolare versione del neoplatonismo, coniugata all’insegna della compenetrazione tra la sfera divina e quella materiale, attraverso tutte quelle energeias/energie che, quali primarie manifestazioni della physis/natura divina, si manifestano nel mondo attraverso luce, calore, etc. e che, alfine, trovano nella pratica rituale dell’esicasmo, uno dei propri momenti culminanti. Ad esser adorata non è una astratta sostanza divina, bensì la sua immagine, concretizzata nel “nomen omen” di Cristo, ripetuto ed alfine interiorizzato, attraverso una forma di preghiera-meditazione, incentrata sul punto di intersezione tra naso ed occhi, che ci rimanda direttamente a quel “terzo occhio” induista, in grado di far passare la limitata ed egoica coscienza umana, a quel superiore stato di spersonalizzazione e connessione con l’Assoluto, in quel contesto, chiamato Atman. Ma Dio non è solo un nome o un’immagine, ma molto di più.

E qui si inserisce la visione di Florenskij. Superando l’idea platonica di una rigida separazione tra la sfera divina e quella materiale, ma anzi,  proclamando una loro stretta compenetrazione, Pavel Alexandrovic Florenskij, si immerge nello studio del simbolo quale particolare punto di connessione tra le due sfere, partendo proprio dall’arte e da quella sua particolare espressione data dall’iconologia. Ben lungi dall’essere astratte ed immobili espressioni pittoriche, le icone rappresentano il volto parlante del divino. I santi quali rappresentazioni ierofaniche dell’energeia/energia, divina, ci guardano e ci connettono direttamente alle sfere superne. L’Arte e l’artista si fanno, pertanto, veicolo della trasposizione della sostanza divina “ in terris”, divenendo il veicolo principe in grado di connettere l’osservatore al proprio archetipo vitale. Ma l’arte, in quanto rappresentazione visiva della realtà che ci circonda, è anche rappresentazione di ciò che a noi si manifesta, in modo incompleto, imperfetto ed illusorio. Pertanto,  venendo meno al principio di non contraddizione che sovrintende a tutto il pensiero occidentale, Pavel Florensky ci mette innanzi al fatto dell’intima contradditorietà della realtà  che ci circonda. Vivere ed accettare la contraddittorietà della realtà, è quanto il filosofo russo ci suggerisce, non senza, attraverso l’esercizio dell’Arte pura che attraverso la dionisiaca esaltazione dei sensi ci solleva verso le apollinee dimensioni delle forme pure, diretta espressione e manifestazione del divino.

Con Florensky l’ortodossia russa, sembra riconnettersi ai grandi motivi che da sempre animano e scuotono la vita dell’Occidente, da una parte rappresentati dalla contraddittorietà insita a quest’ultimo e che i fondamenti razionalistici non sono riusciti a scalfire granchè. Dall’altra parte e conseguentemente a quanto poc’anzi detto,  una visione dell’arte e dell’estetica, atte a proiettare l’uomo in una dimensione sovrumana, grazie alla già citata capacità di queste di connettere l’individuo ai propri archetipi vitali. Quasi a voler prendere le mosse da quanto l’arte occidentale ha sperimentato con gli effetti visivi della pittura fiamminga e della pittura italiana del Rinascimento, l’arte delle icone viene portata da Florensky ben oltre il raffinato, ma pur sempre, tecnicistico ambito illusionista, nella direzione di quel pensiero magico, il cui afflato ricompare tra le spire della sorgente Modernità, lasciando intravedere all’alienato individuo post moderno, delle inaspettate vie d’uscita. Quella che sembrava essere una rigida ed ingessata espressione religiosa, ora sembra voler seguire la direzione di quel pensiero magico che ha animato la Rinascenza in Italia ed in Occidente…Pavel Florensky è stato espressione vivente di quella Grande Russia, quel Continente dell’anima, a sua figlio di quella Grande Madre che è l’Asia, da cui ha attinto a piene mani l’afflato verso una forma di romantico misticismo, espressa  nell’aspirazione dei panslavisti del primo Novecento, ad uno stato di mistici, di guerrieri e di contadini. Il sogno di un superuomo slavo, andrà però a fracassarsi sugli scogli dell’ottusità marxista di Stalin che, dopo aver fatto deportare il grande studioso in un Gulag , lo farà fucilare l’8 dicembre del ’37.

Verrà così posta fine ad un’avventura umana, la cui straordinaria fecondità intellettuale, può essere tranquillamente paragonata all’eclettismo dell’esperienza rinascimentale ed umanistica nostrana.  Il lascito di Florensky è lì ad indicarci una via, quella della Tradizione che, dipartendosi da un unico perno, espressione di un coacervo di motivi comuni, va poi dipartendosi in una caleidoscopica molteplicità di espressioni, tutte egualmente segnate dal lascito di una comune appartenenza. Quella ricerca interiore a carattere iniziatico che, in Occidente, assume le vesti di una vera e propria eterodossia, finendo col farsi filosofia, al di fuori dell’ortodossia religiosa, in Oriente, invece, si sviluppa all’interno di quella stessa ortodossia, quale vera e propria ricerca teosofica. E forse proprio da questo misterioso ponte che unisce due continenti dello spirito, quali Asia ed Europa, che dovrebbe ripartire un progetto di rinascita, in grado di scalzare definitivamente l’alienante gabbia globalista.

UMBERTO BIANCHI

L’Avesta e lo Zoroastrismo – Luigi Angelino

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L'Avesta è la denominazione che si attribuisce all'insieme dei libri sacri nell'ambito della religione “mazdea”. L'origine di questi testi sacri non è stata del tutto chiarita, anche se è delineata in una serie di indicazioni in lingua pahlavi (1). Seguendo alcune leggende, si racconta che i libri fossero 21, denominati Nasks, formulati direttamente dal dio Ahura Mazda, per poi essere presentati dal mitico Zaratustra al re Vistaspa (2). Il sovrano ne avrebbe ricavate due copie, di cui una fu depositata nel tesoro di stato e l'altra nell'archivio. Con l'arrivo della dominazione di Alessandro Magno, l'Avesta fu rielaborato in lingua greca da autori ellenisti che, ovviamente, tradussero le antiche nozioni dei testi, plasmandole di dottrine della propria cultura (3). L'etimologia del termine “Avesta” è ancora molto incerta, ancora oggetto di grandi dibattiti tra gli studiosi iranisti. La maggior parte degli esegeti ritiene che deriva dalla radice dell'antico persiano upa-stavaka e che possa essere tradotto come “lode”. Gli argomenti trattati nell'Avesta sono eminentemente religiosi, anche se vi sono inseriti molteplici elementi di cosmogonia, astronomia e relativi alle tradizioni di costume. L'aspetto forse più importante di tale manoscritto risiede nel fatto che costituisce l'unica prova dell'esistenza di un idioma, l'Avestico, altrimenti caduto irrimediabilmente nell'oblìo. Parliamo di una lingua antichissima iranica che, insieme all'antico persiano, è annoverata nel ramo indo-iranico, a sua volta derivante dalla famiglia indo-europea. Si tratta di una lingua molto affascinante, contenente ben 14 grafemi vocalici e 37 grafemi consonantici, con evidenti difficoltà di distinguere i vari accenti e segni, allo scopo soprattutto di non sbagliare nell'invocazione delle preghiere che, qualora mal pronunciate, secondo le credenze di allora, avrebbero addirittura potuto portare nocumento a chi le utilizzava. La lingua avestica, come è pervenuta al giorno d'oggi, appare come un complesso di testi destinati alle celebrazioni liturgiche ed ai rituali, rappresentando, pertanto, la raccolta di formule da ripetere durante i sacrifici e nelle varie ricorrenze quotidiane (4).

La comunità scientifica ha rilevato che probabilmente la prima opera di raccolta degli scritti avestici sia stata compiuta sotto la dinastia degli Arsacidi. In particolare, il re Valaxs avrebbe rielaborato sia i frammenti scritti che quelli tramandati in forma orale. Successivamente i Sasanidi avrebbero perfezionato l'opera, grazie al leggendario sacerdote Tansar e al re Sapur I che si impegnò alacremente per ritrovare i documenti dispersi durante l'invasione macedone. Si narra, poi, che fu il sacerdote Aburdad i Mahraspandan ad effettuare una revisione generale del canone che diventò quello ortodosso. Infine Cosroe I (5) guidò un equipe di fedelissimi per ottenere una revisione finale del canone avestico, che fu tradotto in lingua pahlavi. Attribuire una sicura datazione alla composizione dell'Avesta non è affatto semplice, in mancanza di fonti storiche certe. E' necessario, tuttavia, operare un'importante distinzione cronologica tra gli Antichi testi Avesta (Gathas, Yasna Haptanhaiti e le cosiddette “quattro grandi preghiere”) ed i i più recenti testi aggiunti secoli dopo. La sequenza cronologica non è stata indicata con certezza, anche se i Gathas, i testi più antichi, sono generalmente collocati intorno al 1000 a.C., mentre i più recenti risalirebbero a circa cinque secoli dopo. La struttura dei testi dell'Avesta non si presenta con caratteristiche unitarie, ma piuttosto come una sorta di raccolta di opere di diversa provenienza. Gli studiosi suddividono gli scritti avestici in due blocchi fondamentali: quello delle liturgie devozionali e l'altro dedicato allo svolgimento delle pratiche rituali. Le prime invocazioni potevano essere recitate in qualsiasi luogo, mentre le seconde soltanto all'interno del “tempio del fuoco”. Tra i testi rituali, di particolare importanza è lo Yasna, formato da 72 sezioni od inni, recitati soprattutto durante il consumo rituale del Parahaoma, ossia una miscela ricavata con ramoscelli di piante del melograno pestati con succo della pianta sacrificale, in aggiunta a latte e ad acqua. Le 72 sezioni sono raffigurate, in maniera simbolica, dai fili intrecciati della sacra cintura dello zoroastrismo, chiamata “kusti” (6). Le sezioni sono, a loro volta, raggruppate in tre grandi parti (1-27; 28-54; 55-72). Gli esegeti ritengono che nella parte centrale sia possibile individuare la parte più antica dell'Avesta, il Gathas (7). Durante la recitazione dell'ultimo passo di questa parte, avveniva la trasformazione del rituale in fuoco, che segnava il culmine della cerimonia religiosa. I Gathas sono formate da 17 inni, ognuno dei quali è chiamato con le prime lettere iniziali. Gli storici erano arrivati alla conclusione che il mitico Zarathustra avesse lasciato in prosa le testimonianze della propria predicazione e, pertanto, questi inni fossero brevi componimenti dedicati ai suoi discepoli più intimi, in una sorta di condivisione empatica religiosa. I Visperad, invece, sono testi liturgici mai recitati da soli, ma sempre unitamente agli Yasna. Essi prendono il nome dalla solenne cerimonia del Visperad, ricorrenza della “grande festività stagionale”, il Gahanbars. Il Vendidad o Videvad era recitato durante la cerimonia liturgica, all'interno del tempo del fuoco, il Dar el Mehr. Secondo le antiche testimonianze, la cerimonia, durante la quale si leggevano tali inni, era chiamata “Pura Vendidad”, per il fatto che tali scritti non furono mai tradotti in lingua pahlavi, ma si trovano solo in originale idioma avestico. Nella tradizione religiosa, tali testi deriverebbero direttamente dal profeta Zarathustra e dalla divinità Ahura Mazda, costituendo il fulcro della vita mistica dei relativi discepoli. Nell'ambito dei testi devozionali, una parte rilevante è rappresentata dagli Yasht, una raccolta di 21 inni dedicati ad un'ampia e variegata moltitudine di divinità e di spiriti, come Mitra, Haoma ed altre figure del pantheon iranico. Una parte degli inni si riferisce a fenomeni naturali come il sole, la luna, il vento o le stelle, terminando tutti metricamente allo stesso modo, cioè con il nome della divinità o dell'entità invocata. Infine, ci sono i Khorde Avesta, un insieme di testi devozionali adoperati durante la vita quotidiana dal popolo, quindi senza la necessaria intermediazione sacerdotale. Essi sono divisi in quattro gruppi tassonomici: i Siroze, composti da preghiere in relazione con i 30 giorni del calendario, ciascuno dedicato ad una singola divinità; i Nyaysin, 5 preghiere rivolte a 5 entità ritenute predominanti: Sole, Mitra, Luna, Acqua e Fuoco; i Gah da recitare nei 5 quarti in cui era suddiviso il giorno (mattina, mezzogiorno, pomeriggio, sera e notte); gli Afringam, 4 preghiere relative a diverse occasioni (in onore di una persona defunta; durante il quintultimo giorno dell'anno; durante le 6 grandi festività stagionali; all'inizio ed alla fine dell'estate).

Come non vi è alcuna certezza sull'esatta datazione dei testi dell'Avesta, così decisamente frammentarie sono le notizie sull'esistenza del leggendario Zarathustra, italianizzato in “Zoroastro”. Per una parte degli studiosi, il profeta sarebbe vissuto tra l'XI ed il X secolo a.C., per altri addirittura circa 500 anni più tardi, in una zona non ben identificata dell'altopiano iranico, in prossimità dell'odierno Azerbaijan o perfino nella parte opposta, ossia nell'Iran nord orientale. A similitudine di altri grandi pensatori ed ideatori delle antiche religioni, si racconta che Zoroastro si ritirò dal mondo per circa dieci anni, per dedicarsi alla meditazione ed alle pratiche ascetiche. Dopo aver raggiunto un elevato livello di consapevolezza, il profeta avrebbe avuto una visione divina, capace di spronarlo a diffondere una nuova religione. La nuova dottrina di Zoroastro inglobò alcune credenze già in voga tra le popolazioni dell'altopiano iranico, come la fede nel dio supremo, Ahura Mazda, origine della luce e della bontà, informandole di principi etici e vivificandole con un complicato sistema liturgico. Nello zoroastrismo si attribuisce grande importanza al principio della purezza, sia interiore che esteriore, al punto che il rituale funebre di tale dottrina prevede che i defunti non siano seppelliti, in modo da non contaminare la terra, ma vengano collocati sulla cima di pile funerarie, dove i corpi possano essere divorati dagli animali, prima di entrare in decomposizione. Secondo lo zoroastrismo, l'anima lascia il corpo dopo tre giorni, liberandosi dalla prigionia della materia considerata impura. Uno dei rituali più importanti, come abbiamo accennato prima a proposito dell'Avesta, è l'adorazione del fuoco, il simbolo per eccellenza della luce e, pertanto, profondamente legato al dio Ahura Mazda. Il fuoco deve ardere in eterno nei templi zoroastriani, anche nei luoghi di culto dei movimenti odierni che si ispirano a tale religione. Oggi il “fuoco eterno” più conosciuto si trova nella località di Yazd, situata nell'Iran centrale. In questo magico luogo, i sacerdoti, eredi degli antichi Magi (8), alimentano il sacro fuoco e continuato a custodire i riti, le tradizioni ed i misteri. La facciata del tempio è dominata dal fravahar, l'uomo alato che rappresenta la parte divina dell'anima umana. Secondo una leggenda, il fuoco custodito a Yazd, seppure spostato in vari luoghi nel corso dei secoli, arderebbe in maniera ininterrotta da circa 1500 anni. E' interessante notare come nello zoroastrismo attuale, il faravahar rappresenti il fine dell'esistenza di ciascun essere umano, per avanzare verso la dimensione detta “frasho-kereti”, cioè l'unione con l'unico dio, Ahura Mazda. L'antico simbolo dell'uomo alato, in realtà, vuole raffigurare lo stato dell'anima prima della nascita e dopo la morte, il Fato, che si distinguerebbe dal Destino, indicato come il periodo intercorrente tra la nascita e la morte, governato dal libero arbitrio umano (9). Si ritiene che proprio da questo simbolo abbia tratto origine il Libro dei Morti Egiziano, denominato anche Libri di Thot, a sua volta alla base della Chiave Ermetica di Ermete Trismegisto, le splendide 22 lamine geroglifiche, giustamente appellate “Trionfi” (Tavola Smaragdina).

Lo zoroastrismo, dunque, esiste da ben tremila anni, probabilmente in un'epoca antecedente allo svilupparsi dell'Ebraismo, per aggiudicarsi il titolo di religione monoteista. Bisogna precisare, tuttavia, che, contrariamente a quanto si pensa, l'Ebraismo non nacque all'inizio come culto monoteista (credere nell'esistenza di un solo dio), ma come culto monolatrico (riservare il proprio culto ad un solo dio). Il monoteismo dello zoroastrismo è temperato da un accentuato principio di contrapposizione dualista: l'unico dio, Ahura Mazda, è eternamente impegnato in una lotta contro le forze delle tenebre, guidate dall'antidio, il perfido Ahriman, considerato figura ispiratrice della successiva mitologia cristiana dell'angelo caduto Lucifero/Satana (10). Ad ogni persona spetta il compito, attraverso il libero arbitrio, di scegliere fra la luce e l'oscurità, contribuendo con le sue azioni direttamente alla salvezza o alla dannazione del mondo. Anche in questa possibilità di scelta, sono evidenti le influenze che la religione di Zoroastro avrà sui fondamentali principi delle tre religioni abramitiche (11). Nell'etica dei testi dell'Avesta prevalgono tre motti: “buoni pensieri, buone parole, buone azioni”, un mantra estremamente semplice e sintetico, quanto limpido ed efficace. Non si possono avere buoni pensieri, se non si realizzano mediante buone parole e buone azioni, come queste ultime sono vanificate se nell'animo rimangono cattivi propositi. Un aspetto importantissimo e, pressochè rivoluzionario, per le civiltà antiche, era l'assoluta “parità di genere” predicata dallo zoroastrismo, dove uomini e donne erano eguali in tutto. L'impero persiano dei Sasanidi fu, infatti, guidato sia da re che da regine, come i sacerdoti potevano appartenere ad entrambi i sessi, usanze che non corrispondono alla normalità nell'Iran moderno, dove prevale il fondamentalismo islamico.

Oltre all'Avesta, la letteratura religiosa zoroastriana si compone di altri testi in lingua medio-persiana o pahlavica. Tra questi si segnala, in maniera particolare, per la ricchezza dei contenuti, il Denkard (Gli atti della religione), una sorta di enciclopedia teologica composta da nove libri, dei quali sono andati perduti i primi due ed una parte del terzo. Si tratta di un'opera molto complessa e di difficile quanto affascinante decifrazione per il suo stile oscuro. Il Bundahisn (la creazione primordiale) è, poi, una descrizione delle conoscenze cosmogoniche, sulle origini dell'umanità, nonché sulla configurazione del nostro pianeta, sugli astri e sulle relative influenze, suddividendo il calendario e la storia sacra in ben dodici millenni (12). Tra il IX ed il X secolo d.C. furono redatte interessanti opere filosofiche: i Dadestan i denig (sentenze religiose); i Dadestan i Menog i Xrad (sentenze dello spirito e della sapienza); e lo Skand-gumanig wizar (la soluzione definitiva dei dubbi), un trattato apologetico con spunti di critica interessanti nei confronti dell'Islam, del Giudaismo, del Cristianesimo e del Manicheismo (13). Di grande suggestione è il libro di Arda Wiraz (Arda Wiraz namag), definito come la “Divina Commedia iranica”, una straordinaria avventura epica tradotta in molte lingue, dedicata al visionario viaggio di un uomo giusto nell'aldilà. Il protagonista, grazie agli effetti di una pozione di vino e di giusquiamo, compie la grande impresa di separare da vivo l'anima dal corpo, riuscendo per sette giorni e sette notti a visitare il paradiso, la zona intermedia (una specie di purgatorio) e l'inferno, confermando le verità della fede al suo rientro nel mondo dei vivi. Anche quest'opera dimostra come le raffigurazioni del mondo dell'aldilà cristiane non siano affatto originali, ma abbiano attinto da credenze molto più datate.

Come abbiamo accennato in precedenza, nello Zoroastrismo è possibile individuare un dualismo metafisico, etico e spirituale, che comprende l'intera concezione dell'universo e dell'esistenza umana. Ahura Mazda (il Signore saggio) è un dio creatore e benefico, nemico implacabile delle potenze malefiche, guidate da Ahriman, generatore di mostri e di fantasmi soprattutto virtuali, collocati sul piano ideale della realtà. Il dualismo di questa religione, tuttavia, non deve essere considerato come quello manicheo, o di derivazione gnostica-neoplatonica, di lotta tra lo spirito e la materia, ma tra due diversi piani dell'esistenza: lo spirituale ed il materiale (nella terminologia pahlavica, il menog e il getig). Lo stato spirituale è fondamentalmente mentale o ideale, costituendo il seme o il germe di quello materiale e sensibile. Secondo lo zoroastrismo, la perfetta simmetria dei due stati si realizza solo sul piano spirituale, in quanto Ahriman, malefico e distruttore, non è capace di trasferire le sue “emanazioni” sul piano concreto della vita materiale e, per questa sua condizione di inferiorità, è invidioso di Ahura Mazda, cercando di assalirlo e di contaminarlo. Lo zoroastrismo cerca di spiegare le categorie dello spazio e del tempo, inserendo ogni ciclo creativo in una fase di 12.000 anni (9.000 anni effettivi, dopo 3.000 anni iniziali di separazione tra i due spiriti). Nell'arco di 12.000 anni, quindi, avverrà l'annientamento di Ahriman, con l'espulsione del Male dalla creazione, dopo un grande giudizio finale (14). E' inutile sottolineare come questi aspetti escatologici e soteriologici abbiano influenzato la letteratura apocalittica biblica, in particolare il libro della “Rivelazione” di Giovanni di Patmos. Per quanto riguarda la salvezza individuale, lo zoroastrismo prevede che ciascun individuo rispetti precisi obblighi morali, prestando fede al giudizio delle anime, al paradiso, all'inferno, al mondo intermedio ed all'avvento del Salvatore (Saosyant). Nella visione di Zoroastro, vi sono anche indicazioni sull'eventuale apocatastasi (15), il ristabilimento finale di ogni equilibrio cosmico. Al momento del raggiungimento dell'assoluta perfezione, con l'annientamento del male, cielo e terra si uniranno, il mondo apparirà trasfigurato, mentre i corpi diventeranno luminosi e brillanti; le tenebre si dissolveranno ed il fuoco sarà così puro, da bruciare senza fumo; perfino i dannati all'inferno si salveranno, perchè avranno la possibilità di tornare sulla terra accanto ai giusti, mondati dei propri peccati. Il dio supremo, Ahura Mazda, non agisce da solo, ma è aiutato da un certo numero di “collaboratori”, di cui la maggior parte è rappresentata da virtù divine ed umane (gli “Immortali benefici”, il “buon pensiero”, la “verità”, la “potenza”, la “devozione”, l'”immortalità, etc.). Come appare chiaro, si tratta di astrazioni concettuali, in linea con una tendenza propria di questa religione, orientata a personificare concetti teologici astratti. I rituali dello zoroastrismo seguono l'individuo in ogni età della sua esistenza, dalla sua iniziazione verso i sette anni, considerata una nuova nascita, fino al momento della morte, concepita come un doloroso trapasso, pieno di pericoli, in direzione di una nuova vita. I fedeli sono sottoposti a numerose pratiche purificatorie, seguendo le rigide scansioni temporali dell'anno liturgico, a sua volta formato da mesi, settimane e dai già citati “cinque periodi” del giorno.

Da alcuni degli elementi analizzati, si evince come lo zoroastrismo si sia insinuato in tutte le altre religioni, soprattutto nel cristianesimo, codificando molte idee come quella di un Dio creatore, nonché concetti aggiuntivi, come quelli di Spirito Santo, Figlio di Dio, Principe del Male, Alfa e Omega, Angeli e Demoni, immortalità dell'anima, resurrezione del corpo, redenzione e tanti altri. A differenza della tradizione giudaico-cristiana, in cui si attribuisce più importanza alla “bontà della creazione”, intesa in senso interiore, nello zoroastrismo si dà più rilevanza alla “bellezza” degli esseri divini, dei corpi umani e del creato in genere. Il libro della Genesi dell'Antico Testamento biblico che noi conosciamo non si sofferma molto sulla descrizione dei corpi nudi di Adamo e di Eva, evidenziando, invece, la vergogna provata per la propria nudità, dopo aver mangiato dell'albero della conoscenza. Nella Bibbia, inoltre, nulla si dice dell'aspetto esteriore di Dio, nonostante la relazione in termini di “immagine e somiglianza” che lo accosterebbe all'uomo. All'opposto, nell'Avesta, ciò che viene creato da Ahura Mazda non è solo “buono”, ma anche “bello”, armonioso e perfetto. Nelle varie invocazioni liturgiche, si nota l'associazione tra la bellezza e la forza da una parte, e tra la forza ed il coraggio dall'altro, suggerendo come la bellezza non rappresenti un ideale fine a sé stesso, ma strettamente connesso con le virtù morali (16). Tra le figure più fortunate del pantheon della religione di Zoroastro, vi è sicuramente il dio Mitra (17), citato anche nei Veda, il libro sacro della religione induista, associato al culto solare e ad una serie di virtù etiche, come l'onestà, l'amicizia e la fedeltà. Tale divinità si diffuse rapidamente in tutta l'area ellenistica, conquistando molti discepoli a Roma a partire dal I secolo a.C., importato soprattutto dalle legioni che tornavano dalle campagne militari in Oriente. A causa della durezza di alcune prove iniziatiche a cui erano sottoposti i nuovi adepti, il culto, riservato solo agli uomini, trovò ampi consensi fra i militari. Nel terzo secolo d.C., il culto fu favorito dagli stessi imperatori che vedevano in esso un ottimo strumento per assicurarsi la fedeltà delle truppe. Durante il periodo tardo-imperiale, tuttavia, il culto di Mitra andò pian piano a fondersi con quello del Sol invictus, finendo poi per essere soppiantato dal dilagante cristianesimo, che ne ereditò varie forme iconografiche. Nell'antico mito indo-iranico, confluito nello zoroastrismo, il mito di Mitra era ricco di simbologia ancestrale. Egli era una divinità nata da una roccia e destinata ad assicurare la salvezza del mondo. Al fine di compiere la straordinaria impresa, il dio Sole gli inviò un corvo, come emissario, comandandogli di uccidere un Toro, che rappresentava la pienezza della vita e, forse, la stessa costellazione omonima (18). Mitra riuscì ad intrappolare il valoroso animale in una caverna, riuscendo ad ucciderlo con un coltello nel fianco. Dal corpo del toro morente, nacquero tutte le piante necessarie per la vita dell'uomo, in particolare il grano e la vite. Nel mito, il dio fu aiutato nell'impresa da altri due animali: lo scorpione che punse il toro ai testicoli e il serpente che lo attaccò con morsi (da considerare come la costellazione dello Scorpione sia opposta a quella del Toro). Secondo un'interpretazione diversa, i due animali sarebbero stati inviati dall'antidio Ahriman per cercare di contrastare la generazione della natura. Alla fine, comunque, Mitra, ottenuto il beneplacito dal dio-Sole, celebra con questi un banchetto con le carni del toro ucciso. Nelle raffigurazioni classiche, Mitra era rappresentato, come un giovane dal berretto frigio, nell'atto di uccidere il toro (tauroctonia) e spesso, ai suoi piedi, compaiono gli animali che lo aiutarono nell'impresa. Il culto di Mitra comprendeva sette gradi di iniziazione, ciascuno associato ad un pianeta o alla rispettiva divinità. A partire dal più basso, i sette gradi erano i seguenti: corvo-Mercurio; nymphus-Venere; soldato-Marte; leone-Giove; persiano-Luna; corriere del sole-Sole; padre-Saturno.

Mi piace concludere questa breve rassegna, con un cenno ad un'antica leggenda che riguarda il tempio di fuoco di Chak Chak, a 52 chilometri a nord-est di Yazd. Il tempio si presenta come inchiodato ad una parete di roccia, con una veduta sulla valle sottostante che può dare le vertigini. La leggenda racconta che Nikbanou, figlia dell'ultimo grande sovrano sasanide Yazdegerd, si sia rifugiata in questa valle per sfuggire alla cattura da parte dei conquistatori arabi. Il dio Ahura Mazda, mosso da pietà, l'avrebbe salvata facendola inghiottire dalle montagne, con le quali la giovane donna sarebbe diventata tutt'uno. Il santuario sarebbe stato fondato proprio intorno alla grotta dove sarebbe avvenuto il prodigio divino. Se riflettiamo, ci accorgiamo che la stessa denominazione “Chak Chak”, è in realtà un'onomatopea che richiama il rumore delle gocce d'acqua che da tempo immemorabile scorrono dal soffitto dell'antro. Con un po' di fantasia possiamo credere che si tratti del pianto della sfortunata principessa....

Note:

(1) Con il termine “pahlavi” si indica una particolare forma delle lingue medio-persiane, adoperando un uso di caratteri di origine aramaica;

(2) Si tratta di una figura leggendaria, indicata come primo seguace di Zoroastro;

(3) Cfr. A. Alberti, Avesta, Editore UTET, Milano 2013;

(4) Cfr. A. Bausani, Zend-Avesta, Editore Ghibli, Milano 2014;

(5) Cosroe I è considerato il più importante sovrano della dinastia sasanide, grazie anche al lungo periodo del suo regno (531-579 d.C.);

(6) E' anche la sacra cintura indossata dagli zoroastriani intorno alla vita, solitamente con tre sequenze circolari;

(7) Cfr. K. Khazai Pardis, Le Gatha-Il libo sublime di Zarathustra, Editore Mimesis, Milano 2019;

(8) I Magi citati nei Vangeli erano ragionevolmente sacerdoti provenienti dalla Persia;

(9) Cfr. M. Stausberg, Zarathustra e lo zoroastrismo, Editore Carocci, Roma 2013;

(10) Cfr. L. Angelino, L'arazzo dell'apocalisse di Angers, Editore Cavinato international, Brescia 2020;

(11) Per le tre grandi “religioni abramitiche” si intendono l'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islamismo, che fondamentalmente fanno partire il progetto soteriologico divino con il patriarca Abramo;

(12) Cfr. A. Cocchi, Dalla parte di Zoroastro, Editore youcanprint, Milano 2019;

(13) Il Manicheismo, dal nome del profeta Mani, si diffuse in Persia sotto l'impero sasanide, arrivando in Occidente ed in estremo Oriente. La dottrina manichea credeva in un rigido dualismo che contrapponeva il bene al male, la luce alle tenebre;

(14) Cfr., L.A. Wills, Il tesoro di Zoroastro, Editore Silele, Milano 2012;

(15) In ambito cristiano, l'apocatastasi prevederebbe la salvezza finale anche di Satana. La dottrina, che ha avuto illustri esponenti come Origene, fu

dichiarata eretica. Cfr. L. Angelino, La redenzione di Satana-Apocatastasi, Editore Cavinato international, Brescia 2019;

(16) Cfr. A. Panaino, Zoroastrismo. Storia, temi, attualità, Editore Morcelliana, Brescia 2016;

(17) Il culto di Mitra subì profondi cambiamenti durante il periodo ellenistico. Per molti studiosi, alcuni suoi aspetti rituali influenzarono fortemente il Cristianesimo;

(18) L'importanza della lotta con il “Toro” si rileva anche nell'antico poema sumero-babilonese, l'Epopea di Gilgamesh.

Luigi Angelino

LA VISIONE, LA FESTIVITÀ DEL POLITICO E LA VITA COME MILITIA – Giandomenico Casalino

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Colui che ha la Visione, è la Visione ed è visionario; la Visione è la potenza dello Spirito che apre le cateratte del Cielo e consente l'Irruzione dello stesso sulla Terra, consente la creazione della Civiltà che, nella spiritualità indoeuropea, è il Tempio della Luce e della chiarezza del Cielo diurno; è la Res Publica che è Juppiter Optimus Maximus in Idea manifesta. Secondo la natura naturans dell'uomo indoeuropeo, il Politico come categoria dello spirito, è, pertanto, la luminosità ed il chiarore festivo del giorno, è la festività perenne del Flamen Dialis, che non viene chiamato Jovialis ma Dialis, cioè il Sacro Giorno (“id est Dies Pater”, precisa Varrone!); lo Stato, cioè la Cosa di tutti, la Res Publica Romanorum è, quindi, il chiarore e la luminosità del Giorno e del Cielo diurno, per la ragione che i Riti giuridico-religiosi e la vita stessa del Popolo Romano, che è il Popolo degli Dei, i suoi Comizi, le sue convocazioni del Senato, i suoi Concilia Plebis, si celebrano, rite et auspicato, solo sotto il Cielo luminoso del Giorno che è Juppiter Optimus Maximus! Il Politico, la Res Publica, cioè quello che noi impropriamente chiamiamo Stato, è quindi il festivo nella perennità poiché è il più-che-vita, è l'oltrevita, nel senso dell'andare al di là della generazione e della riproduzione, quindi della dimensione strettamente biologica del Jus Gentium e quindi della familia, per entrare nella dimensione del Jus Civile che è quella superiore dello Spirito, dell'Ordine, della Gerarchia, dell'Autorità, della virilità sapienziale e della Comunità quale mannerbund, Bersekir, Compagnia di uomini armati scelti: Legione; dove l'etimo di “Comunità” è “cum munus” cioè “unione in forza dell'obbligo”: ed è l'origine guerriera dello Stato. La festività del Politico, della Res Publica, non può che essere pertanto la conseguenza della sacralità medesima del Pubblico che è come dire del Popolo (Populus e Publicus derivano ambedue dall'arcaico pòplikos; vedi G. Casalino, Sigillum Scientiae. L'essenza vivente ed ermetica della Romanità e il Platonismo, Taranto 2017, pp. 38 e ss.); nel Digesto si afferma: “sono sacre quelle cose che sono state consacrate pubblicamente: non le private” (1,8,6); “è ritenuto sacro solo ciò che è stato consacrato per iniziativa del Popolo Romano, sia mediante legislazione che Senatoconsulto” (Gaio, 2,5). Se nella Romanità il Pubblico si identifica ab origine con il Sacro ed il privato con il profano, allora, poiché il Pubblico si identifica con il Popolo medesimo, quest'ultimo è Sacro: in questa immensa verità rivoluzionaria, per il mondo antico e per tutta la vicenda umana nella intera storia delle Civiltà, risiede in Roma la festività del Politico, cioè la sua appartenenza alla dimensione sacra che, interrompendo, fermando la serialità profana cioè privata degli eventi umani, eleva la Comunità verso la dimensione dell'Alto nella quale si decide, nel Popolo e per il Popolo, su ciò che si confà alla Legge dello Spirito e non a quella del Sangue. Se ciò è vero, l'intera linea di pensiero della nostra Tradizione dello Stato, quale Idea dell'Ordine, è quella che risiede nella Visione dello Juppiter Optimus Maximus quale Cielo luminoso del Giorno, come in tutti gli Dei sovrani del mondo indoeuropeo dalla Scandinavia all'India e che, secondo Altheim, equivale al Principio Luce che è Apollo (ed è ciò che intuì Augusto…!) che è tutt'uno sia con la stessa natura cosmica della Res Publica, che è Res Populi e quindi Res Sacra, che con l'esoterica e potentissima, poiché magica, natura del Flamen Dialis quale sacro, vivente e visibile legame mistico, continuo e perenne, tra il Popolo Romano e la dimensione più Alta dell'Invisibile, garanzia suprema della Salus Rei Publicae (tanto che nel periodo più buio delle guerre civili della tarda età repubblicana, per quasi ottant'anni, l'Officium del Flamen Dialis restò vacante…!). Identificare, coniugando, il Pubblico, il Popolo con il Sacro, coniugando cioè l'inconiugabile secondo la cultura politico-religiosa di tutti i tempi, e fondando su tale identificazione, i tre pilastri della Norma, quale Rtà cosmico, Ordine divino del Mondo che è la Res Publica stessa, pilastri che sono: Religione, Politica e Diritto, fonte, gli stessi, della Majestas Populi Romani, seconda solo a quella di Juppiter, e della Auctoritas del Senato, significa, sostanzialmente, superare e vincere il relativismo agnostico ed ateo della oclocrazia greca, la perfidia della plutocrazia mercantile e talassocratica cartaginese nonché la stessa tirannide plebiscitaria sia etrusca che dei regni orientali ellenistici,  ed instaurare la Virtus indiscutibile, immodificabile e quindi oggettivamente valida, efficace e potente, cioè assoluta, della Legge che, provenendo dal Popolo e quindi dal Sacro, è tanto carica di tale energia da garantire e conservare la Aeternitas medesima della Res Publica. Nella miktè politèia romana cioè nella sua Costituzione mista, nella Libertas dei Cives nei loro Ordini, nel bilanciamento reciproco dei poteri istituzionali che, provenendo dal Mos Majorum e quindi dagli Avi e cioè dal Tempo degli Dei, sono Sacri e pertanto immodificabili, consiste ciò che stupidamente noi definiamo “conservatorismo giuridico e politico” dei Romani, quando, invece, è solo, per quel santo Popolo, venerazione religiosa e pietas reverenziale nei confronti delle sacre Origini che sono la base del Cosmo romano. Ciò ha consentito alla Romanità ed alla sua Idea di Res Publica di creare, nel tempo, la Comunità mondiale delle diverse Genti che sono un unico Popolo che è quello Romano (Constitutio antoniniana del 212 d.C.) e che, quindi, sono il Sacro: prende forma e vita, pertanto, il miracolo, unico nella storia dell'umanità, della Sovranità del Popolo universale fondata e legittimata dal Sacro e che si identifica con lo stesso e tale Sovranità universale della Sacertà dei popoli che sono il Popolo Romano, dialoga e riconosce, come suo Ponte (Pontefice Massimo) con il Divino, che ha tanti volti, nature e tradizioni quante ne conservano dignitosamente e liberamente le varie e diversificate culture dell'immenso Ecumene romano, il Principe  ed essenzialmente il suo Genio, alla cui Salute e Vittoria tutti i cittadini dell'Urbe universale bruciano grani di incenso sull'Ara, in segno di religiosa gratitudine e pia devozione.

Poteva tale potenza spirituale cadere e scomparire tra i flutti della vicenda umana dopo la tragedia di Canne? Certamente no! Polibio, infatti, profetizzò che Roma, poiché aveva superato Canne, era destinata al governo del Mondo! Con giustizia, saggezza e lungimiranza nella venerazione religiosa e nel rispetto secolare delle sacre istituzioni dei Padri, tanto che ancora in piena età bizantina i vescovi dalmati invocavano la restaurazione della Sancta Res Publica!

Con la sciagurata legislazione di Teodosio, la quale recise il coniugio tra Stato e Sacro, tra Impero e Religione, riducendo così lo Stato ad amministrazione agnostica ed arida (dalla stupidità contemporanea definita “laica”) priva di qualsiasi legittimazione da parte di principi oggettivi assoluti, metafisici e quindi riconosciuti e osservati da tutti, come sola può essere la potenza intoccabile del Sacro, degradando il Pubblico a privato e quindi a profano che è il campo individualistico del relativismo etico, e la religione a vicenda intima, psichica e personale e non più comunitaria, oggettiva, rituale e tradizionale in quanto intellettiva; la credenza venuta ad avere la prevalenza in Occidente, inaugurò così il lungo dominio dell'impotente giaculatorio sacerdotale in uno con i primi vagiti di quel mostro che sarà poi l'astrazione moderna del cosiddetto “Stato di diritto” di cui vaneggiava Kelsen, sorta di tautologico strumento (il Diritto) che vorrebbe essere al contempo fine di se stesso e quindi nullità assoluta, vuota crisalide da riempire con il puro tecnicismo economicistico del mercante e della sua “etica” dell'utile, come iniziò ad apparire già con il cosiddetto rinascimento. È, pertanto, l'Era dell'acosmismo che equivale allo strappare ogni presenza del Sacro tanto dal Politico quanto dalla Natura, relegando tali dimensioni dello Spirito nel materialismo meccanicistico che, scomparsa di poi la pervadenza della dogmatica fideistica, con il tramonto del cosiddetto evomedio, diveniva la “nova religio” della modernità, apparentemente nata in opposizione al cristianesimo ma, in vero, figlia dello stesso e “conflittuale” con il medesimo tanto quanto lo sono da sempre i figli con i padri…! Chi ha osato pronunziare, in questi lunghi e oscuri quindici secoli, le Parole di potenza quali: “Casa divina dei Cesari”, “Imperator et sacerdos”, “Sacralità e funzione soteriologica dell'Impero, quale strumento divino  per la Salus dei Popoli” se non la Teologia imperiale ghibellina del divino Federico II e del sommo Dante? Esplicitando così, sia al colto che all'inclita, che l' “alternativa” al cosiddetto evomedio  non possono mai essere né l'umanesimo né il rinascimento poiché essi non sono altro che un “rivoltarsi nel medesimo giaciglio di una lunga malattia”; né tantomeno il cosiddetto illuminismo può mai essere considerato, da coloro che hanno visto il Logos, “alternativo” all'ottusità pragmatistica, quale unica ragione di esistenza delle entità sedicenti statuali dell'Europa moderna, lacerate da interminabili, stupide e folli guerre “religiose”, prodromi dell'avvento definitivo e totale dell'era liberale e della sua atea ragione economicistica.

Dinanzi a codesto abominio della desolazione ed al suo deserto dell'anima, così come visto da Nietzsche, la Visione non può che essere ciò che passa i secoli ed i millenni e misteriosamente riappare, come “traditio” della Romanità e del Paradigma platonico della Politèia, comunitaria, gerarchica e misticamente sapienziale, all'alba del XX secolo ed in piena ed assiale Età Oscura, in una esplicita, terribile e barbara rivendicazione di “qualcosa” di primordiale che ha il sapore di  una Rivolta immunitaria della gioventù d'Europa: è la inaudita e blasfema, secondo i dogmi delle tre religioni dominanti: cristianesimo, liberalismo e marxismo, identificazione dello Stato con il Sacro, del Popolo con lo Stato e, quindi, del Popolo con il Sacro, in una gioiosa renovatio della Majestas Populi Romani e della Auctoritas dello Stato in quanto Idea suprema dell'Ordine e della Gerarchia dello Spirito, quasi nella medesima guisa in cui Hegel ne aveva profetizzato l'avvento necessario, come “ingresso di Dio nel Mondo”!

Nel novembre del 1914, immediatamente dopo la sua espulsione dal Partito Socialista, Benito Mussolini rilasciò un'intervista al giornale Il Resto del Carlino di Bologna, in cui affermava testualmente quanto segue: “Io mi chiedo se alla nozione futura di Socialismo si possa coniugare la parola Spirito”; “Io mi chiedo se alla nozione futura di Socialismo si possa coniugare la parola Dio”; e poi di seguito: “Io mi chiedo se alla nozione futura di Socialismo si possano coniugare le parole Patria e Famiglia”! Cosa sono mai potute apparire ai contemporanei tali parole, tali concetti, tali domande che Mussolini poneva innanzitutto a se stesso ed al contempo alla cultura filosofico-politica del XX secolo ed oltre, compreso il nostro? Nessuno infatti può negare o fingere di non vedere nelle medesime una potentissima carica profetica avente ad oggetto la catastrofe fallimentare del Socialismo materialista ed ateo, ultimo figlio di quella lontana desacralizzazione della Res Publica e del Popolo, operata dal cristianesimo quindici secoli addietro ed al contempo la vitale necessità di opporre alle desertificanti “democrazie plutocratiche e reazionarie dell'occidente” (come, sempre testualmente, ribadirà nel giugno del 1940…!) l'Idea di un nuovo ed autentico Socialismo patriottico, inteso quale fortissimo spirito comunitario in quanto fondato e legittimato da un potente legame religioso in cui è centrale la Visione platonica e romana della Res Publica gerarchica e socialista, festivamente gioviale nonché marzialmente guerriera, nel culto della Famiglia quale Sangue e Terra, che sono la convivenza domestica e pacifica di Quirino: se in quei concetti, carichi di una esplosività epocale ancora oggi inimmaginabile, riappare misteriosamente la presenza numinosa della Triade Arcaica di Roma: Juppiter, Mars, Quirinus, al contempo il tutto si fonda, come già aveva realizzato Roma antica, sulla Identificazione del Pubblico con il Sacro e, per lo effetto, del Popolo con il Sacro: noi abbiamo qualche idea della immensa e luminosa prospettiva, radicalmente rivoluzionaria nei confronti di questa putrescente era economicistica, che custodiscono (ed uso volontariamente il tempo presente…!) quelle parole pronunciate nel lontano 1914, nelle quali in nuce vi è tutto l'arcano apparire, in pieno XX secolo, di quel fenomeno epocale, mistico-religioso, sociale e popolare, gerarchico e guerriero nonché radicalmente antimoderno che poi sarà il Fascismo europeo “immenso e rosso”, nei suoi vari e diversificati volti? Noi, che osiamo parlare di Visione, siamo capaci di vedere, nella energia dello Spirito, ciò che passa i secoli ed i millenni e presenta, con nuovi lessici ed altre forme espressive, la medesima Idea dinanzi ai nostri occhi e cuori e ci parla degli stessi Simboli e Miti che con la potenza alata della Parola, Gabriele D'Annunzio evocherà, quale gran Ierofante dello Stato, nell'altra ierofania del Politico come festività gioviale e guerriera nonché sapienzialmente pregna del Numen di Minerva, che è la festività quotidie di Fiume del 1919, che non può che essere il rinnovamento della Felicitas gioviale in quanto viaggio iniziatico di natura eroica di  un'intera Comunità di Popolo e di Guerrieri, di uomini e di donne che osano pensare di e volere “andare oltre” la piccola e meschina Italia clericale, massonica e liberale, senza memoria patria e senza alcuna struttura ossea, ma vile mollusco nelle mani delle “rapinatrici potenze bancarie ed usurarie dell'Occidente” come il Poeta-Soldato le aveva santamente definite. La Visione, quale trittico rivelatore, si chiude, aprendosi però come la fine di un Circolo ne apre un altro affinché si manifesti il Circolo dei Circoli che è l'Assoluto secondo Hegel, nel perfezionarsi di se medesima in un'Ascesi dell'Azione che, muovendo dai concetti mussoliniani del 1914, evocanti un futuro Socialismo mistico-religioso che è il Pubblico identificato al Sacro e quindi al Popolo, come lo aveva visto Roma, si rinnova nella epifania di Fiume e nella sua Politica festiva, come Gioia guerriera e liberatrice dai cascami e dai  miasmi del passato, in quanto è Marte Gradivo che, marciando, giunge di poi alla dimensione più alta dell'Invisibile che appare agli occhi vedenti del visionario nell'Imperialismo Pagano di Evola della fine degli anni 20, in cui si manifesta la Luce di tutta la Teologia dell'Impero che è Teosofia dello stesso in quanto Scienza della sua sacralità ed è pertanto la rivendicazione non solo e non tanto politica ma soprattutto interiore, esoterica, della più autentica concezione indoeuropea del Sacro, la quale, come nell'India arya,  riconosce la Verità ed afferma che, nel momento in cui lo kshàtriya, cioè il guerriero, viene consacrato e quindi elevato alla dignità regale, è il Dio stesso e dinanzi a lui il sacerdote, che è il suo purohita , cioè il suo sacrestano, si inginocchia poiché lo vede e conosce quale Principio supremo cosmico incarnato e, quindi, Rex et sacerdos in quanto Uno, essendo virilità magica che ha riconquistato e quindi possiede la sua Donna che è la sua Potenza, poiché è la sua stessa mano che esegue i Riti così come accadeva in Roma sia con il Rex nell'età monarchica che con il Console in quella repubblicana quanto con il Principe nell'età del Principato: Imperialismo pagano racchiude ed è quindi la sublimazione della Visione, è il “mondo magico degli Eroi”, è la loro riconquista del vertice della Piramide cioè del Sacro, indebitamente usurpato, immiserito e depotenziato, nella sola dimensione psichica, da femminee figure sacerdotali e nuovamente identificato con i Summa e la Majestas luminosa di Giove Ottimo Massimo e la Virtus guerriera di Marte: il Pontefice che è Scienza e Conoscenza, suggerisce il formulario al Console ma è quest'ultimo, che indossa il rosso paludamentum poiché è titolare dell'imperium e dell'Ascesi dell'Azione, che trae gli Auspici ed esegue i Riti di fronte agli Dei, in quanto è il garante della Pax Deorum!

Ciò manifesta la natura guerriera e magico-attiva della Via al Sacro di Roma; il lessicografo Festo, infatti, rivela, nel suo Ordo Sacerdotum, che la gerarchia, nei banchetti sacri, è la seguente: primo è il Rex Sacrorum, subito dopo vi sono i Flamines della Triade Arcaica, che non sono Sacerdoti Pubblici ma, bensì, sono il Sacro, cioè “statue viventi degli Dei” (Plutarco) e pertanto Vita quale esercizio attivo della Via dell'Azione Sacra; dopo è situato il Collegio dei Pontefici che sono degli autentici sacerdoti e sono, come si è detto, la Conoscenza del Sacro in quanto Via contemplativa allo stesso: tale è l'essenza della Tradizione Romana che evidenzia, come non mai, la differenza gerarchica sussistente tra chi è il Sacro in quanto vivente e manifesta identità con lo stesso, virilmente possedendolo ed agendolo e sono i Flamines ed i Pontefici, i quali sono solo la Conoscenza dei Riti e delle segrete formule atte a consentire a chi, agendo e vivendo da principio maschio vittorioso, in senso magico (precisa Evola!), di esercitare il potere inerente il jus agendi cum Diis che è il Rito in quanto Azione suprema e continua di ridivinificazione del Divino il che è come dire creazione perenne della stessa Res Publica.

Dumézil e l’universalità della grande triade – Walter Venchiarutti

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Il tema del numero tre, che regola il mondo, sta alla base dell’ordine fisico e di quello spirituale. Renè Guénon, nel libro La grande triade, considera questa entità alla stregua di una costante ripartizione che parimenti trova espressione nella tradizione metafisica orientale e in quella occidentale. George Dumézil (1898-1986), mitologo, storico delle religioni, linguista e filologo francese, ha proseguito nel medesimo indirizzo rivolgendosi agli studi della storia civile e religiosa delle culture europee. Il suo esame parte dall’osservazione di dati primari (Riti e leggende del mondo Egeo, 2005) e prosegue con la comparazione finalizzata a stabilire gli archetipi da cui successivamente sono derivate le consuetudini millenarie (Gli dei sovrani degli indoeuropei,1985 – Matrimoni indioeuropei, 1984). Sono soggetti attivi delle società tradizionali il veggente, il guerriero e il commerciante che corrispondono al complesso religioso, all’establishment politico e al consorzio mercantile. Ognuno di questi ceti occupa un preciso posto nella tripartizione comunitaria che, fin dai primordi, ha caratterizzato le grandi civiltà preistoriche (Mito e epopea,1968 – L’ideologia tripartita degli indoeuropei, 1988).

L’esercizio svolto da queste categorie può produrre risultati ambivalenti e avere effetti antitetici. Ad esempio: il sacro si è espresso attraverso la virtù e le solennità rituali, ma è stato parodiato da chi attraverso le arti occulte è pervenuto a forme di incantamento. I conflitti potenziano le identità comunitarie se vengono utilizzati per la difesa ma possono esser fonte di prepotenza e offesa. La produzione di ricchezza favorisce lo sviluppo, il nutrimento, il benessere di una comunità, ma non di rado si accompagna alla predazione. Tali corrispondenze trovano riscontri nei rappresentanti divini  delle più lontane Tradizioni. Nella trimurti indù, Brama, Vishnu e Shiva presiedono al corso della ruota samsarica attraverso il ciclo della creazione, conservazione e distruzione. Nella predicazione monoteista zoroastriana Mitra è il giorno, Varuna è la notte, Indra personifica i fenomeni atmosferici. Così a Roma il culto è riservato alla triade capitolina dei tre flamini maggiori Jupiter (autorità, potenza diritto della sovranità), Mars (potere e la forza combattente), Quirinus (fertilità e pace). La terna della tavola eugubina per Dumézil è stata attualizzata dalla festa dei tre ceri celebrata a Gubbio con Sant’Ubaldo (il potente patrono), San Giorgio (il santo guerriero), Sant’Antonio (il tutore del porco fecondo).

La scoperta delle radici istituzionali dei popoli indoeuropei nella tripartizione macrocosmica: cielo, atmosfera e terra ripropone la simmetria del microcosmo umano costituito da spirito, anima e corpo. Non avendo a disposizione prove documentarie di fronte al difficile lavoro di ricomposizione della cosiddetta ultra-storia Dumézil utilizzò i metodi della comparazione mitologica e dell’indagine lessicale, entrambi rivolti allo studio delle remote culture europee. L’onestà intellettuale lo portò ad un interminabile lavoro di continua rielaborazione dei dati raccolti. Non rifuggiva da revisioni e conseguenti reinterpretazioni dei precedenti lavori. Notevole è stata la tenacia a non soggiacere a schemi preconcetti. Operava allo sviluppo di indagini in continuo divenire contro la critica corale di chi, proveniente dal positivismo rigoristico, rifiutava a priori il vaglio di una infinità di dati antichi, leggendari e lessicali.

Nel riconoscere l’esistenza del “trifunzionaslismo” o schema triadico Dumézil non si limitò a seguire le pieghe del passato ma fornì prova delle sopravvivenze ancora importanti presenti in culture relativamente recenti. Il mito può derivare da fatti storici o da finzioni letterarie; può essere ambientato in un mondo umano o sovraumano, ma sempre esprime l’epopea, l’ideologia di una società, ne conserva valori, ideali, regole e pratiche che altrimenti andrebbero irrimediabilmente disperse. La geniale intuizione dell’ideologia tripartitica è stata dedotta dall’osservazione del sistema sociale in atto fin da in tempi preistorici; tiene conto della realtà spirituale e materiale dei popoli indoeuropei e conserva un campo di analisi che possiamo riscontrare anche nella nostra contemporaneità fornendo esempi pratici e facilmente consultabili.

Ad esempio, nel cuore dei centri storici delle antiche città europee piccole e grandi si fronteggiano architetture che, ancora in periodo medioevale, rappresentavano le insegne monumentali dei tre ordini più importanti della società locale: il duomo degli oratores, il palazzo comunale dei bellatores, le botteghe dei mercatores. Ancora, tali testimonianze trovano equivalenza nell’origine delle caste indù (varna): brahmana (uomo della formula), ksatrya (uomo della guerra), vaisya (allevatore, agricoltore).

La grande mole di studi che George Dumézil ci ha lasciato spazia in un vastissimo campo con testi dedicati alle diverse discipline: romanistica (La religione romana arcaica,1977), germanistica (Gli déi dei Germani, 1974) e orientalistica (Storie degli Sciti, 980) ma, come ha notato Alessandro Campi, l’analisi dumeziliana delle religioni “ha restituito alla storia un popolo ed una cultura, offerto una lezione di metodo, reso compatibile il nostro sguardo sul più antico passato con la nostra condizione di uomini moderni”.

Walter Venchiarutti  

L’occhio della Regina

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di Rita Remagnino

   

Ultimamente su questo sito si è scritto a più riprese di Akhenaton e della parentesi monoteistica del periodo amarniano. Nessuno ha citato però la consorte che in quella svolta ebbe un ruolo di primo piano, per cui vi farò un accenno. Impresa tutt’altro che semplice, perché quando si scava nelle profondità del tempo non si può essere mai sicuri di niente.

Collaborando nelle catalogazioni e nei rilievi effettuati a Ninive, Tell Brak e Nimrud con il secondo marito Max Mallowan - un archeologo instancabile e intuitivo che segnò la storia dell’archeologia mesopotamica come pochi altri - la leggendaria Agatha Christie non poté fare a meno di constatare quanto fossero simili le indagini del criminologo e le ricerche dell’archeologo, che, in caso di bisogno, potevano essere anche un’ottima copertura per acquisire utili informazioni sulla politica, l’economia e la geografia di un determinato territorio. Una lungimirante anticipazione di quello che avrebbero messo in campo molte agenzie governative di Intelligence (va da sé, la CIA al primo posto) dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Uno dei principali «casi irrisolti» della Storia riguarda proprio l’Antico Egitto. E così dicendo non mi riferisco alle piramidi, che sono e rimangono un rebus, ma a una delle costruzioni più enigmatiche e leggendarie, di cui purtroppo non sono rimaste né fondamenta né macerie ma qualcosa come 250.000 pietre, gran parte delle quali catalogate e decifrate. Parlo del tempio di Karnak consacrato ad Aton: un edificio mastodontico lungo un chilometro e seicento metri sulle cui colonne la regina Nefertiti con i capelli ornati dalla corona di piume, il disco solare di Aton e il cartiglio con il suo nome compaiono 564 volte mentre il marito Akhenaton è citato, o raffigurato, soltanto 320 volte.

Prima di allora non s’era mai visto un faraone che fosse meno importante della sua «consorte regale», una constatazione doppiamente stupefacente se si pensa che stiamo parlando del fondatore della nuova religione monoteista. Cosa ci faceva sulle rive del Nilo una fanciulla con fattezze così poco egizie? E perché la sua testa venne dipinta con un solo occhio?

Risulta dalle lettere di Amarna che il re dei Mitanni, uno dei «popoli delle montagne» originario della zona montagnosa che si specchiava nel lago Van, nel XIV secolo a.C. diede in moglie al vecchio obeso e sdentato Amenofi III la figlia Taduchipa (la futura «Nefertiti») in cambio dell’oro che gli serviva per l’edilizia pubblica. La provenienza della giovane sposa è confermata dalle numerose immagini che la raffigurano con il copricapo azzurro e conico (nessuna sovrana d’Egitto ne ebbe mai uno uguale), mentre ai Mitanni viene attribuita l’introduzione nell’area mesopotamica di alcune divinità vediche (Indara, Uruvna, Mitira e Nasatiyra che in pratica erano omologhi di Indra, Varuna, Mitra e Nakshatras), unitamente a una cultura che mostra di possedere più di altre l’impronta profonda di una precedente formazione proto-ariana.

A quei tempi la terra dei faraoni era ricchissima di oro, parte del quale prendeva la strada del Nord e veniva speso presso i Mitanni per comprare dalle caste più elevate di quella stirpe guerriera, di nobile origine urartea ma ormai squattrinata, le loro bellissime e giovanissime figlie.

Ciò non significa che «sulle montagne» le donne fossero considerate merce di scambio, anzi, nella sfera d’influenza degli ittito-mitanni la sposa del re partecipava attivamente al governo del Paese. Ma il matrimonio era un contratto e gli affari erano affari, sulle scappatelle d’amore pertanto si chiudeva un occhio, spesso tutti e due, così che il gioco delle parti poteva continuare senza intoppi.

L’eco di questi «commerci» risuonò fin nelle cronache greche dove alla dea Hera, per esempio, s’accompagnava l’epiteto leukṓlenos, «dalle braccia bianche». Una piacevole eccezione. Nessun poeta greco ha mai sentito il bisogno di soffermarsi sul colore della pelle di Atena, o di Artemis, mentre Esiodo cita espressamente il biancore di Persefone e l’Iliade chiama in causa Andromaca, altro esemplare femminile «dalle braccia bianche». Nei papiri che conservano brandelli del Catalogo delle donne le «sottili caviglie» definiscono personaggi di rara bellezza come Tanísphyros, Europa ed Atalanta, oltre che Elena, segno che il commercio delle donne caucasiche era ancora in voga nella classicità.

Simili caratteristiche dovevano appartenere anche alla «Bella-Che-Qui-Viene» (era questo il significato del nome «Nefertiti» in egiziano antico), che arrivò in Egitto accompagnata dalla statua di Ištar di Ninive, un particolare di enorme importanza dal punto di vista culturale e religioso. Per sua fortuna il matrimonio col vecchio faraone durò pochi mesi, e comunque meno di un anno, dopodiché la principessa dei Mitanni fu data in moglie al giovanissimo figlio del re defunto, Amenofi IV, il futuro Akhenaton. Lei aveva diciannove anni e lui cinque di meno, motivo per cui era salito al trono sotto la supervisione della madre Teje, carismatica dominatrice dell’Alto e Basso Egitto, che fino a quel momento con il figlio aveva diviso anche il letto. Un particolare sul quale Taduchipa non ebbe nulla da ridire poiché l’incesto era tacitamente tollerato dalle ultime dinastie egizie, ormai corrotte e decadenti.

Ben presto i due giovanissimi faraoni impararono a conoscersi e piacersi, scoprendo di amare entrambi la natura e la fauna esotica, quella che ancora oggi si vede sull’isola di Kitchener del grande fiume. Sotto il loro regno sorsero parchi dappertutto con piante rare che gli schiavi, camminando per settimane, portavano dal cuore dell’Africa. Nei laghetti artificiali, fatti per bagnarsi, c’erano pesci rossi e anatre. Un vero paradiso. Grande impulso ebbero anche l’architettura, la scultura e la pittura, e molte cose cambiarono anche nei rapporti sociali.

Fino a quel momento gli artisti egizi avevano modellato le statue maschili con una gamba più avanti dell’altra, in segno di attività, mentre quelle femminili avevano le gambe parallele o unite, simbolo di attesa. Mentre i ruoli adesso erano rovesciati: Akhenaton veniva rappresentato con le gambe unite mentre Taduchipa/Nefertiti ne portava una più avanti dell’altra. Inconsuete erano anche le immagini che ritraevano scene famigliari, nessun figlio di Ra prima di allora si era mai mostrato alla sua gente in modo così «umano» ed intimo.

Il buon accordo fra i coniugi fece della sovrana «straniera» un idolo per il popolo, ammaliato anche dalla sua straordinaria bellezza. Cresceva intanto l’ascendente che la principessa asiatica esercitava sul marito, che alla politica preferiva gli uccelli nel giardino del palazzo, le farfalle sui fiori, le anatre tra le canne. È quindi assai improbabile che la rivoluzione monoteista sia stata tutta farina del suo sacco, nonostante Akhenaton non fosse affatto uno sprovveduto.

Odiando cordialmente il padre egli aveva preferito trascorrere la fanciullezza all’estero, lontano dall’Egitto, dove entrò in contatto con altri popoli ed ebbe più di un’occasione per ampliare i suoi orizzonti culturali, alimentando di conseguenza i dubbi su tutti quegli dèi che, cambiando Paese, cambiavano aspetto e nome.

Le più recenti ricostruzioni fatte dai nuovi mezzi tecnologici del gigantesco tempio di Aton a Karnak rivelano che Nefertiti fu una seguace della religione di Aton molto più ardente del marito. Un fatto comprensibile, trattandosi di una principessa cresciuta alla corte dei Mitanni, un popolo che onorava la Sacra Triade composta dal dio-sole Utu-Shamash, dal dio-luna Sin e dalla dea venusiana Ištar. A modo di vedere della bella caucasica, il caotico culto degli déi antropo-animaleschi d’Egitto era nettamente inferiore rispetto a quello di più ampio respiro dominato dall’astratto disco solare di Aton, il Sole fisico propriamente detto, diverso da Ra (il Sole del Solstizio d’Inverno, il silenzio dello spirito), e da Khepry, (il Sole di Primavera, nel suo incessante crescere e divenire).

Le idee «rivoluzionarie» della regina non piacquero affatto alla casta sacerdotale, che un giorno dopo l’altro vedeva sgretolarsi con le antiche statue anche il proprio potere. Akhenaton si schierò a fianco della moglie, un comportamento che risucchiò la stessa persona del faraone in una spirale di odio. Da una parte c’erano i detentori del potere religioso, dall’altra le moltitudini fanatiche che approfittarono della situazione per vendicarsi dei sacerdoti che da secoli tenevano il popolo sotto la cappa del terrore.

La situazione sembrava volgere a vantaggio degli sposi reali, quando, nel quarto anno del suo regno, pesante come un macigno piombò addosso al faraone una terribile malattia. I rilievi delle tombe e dei cippi confinari di Amarna rivelano in Akhenaton, che aveva allora diciassette anni, la comparsa di pesanti anomalie anatomiche destinate a influire sulla struttura della sua personalità: la testa si trasformò in quella di un idrocefalo, le braccia e le gambe dimagrirono in modo impressionante, i seni si gonfiarono come quelli di una donna e le cosce diventarono enormi. Una statua conservata al museo del Cairo lo raffigura addirittura privo di organi genitali, forse un modo per dire che gli attributi del poveretto regredirono a tal punto da diventare pressoché invisibili.

Nefertiti non si lasciò vincere dalla mala sorte, al contrario di quel giovane fragile e ipersensibile che aveva soppresso la pena di morte e amava l’arte, gli animali e la natura, il quale si fece letteralmente travolgere dalla disgrazia, rifiutando con rabbia persino la mano tesa della consorte. Nessuno poteva compatire il faraone, neppure la regina.

Sul trono di Nefertiti, ripudiata e umiliata, fu messo Smenkhkara, un uomo che divenne correggente del faraone, oltre che il suo amante ufficiale. A quel punto la bella caucasica si ritirò dietro le alte mura del palazzo Nord, da dove comunque continuò a fare politica comandando personalmente la guardia reale. Quanto agli alti funzionari di corte, come sempre accade nei momenti di acceso conflitto, essi si divisero in due fazioni: i seguaci della regina asiatica da una parte, quelli del faraone invalido dall’altra.

Appoggiati dal correggente i sacerdoti iniziarono a vendicarsi dell’«intrusa», cancellando tutto ciò che la ricordava. Nessuno doveva pronunciare più il suo nome e là dove stava scritto fu fatto sparire con una pennellata di colore, o coperto col gesso, o distrutto a martellate come le statue e i bassorilievi che ritraevano la regina. Niente di nuovo sotto il sole: conosciamo tutti gli esiti distruttivi di certe derive iconoclastiche per avervi assistito innumerevoli volte nel corso della Storia, e persino nell’attuale Era iper-tecnologica che si dà arie da campionessa di progressismo.

Ultimamente abbiamo visto giovani ignoranti jihādisti distruggere con il martello pneumatico le mura di Ninive insieme a statue di antiche divinità mesopotamiche e giovani ignoranti statunitensi abbattere le statue di Colombo, odioso scopritore dell’America, e di Miguel de Cervantes, il padre di Don Chisciotte, colpevole di essere uno spagnolo come i conquistatori guidati da Cortez. È vecchio come il mondo il desiderio umano di far sparire, annientare, cancellare cose, idee, tracce e ricordi appartenuti a epoche e personaggi particolarmente odiati e detestati. I Romani diedero a questa pulsione irrazionale il nome di cupio dissolvi. Con la differenza che negli Anni della Fine, i nostri, l’iconoclastia è proporzionata all’infimo grado di cultura dei suoi protagonisti, incapaci di elaborare un pensiero finito, per cui le loro azioni al posto di impaurire le masse oscillano tra l’incredulità e il ridicolo.

Spiace per i Padroni Globali che stanno finanziando le azioni partite in America dal movimento “Black Lives Matter” pensando di velocizzare la cosiddetta «Grande Risistemazione» dell’assetto sociale planetario, ma neanche questa volta funzionerà il giochetto di «satanizzare» il passato allo scopo di esaltare il presente e fare largo ai suoi nuovi eroi salvatori.

Se ne fossero capaci, gli analfabeti violenti dovrebbero invece suscitare l’interesse dell’opinione pubblica contrapponendo un’opera all’opera. Nergal non è conforme al culto di Allah? Colombo e Cervantes non vanno più bene? Si creino allora nuove sbalorditive effigi in grado di fare discutere non solo la società attuale ma anche d’interrogare le generazioni future. Come fece l’ideatore della testa senza un occhio di Nefertiti, oggi conservata nella teca di cristallo di un museo di Berlino e considerata uno dei capolavori del periodo di Amarna, il quale lasciò i posteri ad arrovellarsi sul suo significato.

Per quale motivo la foga iconoclasta del tempo spazzò via quasi tutti i ritratti della regina avendo cura di conservare la sua testa «menomata»? Il caso ha voluto così? Pura combinazione? Un lavoro incompiuto non interessa a nessuno e rimane in magazzino? Oppure, un’azione studiata? Una spedizione tedesca ritrovò il busto calcareo ricoperto di gesso agli inizi del Novecento nel laboratorio del capo degli scultori Thutmosi, il quale ritrasse la sovrana innumerevoli volte, sebbene una minima parte delle opere a lei dedicate siano state risparmiate dall’odio del marito e dei suoi successori, Horemheb e Ramses II.

Si dice che Thutmosi fosse incantato dalla bellezza della regina ripudiata dal faraone e la vedesse più di chiunque altro, essendo molto spesso impegnato a ritrarla nuda e vestita, ad eseguire impronte del suo capo e di parti del suo collo. Sembra che il rapporto tra i due sia stato per un certo periodo particolarmente intimo, prima che la sovrana dirigesse altrove le sue attenzioni. Secondo i più romantici l’occhio sinistro che manca al busto di Nefertiti (il quale altrimenti sarebbe perfetto), andrebbe interpretato come la vendetta di un amante piantato in asso. Ma è solo un’ipotesi tra mille altre.

E se fosse stata proprio la regina detronizzata a farsi ritrarre senza un occhio? Non dimentichiamo che Nefertiti era una principessa nata e cresciuta alla corte dei Mitanni e le mitologie di matrice indoeuropea abbondano di mezzi orbi dotati di singolari forze spirituali. Tra gli altri vi fu l’indiano Bhaga, il dio cieco che conquistò il potere di comandare il futuro grazie alla sua menomazione. Ma anche Odino per soddisfare la sua inestinguibile sete di sapienza pura, primordiale e originaria, cedette uno dei suoi occhi alla sorgente di Mimisbrunnr, fonte di ogni sapere. Un gesto di grande potenza simbolica poiché la perdita della vista, o di parte di essa, favoriva nei grandi personaggi della tradizione indo-aria la comparsa di una vista ben più acuta e importante: quella dell’occhio interno, il «terzo occhio», che permetteva di guardarsi dentro ottenendo il massimo della sapienza.

L’uomo tecnologico ignora la simbologia tradizionale ed è completamente uscito dal racconto cosmogonico, per cui passa davanti alla testa monocola di Nefertiti e poi va a farsi un panino al bar, prima di comprarsi un gadget con l’immagine della bella regina stampata sopra. Nell’Era del Grande Adesso interrogarsi non serve, basta consumare l’attimo, sempre fuggente. Ma probabilmente neanche l’arguta Agatha Christie saprebbe risolvere il mistero dell’occhio mancante: vendetta o desiderio d’immortalità? Vale la pena di chiederselo mentre aspettiamo che la Fine lasci il posto a un nuovo Inizio, l’attesa è la ragione d’essere del tempo che abbiamo ma stare con le mani in mano nel frattempo non è affatto una buona idea.

     

Tradizionanismo e psicanalisi – Livio Cadè

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Per comprendere il fenomeno del 'tradizionanismo' - termine che preferisco a 'pseudo-tradizionalismo' perché più espressivo ed evocativo - e per non confonderlo col tradizionalismo, cui è strettamente imparentato, occorre fare alcune premesse di ordine generale. Essendo implicito il rimando a un'idea di Tradizione, è necessario cercar di chiarire il senso di quest’ultima parola. Essa racchiude un complesso di motivi cosmogonici, metafisici, soteriologici. È una sorta di philosophia perennis, di scienza sacra sui cui fondamenti eterni e immutabili dovrebbero idealmente poggiare tanto le strutture della vita individuale quanto quelle della società. Possiamo dire si tratti di un deposito di verità rivelate che intendono guidare l’umanità verso il summum bonum. Non è facile dire quale sia la natura di questo Bene ultimo, verso cui non solo l’umanità ma l’intero universo faticosamente tende. Alcuni rifiutano di darne una spiegazione, altri lo ricoprono di immagini e di concetti, altri lo rendono oggetto di studi tradizionalistici.

Nell’ultimo secolo v’è stata una vasta fioritura di tali studi. Il tradizionalista sta all'uomo della Tradizione un po' come il filologo o lo storico della musica stanno al musicista. Non è raro trovare tra queste categorie - storici e filologi - persone sprovviste di orecchio e di abilità musicali. Costoro svolgono un ruolo prezioso, mostrano spesso eccezionali competenze e producono una grande quantità di stimoli estetici e culturali. Tuttavia, non v'è nei loro lavori alcun canto, alcuna armonia. Questo si può dire anche dell'opera del tradizionalista il quale, per quanto profondo conoscitore di simboli e valori spirituali, è spesso privo dei particolari talenti dello spirito.

Per usare una classica similitudine, si può dire che il tradizionalista parli dell'amore senza entrare nella camera nuziale, senza conoscere i segreti di quello ‘sposalizio mistico’ in cui la natura umana, trasfigurata dalla luce di Dio, si deifica anch’essa. Di fatto, solo il mistico può parlare con autorevolezza di questa unione, in cui l'anima gode di una totale intimità con lo Sposo divino. Chi ignora l’estasi di un amplesso metafisico si accontenterà di nebulose congetture, simile,  come dice Rumi, a un bambino che vuol comprendere la natura dell’amore sessuale. Questa allegoria erotica ci aiuta a chiarire il senso del 'tradizionanismo'. Dobbiamo a tal scopo immaginare che il desiderio del divino sia animato da una sorta di libido spirituale che, analogamente all’energia sessuale, conosce progressive fasi di sviluppo. Il 'tradizionanismo' sarà allora l'indugiare di questo erotismo metafisico in forme di appagamento infantili.

Se per comodità usiamo la classica suddivisione freudiana, possiamo distinguere nel 'tradizionanismo' tre stadi fondamentali. Nel primo avrà  carattere orale,  sarà un 'tradizionanismo' gastronomico, avido di saperi-sapori tradizionali con cui stuzzica il palato senza nutrire lo stomaco. Nel secondo, dominato da una fissazione anale, prevarranno i tratti rigidi e maniacali. È il 'tradizionanista' accademico, cui piace memorizzare, ordinare con scrupolo sistematico, collezionare concetti tradizionali come monete fuori corso, ed evacuare libri. Nel terzo, il 'tradizionanista' è attirato da simbologie falliche, dagli aspetti virili della Tradizione, dall’esibizione del potere. Tende al culto degli eroi, della forza, di divinità guerriere. Il 'tradizionanista' si colloca generalmente in uno dei due grandi rami della Tradizione, quello mistico, passivo-femminile, o quello magico, attivo-maschile (adesione illusoria, perché gli difettano sia l'umiltà e la devozione del mistico, sia la ferrea volontà del mago). Più specificamente tende però a iscriversi a una precisa corrente di pensiero, come a una tribù o a un partito politico, cercandovi un rinforzo al suo deficitario senso di identità. Dirà quindi di sé: "io sono un x-iano, uno y-ista ecc.", dove il segno algebrico sta per il nome di un maître à penser o di una certa fede.

Sarebbe necessario, per una miglior comprensione, analizzare le fantasie lucide o inconsce cui il 'tradizionanista' indulge regolarmente, in quanto rivelatrici di un fondo immaginale. V’è per esempio il 'tradizionanista' edipico, che sogna di affondare nel seno di Grandi Madri; v’è chi si identifica con un Essere al di sopra del bene e del male, assolvendosi così da ogni senso di colpa; il 'tradizionanista' mitomane, convinto di possedere speciali carismi, ambisce a farsi maestro e guida degli altri;  il suo necessario complemento, il 'tradizionanista' sottomesso e insicuro, cerca figure paterne. Di solito l'impulso metafisico presenta in questi casi tipiche perversioni. Il 'tradizionanista' feticista venera specifici frammenti della Tradizione come reliquie erotiche; quello gerontofilo prova un'eccitazione direttamente proporzionale all'antichità di una dottrina;  il 'tradizionanista' necrofilo gode nel dissezionare la Tradizione come un cadavere - “rosicchiando le ossa degli antichi”; nell'apologia della sofferenza di certe ascesi tradizionali troveranno motivo di godimento i 'tradizionanisti' a orientamento sadomasochistico. L'esito più esiziale del 'tradizionanismo' è il ristagno narcisistico, in cui la Tradizione è adibita a specchio in cui rimirare sé stessi. La libido si arrotola su di sé, nella presunta autosufficienza di un pensiero che si divinizza da solo, senza bisogno di alcuna trascendenza.

Si può vedere nel 'tradizionanismo' una rimozione e sublimazione di conflitti, un tentativo di difendersi dalla vita con i gesti apotropaici della cultura, della memoria. Il 'tradizionanista' soffre di un impasse esistenziale, teme la ruvida concretezza dell’hic et nunc. Cerca rifugio in una elaborata razionalizzazione, nel potere salvifico dell'erudizione. Il destino a volte lo scuote, ma i richiami della realtà si smorzano nella sua ovatta ideologica e protettiva. Per non sentirli, il 'tradizionanista' parla, parla, parla.  Può discutere per ore per dimostrare la necessità del silenzio. Gli piace spelare simboli come cipolle, senza arrivare mai a un centro, fare commenti dei commenti, esegesi delle esegesi, sillogi delle sillogi, in uno scivolamento verso livelli sempre più astratti e irreali. La Tradizione si riduce a galateo metafisico, espressione di bon ton intellettuale. Al termine di questo processo involutivo, degenera infine nel tradizionalmente corretto.

Sterile per sua natura, il 'tradizionanismo' genera solo fusioni simbiotiche con le ombre del passato; evoca gli spettri di una Tradizione che, più se ne parla, più sembra ammutolita e  impotente. Da pratica di risveglio, la Tradizione si trasforma in un surrogato delle fiabe che si raccontano ai bambini per farli addormentare. Come certe forme della new-age, dell'orientalismo, dello spiritualismo ecc., anche il 'tradizionanismo' cela, sotto un'ortodossia di facciata, tendenze anti-tradizionali. Amico della lettera e nemico dello spirito, si esaurisce in concetti che non producono alcuna trasformazione interiore. Così, diventa un impedimento tanto a una concreta metafisica dell'individuo quanto a una metapolitica della società. Non crea di fatto alcuna prospettiva liberatoria ma induce nuove dipendenze. Prigioniero di immagini superficiali, il 'tradizionanista' non osa scrutare l'abisso dell'amore divino. Dimentica lo Sposo, che forse arriverà inaspettato nella notte, trovandolo addormentato come le vergini sciocche. Le parole tracciano intorno a lui un cerchio magico da cui non può uscire. Come l’asino legato alla macina, disegna migliaia di circoli ma ritorna sempre allo stesso punto. E girando in quel solco sempre più profondo che lui stesso ha scavato, si illude di trovarsi nel solco della Tradizione.

Guerra e Pace. Cristianesimo e guerra: un approccio alternativo al tema mariano – Antonio Bonifacio

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“Santo Santo Santo è il signore degli eserciti Tutta la terra è piena della sua gloria” (Isaia 6,5)

   

Presso i rivi di Ruben grandi furono le risoluzioni del cuore! Perché tu sei rimasto tra gli ovili ad ascoltare il flauto dei pastori?

Dai cieli si combatté. Combatterono le stelle dai cerchi loro.

Maledite Meroz, dice l’angelo dell’Eterno;

perché non vennero in soccorso dell’eterno, in soccorso dell’Eterno insieme coi prodi

(Canto di Deboràh)

   

Di recente hanno suscitato un certo sgomento le immagini, proposte in mondovisione, che colgono l’attuale pontefice Francesco 1° mentre si getta ai piedi dei tre capi politici riuniti in sede di trattative per la risoluzione dei problemi determinati dalla endemica conflittualità nel Sud Sudan, invocando egli, con questo suo gesto estremo e plateale, la fine di ogni ostilità. Estraiamo da un giornale l’inizio della cronaca dell’evento “In ginocchio Papa Francesco ha baciato i piedi al presidente della Repubblica del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, e ai vice presidenti designati presenti, tra cui Riek Machar e Rebecca Nyandeng De Mabio. Un gesto inatteso e commovente per chiedere la pace nel Paese al termine dei due giorni di ritiro spirituale per le autorità civili ed ecclesiastiche

Qualunque cosa si pensi del sorprendente comportamento del vicario di Pietro (o di Cristo a seconda le epoche), sorprendente perché nel corso della storia è accaduto che fossero i regnanti a buttarsi ai piedi del papa e non il contrario, l’impressione che ne ricava è che il cristianesimo sia una religione non solo pacifica (il che potrebbe essere ovvio) ma pacifica a tal punto da potersi definire pacifista, contrariamente all’Islam, ad esempio, in cui all’uomo che muore in battaglia per il suo ideale di fede spetta di diritto lo status di martire.

Questo supposto pacifismo concepito quasi come se esso fosse coessenziale al cristianesimo praticamente non è mai esistito, la pace di Cristo è ontologicamente diversa dalla pace tra gli uomini e non sono solo episodi di belligeranza stranoti, quali la riconquista del Santo Sepolcro, a dar conto dello stato di (quasi) permanente conflitto dell’armata terrena di Dio, specchio riflesso di quella angelica, identicamente intransigentemente combattiva. Si tratta di una tradizione dispiegata in diverse epoche che conferiva allo scontro armato un ruolo speciale nel processo di salvezza, identificando la morte sul campo di battaglia con il martirio e quindi come una via privilegiata per raggiungere la vita eterna.

Tutta la emblematica vicenda delle crociate è, infatti, piuttosto malvista dall’orientamento ecclesiale attuale, come dimostra la stessa dichiarazione del pontefice richiamata in prosieguo nel testo. Infatti la Chiesa contemporanea, quella post conciliare, vorrebbe costruire ponti (neanche levatoi) per ogni dove in nome del nuovo dogma della “non divisività” e vorrebbe d’altronde risolvere le feroci dispute d’allora riducendo le stesse a mere contingenze temporali a una sorta di malattia infantile del cristianesimo.

Già da tempo si è introdotta come elemento di mitigazione storica la felice definizione di “pellegrinaggi armati” per “mimetizzare” le crociate, definizione tra l’altro coerentemente applicabile solo alla liberazione del Santo Sepolcro.

Per controvertire tale generalizzazione sembra che basti pensare alla ferocia manifestata dalle truppe assedianti nelle crociate albigesi e in quelle baltiche, o, ancora, lo spaventoso massacro e saccheggio perpetrato a Costantinopoli nel 1204 contro i cristiani d’Oriente, una crociata che distrusse pressoché Costantinopoli. Tutti questi episodi, citati alla rinfusa, sono tutt’altro che secondari della storia, anzi ne hanno determinato il corso e non appaiono affatto inquadrabili nel’astratta categoria dei “pellegrinaggi”, ancorché armati, e quindi non sono eventi da archiviare solertemente, quasi come se fossero errori di una gioventù definitivamente tramontata.

Durante la seconda guerra mondiale Stalin si chiedeva ironicamente quante divisioni avesse il papa, facendo finta di ignorare, lui che poi avrebbe fatto portare in giro per tutta la Russia assediata dai nazisti l’icona miracolosa della Theotokos del Kazan, che nella storia della cristianità non era stato il solo elemento umano a partecipare alla battaglia, a dirigerla, a guidarla, ma erano le stesse forze sovrannaturali a intervenire con lo scopo, non di dividere miracolosamente le parti, manifestandosi ai belligeranti nella loro potenza, quanto piuttosto a partecipare, parteggiando, alle ferocissime pugne schierandosi apertamente con i cristiani fino al punto di sovvertire la sorte di battaglie che parevano segnate o comunque compromesse.

  [caption id="attachment_46309" align="aligncenter" width="625"] Icona della Vergine del Kazan. Vittorio Messori in un suo articolo fa uno straordinario portrait delle vicende belliche durante l’assalto nazista alla Russia e del ruolo assunto dall’intervento, supposto divino, della Vergine del Kazan. Tutta la storia russa è intersecata dall’intercessione mariana nei campi di battaglia. Riproduciamo a tale scopo un brano di Nuccio d’Anna dall’articolo: La straordinaria vicenda dell’icona della Madonna di Kazan. “Quasi un secolo dopo, nel 1709, in occasione dell’invasione svedese che minacciava di cancellare la tradizione ortodossa russa a favore del protestantesimo rivoluzionario, la zar Pietro il Grande vinse gli occupanti svedesi nella memorabile battaglia di Poltava il cui successo fu unanimemente attribuito alla presenza nel campo di battaglia dell’icona della Madonna di Kazan che ormai i Russi consideravano la custode dell’identità spirituale della Nazione. Così l’icona fu portata nella cattedrale di San Pietroburgo e ancora un secolo dopo, durante la terribile invasione napoleonica condotta all’insegna del nichilismo rivoluzionario che minacciava di distruggere le basi della loro tradizione spirituale, i Russi continuarono ad attribuire la loro vittoria sugli invasori alla speciale protezione divina mediata dall’icona della Madonna di Kazan. “[/caption]  

Se si dice, come si dice, che è Dio a guidare la storia – ciò è in sostanza la teologia della storia - si deve parimenti accettare che, al di là di fatti più o meno leggendari o comunque enfatizzati, che la storia umana occidentale, è d’impronta inequivocabilmente espansiva e colonialista ed è cosparsa di eventi sanguinari generato dall’impulso “religioso”. In questa cornice “suprematista” in mille circostanze furono coinvolte in modo massiccio le popolazioni civili in ogni continente e tutto ciò, secondo la evocata teologia, dovrebbe corrispondere a un preordinato piano di salvezza di Dio che giustificherebbe l’esistenza di questo scorrere degli eventi, traendosi infine da essi il bene dal male.

Questa milizia in terra del resto costituirebbe, come accennato, una sorta di riflesso nello specchio di vicende celesti. L’angelologia è improntata alla più intransigente belligeranza. Il capo delle armate celesti è quel San Michele arcangelo, appena prima presentato, che schiaccia il demonio sotto il suo piede ed egli stesso è ritenuto partecipare su un altro piano a un combattimento escatologico che si compie da tempo immemorabile tra i “figli della luce” e i “figli delle tenebre”, in conformità a paralleli riscontrabili in molteplici tradizioni.

Se esiste, come probabilmente esiste, un ecumenismo contemplativo, non è meno vero che esiste (o è esistito) un ecumenismo cavalleresco di cui forse è esemplare la narrazione del Parsifal di Wolfram von Echembach.

Esso però riguarderebbe il comportamento esemplare di pochi individui (degli iniziati in sintesi che partecipano a una cavalleria trasversalmente iniziatica) mentre gli eventi accennati sconvolsero soprattutto gli inermi che furono oggetto di infiniti supplizi da parte di orde inferocite che di cavalleresco e di spirituale non avevano un bel nulla.

La convocazione belligerante coinvolgerebbe più piani di cui quello angelico ne è solo l’intermedio e, tuttavia, detti piani sono ritenuti come intercomunicanti, tanto che vi sono molti passaggi dell’Antico Testamento in cui il testo ci narra dell’intervento diretto delle schiere angeliche, armate di tutto punto, che, dal piano sottile nel quale risiedono, intervengono in favore del popolo eletto in situazioni per esso critiche.

  [caption id="attachment_46310" align="aligncenter" width="625"] In questo quadro di Dosso Dossi dal titolo San Michele con il demonio e l’Assunta tra gli Angeli ambientato in quello che sembra un paesaggio terrestre si mostra la relazione tra il combattimento di San Michele con Satana mentre in alto è raffigurata tra la Vergine regina degli angeli[/caption]    

L’intervento dell’armata di Dio comunque è solo un aspetto di questo combattimento totale perché. se san Michele è un archistratega, “il Generale”, così nominato in molte circostanze nelle cronache di queste lontane epoche, è proprio quella Regina Pacis, che sembra possedere una caratteristica tra tutte dominanti, ovvero quella del furore bellico e della risolutezza dell’azione.

La Theotokos – lo si vedrà - era descritta come addirittura presente fisicamente nei combattimenti e si comportava come una dea pagana che infervorava le schiere e rovesciava di sua mano i nemici tanto da meritarsi sul campo l’appellativo che oggi può apparire - non solo insolito - ma addirittura blasfemo di “crudele”, appellativo attribuitole da un pio cronista cattolico.

Una parte preponderante di queste riflessioni sarà dedicata al rapporto stabilitosi tra la Theotokos e il potere imperiale a Bisanzio dove l’imperatore, in qualità di rappresentante di Cristo in terra, era considerato persona sovraumana e le sue immagini partecipano di questa sacralità. Esse lo presentificavano nelle varie regioni dell’impero come persona sacra. L’imperatore d’Oriente è un “uomo” che partecipa di una particolare elezione che lo distingue e a cui si riconosce l’omaggio di quella proscinesi, che fu interdetta ai cristiani d’occidente, in cui in realtà si faceva omaggio al genio e non all’uomo, come se egli fosse una deità. In tal modo l’imperatore entra in uno strettissimo rapporto di sudditanza gerarchica con il suo generale, ovvero Maria stessa.

La Vergine gode, rispetto alle schiere angeliche, di un status privilegiato che la pone al di sopra degli stessi angeli e arcangeli, che invece sono maggiormente protagonisti nella sfera occidentale dell’influenza celeste sulle battaglie terrestri, un’impostazione che trova scaturigine nel kumranico Rotolo della guerra e che può essere collocato all’inizio di questa lunga tradizione di angeli guerrieri almeno nell’ambito delle “religioni del Libro”.

La Vergine, la Theotokos, non verrà mai rappresentata in armi, perché la sua arma è la verginità, anzi di più, è la sua prodigiosa maternità virginale che le conferisce una potenza d’irresistibile efficacia. Singolarmente, infatti, come Athena, come le Amazzoni, come le Vestali, la verginità è connessa a un potere sovrannaturale che si dispiega efficacemente in battaglia, una sorta di “virilità femminile”. Con ciò si rende possibile un confronto con la stessa Giovanna d’Arco, una semplice contadinotta che si trova infusa di questo potere pressoché soprannaturale che la farà sempre trionfare in battaglia mantenendo Ella la sua illibatezza.

Ci fermiamo qui e attenendoci al nostro titolo affronteremo il delicato tema che ci siamo proposti di trattare in un’ottica piuttosto discorsiva e il più possibile equilibrata, consci che sarebbe necessaria piuttosto una più vasta pubblicazione per sviscerare adeguatamente l’argomento nelle sue numerose sfaccettature e nelle sue complesse implicazioni.

  Il combattimento celeste

La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti.

(Efesini 6,12)

V’è un punto dal quale è necessario principiare e che si sostanzia nella riflessione che segue: il primo dei combattimenti fra schiere di contrapposta costituzione si svolge in cielo e coinvolge le brulicanti compagini angeliche che si fronteggiano con quelle demoniache in un conflitto, venuto in essere all’origine del tempo e che solo alla fine del tempo si concluderà.

Un conflitto che, detto guénonianamente, coinvolge più piani della manifestazione compreso quello umano che è chiamato in causa ed è invitato a offrire il suo contributo, anche attraverso il martirio, al fine di condurre a conclusione vittoriosa l’epica lotta contro i figli delle tenebre.

Il mondo arcangelico e angelico è fortemente gerarchico ed il suo “capo” è, come detto, l’archistratega Michele. Dei sette arcangeli riconosciuti dalla tradizione biblica il cristianesimo ne ha confermati solo tre (Michele, Gabriele e Raffaele) e malgrado un quarto, Uriele, goda di una sorta di status particolare, essendo posto quasi in un limbo che sta tra ortodossia e eterodossia, questi è tuttora escluso dal novero degli arcangeli come parimenti lo sono Sealtiele, Geudiele e Barachiele e ciò nonostante gli sforzi di molti competenti studiosi che si sono spesi per rivitalizzare la tradizione dei “sette spiriti” inspiegabilmente accantonata.

Michele e Gabriele sono arcangeli e congiuntamente santi provvisti di un armamentario da combattimento, la spada l’archistratega Michele, la lancia Gabriele. Uriele a propria volta è dotato di una spada fiammeggiante ed è riconosciuto da diverse tradizioni come l’arcangelo che protegge l’accesso al paradiso terrestre ormai precluso alla coppia primordiale e alla sua discendenza. La spada di fuoco, secondo alcune leggende ebraiche raccolte da Arturo Graf sul tema, è fatta girare vorticosamente dall’arcangelo davanti l’ingresso al paradiso, un tema che richiama strettamente quello delle simplegadi, perché esiste comunque una fessura intemporale in grado di permettere il passaggio “all’eletto” dal “quadrato” al “cerchio". In ogni caso precisa lo studioso Dalmazio Frau “I sette grandi arcangeli che abbiamo avuto modo di osservare sono tutti guerrieri e combattenti, ma alcuni di loro come MikaEl, GabriEl, e UriEl, lo sono in misura ancora maggiore” (D. Frau 2014,108)

Discendendo di piani non è dimenticare che anche la gerarchia angelica è formata da schiere combattenti, variamente conformate, ma non è negli intendimenti questo lavoro procedere a un’indagine particolareggiata su questo esercito celeste, su ciò si consulti il citato testo del Frau in cui l’autore ha preso in esame le schiere degli angeli combattenti (l’armata di Dio) propone l’emblematica immagine di una classe angelica (i Principati) schierati come pronti al combattimento, essa è tratta da un dipinto di Guariento di Arpo e qui la riproduciamo.

  [caption id="attachment_46311" align="alignleft" width="274"]
I Principati in schieramento da battaglia[/caption]   Come in cielo così in terra

“Non c’è legge che vieti al cristiano di colpire con la spada. Il Vangelo raccomanda ai soldati la moderazione e la giustizia. Ma non dice affatto loro: gettate le armi e rinunciate alla milizia” (San Bernardo: Epistole)

 

A specchio del cielo qui sulla terra anche il cristiano si trova quindi a sostenere, in primis per dovere, la personale battaglia spirituale interiore contro le tentazioni diaboliche e quindi contro il peccato che scaturisce dall’assecondare le inclinazioni perverse che dalle tentazioni scaturiscono. Oltre a questa lotta interiore e quotidiana il male si mostra, o si mostrerebbe anche personificato e quindi fisicamente presente nel mondo (di cui il demonio è il principe) e quintessenziato da compagini di avversari di Cristo contro le quali, alla fine, è necessario confrontarsi sul piano del combattimento materiale, quando la possibilità della rettificazione e/o conversione spirituale è fallita.

Per questo nei secoli si rese necessaria la creazione di vere e proprie milizie di “monaci guerrieri” che si opponessero alle schiere avversarie come gli angeli si oppongono ai demoni.

Andando in ordine sparso e in via assolutamente descrittiva e non esaustiva, richiameremo in questa circostanza l’istituzionalizzazione di alcuni di tali ordini cavallereschi improntati a questo spirito e quindi gli Ospitalieri di San Giovanni (cavalieri di Rodi e di Malta); i cavalieri teutonici voluti dal Gran Maestro Alberto di Hoenzollern e, per ultimo, sebbene sia cronologicamente intermedio ai due appena citati, il celeberrimo Ordine dei Templari che ha fatto scorrere, come banalmente si dice, i classici fiumi d’inchiostro.

[caption id="attachment_46312" align="alignright" width="230"] Il sigillo del gran Maestro dei Cavalieri teutonici rappresenta la Vergine con il bambino in braccio esprimendo così fortemente la saldezza del tema mariano della maternità verginale unito all’intransigente comportamento bellico. Maria accetta il sacrificio di Suo figlio per la salvezza del mondo, come la madre del soldato deve accettare la morte del figlio che conduce la sua lotta contro le tenebre su questo piano di esistenza.[/caption]

Si tratta di un ordine fortemente voluto da San Bernardo e ben delineato nei suoi intendimenti e nei suoi scopi nello scritto bernardiano De laude Novae Miliziae. Qui si prescrive la più rude disciplina e un’arditezza persino superiore a quella richiesta al comune cavaliere. S’impone, infatti, di attaccare il nemico quand’anche si sia in palese inferiorità numerica “vivi e morti siamo del Signore; gloriosi i vincitori beati i martiri”.

La strategia, come si vede, è sottomessa alla fede

Con Bernardo (e con Maometto) s’introduce quindi il concetto di “guerra santa”, intesa come rito di purificazione congiuntamente esteriore ed interiore; il santo propone il termine “malicidio” come scopo finale di questa lotta, inteso come opera di eliminazione dei malfattori, portatori del male stesso; difatti il cavaliere se uccide “lavora per Cristo” mentre se muore lavora “per sé” e quindi per la propria salvezza.

Qualcuno ha voluto, forse troppo disinvoltamente, accostare il testo del De laude alla Bhagavad Gita; personalmente pensiamo che tale avvicinamento sia errato nella sua principialità. L’avversario di Arjuna, descritto nella Bhagavad, non reca nessun tratto malefico, anzi tutt’altro, egli è un nobile di vasta sapienza, la cui individualità però deve essere percepita come se fosse pressoché “fantasmica”, per questo, finalisticamente, la battaglia della Bhagavad costituisce un mezzo per conoscere la Realtà ultima. L’individualità genera attaccamento al “nome - forma” e questi legami stringono emotivamente Arjuna al suo avversario impedendogli di compiere quello che si prospetta come suo “dovere”, ovvero procedere e avanzare oltre i limiti insostanziali del predetto “nome - forma”.

Se si è spesa qualche parola in più per san Bernardo e per i Templari lo è per rimarcare come, conformemente al carattere intransigente del “santo di Dante”, parimenti di questi è nota la devozione alla Vergine, tanto che Dante attribuì a san Bernardo una preghiera alla madre di Dio, i cui versi sono davvero da considerarsi tra i più noti, toccanti e sapienti scritti su di Lei.

Così infatti esordisce il Canto XXXIII del paradiso: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d'etterno consiglio”.

Non diversamente, per conseguenza necessaria, l’ordine dei Templari fu votato direttamente alla Vergine. Così veniva appellata infatti Maria nella liturgia: Regina Militum, Regina Fratrum Templi, Regina Conventi ab albis stolis, Regina Sancti Ordinis Templi, Auxilium Templariorum, come d’altronde si riconnetteva a Maria l’inizio stesso dell’ordine nella storia: “Nostra Signora è stata l’inizio del nostro Ordine, e in Lei e in Suo onore sarà, a Dio piacendo, la fine della nostra vita, quando Dio vorrà che ciò accada».

La sacralità attribuita ai cavalieri templari (si è parlato di gnosi templare) e al carattere della loro particolare investitura trova quasi un corrispettivo nella sacralità delle loro armi che, come narra Henry Corbin, quando questi primi cavalieri si acquartierarono nel Tempio di Salomone, furono deposte sugli altari quasi fossero oggetti liturgici

[caption id="attachment_46313" align="aligncenter" width="625"] Affresco di Pietro Lorenzetti, nella basilica di San Domenico a Siena, San Giovanni Battista presenta un cavaliere alla Madonna col Bambino benedicente.[/caption]       Inciso   "Se tu vai con la tua fede come una bandiera, come le crociate, e vai a fare proselitismo, quello non va", - See more at: RAINEWS    

Nel corso del perenne confronto tra Cristianesimo e Islam accadde che le due fedi si sono scontrate più volte in maniera oltremodo pugnace, segnando un percorso piuttosto sanguinoso di rapporti che tuttora perdura (almeno da parte di un “certo” Islam). L’Islam è stato in diverse circostanze in condizione di invadere l’Occidente e la storiografia cristiana annovera tre tappe fondamentali e topiche del baluardo bellico che appose il cristianesimo a tale invasione: la battaglia di Poitier, la battaglia navale di Lepanto e quella di Vienna.

In tutti e tre i casi i maomettani, secondo la tradizione storiografica propria della teologia della storia, furono valorosamente fermati con le armi e, congiuntamente, con l’intervento d’un fattore soprannaturale che determinò l’esito dello scontro.

Più interessante per i nostri fini è quanto accade a Lepanto, battaglia la cui vittoria la storiografia cristiana ascrive al diretto intervento della Vergine schieratasi invisibilmente sul campo di battaglia in favore di uno dei contendenti (ancorché Ella venga tributata di onori soprannaturali da entrambe e parti).

In effetti le cronache riportano il verificarsi di alcuni eventi cui è stato attribuito carattere di soprannaturalità come il verificarsi di un improvviso cambio di vento che favorì la coalizione cristiana portandola alla vittoria. L'annuncio dell’evento giungerà a Roma ventitré giorni dopo, portato da messaggeri del principe Colonna, ma si narra che il giorno stesso della battaglia san Pio V ne ebbe in visione la percezione proprio nell'ora di mezzogiorno e glorificò la circostanza con questa disposizione: "sono le 12, suonate le campane, abbiamo vinto a Lepanto per intercessione della Vergine Santissima", dando così congedo agli astanti.

S’instaurò allora la tradizione cattolica di sciogliere le campane di tutte le chiese alle 12 in punto. Papa Pio V, proprio per effetto di tale intercessione, decise significativamente di dedicare il giorno 7 ottobre a Nostra Signora della Vittoria aggiungendo il titolo Auxilium Christianorum (Aiuto dei cristiani) alle Litanie Lauretane, successivamente la festa fu trasformata da Gregorio XIII in Nostra Signora del Rosario, sempre con la motivazione di celebrare l'anniversario della vittoria ottenuta per intercessione dell'augusta Madre del Salvatore, Maria.

D’altronde a ciò si può aggiungere che chi è di Roma o conosce Roma sa dell’esistenza di una chiesa denominata santa Maria della Vittoria, ovvero di quell’edificio che ospita, tra le altre cose, la stupefacente statua dell’estasi (transverberazione) di Santa Teresa del Bernini. Tale dedicazione è successiva a quella originale, conferita a san Paolo, ed è stata mutata proprio per celebrare un’altra vittoria militare ottenuta dalle truppe cristiane nella battaglia della montagna bianca (presso Praga) nella Guerra dei trent’anni che vide appunto una temporanea vittoria delle truppe cattoliche su quelle protestanti.

    Prodromi

“Io non conosco altro compagno di battaglia sulla terra, o protezione nei pericoli, o guerriero invincibile nelle insidie, che te, Theotokos tutta pura! Per questo cado sulle mie ginocchia e grido a te, Signora del mondo: sii sempre la mia custode”

(citazione da Bisseraq V. Pentcheva: Icone e potere, pag 132)

 

Com’è noto nella battaglia che segnò praticamente il declino del paganesimo a Ponte Milvio, Costantino ebbe la precisa manifestazione del favore divino di questo nuovo credo venuto dal Medio Oriente con il sogno visione che precedette la battaglia. Qui vide un segno, ossia il segno della croce che fu interpretato come comunicazione dell’elargizione del favore divino nell’imminente scontro. Questo evento, ancorché presuntivamente agiografico, segnerà la coincidenza della croce come strumento del supplizio di Cristo e insieme come strumento di lotta al male che comporta anzi impone anche il supremo sacrificio del milite

    Le crociate baltiche (Maria sovrana di tutte le terre)

 

“...imperversò la nemica disumanità al di sopra di ogni misura e senza limitazioni in modo tale che, dimentichi di ogni cristiano ritegno macellarono uumini come bestiame”

(dalla cronaca di Lamperto della battaglia di Homburg)

L’argomento delle crociate baltiche è molto meno noto di quello delle crociate in Terrasanta, eppure, oltre a costituire studio appassionate in sé per la densità degli eventi che contrassegnarono la circostanza, è l’ambito nel quale, forse con maggiore evidenza, s’intreccia il tema che ci si propone di mettere in mostra, ossia la profonda relazione che lega Maria all’azione militare e il suo merito per la vittoria ottenuta su quei popoli europei ancora “pagani” che, alla fine, furono forzatamente costretti a convertirsi.

Asciuttamente si dirà che tali impegni militari non scaturirono affatto da esigenze difensive ma da una precisa volontà aggressiva, all’epoca perfettamente giustificata per esigenze di propagazione della fede in tutta Europa, come lo sarà successivamente in altri continenti, certamente non disgiunta da inevitabili e conseguenti risvolti “economici” sicuramente non ignoti ai belligeranti, come ha ben mostrato lo storico Eric Christiansen nel suo classico testo dedicato a questa invasione dell’estremo nord dell’Europa.

Nel 1147 papa Eugenio III, emanando la bolla Divina dispensazione, autorizzò la “guerra santa” nei confronti dei popoli slavi che abitavano la parte nord ed est della Germania, equiparando questa crociata, nei meriti e nei benefici, a quella che nello stesso periodo si combatteva in terra santa contro i musulmani per la liberazione del Santo Sepolcro e a quella che si combatterà nella stessa Costantinopoli nel 1204.

Tali interventi militari, vista la manifesta riottosità delle locali popolazioni a convertirsi, furono denominati crociate del nord o crociate baltiche, o, altrimenti, crociate livoniane. Esse naturalmente non sono state affatto “pellegrinaggi armati” per il semplice ed evidente motivo che non c’erano luoghi santi da proteggere. La Livonia è una regione geografica che comprende gli attuali stati di Lettonia, Estonia, e Lituania ed altri territori ancora, una superficie tutt’altro che trascurabile dell’Europa continentale nordica.

Queste invasioni durarono diversi decenni, in quanto organizzate tra lo spirare del dodicesimo secolo e l’inizio del tredicesimo coinvolgendo pesantemente, con razzie, decimazioni e deportazioni forzate, le popolazioni che occupavano i territori affacciantisi sul mar Baltico, azioni di estrema crudezza che furono puntualmente annotate, a loro vanto, dai vincitori.

Come si diceva nelle decorse pagine, diversamente a quanto avvenuto in quelle di Terra Santa, queste crociate si proposero fin da subito l'obiettivo della conversione coattiva dei conquistati, che vennero quindi battezzati successivamente alla sconfitta militare dei loro eserciti da parte di questi crociati, che erano principalmente tedeschi, danesi e svedesi.

Artefici del successo e protagonisti di queste cruentissimi episodi furono i Cavalieri Portaspada che appartenevano a un ordine appositamente creato nella circostanza a specchio di quello templare. L’Ordine dei Cavalieri Portaspada, conosciuto in latino sotto il nome di Fratres militiae Christi ed in tedesco come Schwertbrüder, venne infatti fondato dal vescovo Alberto di Riga nell’anno 1202, ovvero dal fondatore stesso della città.

[caption id="attachment_46314" align="alignright" width="236"] Questa miniatura riproduce l’abbigliamento bellico del vescovi guerrieri che ebbero grande influenza nelle vicissitudini guerresche dell’epoca[/caption]

Non è quindi solo una frase ad effetto quella con cui si afferma che i Portaspada siano stati i Templari del Nord. Tale ordine monastico-cavalleresco, si ispirava apertamente a quello dei Templari, sia per la simbologia, sia per le regole interne, ed era nato al solo fine di promuovere e proteggere l’opera di cristianizzazione nell’area pagana del mar Baltico. I Portaspada adottarono come distintivo, cucito sopra il loro mantello bianco, una spada rossa sotto una croce rossa. A soli due anni di distanza dalla sua fondazione, ovvero nel 1204, papa Innocenzo III riconobbe ufficialmente lo statuto dell’Ordine.

[caption id="attachment_46315" align="alignleft" width="179"] Sigillo dei Portaspada come si vede spada e croce sono emblematicamente unite tal ché l’una (la spada) sembra quasi il riflesso allungato della sovrastante croce[/caption]

Si può affermare che la spada è la croce che portano i cavalieri nella loro lotta contro il male, la via attiva del combattimento spirituale, complementare alla via contemplativa con frequenti travasi da una dimensione all’altra, basti pensare alla nota vicenda di San Galgano e della ormai famosissima spada confitta nella roccia.

La via sufica, per sconfinare in un ambito prossimo, accosta, con ulteriore forza le due vie, l’attiva e la contemplativa, che possono ben essere praticate congiuntamente, così come ci si può riferire a certe linee del buddismo cinese (schaolin). Proprio l’investitura cavalleresca mostra il carattere di suggello ricevuto dal miles Christi che veniva toccato dal dorso della spada dal suo investitore mentre questi pronunciava queste parole: “Sei creato cavaliere in nome di Dio, San Michele e San Giorgio”.

Come si vede l’investitura avveniva invocando tre piani: Dio stesso, San Michele quale capo della milizia celeste e, ulteriormente, da S. Giorgio santo militare per eccellenza, dopo ciò “seguiva una messa che consacrava il nuovo membro della cavalleria umana”.

Dalmazio Frau richiama un passaggio di uno scritto di Raimondo Lullo in cui l’equipollenza tra spada e croce è pienamente confermata da queste parole: “Al cavaliere si da la spada, che nella forma è simile alla croce, per significare che, come Gesù Cristo vinse sulla croce la morte nella quale eravamo incorsi per il peccato di nostro padre Adamo, così il cavaliere dovrà con la spada sterminare i nemici della croce. E poiché la spada ha due tagli e la cavalleria è fatta per mantenere la giustizia, che consiste nel dare a ciascuno il suo, per questo la spada vuole dire che, per mezzo di essa, il cavaliere deve mantenere la Cavalleria e la Giustizia” (D. Frau: 2014, 79)

Abbandoniamo le interessanti vicende storiche di questi cavalieri per concentrarci sul punto essenziale del discorso. Dopo la sottomissione di queste popolazioni alla fine delle ostilità e per precisione il 2 febbraio 1207, nei territori conquistati, venne istituito uno “stato ecclesiastico” detto Terra Mariana che fu assimilato a un principato del Sacro Romano Impero. Tale principato nel 1205 era stato proclamato da papa Innocenzo III possedimento della Santa Sede. La classe politica precedente fu sostituita da nobili invasori e dalle loro corti, stranieri che nulla avevano a che fare con quegli ampi territori e per conseguenza, de facto, le popolazioni locali furono colonizzate e persero ogni autonomia. Un caso di “quasi” sostituzione etnica.

A questo punto ci si può domandare: perché “terra mariana”? La risposta può essere semplice e si trova nelle cronache dell’epoca tra cui la principale testimonianza è offerta dal cronista ecclesiastico Enrico di Lettonia autore del Cronicon Livoniae. Questo scritto raccoglie la testimonianza diretta degli eventi descritti e quindi è di particolare valore per la conoscenza del tema mariano che stiamo esaminando, in quanto proprio l’atteggiamento intransigente di Maria, in quei lidi, costituì, contribuendo in primis alla vittoria il suo presunto diretto intervento, uno strumento assai persuasivo di propaganda per la conversione dei locali e, ulteriormente, per ottenere la sottomissione ai nuovi signori stranieri che li avrebbero dominati in futuro.

Enrico, infatti nei suoi scritti, la invoca come “la Maria Stella” e la prega affinché “vegli sempre sulla sua Livonia” e descrive come essa sia “la signora del mondo e sovrana di tutte le terre” e per questo sollecita la Vergine affinché protegga “costantemente il suo paese”, d’altronde questa è l’investitura che ha la Regina del Cielo. ad essa spetta il compito di dominare su tutti i re della terra. Il commentatore fa notare come soprattutto la Vergine abbia “punito tanti re che hanno combattuto contro la Livonia”.

Secondo le brutali osservazioni di questo cronista ecclesiastico Maria uccide e massacra coloro che non piegano il ginocchio e si sottomettono al giogo di Cristo e per meglio esaltarne le caratteristiche scrive: “Vedi la madre di Dio com’è mite verso i suoi, che in Livonia l’hanno servita con fedeltà e come protegge sempre da tutti i nemici, e come è crudele verso coloro che invadono il suo paese, o coloro che in questo paese cercano di ostacolare la fede e l’onore di suo figlio. Vedi quanti potenti re ha punito. Vedi quanti principi e anziani dei popoli infedeli ha cancellato dalla terra, quanto spesso ha concesso ai suoi la vittoria suo nemici ![...] Guardate e ricordate voi principi russi, pagani danesi, e voi anziani di qualunque popolo, temetela, la mite madre misericordiosa, onorate la Madre di Dio, riconciliatevi con lei che si vendica in modo così crudele dei suoi nemici, non attaccate più il suo paese, affinché sia per voi una madre colei che finora è stata sempre la nemica dei suoi nemici e ha sempre recato a coloro che danneggiano i suoi in Livonia un danno ancor più grande” (K. Deschner: 2006, 126)

Come ognun può constatare dalle parole di Padre Enrico risulta evidente come Maria non si limiti semplicemente a sostenere le sue truppe infondendo a esse un coraggio e un valore superiore al comune, quanto piuttosto intervenga direttamente nell’azione bellica risultando determinante per l’esito positivo dello scontro.

Questi spunti, in estrema sintesi, mostrano che tipo di legame affettivo stringe il cristiano in armi, alias il crociato, con la Regina del Cielo, di cui egli è figlio più d’ogni altro, in quanto il crociato è disposto al sacrificio in similitudine con il sacrificio del Cristo.

Ora nella seconda parte si esaminerà come viene vissuta la figura mariana nell’oriente cristiano sempre riguardata la figura in rapporto al tema bellico.

  Oriente Cristiano: Maria, vergine madre e signora della guerra  

“Sorgente di vita dei Romani, Vergine, madre del Logos divino tu sola marci in battaglia come combattente al fianco degli imperatori [nati] nella camera di Porpora. Essi ricevono la corona da te, perché ti ricevono nella camera di porpora come scudo invincibile contro ogni cosa…Perché essi ti ricevono come potenza che conduce alla vittoria contro i nemici”

(Acclamazione alla Theotokos)

Titolo forte ma affatto provocatorio che certamente contrasta con l’attributo di “signora della pace” che nella contemporaneità le è più consueto, e che, per conseguenza, sembrerebbe in totale contraddizione con esso, titolo comunque perfettamente giustificato dalla narrazione fin qui esposta e da quanto s’esporrà nelle pagine successive.

  Il tema della verginità come fonte di potere  

Prima di procedere ulteriormente è necessario stabilire una collocazione precisa agli eventi che si andranno a menzionare e così mostrare come lo stabilirsi del potere centrale a Costantinopoli da parte dell’imperatore bizantino abbia prodotto una decisa frattura tra la mentalità tra Occidente e quella dell’Oriente che ha successivamente verosimilmente determinato, addensandosi le difformità, la separazione delle due chiese, culminando questa divaricazione nello scisma del 1054.

In Oriente, permanendo un impero che durerà fino alla conquista ottomana di Costantinopoli, si stabilisce un consolidamento tra Chiesa e forma politica che in Occidente, con il tramonto e la fine del dominio imperiale romano e la deposizione di Romolo Augustolo, verrà meno, condannando perciò questa parte dell’ecumene cristiano a un lungo periodo di oscurità, destino che invece non toccherà a Costantinopoli che, contrariamente, vivrà anni splendidi, anche se contrassegnati da una costante belligeranza con vari popoli e culture ad esso viciniori.

Partiamo, per fissare un punto di svolgimento, dal quarto concilio ecumenico di Calcedonia (451) che fu convocato e presieduto dall’Imperatore. Con esso si pose definitivamente fine alla controversia riguardante la natura del Cristo, enunciando il dogma delle due nature perfette, inseparabili ma distinte, (fusione senza confusione) secondo la formula divenuta ufficiale e respingendo quindi come eretiche le prospettazioni monofisite dall’archimandrita greco Eutiche per il quale la natura di Cristo sarebbe stata solo divina. Questo risultato si armonizza con le conclusioni dogmatiche assunte dal Concilio di Efeso in ordine alla natura creaturale della Madonna chiamata a dare vita biologica all’Incarnato definendo compiutamente il suo ruolo nel disegno di salvezza.

L’arbitrato dell’imperatore, in una disputa così delicata, potrebbe destare stupore osservando le cose da un punto di vista odierno e laico, tuttavia è necessario tenere in debito conto dello stretto rapporto, già in precedenza richiamato, che univa il potere imperiale a Cristo, un potere che dopo queste fissazioni dogmatiche, uscirà ben consolidato. L’imperatore, infatti, era concepito come un diretto rappresentante di Cristo in terra e da questi riceveva l’incarico di amministrare un impero ritenuto fondato e governato dallo stesso Salvatore.

Per questa sua suprema unzione il popolo salutava l’imperatore chiamandolo “santo” e conseguentemente tutto ciò che riguardava la sua persona era sacro, così come la sua immagine. Il suo ritratto era considerato equivalente, seppur non identico, alla sua persona, e, in determinate circostanze, questa ritratto dello stesso riceveva i medesimi onori come se l’imperatore fosse fisicamente presente alla circostanza. Per conseguenza quando il “simulacro” sostituiva il basileus nelle cerimonie, che si svolgevano lontano da Costantinopoli, il popolo lo acclamava, come se fosse davvero presente, al grido di “santo” e gli si dava altresì l’appellativo di “sacro” e di “divino”.

Il suo ritratto veniva incensato, scortato da fiaccole e salutato mediante prosternazione (proscinesi) rendendo così un vero e proprio culto alla sua persona, in relazione alla sua funzione di garante di un ordine stabilito sovrannaturalmente.

Il sovrano, narra la Velmans, autrice delle osservazioni sovraesposte, si trovava al centro di una doppia relazione mistica, che da un lato lo univa al Cristo e dall’altro al suo ritratto. (Tania Velmans: 2009,15)

Questo simbiotico legame tra potere imperiale e crisma religioso caratterizzerà la metà orientale dell’Impero fino alla sua estinzione e troverà il suo fulcro nel culto della Vergine, espresso dalle sue rappresentazioni iconiche che si affermeranno nel tempo e la cui devozione sarà alimentata in maniera massiccia dalla promozione imperiale del culto, perché in tal modo onorando l’una s’onorava l’altro.

La primissima manifestazione di ciò si ebbe già nel quinto secolo quando fu eretta una cappella (soros) dedicata al 0culto mariano all’interno del palazzo imperiale, volendo così stabilire un legame strettissimo che perdurerà nei secoli e che farà di Costantinopoli “la città personale della madre di Dio” per effetto del culto imperiale che si era lì costituito.

Il complesso della Blacherne, continuamente “affinato” nei secoli alle esigenze politiche, può essere considerato come il cuore di questo culto in quanto il luogo era depositario della preziosissima reliquia del velo (o delle vesti) della Madonna e altresì di santissime icone. Esso comprendeva tre edifici: la chiesa di Santa Maria, la citata cappella del reliquiario (Hagia Soros) ed il bagno (Hagion Lousma) che trova fonte da una sorgente d’acqua sacra e miracolosa tuttora oggetto di culto e per questo frequentato da donne cristiane e musulmane, come altri santuari mariani dei paesi musulmani. Anch’esso era un luogo massimamente sacro diviso in più ambienti ornato con icone. L'acqua veniva versata nel bacino dalle mani di una statua marmorea della Vergine. Un'immagine di San Photinos decorava il centro della cupola. Ogni anno, il 15 agosto (festa della Dormizione) dopo l'adorazione del Maphorion (santo velo) della Vergine, l'imperatore praticava una triplice abluzione nella piscina sacra.

Il carattere regale della Madonna trovava espressione nelle varie rappresentazioni della Vergine Maria ritratta con il loros imperiale e quindi come Maria Regina (un’immagine è presente anche a Santa Maria Antiqua a Roma ed è unica in tutto l’occidente e che è stata realizzata durante il periodo di occupazione bizantina della città). Tutti questi segni di favore, benedizione e protezione saranno strumenti idonei a produrre importanti conseguenze nel campo strettamente politico.

In definitiva questo complesso, un tempo isolato la cui esistenza era dovuta all’esistenza di una fonte d’acqua miracolosa, sarà solo successivamente incorporato nelle mura di difesa divenendo il centro di un vero e proprio culto militare, promuovendosi la reliquia al ruolo di efficace protettrice della capitale d’Oriente (la seconda Roma) e in definitiva dello Stato stesso.

[caption id="attachment_46316" align="aligncenter" width="625"] Collocazione del palazzo della Blacherne nella topografia di Costantinopoli[/caption]  

Tra le varie icone conservate in loco spicca, per l’impiego protettivo cui fu destinata, quella denominata Blachernitissa. Si tratta di quel dipinto caratteristico che mostra il corpo clipeato di Cristo sovrapposto al grembo della madre. L’esposizione di questa icona miracolosa costituirà il mezzo di propaganda più efficace e di cui si farà promotore l’impero in ogni circostanza mostrando l’indissolubile legame che legava la Regina del Cielo al suo impero e alla persona o alla famiglia dell’imperatore, stabilendo così una precisa e inestricabile relazione simbiotica tra i due soggetti

    [caption id="attachment_46317" align="aligncenter" width="625"] Icona della Blachernitissa[/caption]  

Tuttavia ci sia consentito un indispensabile inciso sul tema in relazione ai significati dell’immagine sacra affinché ne sia colto appieno il significato in questo ambito così vicino e, insieme, così lontano dai nostri lidi.

Siamo consapevoli che quando si parla di “propaganda” si utilizza una modalità espressiva moderno – contemporaneo poco consona a essere impiegata per rendere conto di circostanze storiche nelle quali era inimmaginabile contestare che l’autorità imperiale non derivasse dal crisma celeste; semmai si dovrebbe parlare nella circostanza di “azioni promozionali” che provocavano un accrescimento d’entusiasmo e di consenso tra le varie classi sociali.

In particolare queste cerimoniali esposizioni infiammavano l’animo del miles e comunque, rinfocolando la fede dei sudditi in ordine alla giustezza e soprattutto alla santità dell’ordine costituito, saldavano la compagine stratifica della popolazione orientandola in un’unica direzione di consenso. L'indissolubilità del legame che univa la Vergine al suo protetto si propagava infatti in scala piramidale a tutti gli abitanti dell’impero che compartecipavano per riflesso di questa protezione divina formando un unico corpo.

Tuttavia ciò non è da solo bastevole a spiegare la profondità di questa relazione e per meglio comprenderne il senso è necessario sottolineare come le sacre immagini abbiano avuto una storia simbolica ben diversa nelle due parti del mondo cristiano, come se un muro dividesse la portata di queste rappresentazioni e come l’iconografia orientale (tranne la pausa dell’iconoclasmo naturalmente) costruisse un universo a parte nella concezione dell’immagine.

    Due imperi, due approcci all’immagine

“I testi ci rivelano prima delle immagini che lo spazio figurativo bizantino non poteva essere che un luogo al di là di ogni luogo o addirittura un altrove rispendente. In questo caso gli artisti si basavano sugli scritti di Platone di Plotino, dei Padri Greci e dei teologi, rappresentando uno spazio, o piuttosto un non spazio, ridotto a una superficie dorata”

(Tania Velmans)

Attraverso il matrimonio con l’imperatrice di Bisanzio Carlo Magno avrebbe voluto realizzare l’impero universale e quindi riunire in un unico corpo le due metà spezzate, ovvero saldare quella frattura tra Oriente e Occidente, prodottasi a seguito delle conosciute circostanze storiche, mai più rinsaldatasi.

Questa riunificazione non riuscì per vari motivi che non staremo qui a focalizzare e questo determinò per conseguenza l’insorgere e l’ergersi di una barriera di differenze sempre più grande tra Roma e Costantinopoli che iniziarono a seguire vie storiche completamente diversificate, fino a giungere al citato scisma del 1054. La concezione religiosa dell’arte è un esempio illuminante, e, insieme, sintomatico, di questa progressiva divaricazione.

Teofuldo, il probabile redattore dei libri Carolini, che potremmo ascrivere tra i teorici fondamentali dell’arte occidentale, affermava che l’arte sacra ha l’unico scopo di istruire il popolo ed insieme acconciamente adornare gli edifici sacri e quindi il suo utilizzo corrisponderebbe essenzialmente a una finalità didattico pedagogica (sulla qual cosa comunque nutriamo dei dubbi perché ci appare come un’eccessiva semplificazione); diversamente, nella concezione orientale, la rappresentazione sacra è immaginata e vissuta come carica di energia sacra trasmissibile in quanto la rappresentazione è intermediaria tra questo mondo e l’altro.

Questo brano da piena contezza della precedente affermazione: ”La sacralizzazione dell’immagine bizantina poggiava sulla convinzione che esistesse un legame diretto tra la rappresentazione e il rappresentato. L’immagine riceveva le emanazioni delle “energie” di coloro che rappresentava. Le si attribuiva inoltre il privilegio dell’autenticità, poiché era considerato fedele a un modello archetipico (l prototipo), ottenuto per mezzo di un miracolo per quanto riguarda Cristo, di un dipinto eseguito dal vero dalla Vergine, e di volti visti in un sogno per i santi. (Tania Velmans: 2009,9)

Questo è il primo punto da tenere presente quando si affronta l’argomento dell’esposizione della sacra icona della Vergine in varie circostanze, tra cui, quella che ci interessa nel contesto, è proprio quella della battaglia, essa, infatti, è ben più di un vessillo, in quanto piuttosto si presenta all’azione come una sorta di serbatoio di energia divina, una specie di equipollente dell’arca dell’alleanza, cui la Vergine fu effettivamente teologicamente paragonata, che si orienta contro i nemici di Cristo al fine di sconfiggerli.

La seconda circostanza che si può richiamare e che concorre a formare il quadro del ruolo dell’icona in battaglia è stavolta prettamente ideologico ed è costituito da quel lento e progressivo trasferimento dal precedente mondo classico dei contenuti iconografici di Tyche e Vittoria che passano, con piena legittimità. alla Vergine che assunse integralmente la funzione delle due dee “civiche”.

La coniazione delle monete imperiali fa da guida cronologica a questo lento processo di sostituzione che si può seguire esaminandone diacronicamente l’iconografia. Difatti, ancorché gli imperatori si dichiarino cristiani, essi ancora “giocano” con quelle divinità pagane che possono favorire la vittoria sui nemici. Il ruolo di queste entità non è solo importante, si direbbe piuttosto che rappresenta un fattore decisivo ed essenziale nell’esercizio del dominio, in quanto è solo la vittoria sul nemico che legittima il potere imperiale, rendendo pressoché ritualmente sacro lo scontro armato e con esso i suoi vincitori cristiani.

Sul campo non hanno combattuto solo gli uomini ma altre forze a loro ben superiori e si sono espresse come si fosse in un giudizio ordalico.

Le dee civiche sono riprodotte sia sul recto che sul verso delle monete spesso congiuntamente ai regnanti che ad esse si appaiano con grande familiarità e con accorgimenti “grammaticali” di accostamento formale il cui significato sintattico era perfettamente comprensibile agli utilizzatori di allora. La moneta circola in tutto l’impero (e fuori) ed è il mezzo di comunicazione più veloce e trasversale concepibile, in quanto essa viene toccata contemporaneamente da mille mani. Appare quindi ovvio che per celebrarne i successi in questa o in quell’altra campagna si mostrino gli imperatori accanto alle dee stesse a dimostrazione del favore divino che li investe.

La moneta è un “slogan televisivo” che mai s’interrompe fino alla morte di quel tale imperatore, per poi investire il successivo dello stesso potere e che quindi. a propria volta. alla prima vittoria conierà la “sua” moneta celebrativa dell’alleanza divina.

Attraverso un lento processo di trasformazione a Tyche e Vittoria si sostituì l’immagine della Vergine turrita e vittoriosa, esprimendosi così, attraverso una congrua iconografia, il carattere dichiaratamente bellico assunto dalla Theotokos. Questa sostituzione di Atena - Nike o Tyche Vittoria inaugurata nel sesto secolo con l’imperatore Giustino, subì un arresto perché, per un periodo non breve, gli imperatori mirarono ad accentuare il carattere dinastico della loro investitura e per questo furono chiamati porfirogeneti in quanto nacquero nella “camera di porpora”, una “dependance” del palazzo edificato in prossimità degli già esistenti edifici sacri della Blacherne si cuo si p vista in precedenza la collocazione sulla pianta.

    [caption id="attachment_46318" align="aligncenter" width="625"] Pallazzo del Potfirogeneta facente parte del complesso della Blacherne[/caption]

Il palazzo delle Blacherne era un palazzo imperiale che si trovava nella parte nord-ovest della città, addossato alle mura della città, dove l'aria era più salubre e dove al contempo si dominavano la campagna e il Corno d’Oro.

Lì era il luogo della reliquia più santa della Theotokos - il suo velo o la sua veste (maphorion) - che presidiava la salute della città di Costantinopoli e dell’impero tutto, in pace e in guerra.

Seppur le testimonianze cronachistiche, che si produrranno appena successivamente, mostrano la Vergine oggetto di un intenso culto sia pubblico che privato e semmai impegnata - quando le circostanze lo richiedevano - prevalentemente in una opera difensiva della seconda Roma, oggetto nei secoli delle avide incursioni di svariati popoli che volevano conquistarla, la documentazione storica lascia intendere che nel periodo immediatamente posteriore all’iconoclasmo la reliquia di Maria divenne il centro d’interesse di quello che diverrà un vero e proprio culto militare che si spingeva ben oltre l’ottica meramente difensiva della “città santa”.

La veste di Maria, da reliquia, atta alla contemplazione e quindi imbibita d’energia sovrannaturale, muto la propria natura trasformandosi in un’icona bellica portata in ogni luogo per volgere le sorti del conflitto a favore dell’Imperatore, con le stesse finalità, già sottolineate, che furono proprie dell’arca veterotestamentaria.

A questo punto si rende necessario completare il quadro con un altro fondamentale pilastro argomentativo che contribuisce a rendere perfettamente chiara l’indissolubilità del legame della Vergine con l’Impero e ne sottolinea il carattere organico e per conseguenza mostra l’unzione pressoché sacramentale che ricevevano gli imperatori nella loro attività di difesa e di conquista

Si tratta del testo dell’arcaico e notissimo inno Akathistos, che tuttora si canta nelle chiese d’Oriente, e che alla ventitreesima strofa coniuga espressamente la figura di Maria al potere imperiale che, lo si ribadisce, si legittima attraverso la vittoria militare.

Il legame della camera di porpora con il complesso monastico della Blacherne fu tuttavia storicamente rapsodico. Per conseguenza di altre vicende storiche, ovvero l’investitura di sovrani stranieri, spesso capi militari, che non potevano vantare alcuna legittima discendenza dinastica e quindi non avevano titolo per accedere alla camera di porpora, si ripristinò la pregressa equazione simbiotica che conferiva alla sola vittoria militare la legittimazione al governo, indipendentemente dalla trasmissione dinastica, in quanto si riteneva che essa era stata ottenuta per mezzo, non solo della benevolenza mariana, ma del suo stesso intervento strategico.

La Theotokos quindi riassunse in toto i compiti delle divinità civica cui era subentrata, tutto cambiò, affinché, gattopardescamente, nulla cambiasse.

Lo rende evidente il confronto tra questi due brani che descrivono due momenti storici diversi resi equiparabili dalla modalità dell’azione diretta della figura divina, pur se ciò è avvenuto in circostanze storiche assai diverse e in cui nel secondo brano ci si riferisce alla Theotokos che “sostituisce” Atena nei suoi compiti belligeranti:

 Non devo passare sotto silenzio la ragione della miracolosa salvezza della città, perché essa stimolerà la pietà in chiunque la ascolterà. Quando Alarico e il suo esercito al completo giunsero alla città egli vide la dea tutelare Atena camminare lungo le mura, con aspetto identico a quello della sua statua, armata e pronta a resistere all’assalto” (Bissera V. Pentcheva: 2018, 91)

 

Nel Chronicon Paschale il capo dei nemici, il Kagan degli Avari, vede la Vergine camminare sulle mura di Costantinopoli ‘L’empio Kagan disse in quel momento della guerra: Ho visto una donna dall’augusto portamento correre da sola sulle mura’ (Bissera V. Pentcheva: 2018, 90)

D’altronde non si può omettere dal ricordare che il tema del soccorso divino in battaglia, per precisione il soccorso da parte di una donna divina o della stessa dea, costituisce un tema assai arcaico e se ne trova precisa testimonianza in ambito sciamanico. Zolla fece un’importante ricerca comparativa su questo argomento i cui risultati confluirono in un testo specifico (L’amante invisibile: l’erotica sciamanica nelle religioni e, nella letteratura e nella legittimazione politica). Tuttavia, stringendo il discorso all’ambito che strettamente interessa queste note, ovvero quello della Grecia arcaica, troviamo un’interessante testimonianza di questo pattern in ambito omerico - quindi nell’Odissea - a dimostrazione d’una continuità che risaliva pressoché alla preistoria del mondo greco.

Episodio particolarmente rivelatore di questa presenza è quello che vede la disfida del camuffato Ulisse con i Proci che soccombono a questi e suo figlio. Ulisse, con Telemaco, non vincono lo scontro, con i loro troppo numerosi avversari, con l’ausilio delle sole loro forze ma grazie all’intervento diretto di Atena. Così ne scrive Leonardo Magini autore di una interessante ricerca sul tema: “E si tratta davvero di una strage miracolosa perché per due volte l’intervento di Atena manda a vuoto i colpi dei pretendenti. In altre parole è la protettrice che subentra al protetto: in un mondo prettamente sciamanico sarebbe stato lo sciamano stesso con i suoi poteri magici a deviare i colpi degli avversari, nel mondo post sciamanico è la protettrice celeste (àyami), elevata al rango di dea a svolgere quel ruolo” (Leonardo Magini: Lo sciamano di nome Ulisse pag.225))

   

Per effetto di ciò e a seguito dello status conferito gli imperatori bizantini cominciarono a portare la sacerrima icona della Blachernitissa nelle loro campagne militari come se Ella fosse “vivente” e pret questo ricevette la ulteriore qualifica di “arma invincibile”.

Si ribadisce che questa sua funzione non era quindi principialmente connessa alla protezione di Costantinopoli, che fu salvata molte volte mercé la protezione mariana, ma alla vittoria ottenuta nelle spedizioni militari ai confini o all’esterno del territorio.

Ulteriori testimonianze storico - archeologiche confermano l’attitudine bellica della Madonna. La troviamo infatti rappresentata in alcuni esemplari di sarcofagi dell’epoca attorniata dai cosiddetti “santi militari” che ad Ella si stringevano con particolare devozione. Questi, a volte, si mostrano rivestiti di abiti di corte (e qui di nuovo si conferma il legame con il potere imperiale), altre volte con abiti militari e quindi dotati delle relative armi che si deve ritenere fossero, a propria volta, sacralizzate; tra esse particolarmente significativa è la spada: una croce bellica.

Questa tradizione nasce dalla vittoria di Costantino su Massenzio al Ponte Milvio, ci si è accennato in precedenza quale prototipo simbolico della coniugazione croce spada. L’apparizione della croce è il segno che mostra che solo attraverso la croce si ottiene la vittoria su tutti i piani e quindi, tanto per richiamare la dichiarata equivalenza, ricordiamo l’iconografia del sigillo dei Cavalieri Portaspada che reca croce e spada insieme a dimostrazione della indissolubilità del legame che stringe il martirio di Cristo alla eventuale caduto in battaglia che si batte “per Cristo” e per la “sua salvezza”.

Bissera V. Pentcheva pone l’attenzione su un altro significativo oggetto che mostra l’evidenza di questa simbologia in cui si parifica la croce del sacrificio alla croce – arma e il suo impiego “malicida”. Si tratta di una placca d’avorio con la rappresentazione della Crocifissione presente al Metropolitan Museum of Art. Questa, mentre si drizza verso l’alto, perfora le viscere dell’Ade emblema supremo del male. La scritta accanto all’immagine inequivocabilmente annuncia. “La croce (si è) piantata nello stomaco dell’Ade.( Bissera V. Pentcheva: 2009, 138).

Scrive ancora l’autrice richiamata “La croce imperiale e gli stendardi militari andrebbero identificati con croci da processione di dimensioni considerevoli, come l’esemplare ingioiellato del tardo X secolo della Lavra del monte Athos. Nell’iscrizione posta sul retro della croce l’oggetto viene definito un’arma, con la quale i soldati di Cristo sono incoraggiati a trafiggere i loro nemici. La croce è concepita come una lancia nelle mani dei soldati. Le immagini che la decorano si riferiscono sia alla battaglia che al trionfo”. Per conseguenza si può affermare che la spada croce sia pressoché considerata un’arma liturgica dal momento che essere nemici dell’Impero è l’equivalente di essere nemici del Cristo.

Queste, sinteticamente, sono le premesse teologiche che giustificano i contenuti delle cronache dell’epoca che riferiscono come, in molte circostanze, gli assedi contro le mura di Costantinopoli naufragarono per il diretto intervento della Theotokos, affatto comprensiva versi gli avversari che provvide Lei direttamente ad annientare. Per mostrare il clima citiamo alcuni significativi esempi:

Tu, la augusta che ha partorito il Signore potente e forte nelle battaglie combatti insieme a noi con la tua potente e forte mano contro i nemici che ci muovono guerra ...annienta ora con la tua mano potente o Signora l’esercito dei barbari che ci circonda. Noi prendiamo le armi insieme a te contro gli aspri nemici che ci muovono guerra; contro di loro ti facciamo muovere, o Pura, in prima linea, perché tu sei il Generale a capo dei cristiani

O Signora, quando Dio, che ha fatto ogni cosa esprime la sua volontà per mezzo di un cenno [comando], l’ordine naturale è vinto. Avendolo generato in modo sovrannaturale, tu puoi fare qualsiasi cosa tu voglia. Annienta pertanto completamente coloro che vogliono distruggere la tua città”.

(Giovanni Mauroso, vescovo di Eucatia) pag.94
 

Facendo massacrare i nemici dalle mani dei soldati cristiani, essa schiacciò al suolo l’aggressione dei barbari e indebolì l’intero loro esercito… [L’intervento della Vergine] diede coraggio ai nostri [soldati] che conoscevano per esperienza il suo potere e credevano che sarebbe stata la Theomemetor a proteggere la città e a combattere…La vergine appariva dovunque vincendo senza difficoltà e instillando orrore e paura nei nemici. Da una parte dava forza ai sui servitori e li proteggeva da ogni danno mentre dall’altro distruggeva i nemici"

 

Nella battaglia navale la Vergine, fece affondare uomini e navi assieme davanti al monastero della Blacherne. A causa di ciò l’intera insenatura [cioè il Corno d’oro] se non è troppo orribile a dirsi avrebbe potuto essere attraversata senza bagnarsi a causa dei corpi morti sparsi qua e là ...Si dimostrò chiaramente che la Vergine da sola aveva combattuto questa battaglia e ottenuta la vittoria” (Teodoro Sincello De obsidione Costantipolitana)

  Conclusione   [caption id="attachment_46319" align="aligncenter" width="625"] Mosaico della cupola del nartece interno della Monastero di Nea Moni (Chio) la Vergine si trova ritratta con i santi soldati e con i martiri[/caption]

Sia che la guerra sia stata interpretata come una battaglia contro i nemici mortali o contro i poteri incorporei del male, la Madre di Dio era quindi percepita come “Il Generale”, il comandante supremo, l’Arma invincibile (come l’arca dell’Alleanza) che inviava i suoi soldati fidati nel campo sostenendoli e incoraggiandoli negli scontri armati senza offrire quartiere all’avversario.

Nonostante ciò, diversamente dalle crociate baltiche ad esempio, tali scontri non furono mai concepiti a queste latitudini come “guerre sante”, seppure il conclamato intervento divino potesse giustificare tale affermazione. Solo l’imperatore Foca tentò, senza riuscirvi, di introdurre il concetto di guerra santa nel mondo bizantino, diversamente da San Bernardo, che, come detto, promosse l’idea della guerra del cristiano come lotta e sconfitta del male incarnato, rendendo così doveroso il malicidio.

E’ d’altronde parimenti vero che la salvezza del credente passava attraverso il sacrificio di sé anche nel contesto del mondo dell’oriente cristiano. Il sacrificio del Cristo è infatti idealmente legato al martirio dei soldati e il secondo è omologo al primo. La morte in battaglia, per spargimento di sangue, rappresenta il sacrificio per eccellenza e per questo tutti i guerrieri sono equiparati al Cristo morente sulla croce e tutte le Madri dei martiri si omologano alla Vergine sofferente, in quanto offrono i loro figli in sacrificio per la vittoria dell’imperatore sui suoi nemici che sono nemici del suo popolo devoto e soprattutto nemici di Cristo e del del suo regno rappresentato dal regnante e a anche qui le icone giustificano tale prospettiva tutta militare.

[caption id="attachment_46308" align="aligncenter" width="625"] Questa immagine di Maria detta Pelagonitissa (con il figlio apparentemente giocoso tra le sue braccia) ha diversi esemplari cui fare riferimento ed è associata, ad esempio, nella chiesa di Staro Nagoticino a un San Giorgio tutto attrezzato per il combattimento. A questa immagine si può associare l’icona della vergine detta Akamachetos (invincibile) nella quale invece la posizione del bambino, proposto come un’offerta sul “cucchiaio eucaristico”, è drammaticamente statica mentre la Theotokos ha un’espressione di cordoglio. Entrambe le immagini, pur nella loro diversa formulazione, rappresentano la prefigurazione del futuro sacrificio cristico. Se in un’immagine il bambino è come “morto”, nella seconda invece è rappresentato smanioso e quindi affatto giocoso come se volesse sfuggire al suo ineludibile destino, l’espressione austera della Madre lo conferma. (cfr. Icone e Potere pagg. 110,127).[/caption]

Con ciò concludiamo questa breve escursione a volo d’uccello che ha voluto investire uno dei temi più “oltraggiosi” per la mentalità contemporanea, ovvero la possibile relazione esistente tra la spiritualità mariana e la guerra, consegnando all’eventuale incuriosito lettore il suggerimento di proseguire le sue ricerche su un tema che appare tanto urticante alla coscienza contemporanea quanto ineludibile, in questo momento di “cambio di pelle” del cristianesimo, profittando dell’abbondante bibliografia a disposizione, di cui qui si riproduce la parte utilizzata per l’occasione.

  Bibliografia Eric Christiansen Le crociate del Nord. Il Baltico e la frontiera cattolica (1100-1525), Il Mulino 2016 Henry Corbin: Nell’Islam iranico vol, IV, Mimesis, Milano Udine 2020 Karlheinz Dechner: Storia criminale del cristianesimo Tomo VII Ariele, 2006 Dalmazio Frau: L’armata di Dio, Simmetria, 2014, Roma Leonardo Magini: Lo sciamano di nome Ulisse, Effigi, Arcidosso, 2019 Bissera V. Pentcheva Icone e potere, la Madre di Dio a Bisanzio, Jaca Book, Milano 2018 Silvano Panunzio: La Roma Eterna e la nuova Gerusalemme, Iduna, Roma 2019 Tania Velmans: La visione dell’invisibile, Jaca Book, 2009  

Camillo Agrippa ed il Rinascimento esoterico – Giovanni Sessa

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Il Rinascimento è inscritto nel DNA spirituale d’Italia. Culla della civiltà europea, fin dalle più lontane origini, questa terra è protesa tra Esperia ed Ausonia, tra la terra della sera, del tramonto e l’heideggeriana terra del mattino. In più fasi della nostra storia abbiamo conosciuto il morso profondo della crisi, il disgregarsi della comunità, la cui prima manifestazione esteriore è da individuarsi nel venir meno del senso della bellezza e della gioia di vivere. Abbiamo creato, comunque, la civiltà della Rinascenza: fenomeno storico-culturale latore, ad un tempo, di grandezza e di ambiguità. Stando alla vulgata tradizionalista, con l’Umanesimo avrebbe avuto inizio la modernità, dimentica del sacro. Ad uno sguardo più attento, il fenomeno del Rinascimento appare meno univoco di quanto si sia creduto. All’affermarsi della visione laica della vita e della scienza profana, con alcune correnti spirituali, afferenti per lo più al neoplatonismo fiorentino, si è tentato di perpetuare, con forza, il ritorno ai misteri antichi. A ricordarcelo, con persuasività di accenti e documentazione significativa, è Nicola Bizzi in un recente lavoro, Camillo Agrippa. La quintessenza del Rinascimento, pubblicato dalle edizioni Aurora Boreale (per ordini: edizioniauroraboreale@gmail.com, pp. 84, euro12,00). Il libro è impreziosito da un saggio introduttivo di Luca Valentini:"Riflessi d'Antico: l'Ermetismo Rinascimentale e la Sacralità dei Numi Pagani". Camillo Agrippa non è certo uno dei nomi più noti tra quelli dei protagonisti del Nuovo Inizio quattro-cinquecentesco, eppure i suoi meriti sono indubbi. Nacque a Milano agli inizi del 1500 e fu erudito poliedrico, ingegnere di vaglia, astronomo, matematico e, soprattutto, esoterista. Nel 1535 si trasferì a Roma dove elaborò un progetto relativo all’erezione dell’obelisco di Piazza S. Pietro. A suo dire, l’obelisco avrebbe dovuto esser trasportato in posizione verticale. I suoi consigli non furono ascoltati. Realizzò, comunque, al Pincio, il sistema idraulico dell’Acqua Vergine, considerato un’opera idraulica avveniristica. Si occupò, in particolare, di navigazione e di arte militare, dedicando, nel 1553, il Trattato di Scientia d’Arme a Cosimo I dei Medici. Nelle sue pagine, di fatto, propose una modalità di duello totalmente innovativa, centrata sul colpo «di punta» anziché «di taglio», cui pervenne attraverso l’applicazione della teoria geometrica alla scherma. Fu sepolto a Roma, nella basilica di S. Maria del Popolo, il 1 gennaio del 1600. Bizzi rileva che: «come è avvenuto per altri grandi personaggi del passato in certo qual modo “scomodi” per via della loro appartenenza ad antiche Tradizioni misteriche […] anche su Agrippa si è preferito stendere intenzionalmente un velo di oblio» (p. 33).

L’autore ricorda che molti personaggi di primo piano della cultura dell’epoca, così come numerosi esponenti delle principali famiglie principesche italiane, erano affiliati ad organizzazioni iniziatiche. In quel frangente storico, chiosa Bizzi, divennero influenti a tal punto, da riuscire a far eleggere al soglio pontificio dei loro «confratelli». Tra tali organizzazioni si distinsero quelle prossime alla Tradizione misterica Eleusina. Per quanto si riferisce ad Agrippa non vi sono prove atte a chiare, in termini definitivi, la sua appartenenza ad una di tali catene iniziatiche, ma: «abbondanti sono gli indizi al riguardo» (p. 41). Il dialogo filosofico posto in chiusura del Trattato di Scientia d’Arme: «contiene, abilmente dissimulate nel testo, delle particolari terminologie “di passo” che riflettono una piena sintonia con l’appartenenza iniziatica» (p. 42).

E’ comprovata, del resto, la vicinanza fraterna di Camillo alle famiglie degli Estensi e dei Borgia che, come è noto, si posero sulla via iniziatica: i primi si affiliarono alla catena Isiaca, i secondi furono attivi lungo i percorsi eleusinici di Rito Orfico. Recentemente, chiosa l’autore, l’attenzione sull’esoterismo di Camillo Agrippa è riemersa grazie agli studi di Monica Centanni. La studiosa ha compiuto l’esegesi di una medaglia, sul cui dritto campeggia il volto di Agrippa, mentre sul rovescio stanno al centro della scena due personaggi: il primo indossa un’armatura ed è impegnato a trattenere, dalle spalle, una figura nuda femminile afferrandole il lungo ciuffo di capelli che questa presenta sulla fronte.

   La figura nuda avanza a passo celere verso sinistra, tenendo con la mano mancina una vela. Sul fondo della rappresentazione appare un edificio che potrebbe essere un tempio o un faro. Intorno alla medaglia corre la scritta Velis Nolisve. La figura femminile con vela simboleggia la Dea Fortuna, mentre: «Nella figura in armi […] era stato identificato un guerriero, da intendersi come ipostasi dello stesso Camillo» (p. 54). In realtà, stando alla interpretazione della Centanni e di Bizzi, la figura in armi dovrebbe essere identificata con Minerva, la Sapienza: «che può governare gli eventi afferrando al volo, per il ciuffo, la mutevole fortuna» (p. 58). La presenza della vela rinvia, inoltre, all’arte del navigare, del saper governare l’azione delle acque impetuose e dei venti, tenendo la rotta convenuta. Non è casuale che, nell’antichità classica, la navigazione fosse considerata momento essenziale del sapere iniziatico. L’intera rappresentazione scenica della medaglia, rinvia, quale fonte prossima, al Somnium de Fortuna contenuto in una lettera che Enea Silvio Piccolomini inviò, nel giugno del 1444, a Procopio di Rabstein, mentre la fonte remota può essere ravvisata in Seneca.

Il motto Velis Nolisve è probabilmente da attribuirsi ad Annibal Caro, straordinario traduttore di Virgilio e, rileva Bizzi, iniziato eleusino amico di Camillo Agrippa. Durante il suo soggiorno romano, Caro lavorò per Alessandro Farnese, ideando il progetto iconografico degli affreschi della Villa di Caprarola e, secondo fonti meno certe, collaborò alla realizzazione del Sacro bosco di Bomarzo. In quanto studioso di numismatica antica, avrebbe di certo potuto coniare il motto della medaglia dedicata ad Agrippa. Questi seppe coniugare, nella propria formazione e nelle proprie opere, l’interesse per le scienze dello spirito con l’osservazione della natura. Come il genio di Leonardo da Vinci, egli mirò all’ideale dell’uomo universale, modello dell’età rinascimentale.

Giovanni Sessa  

Il tempo ed i suoi due volti – Umberto Bianchi

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Quello del tempo e del suo esatto significato, costituisce uno di quei temi su cui si potrebbe dire, che non si è mai trattato a sufficienza. Un tema insidioso, sottile, aperto a mille ed a nessuna soluzione e di cui l’amico Alessandro Orlandi ci ha proposto una breve, ma intensa disamina nella sua ultima fatica “I due volti del tempo”, edito nella collana “I Polifemi” per la Stamperia del Valentino di Napoli. Il tempo “si et si”, è qualcosa di insidioso e sfuggente. Quantificato, calcolato sino al millesimo, inquadrato in tabelle e tabelline ma, se vogliamo cercare di carpirne il segreto e l’essenza, eccolo farsi d’improvviso sfuggente e dilatorio, sino a frantumarsi in una indefinibile molteplicità di aspetti contraddittori. La Modernità sorge all’insegna di quella quantificazione di cui Cartesio fu il grande preconizzatore. Dividendo la realtà in “res cogitans” e “res extensa”, il filosofo francese pensava di conferire una metafisica certezza ad una realtà che, invece, di certezza non ne presenta proprio nessuna. Razionalismo, Proto Illuminismo e successivamente, Positivismo, creeranno un edificio di certezze che si credevano inamovibili, come lo statico universo di Kant e Laplace. Ma, a fracassare quell’edificio di certezze furono due teorie scientifiche formulate nella prima metà del passato secolo. La prima, è quella della Relatività, ufficialmente formulata da Einstein. La seconda è quella della Fisica quantistica di Max Planck, W.Pauli, W. Heisenberg e N. Bohr. Anche se partendo da prospettive differenti, ambedue le teorie, conferiscono al tempo una struttura “elastica” e perciò stesso, relativa, interrelata con lo spazio e la materia. Un tempo, non più inteso quale rigido assioma, ma quale proprietà interrelata alle leggi della materia, prima tra le quali, quella del movimento.

Il tempo finisce così, con l’assurgere giuocoforza, a modalità individuale di percezione del moto della materia dell’universo. Il contemporaneo verificarsi di fenomeni, non è più frutto di un freddo caso statistico, ma della “liquidità” della dimensione temporale che si adatta ai vari stati della materia, sia nelle sue espressioni “macrocosmiche” che, in quelle più propriamente “microcosmiche”, direttamente attinenti alla sfera dell’inconscio, così come osservato da studiosi del calibro di C.G.Jung. La connessione diretta tra le più recondite dimensioni dell’animo umano e la realtà esterna in tutta la sua complessità, porta il discorso sul piano di una conoscenza “altra”.

Tant’è che il nostro Orlandi ci parla di “Tempo della Scienza” e “Scienza del Tempo”, dove il primo è da intendersi in un piano più prettamente fisico, materiale, quantificabile, mentre il secondo afferisce a quella dimensione “altra” a cui abbiamo poc’anzi accennato. E qui, non può non sovvenirci la distinzione operata in ambito greco tra “kairòs” e “aiòn”, ove il primo è inteso quale tempo storico, nella veste di computo delle umane vicende, mentre il secondo ne rappresenta l’aspetto più propriamente atemporale, strettamente legato alla dimensione del mito e dell’avvicendarsi delle vicissitudini degli Dei.

Ma ”Aiòn” o “Zurvan”, è anche il nome della divinità leontocefala iranica, lì messa a simboleggiare quel “tempo senza tempo”, la cui valenza di fluida inanità, altro non fa che riportarci alle misteriose connessioni che legano tra loro i vari aspetti della realtà. Ed a soccorso di questa impostazione, l’Orlandi ci porta tre eloquenti esempi: l’I-Ching, i Tarocchi e l’Astrologia. Tre pratiche differenti, accomunate però da una impostazione di base: la stretta correlazione tra la dimensione dell’umano microcosmo ed quella del macrocosmo, in grado di condizionarsi reciprocamente, conferendo una valenza non più casuale alla sincronicità di certi eventi, riconfermando ( se mai ve ne fosse stato bisogno), la natura quanto mai relativa di certe presuntuose asserzioni scientifiche, troppo spesso ed ancora, caratterizzate da un bieco e cieco deterministico meccanicismo. Ad onor del vero, va però ricordato che non solo la Teoria della Relatività (successivamente eretta a vera e propria assiomatica da parte di un mondo accademico “politically embedded”…) o quella della Quantistica, hanno aperto un primo spiraglio all’interno del rigido ambito della scienza ufficiale, ma anche le teorie di Karl Popper e la Teoria della Complessità, all’insegna della quale, si sta effettuando una lenta revisione di molti aspetti delle varie branche del sapere.

Al di là delle varie elaborazioni e dei vari piani, attraverso i quali si può cercare di dare una risposta il più possibile attinente alla realtà, l’intero discorso rimane comunque pervaso da un sottile alone di mistero che fa sì che, proprio quando ci sembra di aver intravisto una risposta,il quadro fa facendosi confuso e fluido, più che mai. E forse proprio questo è il segreto dell’umano sapere: il voler tendere indefinitamente a raggiungere l’irraggiungibile, al pari del tentativo di un corridore di raggiungere la linea dell’orizzonte dove sta tramontando il sole…

UMBERTO BIANCHI

Il mondo divino – Marco Calzoli

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Il sacro era la dimensione fondamentale nel mondo antico. Non esisteva un ateismo come noi lo intendiamo: Dio era una certezza come il sole e la luna, anche vi si poteva approcciare in maniera differente. È con la Rivoluzione francese che si attua la desacralizzazione del mondo, che trova il suo compimento con il capitalismo. Nell’antica Grecia tutto era sacro, infatti non esisteva un termine proprio per “religione”: non si poteva circoscrivere il sacro in quanto esso pervadeva tutto. Ogni cittadino greco poteva compiere sacrifici e la cosa era la caratteristica segreta che ne attestava la cittadinanza. Inoltre, vi erano professionisti del sacro. I sacerdoti erano legati a una divinità e a un luogo. L’esegeta interpretava il diritto divino. Il mantis era l’interprete dei sogni, del volo degli uccelli, delle interiora. I cantori di oracoli erano ispirati da un dio e predicevano il futuro: il mantis apprende l’arte, invece il cantore di oracoli viene visitato dal dio. In quest’ultima categoria rientravano la Pizia e la Sibilla, donne spesso di umili origini che davano oracoli per il futuro. La Pizia prediceva un futuro che può essere cambiato, invece la Sibilla un futuro che non può essere cambiato, cioè disgrazie volute da qualche dio. Nel Libro I degli Oracoli Sibillini, vv. 1-4, è scritto che la Sibilla profetizzò cose del passato, che sono ora e che saranno nel futuro per via della empietà degli uomini.   La Sibilla sta nel mondo pagano e in quello ebraico e cristiano fino al Medioevo. Nel primo parlava ispirata solitamente da Apollo, invece in quello ebraico e cristiano ispirata da YHWH, il Dio della Bibbia. Pensiamo solo alla Sibilla Cumana, ma ve ne erano molte altre. La Pizia stava a Delfi. A Delfi vi era un santuario panellenico, cioè visitato da tutta la Grecia antica, dedicato al dio Apollo. Sotto il tempio di Apollo, annesso al santuario, vi era un ipogeo nel quale stava la Pizia sopra un tripode, la quale era una donna che sentiva i messaggio del dio. Chi voleva fare una richiesta al dio, andava dalla Pizia in questo tempio. Costui faceva delle abluzioni, pagava una somma, faceva dei sacrifici. Formulava la richiesta alla Pizia, la Pizia sentiva il dio da un pozzo e dava il responso, il quale veniva trascritto dal sacerdote. Mentre la Pizia interrogava Apollo, la Sibilla ne era invasata e parlava in stato estatico.

Con l’avvento del cristianesimo la società cambia. Nel mondo antico si viveva solo in questo mondo, l’oltretomba era un luogo oscuro e anche incerto. Nell’alta società era centrale la figura dell’eroe. Stando a quanto scrive Nucci, Achille esprimeva l’impulsività del giovane, invece Odisseo la riflessività dell’uomo adulto. La massima aspirazione era morire in battaglia o essere un grande atleta affinché la fama sopravvivesse tra i viventi. A questo modello si opporrà quello del martire: morire avendo raggiunto la meta della fede avrebbe spalancato le porte del paradiso. Il mondo classico non vedeva di buon occhio la povertà e l’indigenza, invece il cristianesimo proporrà la figura del povero per Dio, o quanto meno lo stile di vita per cui “è meglio avere meno bisogni che possedere più cose” (Agostino, Regola, 18). L’ispirazione dei testi sacri diviene non solo un motivo per guardarsi dalle disgrazie del futuro ma modello su cui adeguare in tutto la propria vita. L’Islam riprenderà questo concetto dall’ebraismo e dal cristianesimo. Per questo ha fatto grande scalpore la ipotetica questione dei “versi satanici” del Corano. La leggenda narra che nella sura 53 (ai versi 19, 20 e in quello successivo, che sarebbe presente nei manoscritti più antichi del Corano ma espunto dagli ortodossi) Maometto fu ispirato non da Dio ma da Satana nel cantare la lode di tre dee pagane preislamiche, Allat, ‘Uzza, Manat, che erano sorelle di Allah, il dio pagano del pantheon arabo. I testi sacri sono la testimonianza di come le parole degli dei siano state considerate moltissimo nella storia di un dato popolo sacro. A volte ripetute per millenni, come i Veda, i testi sacri dell’induismo. Per trasmetterli invariati per moltissimo tempo sono state create delle tecniche apposite di recitazione: saṃhitapāṭha (con le modificazioni tra parole), padapāṭha (con parole isolate), le vikṛti (con gruppi di parole). La Bibbia ebraica ha precisi sistemi per la cantillazione che sono aggiunti al testo. Qualcosa di analogo succede anche per il Corano (lo studio della recitazione cantata del Corano è detto tajwid). Per molte tradizioni indiane i Veda sono la più importante rivelazione, avuta per intuizione-visione dai Rishi, anche se nessun testo si sofferma sulle modalità di questa conoscenza iniziale. L’attività creativa dei Rishi viene descritta dalla radice DHI, che indica sia il vedere sia il pensare: in questo modo i Rishi forse non creavano da soli le immagini poetiche ma “vedevano” quelle trasmesse loro dagli dei e che i comuni mortali non vedono (1).

Per altre tradizioni, la più importante rivelazione è costituita dai Puraṇa o dai testi del tantrismo. I Veda vengono elaborati con il passare del tempo, prima vengono indicati nel testo al singolare e poi al plurale (quando crescendo i testi si moltiplicarono per aggiunte successive). I testi vedici finali sono le Upaniṣad, scritte in perfetto sanscrito, mentre i Veda più antichi sono scritti in vedico, la fase più arcaica della lingua sanscrita. Le Upaniṣad sono basilari anche se vengono dopo: da esse sorge l’idea della rinascita, mentre nella fase precedente si pensava al paradiso dopo la morte. Per l’induismo e il buddhismo la parola è più di quella ordinaria: essa, infatti, può divenire un mezzo (upāya) per trasmettere la conoscenza sacra e per elevare lo spirito fino alla liberazione. Sono conosciuti anche in Occidente i mantra, che possono elevare la conoscenza, come Oṃ. Nel buddhismo esiste la śrotra vijñāna (conoscenza uditiva), una particolare contemplazione delle preghiere rituali del monastero per carpirne i segreti esoterici. In un rito indiano formato da più giorni di celebrazione la Parola sta al quarto giorno. La divinità che veicola il quarto giorno è la Parola, in sanscrito Vāc. La Parola è più delle lettere, dei simboli e delle parole: è sempre un fine da raggiungere. Le parti sono tre, e il quarto giorno è visto come il tutto che si aggiunge alle prime tre parti. Vāc per l’appunto è una sillaba formata di tre sillabe. La sillaba è trisillabica (akṣaram iti tryakṣaram), la parola vāc è una sillaba (vāg ity akṣaram). Il quarto giorno sta ai tre precedenti come la Parola sta alle tre sillabe. La Parola è l’esempio tipico del tutto che resta da aggiungere quando si sono ottenute le parti, l’anuṣṭubh (2).

La Bibbia diviene il luogo della manifestazione di Dio: è Parola di Dio. Sia perché si narra quell’avvenimento del passato sia perché è attualmente la Parola di Dio. Gli studiosi della Bibbia affermano che non si possono capire i quattro vangeli senza conoscere le feste ebraiche, che fanno spesso da sottofondo agli avvenimenti raccontati. Questo è vero soprattutto per il Quarto vangelo, quello di Giovanni. Nei capitoli 7-10 del Quarto Vangelo c’è la Festa delle Capanne. Gesù sale a Gerusalemme per questa Festa. Ai tempi di Cristo era la festa più importante per il popolo ebraico, tanto che era definita LA Festa. Il Vangelo di Giovanni è lo scritto della autorivelazione di cristo: in questa festa ha luogo una importante rivelazione del Messia. Come detto anche da Zaccaria 14, la rivelazione del Messia avverrà nella Festa delle Capanne. In questa festa è ancora oggi molto sentita dagli ebrei l’attesa messianica.Giovanni 7, 1-5: “In seguito Gesù girava per la Galilea. Non voleva infatti girare per la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo. Era prossima la festa dei Giudei, quella delle Capanne. Gli dissero i suoi fratelli: ‘Parti di qua e va’ nella Giudea così che anche i tuoi discepoli vedano le opere che fai. Nessuno infatti agisce nel segreto, e cerca egli stesso di mettersi in mostra. Se tu fai queste cose, manifèstati al mondo’ “. Il verbo greco periepatei significa precisamente “girovagava” e indica che Cristo era un profeta itinerante. La festa delle Capanne era una festa di pellegrinaggio, assieme alla Pasqua e alla Pentecoste: gli ebrei dovevano recarsi con il clan familiare a Gerusalemme (i cosiddetti “fratelli”). Giovanni 7, 8: “Salite voi alla festa. Io non salgo …”. Ma ci andrà di nascosto.  Gli ebrei dicono ancora oggi “salire a Gerusalemme” sia perché la città è in alto sia perché è il luogo più alto della terra, in cui vi è la Presenza di Dio. Nella Festa delle Capanne (che dura 7/8 giorni) l’ebro pio ancora oggi costruisce una tenda, nella quale deve pernottare: il tetto deve essere fatto di palmizi di modo che, all’interno della tenda, si possano vedere le stelle. La festa ricorda il popolo ebraico nel passaggio nel deserto, quando esso dormiva nelle tende e lo faceva anche Dio. In quell’accampamento la tenda più importante era la Dimora nella quale era posta l’Arca dell’Alleanza in cui scendeva Dio in una nube e accompagnava il popolo nel viaggio nel deserto. Dio si fa pellegrino tra i pellegrini umani, entra nella storia e nella sofferenza degli uomini. In questa storia si manifesta Dio e il suo Messia, che per i cattolici sono la stessa cosa. Giovanni 1, 14: “E il Verbo si fece carne e abitò tra noi e vedemmo la sua Gloria”: il verbo greco eskēnōsen significa precisamente non solo abitare ma mettere la tenda (skēnē). Cristo entra nella nostra tenda e in essa noi vediamo la sua Nube di Gloria: Egli è il Dio degli ebrei e di tutti gli uomini.

Il culto degli dei è molto antico. Secondo la nota testimonianza di Erodoto (II, 52-53) il culto agli dei risale a prima dei Greci, quando in quel territorio vi erano i Pelasgi, i quali li chiamavano semplicemente “dei” senza aggiungere altri nomi: Erodoto fa derivare il nome “dei” (in greco theoi) dalla radice del verbo greco tithemi, “porre in ordine”, perché essi avevano posto ordine all’universo. Ma, secondo Erodoto, all’opera di Omero e Esiodo risalgono la genealogia, le denominazioni, gli onori, le competenze, l’aspetto degli dei. Oggi la glottologia collega la radice del termine greco a quella indoeuropea *DHWES, “respiro”, che ha dato anche il verbo greco thuō, “sacrificare bruciando”. Dalle attestazioni sembra che in aria greca vi sia la concorrenza tra un dio Zeus e uno denominato theòs: il primo patriarcale, il secondo matrifocale; il primo elitario, il secondo più popolare. Secondo una recente etimologia, alla base del greco theòs ci sarebbe la radice indoeuropea *DHEI, “allattare”, che ha dato anche il greco theios, “zio”(3). Il latino deus pare collegato alla radice indoeuropea *DEYW, legata all’idea della luce, donde anche dies, “giorno”. Il germanico Gott, god sembra associato a un’altra radice indoeuropea che veicola l’idea della bontà. Il termine nelle lingue slave deriva dalla radice indoeuropea *BHAG, “spartire”. Nelle lingue semitiche abbiamo la radice semitica che ha dato l’ebraico ‘El, ‘Elohim. Il termine arabo Allah (che non è il nome proprio di una divinità, come Zeus, ma indica il concetto generale di Dio) sarebbe derivato da quella radice con all’inizio l’articolo determinativo arabo al: Allah allora significherebbe “il dio”, Iddio. Alla base della radice semitica c’è l’idea della forza. Gli dei greci hanno a che fare con la vista: thea è “dea” in eolico (mentre in attico theos è sia maschile sia femminile) ma significa anche “visione”. Per i Greci vedere è sapere. Erano per questo detti “popolo dell’occhio”. La parola adēlon, “invisibile”, è usata dai Greci con molta parsimonia fino a Platone, in Omero compare una sola volta. I Greci aborrono l’invisibile come sinonimo di incertezza, male(4). La caratteristica degli dei omerici è quella di essere potenze e non persone, ragion per cui essi appaiono in un modo che nell’orizzonte percettivo dell’essere umano pare avere un senso coerente (quando l’eroe ferisce Afrodite, scaturisce dal corpo di lei dell’umore: Iliade V, 330-343), ma questa identità non è la sola. “Dietro la presenza degli dei aleggia sì l’immagine di splendidi esseri in forma umana, una sorta di presupposto ideale che li rende raffigurabili sulla superficie di un vaso o fa sì che il poeta possa descriverne le meravigliose apparenze; ma si è contemporaneamente ben consapevoli del fatto che il dio è altrettanto sé stesso anche quando si manifesta in forme mortali, animali, atmosferiche, o semplicemente attraverso segni e barlumi, ovvero non si manifesta affatto. Ed è proprio in questa molteplicità identitaria, nel poter essere serialmente molti, non uno solo – sé stessi e altri da sé – che risiede il privilegio divino” (5).

“In Omero raramente gli dei si rivolgono agli uomini in modo diretto e esplicito: la loro vera voce giunge agli orecchi umani solo in casi eccezionali. Il più delle volte, per comunicare con i mortali, gli dei scelgono modi ambigui: quando non si servono di esseri dotati di particolari capacità (maghi, vati, aruspici, poeti), o inviano, in veste di ambasciatori, divinità minori (Ossa, la ‘voce’ di Zeus; Ypnos, che compare nei sogni; Iri, la voce messaggera, che attraversa i cieli per trasmettere i messaggi divini), si presentano nelle sembianze di qualche mortale. In ogni caso decodificare i messaggi divini è sempre arduo e sempre gli uomini si sforzano in ogni modo di riuscirvi … L’uomo omerico si muove in una realtà della quale avverte tutto il mistero, è consapevole di non saper fornire spiegazioni dei fenomeni naturali, si sente esposto all’azione di forze che non padroneggia, per questo è attento a cogliere ogni segnale inquietante e pronto a attribuire la causa a un dio. Il non sapere, non capire, non poter prevedere è la prima caratteristica della condizione umana e per questo l’uomo è costantemente impegnato nello sforzo di uscire dalle tenebre nelle quali gli dei vogliono mantenerlo” (6).

Note:

1 - T. J. Elizarenkova, Il Rigveda. L’inizio della letteratura e della cultura in India, Roma 2011;

2 - C. Malamoud, Esegesi di riti. Esegesi di testi, in ID., Cuocere il mondo. Rito e pensiero nell’India antica, Milano 1994, pp. 281-299;

3 - F. Cavazza, Lezioni di indoeuropeistica, vol. 1, Pisa 2005;

4 - R. Peregalli, La corazza ricamata. I Greci e l’invisibile, Milano 2008;

5 - M. Bettini, Visibilità, invisibilità e identità degli dèi, in G. Pironti, C. Bonnet (a cura di), Gli dèi di Omero. Politeismo e poesia nella Grecia antica, Roma 2016, pp. 29-58;

6 - A. M. Storoni Piazza, Ascoltando Omero. La concezione di linguaggio dall’epica ai tragici, Roma 1999.

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 32 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.

Il sentiero del Silenzio – Stefano Arcella

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Inizia la vacanza

 Raffaele aveva studiato il luogo dove, con l’amico Gennaro, aveva deciso di trascorrere una breve vacanza. Le guide parlavano dei sentieri e dei boschi del Matese, e di un luogo dai nomi fortemente evocativi. Aveva letto di un santuario in montagna e di un Eremo della Solitudine cui si accedeva percorrendo un sentiero, chiamato Il Sentiero del Silenzio. Da com’era descritto, sembrava un luogo del tutto diverso dal santuario, forse anche distante. Giunsero di buon mattino nel paese che avevano scelto. Il viaggio in treno era stato lento e placido. La pianura del Casertano si era srotolata davanti ai loro occhi, alternandosi con paesini dai tratti antichi, a volte seguiti dal bestiame degli allevamenti nelle fattorie di campagna. Il tutto era molto rilassante, specie per Raffaele che amava distendersi osservando i paesaggi. Avevano preso una “littorina”, ora adibita a metropolitana regionale. Alla stazione avevano chiamato l’albergatore che gentilmente era venuto a prenderli con l’auto. I due amici non amavano guidare. Il paese alle pendici del massiccio del Matese era tranquillo, fin troppo; Gennaro e Raffaele percepirono subito che c’era un’aria strana, come una cappa di torpore che soffocava qualcosa. Percepirono l’atmosfera, si lanciarono uno sguardo d’intesa; conoscendosi da molti anni ed avendo una solida sintonia, non c’era bisogno di dirsi molte parole. Presero alloggio nelle due camere singole, con un arredo sobrio e decoroso, con tutti i comforts di un albergo che si rispetti. Avevano bisogno di riposare e questi particolari erano importanti. Depositarono i bagagli, e scesero in piazza Roma, il centro del paese. Osservarono le montagne del massiccio tutt’intorno, coperte da una compatta vegetazione e la loro attenzione fu attratta da un campanile che dominava sul monte piu’ vicino.

“Quel campanile deve essere del ‘600, lo stile architettonico è inconfondibile,” disse Raffaele. Essendo uno studioso di arte e di religioni comparate, cercava di cogliere subito le tracce della storicità di un luogo, i suoi stili, le sue “sfumature”. Conversare con lui era un viaggio nella storia, con la naturalezza con cui altri potevano parlare di affari quotidiani. Lui viaggiava nel tempo, parlava di epoche lontane come altri possono parlare al bar di una partita di calcio. In questo era un uomo che creava attenzione mista a meraviglia, ma a volte, preso dalla sua passione per la storia, non si rendeva conto che il suo eloquio era, per gli altri, fin troppo impegnativo. Il suo rigore di studioso era temperato, però, dalla sua indole di buongustaio, dal piacere di stare a tavola e godere in allegria di buone pietanze, scherzando con gli amici. La sua espressione seria di studioso era mitigata dalla dolcezza del suo sguardo, che esprimeva un animo pulito.

In compagnia, Gennaro temperava la serietà di Raffaele con la sua proverbiale carica d’umorismo, che si esprimeva anche in una fisionomia tipicamente partenopea, fatta di vivacità e furbizia. Era basso e minuto. Per lui era appropriato il proverbio napoletano “curt e’ màl ‘ncavàte” che vuol dire: una persona minuta ma piena di risorse in quella piccola testa. A volte, questo senso dell’humour gli consentiva di mascherare la sua emotività e la sua riluttanza a vedere con chiarezza in se stesso e nella sua vita, proverbiale per il suo disordine, a cominciare dal guardaroba, qualcosa a metà strada fra una bancarella ambulante e il negozio del rigattiere … Eppure, esisteva un altro Gennaro, conosciuto solo dagli amici più stretti e cultori di certi studi di “geografia sacra”; Gennaro era fortemente, straordinariamente sensibile al mondo della natura. No, non si trattava di un ecologista o di un botanico, ma di un animo aperto agli Spiriti della vegetazione ed alla psiche degli animali, capace di comunicare con loro e di immedesimarsi in loro. Lui si apriva a quel mondo con un animo fanciullesco e gaio, come un pastorello che incontra il dio greco Pan e diviene tutt’uno con lui.

La sua anima esultava quando percepiva con chiarezza il segreto linguaggio delle forze e degli Spiriti della natura, le loro fluenze, i loro movimenti. E in questa comunione gioiosa, in questo cancellare la propria personalità ordinaria – quella dell’impiegato arguto, allegro e chiacchierone – Gennaro correva un pericolo. Il suo “entrare” nel mondo di Pan era per lui una cosa così naturale e intensa che, una volta entratovi, era preso da una tale letizia da non volerne più uscire. Il suo “astrale”, con tutte le energie delle sue emozioni, tendeva a staccarsi dal tempo e dallo spazio, perdendo però la presenza cosciente, avvolto da quel senso di unione gioiosa e fanciullesca col mondo degli gnomi e delle fate. Nella vita ordinaria non voleva più tornare, provando un senso di riluttanza e di sofferenza. Rischiava seriamente di “andare fuori di testa”, di avere crisi emotive, non avendo attitudine né allenamento al richiamo della presenza cosciente. Aveva bisogno di amici che, pur sensibili a quegli Spiriti, fossero più inclini e allenati a tenere desta l’attenzione a se stessi e lo aiutassero a “rientrare” nella dimensione cosciente. Raffaele aveva questa qualità e sapeva essere, all’occorrenza, il naturale complemento di Gennaro nel fare le esperienze dell’Altrove, dell’Invisibile. Lui, in realtà, non era soltanto uno studioso, ma un praticante di concentrazione e meditazione, secondo un itinerario interiore imperniato sulla centralità della presenza cosciente.

 

L’ascesa

 “Ci può dire la strada per giungere a quel campanile?” disse Gennaro a Roberto, l’albergatore di cui aveva già intuito la disponibilità in qualche breve chiacchierata.

“Quello è il campanile del santuario di S. Maria Occorrevole,” rispose quello, con il tono soddisfatto di chi può fare un po’ da “cicerone” in un paese solitamente sonnolento. “Lo hanno restaurato da pochi anni grazie all’intervento di un Abate molto colto e attivo. Potete salire per il borgo antico del paese. Prendete la strada alle spalle dell’albergo e continuate diritti. Poi troverete un bivio; lì girate a sinistra e troverete una mulattiera che vi porta in cima. Farete circa un’ora di cammino. In cima, dov’è il santuario, vedrete un panorama bellissimo: si ammirano tutte le montagne del massiccio e dall’altro alto, tutta la vallata, giù fino ad Alife. Nei giorni in cui l’aria è nitida, si può osservare col binocolo perfino il Vesuvio, anche se è molto lontano”.

“La ringrazio - disse Gennaro con un’espressione allegra e comunicativa – abbiamo proprio l’esigenza di respirare l’aria pura, di goderci la frescura in vetta. In città la calura e l’afa sono opprimenti”.

“Buona passeggiata – disse Roberto - … sa…noi da queste parti saliamo in cima la sera del 24 dicembre. Si fa una fiaccolata, si sale per la mulattiera e si raggiunge il santuario. Lì, a mezzanotte, si partecipa alla messa di Natale”.

“Dev’essere un’usanza molto antica – fece Raffaele rivolgendosi a Gennaro – ed è molto simbolico il percorso: la salita…la luce delle fiaccole nel buio…poi nasce il Fanciullo divino…”

“Già – soggiunse Gennaro – ci si deve sentire molto raccolti e uniti nella comunità che rivive i suoi legami, i suoi culti…”

“Sì, è una tradizione molto antica e molto sentita – precisò Roberto – Noi siamo un piccolo comune, ci si conosce tutti quanti….” Il suo tono era colloquiale, ma sul suo volto si dipinse un’aria di sorpresa per l’interesse che i suoi clienti mostravano per quel santuario in montagna. Che tipi quei due – pensò l’albergatore – arrivano qua senza auto e vanno a piedi in montagna … devono essere amanti delle escursioni e della natura…

“Ma voi siete amanti delle escursioni ?” chiese Roberto ai due amici.–

“Certo – rispose Gennaro - siamo amanti del trekking e della bellezza dei paesaggi. Abbiamo lasciato la macchina in città perché dopo un anno di lavoro non ne potevamo più di guidare…”

Raffaele tacque. Lanciò un’occhiata a Gennaro che ricambiò con uno sguardo furbo. Non era vero che avevano guidato per tutto l’anno; in realtà, non guidavano mai. Pur essendo due caratteri molto diversi, avevano in comune, fra l’altro, anche il rifiuto della guida dell’automobile, il disagio nel caos e nel traffico cittadino… In modi diversi erano inclini agli ambienti silenziosi e molto vivi, carichi d’ energie naturali. Forse avrebbero dovuto vivere in un’altra epoca. Eppure, nel loro lavoro erano molto presenti e attivi, ma, in fondo, una loro parte era “fuori”, in un “altrove”... Nel fondo della loro anima, si sentivano lontani dalla frenesia e dal frastuono metropolitano.

Salutarono Roberto e s’incamminarono.

“Perché gli hai detto quella fesseria ? ” chiese Raffaele.

“Perché altrimenti ci prende per scei., Occorre stare attenti a non attirare su di noi curiosità negative, di chi ti vede come un soggetto ‘strano’…E’ bene farsi accettare, proporre le nostre esperienze come qualcosa di normale ”.

“Ho capito. Le attenzioni ostili attirano energie ostili…se si entra in un ambiente occorre amalgamarsi... integrarsi”

“Bravo... vedo che hai intuito…” rispose l’altro.

Essere noi stessi senza apparire ‘strani’...” aggiunse Raffaele.

Essere noi stessi…devi sempre parlare come un filosofo… Piuttosto hai visto come sono notevoli qui le donne?...”

Certo…ho notato…è l’aria buona...le fa crescere bene…

Intanto erano giunti a un bivio. In quel momento fecero un incontro inatteso.

“…Signor Raffaele…” . Si udì una voce femminile. Raffaele si voltò e con sorpresa e disagio vide una vicina di casa, in città, che di tanto in tanto cercava d’avvicinarlo…e fare amicizia; il problema era che era brutta, veramente non favorita dalla natura…e Raffaele non ne era attratto. Tuttavia era una persona gentile e socievole che si rendeva simpatica per il suo carattere

“Dove andate? Come mai siete qui?”

-“Andiamo al santuario - rispose lui – ci hanno detto che è un posto molto bello. Come mai, Rosaria, ti trovi qui? ”

Io sono originaria di questo paese, qui abitano i miei genitori. A Napoli ci sto per studiare. Potete prendere anche la strada alla vostra destra. E’ più lunga, però più comoda, anche se impiegherete più tempo… Ma.. voi forse non avete gradito di avermi incontrata …”

No, anzi, è un piacere - disse Raffaele cercando di dissimulare il suo disappunto -Ti ringrazio dell’indicazione…Buona giornata…”

Siete stata gentile, grazie per l’informazione – aggiunse Gennaro - … stavamo per prendere la mulattiera…”

Ci vediamo a Napoli… professore ...”rispose Rosaria nel salutare .

Il “professore” - come lo chiamavano fra gli amici - non sapeva nascondere le proprie emozioni... aveva una autenticità che talvolta gli creava problemi ma in questa schiettezza stava anche la sua pulizia morale.

Salutarono la ragazza, quell’apparizione improvvisa che aveva, per il momento e il luogo in cui era comparsa, tutta l’aria d’essere un “segno”; la lessero come una traccia indicata dall’ “anima del luogo” e decisero di scegliere la strada lunga, alla loro destra…

“Di solito – pensò Raffaele – nei miti e nelle leggende al viaggiatore solitario sono indicati passaggi impervi, prove difficili. Invece ora sto ricevendo l'indicazione di un percorso più comodo, almeno in apparenza... e se questa via racchiudesse una traccia, un senso che sfugge ad uno sguardo superficiale?”.

S’incamminarono per la strada statale che, con i suoi tornanti e le sue curve, saliva dolcemente verso la vetta, in una giornata tersa e luminosa… Di tanto in tanto un cane abbaiava dietro il cancello di una villa; i giardini privati s’alternavano alla vegetazione selvaggia. Le margherite avevano un coloro giallo intenso, quasi dorato, traccia della forza solare che s’irradiava sul fianco della montagna, da mezzogiorno al tramonto, mentre l’apparire frequente di farfalle bianche e di fiori bianchi selvatici richiamava il colore e l’energia della luna. D’un tratto Gennaro si fermò davanti ad una roccia. La osservò a lungo, con uno sguardo intenso, mentre sul suo volto si delineava un sorriso fanciullesco.

“Ecco vedi - disse rivolgendosi a Raffaele - qui c’è una lotta fra la pietra e la terra… la terra sta togliendo spazio alla pietra. Vedi tutto questo terriccio che avanza? La terra sta sommergendo la pietra, la sua energia è piu’ forte, più attiva”.

“Per forza – replicò Raffaele la pietra sta ferma. Che scoperta!”

“Lo credi tu, perché sei abituato a vedere le cose in modo statico... come se fossero immobili, ma la natura è vivente, è animata. Hai mai sentito parlare di pietre che si muovono? Esistono anche le pietre che cantano!”

“A pensarci bene esiste una letteratura in materia, qualche volta l’ho consultata”.

“Non pensare ai libri, piuttosto osserva le forze che sono in movimento, le forze reali… la terra qui sta conducendo una lotta ed è vittoriosa. Il segno di questa vittoria è quel fiore dal colore rosato che sta in alto su quella pietra; è la forza fecondatrice della terra che esplode gioiosamente in quel fiore … vedi...osserva le cose nella loro connessione…

“Che strano – disse Raffaele a bassa voce, quasi parlando a se stesso –avevo visto quel fiore ma non avevo colto il legame con la scena sottostante, della terra che prevale sulla pietra. E’ tutta una questione del modo in cui si osservano le cose… se le vedi nelle loro singolarità, staccate l’una dall’altra, la natura appare un coacervo di fenomeni isolati… in realtà è tutto connesso.. la terra.. le pietre.. i fiori…”.

“E l’acqua? Non vedi l’acqua? - soggiunse Gennaro - Non vedi i segni che ha lasciato su queste rocce?”.

Raffaele si fermò a osservare i segni di una forza fluente lasciati su un masso roccioso, una fluenza che aveva dato a quella pietra, in una scia, un colore grigio bluastro..

Qui l’acqua è potente – pensò. “Immaginiamo d’inverno qui cosa accade - osservò parlando all’amico – l’acqua erode la pietra, la plasma, la modifica”.

“Eppure queste pietre sono forti” osservò Gennaro.

Volgendo lo sguardo su tutto il fianco del monte, quei massi davano l’impressione di muoversi e di respirare, come una lenta valanga di pietra massiccia, una forza incombente e minacciosa …

Occorre darsi calma e tempo per scrutare la natura, sentire le sue forze, i legami fra le forme - pensò Raffaele…

La salita durò ore ma i due amici non ne risentirono. Avevano una buona agilità e uno spirito giovanile e battagliero che si rifletteva nella loro salute fisica. A poca distanza dal campanile – alcune centinaia di metri – Gennaro avvertì uno strano odore di sporcizia.

“Mi sembri un cane osservò ridendo Raffaele quando, poco dopo, notò le lattine di birra e i bicchieri di plastica che alcuni barbari avevano lasciato sul ciglio della strada…

 

Il santuario

Giunsero al campanile che dominava la valle che si aprì al loro sguardo in tutta la sua ampiezza. Lontano, le mura romane della città di Alife davano la sensazione che il tempo si fosse fermato. Dietro di loro, lo scenario dei boschi e dei monti del Matese era maestoso nella sua dolcezza. Il santuario e il convento, non visibili dalla valle, si ergevano al centro della spianata con i segni di un recente restauro che Raffaele non mancò di notare, attento com’era al profilo storico dei luoghi… Si fermarono a contemplare quel paesaggio; il sole splendeva sulle loro teste e inondava di luce tutta la valle; dietro, sullo sfondo del santuario e del vicino convento, i monti sembravano riposare in un’atmosfera sognante. Nel bar adiacente al santuario, gli anziani della zona parlavano e scherzavano fra loro. I due amici decisero di chiedere informazioni, perché sapevano dell’Eremo della Solitudine e del Sentiero del Silenzio, ma non esattamente a quale distanza fosse dal Santuario. Credevano che fossero due luoghi distinti e lontani fra loro.

“Sapete dirci come si arriva all’Eremo? Sappiamo che bisogna percorrere il Sentiero del sSlenzio, così è chiamato sulle guide. E’ lontano?”.

“L’Eremo è vicino al Santuario – rispose un anziano – ma non potrete vederlo perché non si può entrare. Troverete chiuso il cancello che dà accesso al Sentiero del Silenzio. Prima, tempo fa, era aperto ma poi lo hanno chiuso perché, essendo un luogo isolato, vi si trovava di tutto... voi capite…”

“Peccato, ci tenevamo a vederlo … sappiamo che vi sono le stazioni della Via Crucis... tante cappelle … sono 13…”.

-“Sì, è un sentiero molto bello … - rispose l’anziano – ma potrete vederlo solo da fuori, dal cancello, che è sempre chiuso … Però potete vedere il santuario... ora stanno celebrando la Messa …”.

Ringraziarono per le notizie e percorsero il viale che dal campanile conduceva al Santuario. Un ampio pianoro dalle linee dolci si stendeva di fronte a loro …. Sullo sfondo, dietro al santuario, una fitta boscaglia dai colori più intensi suscitava l’impressione di un mutamento, come se, pur vicini, i due luoghi – il Santuario e l’Eremo – avessero aure diverse, esprimendo, nei colori e nelle forme, anime distinte. Entrarono nella chiesa attraverso un cortile. Dietro l’altare, un dipinto di stile bizantino : figure ieratiche, statiche che rinviavano all’atmosfera di altre epoche in cui l’immobilità del divino era sovrapposta al movimento terreno. La chiesa era affollata e i due amici non avevano interesse a seguire la celebrazione della messa. La loro religiosità era di un tipo diverso, non legata alle formalità rituali. Uscirono nel cortile e osservarono le lapidi che ornavano le mura. Furono colpiti, in particolare, da una iscrizione dedicatoria

AL DUCE D’ITALIA

FONDATORE DELL’IMPERO

BENITO MUSSOLINI

CHE CON LEGGI PROVVIDE

ALLA BONIFICA INTEGRALE

HA DATO ACQUA

A QUESTI MONTI ARIDI, AGLI ARMENTI

AI LAVORATORI DEL CAMPO, AI PELLEGRINI

AI FIGLI DI S. FRANCESCO

LA PROVINCIA MONASTICA

  1. GIOVANNI GIUSEPPE DELLA CROCE

DI NAPOLI

AD OPERA COMPIUTA POSE

12 OTTOBRE 1937 – XV

Nonostante tutte le rimozioni ufficiali, quella lapide testimoniava la persistenza di una memoria storica.

“Le memorie - osservò Raffaele rivolgendosi all’amico - sono forme-pensiero che hanno una loro energia che impregna i luoghi. Quando nel mondo antico si condannava un personaggio alla damnatio memoriae e si cancellavano tutte le iscrizioni a lui dedicate si compiva un’ operazione ‘sottile’, si depotenziava la forma-pensiero di una memoria”

La memoria delle bonifiche fasciste è ancora forte – soggiunse Gennaro – e questo luogo ne è impregnato”.

Andarono oltre, imboccarono un lungo e silente viale alberato; all’inizio, sulla destra, notarono una porta chiusa sulla quale era scritto “Clausura”.

L’aria era dolce e leggera. Le varie sfumature di verde intrecciate con l’azzurro terso del cielo e il bianco grigiastro delle nuvole conferivano al luogo la fisionomia di un piccolo paradiso. Pure, quel paradiso era stato, nei secoli, un luogo di travagli interiori.

Chissà quante lotte interiori e quanti sforzi vi sono stati dietro quelle mura della clausura … pensò Raffaele – c’era il fervore della fede e della preghiera ma anche le debolezze, i dubbi, le sofferenze …

Giunsero al cancello da cui si accedeva al Sentiero del Silenzio e, con loro sorpresa, lo trovarono aperto. Il catenaccio era appeso al cancello e nessuno si scorgeva nelle vicinanze. Sull’arco che incorniciava il cancello, lessero un’iscrizione :

O BEATA SOLITUDO O SOLA BEATITUDO

TACITURNI ROMITI O PASSEGGERO

VIVON LIETI IN QUEST’EREMO BEATO

CHE NON SENZA PROFETICO MISTERO

NE’ TEMPI ANDATI IL MUTO ERA APPELLATO

QUI SI CONVERSA IN CIEL QUI IN SPIRTO VERO

DA MUTI E MORTI AL MONDO E’ IDDIO LODATO

QUI PARLA IL VERBO AL CUORE: ENTRI CHI TACE

PERCHE’ IL SOLO SILENTIO E’ QUI LOQUACE

Era un invito al pellegrino a percorrere quel Sentiero in Silenzio, per raccogliersi e avvertire la solitudine come stato di beatitudine dell’anima.

Alterniamoci per visitare questo sentiero – disse Gennaro – c’è il rischio che chiudano il cancello alle nostre spalle ..è già una fortuna averlo trovato aperto”.

“Hai ragione… non conosciamo la lunghezza del sentiero e quanto tempo occorre per percorrerlo tutto … Comincia tu …”.

 

Il Sentiero del Silenzio

 Prima di iniziare la visita, Raffaele scattò alcune foto all'amico, col cancello sullo sfondo e l'iscrizione sulla solitudine e sul silenzio. L'immagine che inquadrò nell'obiettivo era molto chiara. Doveva essere il ricordo di un'escursione fatta ed aveva anche un interesse storico, per l'antichità del luogo. Non controllò la foto sulla digitale; la chiarezza dell’immagine che aveva inquadrato non gli suscitava alcun dubbio su ciò che aveva fotografato. Gennaro imboccò il Sentiero del Silenzio... avvertiva la particolare vibrazione dell'energia del posto ed un senso di sottile emozione percorreva il suo corpo... già si vedevano le cappelle della Via Crucis. Intanto, Raffaele osservava con maggiore attenzione quel luogo, l'arco intorno a quel cancello. D'un tratto, si accorse che sul muro laterale, alla sinistra del cancello, era incastonata un'antica epigrafe in italiano antico. La lesse con calma:

  1. O. M.

DI ORDINE DEL N.B. P. INNOC…..

SOTTO LI 9 AGOSTO 1679 NIUNA

PERSONA DI QUALSIASI STATO CON-

DITIONE O SESSO PUOL ENTRARE

NEL RECINTO DI QUESTA SOLITUDO

DI S. MARIA DEGLI ANGIOLI, SENZA

ESPRESSA LICENZA DEL P. GUARDIANO

DI S. MARIA OCCORREVOLE SOTTO

PENA DI SCOMUNICA LATE SENTERE

IPSO FACTO SENZ’ALTRA DECHIARA

TIONE INCORRENDA [ ….]

Perdio! pensò Raffaele. Questo era considerato un luogo santo inaccessibile ai profani, di qualunque ceto sociale, nobili compresi,senza distinzione fra uomini e donne... di fronte alla clausura erano tutti uguali.. un luogo in cui potevano entrare solo persone autorizzate dai monaci... quindi persone selezionate... a quel tempo la scomunica aveva un effetto diretto sulla vita civile.. .voleva dire essere esclusi dalla socialità... una vera e propria morte civile... La Chiesa a quel tempo esercitava direttamente un potere temporale che dominava la vita quotidiana ... Scattò alcune foto molto ravvicinate per conservare il testo di quella iscrizione. Fotografò anche il cancello, l'arcata, l'iscrizione al di sopra del cancello. Amava fare le foto ed aveva anche il “colpo d'occhio”; sapeva trovare le angolazioni giuste, cogliere di un luogo diversi aspetti, magari particolari in apparenza piccoli ma significativi. Nei suoi viaggi, di foto ne aveva fatte tante e aveva accumulato una bella collezione che amava conservare con cura. Sedette su un bancone in pietra, laterale al viale, godendo del silenzio e della freschezza del luogo. Regnava una grande pace, una pace viva, animata. La sua mente era tersa e raccolta. Sapeva che Gennaro sarebbe rimasto emozionato dal luogo e dal sentiero ma non era preoccupato. Lui, il “professore”, sapeva affrontare eventuali situazioni “particolari”. Nel mentre Raffaele pensava così, Gennaro tornò visibilmente turbato. L'espressione del suo viso era scossa, le mani coi pollici premevano sulla radice del suo naso. Raffaele, conoscendo bene il suo amico, intuì che era accaduto qualcosa.“Che c'é?   gli chiese.

“Questo è un luogo fortissimo...un luogo carico di energie, e poi...”.

“E poi?incalzò il professore.

Raffaele, ho visto un frate col cappuccio che mi ha salutato dicendomi “Questo è un luogo di pace”. Mi ha sorriso, ma era un sorriso strano, misterioso... Io ho sentito che dovevo fermarmi e tornare indietro, non so perché... ma quando ho voltato le spalle al frate dopo averlo salutato, fatti pochi passi, mi sono voltato indietro e...”

“E allora?”

“E allora non c'era più, era scomparso! Il frate non c'era più! Ma io l'ho visto! Ti giuro che l'ho visto! E poi è sparito!”

“Ma forse c'era una porta per il convento... hai visto bene?”

“No, non c'era alcuna porta, alcun accesso, la parete è rocciosa. Ma non dovevi vedere anche tu questo luogo? ”.

Il professore non se lo fece ripetere. Imboccò il cancello con decisione e con calma. Aveva la freddezza e la tempra per affrontare situazioni “particolari”. L'esercizio costante nelle pratiche di concentrazione e meditazione gli dava una centratura ed un equilibrio che, innestate su un'indole naturalmente tranquilla e su una mente più incline alla logica, gli permettevano di governare eventuali fenomeni “straordinari”. Del resto, la vita lo aveva temprato. Aveva avuto le sue sconfitte, le sue avversità ma era sempre riuscito a mantenere ben saldo il suo equilibrio. Era sempre rimasto in piedi, non era mai crollato. Anni addietro, aveva dovuto lasciare la sua casa, in una vicenda di separazione che si era conclusa con l'assegnazione della sua casa all'ex-moglie, perché c'era una figlia da tutelare, una bambina, a quel tempo. Aveva dovuto trasferire tutte le sue cose, smantellare un'intera biblioteca – la sua biblioteca famosa fra gli amici e i conoscenti. Una vita azzerata, ridotta ad un cumulo di macerie, morali e materiali. Un senso di vuoto e di sradicamento che aveva dovuto superare facendosi forza. E aveva iniziato una vita nuova, ricostruendo un suo equilibrio, più' forte di prima. Per lui, l'eventuale frate in apparizione era l'ultima delle sue preoccupazioni. Se il “fantasma” fosse apparso, lo avrebbe salutato, come si saluta una qualunque altra persona. No, non lo temeva. Sapeva che, a volte, questi fenomeni possono essere nostre proiezioni, ossia materializzazioni di nostre energie, di nostri stati d'animo. Pur essendo fenomeni reali e straordinari che possono verificarsi, sapeva riconoscerne la radice. Però... c'era sempre un però... ogni esperienza è pur sempre nuova e può nascondere sorprese, può risultare imprevedibile... in fondo, un pizzico di allarme in lui era sorto, ma controllato. Raffaele divenne molto guardingo. Si concentrò per percepire l'aura del sentiero, tenne desti i suoi sensi affinati, le sue mani e la sua pelle cercavano di captare le vibrazioni del luogo. Camminò lungo il sentiero, osservò le cappelle delle stazioni della Via Crucis, scrutò le rocce e la vegetazione che fiancheggiavano il sentiero alla sua destra, mentre alla sua sinistra, lungo la balaustra che delimitava il viale, si apriva la visione maestosa dei monti del massiccio del Matese. Raccolto e attento, ascoltava col cuore il Silenzio del luogo, un Silenzio austero e forte, che incuteva rispetto e venerazione. Un flusso vibratorio fine e leggero sfiorò la sua pelle, fluì tra le sue mani. Eppure non c'era vento, l'aria era immota... ma l'animazione del luogo era intensa e sottile... si avvertiva che era un centro di preghiera e raccoglimento, un luogo di vite speciali, di menti raccolte... Giunse in prossimità dell'Eremo della Solitudine, un piccolo edificio con finestre basse che guardavano verso l'ampio paesaggio dei monti boscosi: una condizione ideale per la contemplazione mistica della natura... In fondo al sentiero, una piccola cappella dedicata a S. Giovanni della Croce, con una iscrizione in latino che ricordava una esperienza di visione mistica della Vergine che il santo aveva vissuto in quel luogo...

Di questo santo parla anche Scaligero - pensò Raffaele – e Gennaro, colpito da quell'incontro col frate, non si è accorto di questa iscrizione e di ciò che vuol dire....

Sul fianco della parete rocciosa, ricolma di vegetazione, scorse in alto, una piccola grotta, profonda, come un'apertura della terra che si perdeva nelle sue viscere. Al centro della grotta, troneggiava una statua della Madonna e, al suo fianco, quella di una pastorella in preghiera.

Questo luogo – pensò il professore – nell'antichità doveva essere un luogo di culto della Madre Terra, la Grande Madre. Il linguaggio della natura è chiaro: la terra si apre e nelle sue viscere accoglie le forze della natura ... forze cosmiche ... del sole, della luna, delle stelle. Le custodisce e le sviluppa amorevolmente come fa una madre col suo bambino in grembo.

No, per il professore non era casuale che il Santuario fosse stato dedicato a Santa Maria Occorrevole, cioè la Madre che viene in soccorso. Era la vernice cristiana della Madre Terra, la madre feconda che offre il nutrimento agli uomini coi suoi frutti. Del resto, si era in una cultura agro-pastorale e non poteva essere altro. Poco più innanzi sulla parete rocciosa, notò. tornando verso l'uscita, un'altra piccola cavità che ricordava inconfondibilmente i lineamenti dell’organo femminile; per lui era un altro messaggio dell'anima del luogo, quello che i Romani antichi chiamavano il Genius Loci. Riprese a percepire l'energia del posto, sempre fine, rarefatta e fluente, pur nell'aria immota di quella calda giornata estiva. A volte, in altri siti, gli era accaduto di percepire l'energia di un ambiente come una densità plumbea, qualcosa di greve. Si avvertiva, insomma, che quello era stato ed era un luogo d'esercizi spirituali di tipo mistico. La contemplazione delle immagini della Via Crucis doveva risuonare nell'interiorità dei monaci che, forse, visualizzavano quelle scene come animate, viventi, intensificando il loro fervore ... una vibrazione che lasciava la sua impronta nell'aura del luogo...

Ecco perché Gennaro ha visto quel monaco – pensò Raffaele – qui vi sono energie forti perché nei secoli è stato un luogo di esercizi spirituali.. .di visioni mistiche..

Erano questi i suoi pensieri nel mentre tornava. In prossimità dell'uscita, incontrò alcuni turisti che erano appena entrati. Giunse al cancello.

“Hai avvertito l'energia del luogo?” gli chiese Gennaro.

“Sì, ho avvertito, l'aura è vibrante, ma non ho visto nulla, non ho incontrato nessun frate. Ho notato altre cose, visibili, come l'iscrizione di San Giovanni della Croce, le grotte, le forme... Comunque è chiaro che questo è un luogo religioso sin da tempi molto antichi. Probabilmente era l'acropoli di una città antica, forse di Alife o di altri villaggi antichi che sorgevano da queste parti... un'acropoli dedicata al culto della Grande Madre... qui forse si celebravano i Misteri... la contemplazione dei fiori... delle rocce... dei metalli... e infine delle stelle... lo Zodiaco... il luogo è elevato, quindi è adatto anche per questo, di notte... ma a proposito di quel frate, sei proprio sicuro d'averlo visto?”.

“E' incredibile - rispose Gennaro - io quel frate l'ho visto...mi ha parlato, mi ha detto che questo è un luogo di pace, di pace dell'anima....e poi quando mi sono voltato era scomparso... capisci? Scomparso!”.

“Forse voleva dire che la tua presenza rumorosa, il tuo chiacchiericcio mentale non era gradito - scherzò Raffaele per sdrammatizzare - insomma voleva dirti di andartene per non deturpare il luogo...ahahahah!”

“Tu ridi, ma io quel frate l'ho visto, mica ho le allucinazioni!” rispose Gennaro.

 

L’ incontro col frate e la meditazione

 Frattanto, percorrendo il viale che dal cancello del Silenzio conduceva al Santuario, incontrarono un frate francescano molto giovane...

“Deve trattarsi di un novizio disse il professore a bassa voce, quasi per non farsi udire dal frate ...

“Vi sono altre persone oltre il cancello?” chiese il frate ai due amici mentre veniva loro incontro dirigendosi verso il cancello del Silenzio...

Si, sono entrati alcuni turisti” rispose Raffaele.

“Grazie” rispose il novizio e poi, avvicinandosi al cancello, con voce alta e imperiosa ordinò : “Si chiude ! Si chiude ! ”.

Improvvisamente Gennaro barcollò: un'espressione di commozione comparve sul suo viso... e le lacrime iniziarono a solcare il suo volto…

E' incredibile! È troppo..è straordinario...”disse scoppiando in lacrime... L'amico professore capì che qualcosa stava accadendo: una forte emozione aveva “preso” Gennaro.

Calmo... stai calmo... cerca di tornare in te !”

Ma quello, Raffaele, è il frate che io ho visto poco fa sul Sentiero del Silenzio! E' lui! E' il suo volto! la sua voce! C'è solo una differenza: aveva il cappuccio calato sulla testa! ”.

E' possibile che abbia fatto tutto questo percorso in così poco tempo per un altro sentiero?” si chiese a voce alta Raffaele, che cercava sempre di assicurarsi che non vi fossero spiegazioni più profane... “No, non ce l'avrebbe fatta - continuò - in così poco tempo; sarebbe stato sicuramente un percorso più lungo. Avrebbe dovuto girare tutt'intorno al santuario. E poi, se lui è il frate guardiano, che senso avrebbe avuto? Dall'Eremo della Solitudine, dove pressappoco l’hai visto, bastava incamminarsi per il Sentiero del Silenzio e raggiungere il cancello per chiuderlo. Ha lui le chiavi, è lui il guardiano del luogo”. Dopo una pausa continuò.“Ora inizio a capireproseguì pensoso Raffaele rivolgendosi all'amicolo spirito del luogo si è manifestato a te in ‘eterico’, sul piano energetico, assumendo una forma visibile: quella del frate guardiano... Il Genius Loci come lo chiamavano i Romani è stato caricato energeticamente dalle pratiche secolari dei frati di clausura... incredibile...”. Giunsero al bar nelle adiacenze del santuario..sedettero a bere dell'acqua.. la calura estiva si avvertiva nonostante fossero in montagna... Gennaro era ancora visibilmente scosso e confuso.... Allora Raffaele ricorse alla sua “arma spirituale”; dal suo borsello estrasse un libretto dell'esoterista Massimo Scaligero. Lesse a Gennaro un breve brano sull'Amore cosmico che evocava uno stato di pace e di calma interiore... il linguaggio di quel brano non era semplice, com’era tipico dei libri di Scaligero, ma Gennaro – che aveva molto amor proprio pur cercando di dissimularlo – fece uno sforzo di attenzione per capire il messaggio esoterico di quelle frasi e non fare la figura del rimbambito – cosa che, in cuor suo, temeva molto. Nel fare ciò, iniziò a rientrare in sé... poi le parole, i suoni cadenzati della lettura lenta di Raffaele fecero il resto, ebbero un effetto calmante. Il professore continuò a leggere:

“Lo sperimentatore deve muovere dal silenzio mentale. In stato di silenzio egli si esercita a contemplare un particolare del regno vegetale - un ramo fiorito, un prato, una siepe in controluce, un albero in lontananza, viluppi vegetali sfumanti nella luce solare – o l’azzurro del cielo o del mare, o l’acqua fluente di un ruscello, o immobile di un lago. Egli deve allenarsi a percepire l’oggetto senza pensare: tuttavia avendo di esso la stessa lucida coscienza che ha dell’oggetto della concentrazione… Deve guardare in modo che agisca solo il vedere, allato all’assoluto silenzio mentale. Non altro.”

Gennaro comprese il senso di quelle parole, le condivise e le fece sue; nel compiere questo atto di attenzione riprese il suo stato cosciente, anche se era visibilmente stanco. L'amico professore aveva ottenuto il suo scopo: calmare l'emotività di Gennaro e farlo tornare ad uno stato cosciente, adoperando un testo esoterico nella sua reale valenza terapeutica.

“E' accaduta un'altra cosa insolita – soggiunse Gennaro – Quel frate ha parlato a voce alta nel luogo del Silenzio...”.

“Già - rispose Raffaele - e il ‘caso’ ha voluto che il cancello fosse aperto proprio quando siamo arrivati noi... Gli anziani del paese ci avevano preannunciato il contrario. Abbiamo avuto giusto il tempo di visitare L'Eremo e il Sentiero e poi, appena usciti, è arrivato quel frate guardiano. Questi si chiamano segni... segni propizi... il luogo, con la sua anima, si è aperto a noi e si è chiuso subito dopo... quei turisti non avranno fatto neppure in tempo a raggiungere l'Eremo...”

 

Il fantasma nella fotografia

 I due amici ripresero il cammino lungo la stessa strada percorsa in salita. Erano stanchi e non gradivano le probabili difficoltà di una mulattiera... Nel pomeriggio assolato le cicale frinivano incessantemente; il loro suono aveva un potere d'incantamento e la mente si perdeva in uno stato sognante. Tutto sembrava assopirsi nella luce e nel silenzio e l'anima si sentiva immersa nello splendore pomeridiano. Le farfalle bianche volteggiavano nell'aria, intrecciando il loro biancore a quello dei fiori selvatici.. qua e là qualche cane da guardia abbaiava dietro i cancelli sospendendo, per un momento, quel silenzio sognante d'un pomeriggio assolato. Camminavano muti, assorti nel ricordo dell'esperienza vissuta. Giunsero infine nella piazza del paese, ai piedi del massiccio montuoso. Il silenzio che permeava l'aria era diverso da quello dell'Eremo... lì era un silenzio vivo, etereo, arioso, che parlava di una pace viva e raccolta. Qui nel paese era un silenzio plumbeo che narrava di un'atmosfera di torpore... solo il chiacchiericcio di alcuni paesani, seduti presso la gelateria della piazza, sprigionava un senso di vivacità. Tornarono in albergo – si accorsero che erano trascorse circa 6 ore – contenti d' aver vissuto un'esperienza particolare, a cominciare dall'inconsueta atmosfera di quel luogo d'eremitaggio. Nella sua camera, Raffaele si soffermò a vedere le foto scattate con la sua digitale. Rivide i paesaggi, i monti, le rocce, il campanile, il cancello...poi osservò con stupore una foto scattata a Gennaro nei pressi del cancello della clausura... un brivido gli percorse la schiena... trasalì... quando aveva scattato quella foto, prima che Gennaro imboccasse il Sentiero del Silenzio, per lui c'era solo Gennaro e il cancello sullo sfondo.

E' incredibile! pensò Raffaele. Nella foto, dietro Gennaro, c'era un'ombra che aveva la forma distinta di un frate incappucciato. I contorni della figura erano netti... no... non era un'illusione ottica... era proprio un frate!

Lo Spirito di quell'Eremo aveva lasciato l' impronta della sua energia sulla foto... la forma di un frate incappucciato come il frate visto da Gennaro nel Sentiero del Silenzio, quel frate dall'espressione enigmatica che gli aveva rivolto parole soavi di pace... A volte l'Invisibile si manifesta attraverso le forme e gli strumenti tecnici piu' impensati... Raffaele, emozionato, chiamò Gennaro... gli mostrò la foto. L'amico la osservò; un'espressione assorta si delineò sul suo volto. Si scambiarono uno sguardo d'intesa; ormai le parole non servivano più: era tutto chiaro. Lo Spirito dell'Eremo, il fantasma di quel frate incappucciato, aveva voluto lasciare una traccia visibile della sua presenza, quasi a voler fugare il dubbio che, per un momento, aveva attraversato la mente più razionale di Raffaele. Assumendo le sembianze di un frate giovane, poi visto realmente, aveva cancellato la distanza fra passato e presente, come se quel frate fosse vissuto in quell'Eremo in una vita precedente e si fosse poi reincarnato nel novizio francescano, guardiano del cancello. Forse era sempre stato il custode del luogo...

“Com'è andata l'escursione ?” chiese l'albergatore quando li incontrò a sera.

“Bene... E' stata una bella passeggiata, è un bel posto arioso, panoramico”   commentò Raffaele con un'aria indifferente. Gli sguardi dei due amici s'incrociarono... un sorriso enigmatico affiorò sui loro volti...

“Mica gli posso dire che hai visto un fantasma... o fargli vedere quella foto strana, qui in paese sono superstiziosi …” disse poi Raffaele all’amico, quasi a giustificarsi di quella risposta di circostanza che aveva dato all’albergatore. Tornati in città, Gennaro non volle più vedere quella foto, perché suscitava in lui un'emozione intensa… temeva di restarne turbato. Tuttavia, anche senza rivederla, in quelle notti d'estate non prendeva sonno... l'immagine di quel fantasma si era impressa nella sua anima e lo ossessionava... allora decise di rituffarsi nella vita quotidiana e nel ritmo del suo lavoro per dimenticare l’esperienza vissuta… ma ancora oggi, quando incontra Raffaele, gli confida il suo stupore per quell’incontro “particolare”…

("QUANDO SCATTAI QUESTE FOTO, IO VEDEVO SOLO LA PERSONA FOTOGRAFATA ED IL CANCELLO RETROSTANTE E APERTO SUL SENTIERO DEL SILENZIO. VOGLIO DIRE CHE - LO RICORDO DISTINTAMENTE - QUELL'OMBRA SUL CANCELLO NON C'ERA, NON SI VEDEVA AFFATTO...L'OMBRA E' VENUTA SULLA FOTO E ME NE SONO ACCORTO SOLO QUANDO HO CONTROLLATOO LE FOTO, COME NARRO NEL MIO RACCONTO").

 

Post scriptum

Ascolta: è tutto vero. Ciò che ho narrato potrebbe apparirti il frutto di una fervida fantasia, ma la realtà, a volte, è più sorprendente dell’immaginazione. I luoghi, i percorsi, i paesaggi, le atmosfere vengono dalla vita reale. E reali sono soprattutto i fenomeni, le cose viste e udite, le Entità concretamente percepite. Il confine fra il visibile e l’invisibile è molto più sfumato di quanto tu possa pensare. Noi, di solito, non ce ne accorgiamo perché non prestiamo attenzione ai “segni” e ai presagi che l’Invisibile ci invia; crediamo che lo Spirito ci si presenti in modo eccezionale e ci sfuggono le manifestazioni che possono intrecciarsi alla nostra vita quotidiana. Il segreto sta nell’attenzione e nella calma dell’anima per saper osservare le cose: un sentiero, un’atmosfera, l’aura di un luogo, il magnetismo della terra, la qualità dell’aria, le forme del linguaggio della natura che ci parla mentre noi, spesso, le passiamo davanti con la mente intorpidita, persi nei nostri pensieri, nel chiacchiericcio della nostra mente, nelle agitazioni che offuscano e impregnano il nostro mondo emotivo, quello che gli esoteristi chiamano “l’astrale”.

T’invito a rileggere con calma e a fare silenzio nella tua mente. Il Silenzio è la porta dell’Invisibile.

  Stefano Arcella (tratto dal n. 12 della rivista Elixir, con la fraterna collaborazione delle Edizioni Rebis di Viareggio)

Il mito dell’uomo selvaggio (Parte 1^) – Walter Venchiarutti

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Le derivazioni del mito alpino. Dalle lontane origini al medioevo

In questi ultimi decenni parecchi studi antropologici si sono prodigati a far luce e focalizzare la figura di un indiscusso protagonista della cultura popolare montana, non solo italiana, un soggetto quanto mai misterioso, multiforme e contraddittorio genericamente definito con il termine di “uomo selvatico”.

Numerosi interventi chiarificatori si sono succeduti e due importanti mostre hanno contribuito a metterne in evidenza le caratteristiche stabilendo veri e presunti predecessori, individuando le funzioni che possono aver chiarito le ragioni di una così curiosa e inquietante presenza. Soprattutto è apparsa evidente l’importanza di un mito comunitario che, pur nelle rispettive varianti e peculiarità locali è riuscito a coinvolgere intere aree interessando latitudini lontane tanto da assumere contorni intercontinentali.

Seguendo le tracce di questo personaggio abbiamo cercato di ripercorrere le tappe temporali che hanno contraddistinto le sue fugaci apparizioni. Di queste comparse, alcune meno appariscenti ma indubbiamente intriganti, hanno coinvolto anche la cultura e gli abitanti della Pianura Padana. Dallo studio antropologico e dalle iniziative condotte in seno ad alcune organizzazioni attente allo studio delle identità è derivato un capillare e prezioso corpus di notizie. Tale strategia ha contribuito, come nella composizione di un puzzle, al recupero di testimonianze orali e visive disseminate negli sperduti paesini rupestri o raccolte presso i romitori sparsi tra le valli.

[caption id="attachment_47059" align="alignright" width="300"] Foto 1[/caption]

Di per sé il tema del fantomatico “homo selvadego” è di quelli che si prestano a trattazioni interculturali e la cui universalità ha saputo superare le più anguste frontiere montane. Talune sorprendenti dinamiche e alcune consistenti analogie, nel considerare la plausibile internazionalità di questo “diverso”, sembrano portate ad equiparare l’ “uomo dei boschi” ai racconti del fantastico uomo delle nevi, dello Yeti imalaiano (A. Mordini, Il mistero dello yeti alla luce della tradizione biblica, Siena 2012) quale ipotetico discendente della tradizione biblica, ai rapsodici avvistamenti dello Sasquatch (altrimenti detto anche Big Foot, Momo), il timido piedone delle Montagne Rocciose, all’Alma, primate leggendario dell’antica Mongolia. I distinguo sono comunque d’obbligo poiché nell’ambito delle tradizioni mitteleuropee sembra prevalere a grandi linee la natura di un essere umano che, volontariamente o casualmente trattosi fuori dal consorzio civile nell’isolamento ambientale, ha assimilato ed è portatore di primordiali elementi animaleschi e naturalistici. Negli altri casi si tratterebbe invece di un essere genericamente catalogabile come pre-umano, di una specie ferma allo stato scimmiesco, la cui evoluzione pare esser rimasta incompiuta.

Nonostante l’esistenza di un ampio dibattito e di una sterminata bibliografia è sorprendente scoprire insospettate tracce di questo mito anche nelle tradizioni culturali della pianura. Si tratta comunque di indizi labili che documentano particolari forme di romitaggio, decifrabili anche nelle forme dialettali dell’attività ludica infantile. A volte questi segni affiorano suffragati dai contorni dell’iconografia nostrana.

Alcuni spunti sono riconducibili alla nascita di consuetudini oggi considerate tipiche, oppure possono riguardare le tipologie umane di recente inglobate nel folclore carnevalesco ma riconducibili ad esempi che trovano origine in remote conflittualità sociali. La figura del selvatico che si muove nella contemporaneità può esser decifrata dietro un look ammodernato, consono alle attuali esigenze esotiche, che è stato offerto dalla propaganda dei mezzi di comunicazione. Sintomatica risulta essere la fortuna acquisita dal personaggio di Tarzan, uomo scimmia, diffuso attraverso i programmi televisivi e cinematografici.

Il ritratto del domestico “om pelùs” o “bàarba” chiamato nella tradizione cremasco-cremonese (M. Centini, L’uomo selvatico. Dalla creatura silvestre dei miti alpini allo yeti nepalese, Cles 1992), essere silvestre e asociale è riscontrabile nei nomi di antichi casati gentilizi[1], nei disegni degli scudi lasciati dalla tradizione aristocratica (foto n 1).

Guardingo custode decora l’ingresso delle fortezze medioevali, come nel caso dell’affresco posto all’entrata della rocca S. Giorgio a Orzinuovi (Bs). La sua ombra metallica svetta ancora sui tetti come banderuola appesa al comignolo di vecchi palazzi, in una produzione di lavori uscita dalle operose botteghe artigianali. Una infinita gamma di “selvadeghi” costituisce il motivo conduttore che decora le grottesche nel refettorio agostiniano di Crema affrescato da Pietro da Cemmo (foto gruppo n. 2a e 2b).

Questo pantheon costituito da figure umane che assommano morfologicamente sembianze animali e vegetali è derivato al pittore bergamasco da un mixage che oscilla tra la riscoperta del mondo classico e le leggende popolari sviluppate in tutto l’arco delle vallate alpine.

[caption id="attachment_47054" align="alignright" width="256"] foto 2b[/caption] [caption id="attachment_47053" align="alignleft" width="183"] foto 2a[/caption]

Il complesso di tutte queste “coincidenze” viene a comporre un insieme di testimonianze affatto marginale e costituisce una raccolta che si fa eco di una epopea trascorsa ma non del tutto spenta nella memoria delle tradizioni locali. Tali reminiscenze sono giunte sorprendentemente fino a noi anche se in modo frammentario, hanno resistito e non sono ancora state completamente sopraffatte dalla prorompente invasione dei nuovi miti offerti dalla modernità. Quest’ultima pur lasciando poco spazio alle ereditate elaborazioni immaginifiche non potendole completamente ignorare le ha fagocitate, disperse, riproponendole magari attraverso un adattamento grossolano con superficiali finalità scaramantiche. Spesso vengono ignorati i significati iniziali, le valenze primarie da cui sono dedotti gli attuali segni che a ben guardare derivano dalle logiche storiche ma che oggi permangono allo stato di lacerti culturali. Districarsi nel vasto quadro delle diverse funzioni narrative, ognuna delle quali sottintende un ruolo specifico svolto dal protagonista, non è facile. Può tuttavia essere proficuo considerare tali testimonianze alla luce degli effetti che possono aver prodotto nel tempo sulla realtà locale. La leggenda dell’uomo selvatico si basa su una tradizione viva, non è una superstizione imbalsamata, così si è andata modificando negli anni e può esser recepita in modo diverso da luogo a luogo.

  La derivazione preistorica: uomo selvaggio/uomo primordiale

Le più recenti scoperte paleoantropologiche ci informano che circa 30.000 anni fa per un periodo di 4000 anni, tempo relativamente breve nella storia dell’umanità, Homo Sapiens e Uomo di Neanderthal hanno avuto modo di coabitare. È difficile ma suggestivo stabilire se dall’ancestrale ricordo di questa convivenza preistorica possa essere nato il mito legato alla leggenda dell’Uomo Selvaggio. Nonostante lo stereotipo negativo derivante dal suo aspetto peloso, dalla marcata cresta ciliare, dalla corporatura massiccia, dalla grossolana struttura ossea, il coinquilino di Neanderthal era esperto nella fabbricazione di utensili, usava pelli di animali, intratteneva rapporti di intesa solidale con i suoi simili e praticava alcune forme rituali come la sepoltura.

Recentemente le indagini in campo antropologico hanno accertato fin nella protostoria dell’uomo gli innumerevoli esempi evidenziati come possibili prove atte a confermare una indiscutibile antichissima provenienza da cui sarebbe derivata la ricca aneddotica che ha finito per tipicizzare l’uomo silvestre. Tali considerazioni supportano le lontane origini di questo personaggio che in veste di compagno di strada, come un’ombra ha seguito l’evoluzione dell’umanità fin dai suoi albori.

Già nella mitologia sumera l’epopea di Gilgamês (L’epopea di Gilgamês, Milano 1986), scritta a Babilonia più di trentacinque secoli fa, descrive con precisione Enkidu, partner d’avventure del protagonista, dove esercita una forte seduzione l’uomo selvaggio allevato nel mondo degli animali. Tra le più antiche citazioni compare quella del peloso Esaù che nel richiamo biblico viene descritto tutto coperto da un mantello di peli (Bibbia, Genesi XXV, 19)..

La derivazione classica: l’uomo selvaggio/divinità consacrate alla natura

Alcuni studiosi hanno esaminato e dato una definizione all’ “uomo dei boschi”, dietro al quale si celerebbe l’impronta tratta a piè pari dalla cultura classica

La scarmigliata chioma, la clava, la pelle ferina, la forza sovraumana sono elementi di un convenzionale bagaglio descrittivo che rende questo solitario personaggio identificabile con l’eroe pagano Ercole. Nei racconti rituali e nell’iconografia la creatura silvestre si distingue per l’atteggiamento incoerente, timida e nel contempo aggressiva, nei momenti di impaccio timorosa. Quando viene provocata reagisce dimostrando tutta la sua forza strabiliante e l’ira irrefrenabile e improvvisa, sovente l’assale senza apparente motivo.

Migliaia di anni trascorsi dalle comunità nomadi in simbiosi con il mondo animale (R. Dal Ponte, Dei e miti italici, Genova 1985) giustificano simili comportamenti. A tal fine dagli studiosi sono state scomodate la divinità celtica Cernumno e gli dei del pantheon greco-romano legati al mondo agreste. Anche i signori degli animali hanno sembianze semianimalesche (corna, zoccoli, vello peloso ecc), dimorano nel profondo dei boschi e offrono vari spunti per plausibili derivazioni:

Pan (Silvano è il suo corrispettivo romano), venerato dalla gente di montagna e dai pastori. A lui sono sacri i boschi ed è metà uomo e metà animale. Con la sua sola presenza terrorizza i viandanti (terror panico). Silvano veniva considerato protettore degli ingressi e custode delle inviolabilità domestica e cittadina; il suo simulacro figurava sui portali, sulle antefisse o in prossimità delle entrate, come nel caso del “Salvadego” affrescato alla parete della camera picta di Sacco in Val Gerola, nei due “Salvanchi” della Porta Poschiavina di Tirano (N. Perego, L’Homo Salvadego in Val Gerola, Missaglia 2001-. M.Rovaris, N. Canetta, Tirano da scoprire, Sondrio 2009) o sulla cappa del camino di casa Besta a Teglio.

La cratofania, o manifestazione di forza e potenza è spesso usata per esprimere la superiorità divina di una presenza che incute apprensione e paura. L’inconsueta potenza se provocata può diventare incontenibile e scatenarsi in modo irrefrenabile (M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 1972). Questa forza va addomesticata e trasformata in genius loci, tema che si svilupperà nelle raffigurazioni del difensore delle porte cittadine, scrutatore e controllore degli incroci pubblici o più semplicemente guardiano della soglia privata, tutore dell’incolumità domestica.

  • Satiri e Sileni, selvatici e lascivi abitatori dei boschi ma anche maestri di sapienza e impareggiabili educatori,
  • Dioniso, raffigurato con bastone e pelle di leopardo. Divinità preposta alla vegetazione che attende alla cura dei frutti. Insegna l’arte della viticoltura e a lavorar la terra. Dio del vino, quindi dell’ebbrezza e dell’estasi, facile ai cambiamenti di umore e alla collera.

In questo ambito prende consistenza una valutazione al negativo del protagonista, una interpretazione che ne sottolinea le malvagie caratteristiche.

La derivazione medioevale, l’uomo selvaggio in negativo: longobardi, ungari, saraceni.

Già i costruttori delle cattedrali romaniche e gotiche avevano ampiamente utilizzato le fattezze del “salvadego” inserendolo ripetutamente tra la miriade di personaggi grotteschi e altamente simbolici che popolano il pantheon delle più illustri facciate (ad esempio nel Duomo di Milano).

Secondo la funzione narrativa nel medioevo il silvano assurge ad una duplice personificazione del male o del bene (R. Togni, L’uomo selvatico nelle immagini artistiche e letterarie, in Annali S. Michele n 1, Trento 1988). Il peccato prodotto dalle irrefrenabili sregolatezze (antropofagia, rapimento - uccisione di bambini, violenza alle fanciulle, instabilità psichica), incute timore negli esseri umani. Tali comportamenti costituiscono gli ingredienti derivati da un passato pagano ed hanno ricevuto alimento dalle tragedie storiche. L’essere silvestre viene allora identificato con la figura sanguinaria del pagano e a seconda dei casi assume i ruoli dell’ariano longobardo (G. Cortani, I pagani delle leggende, in Pagine Friulane VII 1894-1895), o l’uomo nero infanticida, ricordo delle incursioni saracene (C. Bocca, M. Centini, Saraceni nelle Alpi, storia, miti e tradizioni di una invasione medievale nelle regioni alpine occidentali, Scarmagno 2006).

La comparazione con questi crudeli predoni è supportata dal loro modo di vivere separati nei boschi e dallo strano linguaggio, simile a quello dei lupi e dei gufi. Tra le altre possibili paternità è stata fatta quella con la “ferocissima e nefandissima gens ungara” a causa delle devastanti incursioni a cui sottoposero il Nord Italia nel X° secolo. A queste orde vengono collegate dal punto di vista semantico le crudeli figure dell’orco che si nutre di carne umana“…La fantasia popolare adombrò negli stivali delle sette leghe gli spostamenti prodigiosamente rapidi degli invasori e dal loro nome e dal loro aspetto creò e mantenne in vita fino al tempo della nostra infanzia la truculenta figura dell’orco che si nutre di carne umana: la derivazione è più evidente nella parola francese ogre (Fasoli G., Le incursioni ungare in Europa nel secolo X, Bologna 1945).

Tali mostri antropofagi affollano i racconti di fate di Perrault, dei fratelli Grimm e compaiono da imputati nei processi carnevaleschi. Frequentemente queste feste si concludevano con la pubblica ed esemplare condanna a morte dei terrificanti personaggi che nell’età di mezzo avevano martoriato le città e distrutto le campagne.

Le diverse memorie hanno concorso indirettamente a delineare in modo sfavorevole la tipologia dell’uomo selvatico. Il “Wilder Mann” o uomo verde ha ereditato nelle contrade tutte o parte delle valenze negative. È il rappresentante di forze che possono scatenarsi improvvisamente, per questo la comunità con riti appropriati è chiamata a circoscriverle e se occorre a debellarle.

La derivazione religiosa, l’uomo selvaggio in positivo: santi, anacoreti

Al fianco dei primitivi cattivi attributi mai completamente persi e sempre latenti compaiono le qualità positive che confermano mistero e ambiguità del soggetto. I contorni di questo bipolarismo comportamentale si riscontrano attraverso il desiderio di solitudine entro cui si muove “l’om del bosch” nell’ambiguità del mondo noto/ignoto entro cui compare.

Il polimorfico signore delle foreste e degli animali si trova a svolgere anche il ruolo di eroe positivo e civilizzatore. Assume in questo caso le sembianze del santo cristiano, eremita, rinunciatario del mondo e dei piaceri terreni. Il mito prosegue attraverso la sequela di leggende che offrono una immagine dell’essere selvatico addomesticata, addolcita, riflesso di un ingentilimento dei costumi.

In seno al cristianesimo la gamma di confronto con la folta schiera dei santi è quanto mai nutrita e la somiglianza delle rappresentazioni sorprendente. Con S. Onofrio e S. Giovanni Battista, S. Giovanni Crisostomo, S. Girolamo, S. Vito, S Francesco vengono condivisi l’aspetto rozzo e selvaggio; di S. Antonio Abate è ricalcata la vita ascetica ed eremitica, mentre l’aspetto gigantesco, la potenza, la bruttezza e il bastone fanno del silvano un emulo di S. Cristoforo. Quest’ultimo rispecchia il prototipo del gigante classico, spesso preso come riferimento e equiparato per le analogie che mostra con quello dell’uomo selvatico. Infatti nell’Odissea Il ciclope monocolo Polifemo compare nelle vesti di premuroso pastore.

La tradizione religiosa del buon anacoreta è proseguita fino al XIX° sec. grazie alla presenza dei remet (eremita), laici o terziari di ordini mendicanti. Vivevano da scapoli, anziani e in solitudine, in uno stato di estrema povertà, esercitando la custodia dei santuari sparsi nella campagna. Si muovevano “andando a capo scoperto e a piedi scalzi ostentando una barba lunga e incolta. Facevano inoltre aspre penitenze e venivano tenuti in concetto di santità... alcuni si specializzavano nella raccolta di erbe medicinali dalle quali traevano misture e decotti” (M. Lunghi, L’ambiente sociale della cascina cremasca, in Gruppo Antropologico Cremasco - La Cascina Cremasca, Crema, 1987).

Le differenze e analogie tra il sant’uomo ed il briccone dei boschi sono state chiaramente sottolineate: “Se il selvatico è il sapiente del bosco, l’eremita è il sapiente nel bosco” (V. Nichilo, L’uomo selvatico e gli eremiti, Sant’Onofrio della valle del Garza, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2009).

Il primo è il risultato di leggende, tradizioni popolari, derivato da credenze precristiane mentre il secondo è un volontario religioso che pratica l’eremitaggio ed ha per prototipo San Giovanni Battista.

Anche sul versante laico non sono mancati i battistrada illustri. La letteratura romanzata da Wilder Mann, a Robin Hood e a Robinson Crusoe, è stata impegnata a sviluppare problematiche differenti (giustizia sociale, comprensione per il diverso) è ricca di esempi.

(continua...) note
  1. Sul confine tra Cremonese e Lodigiano occupa un posto di primo piano la famiglia Selvatici, feudatari nel XII-XIII sec.del territorio compreso intorno alla rocca di Castelnuovo Bocca d’Adda ( cfr. G. Pisati, Dalla villa Roncarioli al borgo fortificato di Castelnuovo Bocca d’Adda: evoluzioni toponomastiche e dell’insediamento dal X al XIII sec. in Bollettino Storico Cremonese n XV-XVI, Cremona 2010, p. 31. Anche l’onomastica cremasca annovera la famiglia Selvatico di cui Angioletta Selvatico, prima presidente diocesana della U.F.G.I (1919).

Odino, padre degli Dei del Nord: la ricerca della Conoscenza e della Verità Assoluta – Valerio Avalon

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Il mondo nordico ha in sè la naturale capacita di suscitare un fascino e un magnetismo (soprattutto negli europei) come pochi altri riescono. Le grandi epopee cosiddette "vichinghe" e la mitologia norrena continuano infatti ancora oggi a trasmettere la potenza di un mondo antico che, nonostante i secoli, non si è mai spento; proprio come se fossero delle braci che sotto la cenere seguitano ad ardere e basta un soffio per ravvivarle. Se per rendercene maggiormente conto volessimo usare come metro di misura uno dei termometri del mondo moderno, ossia il cinema e la tv, allora la questione apparirebbe subito chiara. Basti pensare alla notevole produzione dei vari film della Marvel su Thor, oppure alle serie tv tipo Vikings per farsene velocemente un'idea. Ma va anche detto che in questo settore le manipolazioni e le mistificazioni sono all'ordine del giorno, come è inevitabile che sia per la stessa natura del suddetto termometro. Diventa quindi difficile doversi districare tra ciò che risulta inerente al mito, ai testi e alle fonti e ciò che invece viene inventato di sana pianta; ottenendo così nell'immediato come risultato confusione e ignoranza abissale su un tema che invece avrebbe un bagaglio formativo e didattico notevole da trasmettere. Tanto è vero che - se si appartiene a quella numerosa schiera di individui che vorrebbero apprendere semplicemente per osmosi, anzichè leggere, studiare e fare seria ricerca, fosse anche come autodidatti - si potrebbe avere l'incrollabile certezza che Thor sia un ubriacone, che Loki sia suo fratello e che il guardiano dell'arcobaleno Bifrost - Heimdallr -, il cui appellativo principale nel mito è "Il Bianco", sia una divinità dai tratti afroamericani. Ma sorvoliamo su questi dettagli, perchè le cose stanno molto diversamente da così e a volte sono anche più articolate di quello che si vuol far passare, perchè più profonde, e concentriamoci maggiormente sull'importanza che potrebbe avere oggi riscoprire e recuperare la mitologia nordica. Per tentare di raggiungere questo scopo salteremo a piè pari lunghe e noiose spiegazioni (che però sarebbero necessarie), provando a concentrarci direttamente su quella che è in assoluto la figura più complessa e multiforme del pantheon nordico: il dio Odino.

Cominciamo allora il nostro viaggio proprio dal nome del dio, poiché nella mitologia nordica il "Nome" ha un'importanza fondamentale e designa già in partenza la funzione stessa che dovrà svolgere chi lo detiene; sia esso spada, anello, albero o appunto divinità. Comprenderne il significato e l'origine, ci permette di penetrare la vera essenza di chi lo possiede. Il nome "Odino" deriva da una radice indo-europea che è WAT (oppure WOT). Da questa radice derivano tutta una serie di parole in anglosassone, in gotico, in antico alto tedesco, in medio alto tedesco e in latino che indicano il "furore" e "l'ispirazione divina". In protogermanico per esempio, per la stessa divinità, ci troveremo davanti al nome "Wotan"; ossia, "il furioso" o "colui che è in preda alla furia e all'estasi". Tale nome, per la legge della traslitterazione linguistica, nelle lingue nordiche perde la lettera W iniziale, la lettera T si indurisce in una D, la A diventa una I e la N finale si raddoppia. Otteniamo così in old-norse "Odinn" - Odino appunto. Odino è figlio di due giganti primordiali (che in norreno vengono definiti con la parola Jotunn al singolare, e Jotnar al plurale) di nome Borr e Bestla. Suo zio è Mimir, custode della fonte del ricordo e della conoscenza. Ma Odino non appartiene alla stirpe dei giganti, è un dio, un Ase (al plurale Asi). Insieme a lui, fanno parte della triade divina primigenia i suoi fratelli Vili e Vè. Insieme costituiscono tre concetti dalla portata enorme: "Furore, Volontà e Potenza". Nel mito, durante le fasi iniziali dell'ordinamento del cosmo, Odino (con l'aiuto di Loki, che è anch'egli uno Jotunn e detiene i segreti del fuoco e sul quale andrebbe fatto un discorso a parte) guida la rivolta degli Asi contro gli Jotnar che culmina con lo smembramento del corpo di Ymyr, il gigante primordiale. Dal cranio ne ricaveranno la volta celeste, dal cervello le nuvole, dalle ossa le montagne, dal sangue i mari e i fiumi, dai capelli le foreste e via così. E' l'atto dello stabilire il principio di un nuovo ordinamento sul caos iniziale. Successivamente, Odino, Vili e Vè mentre passeggiano sulla spiaggia al limitare del mondo appena realizzato, trovano un tronco di frassino e uno di betulla, ai quali donano i sensi, la ragione, lo spirito e il calore vitale. Li chiamano Askr ed Embla, il primo uomo e la prima donna. Li pongono nella terra di mezzo (Midgard), costruiscono un ponte arcobaleno che la collega con il mondo superiore e prendono dimora in Asgard (la terra degli Asi). Un nuovo e armonico ordine è stato stabilito e Odino si configura già come "Allfodr" (uno dei suoi numerosi appellativi), il "padre di tutti", mortali e dèi. Ma durante il suo regno, Odino non resterà mai fermo. Continua tenacemente a fare esperienze che lo accrescono, è alla costante ricerca della Conoscenza. Travestito da viandante con mantello grigio, cappello a punta e bastone (vi ricorda qualcuno?) viaggia in tutti i nove mondi conosciuti sorretti dall'Yggdrasill, l'albero del cosmo e asse dell'universo, e anche oltre come poi vedremo quando conquisterà le "Rune". Diviene così il dio dei viaggi, dei travestimenti, dell'inganno (al fine di estorcere il sapere da chi incontra), della guerra, della poesia, della magia e dell'ispirazione. E l'elenco sarebbe ancora lungo... Ad ogni esperienza che matura con sacrifico, dolore e dedizione (perché mai nulla è gratis, soprattutto sul piano spirituale) conquista un nome in più, che germoglia in lui donandogli la potenza, le capacità e la funzione che ogni nuovo nome esprime. Diviene così "il Terribile", "il Padre della Vittoria", "il Mascherato", "Barba Grigia", "il Possente Vate", "il dio dalla Potenza Magica", "Colui che acceca gli eserciti" e via dicendo.

In queste imprese è affiancato da vari animali totemici: due enormi lupi (Geri e Freki), un destriero a otto zampe in grado di solcare i cieli (Sleipnir) e due corvi che sono di particolare interesse ai fini del nostro discorso: Huginn - Pensiero e Muninn - Memoria.  Detto ciò, cominciamo ad avere un quadro abbastanza completo della figura di Odino, ma, in un certo senso, si potrebbe quasi dire che non abbiamo ancora detto prticamente nulla. E infatti ora viene il bello. Non è minimamente immaginabile affrontare in questa sede tutti gli eventi che lo coinvolgono nel mito ma, per avere una comprensione ancora più profonda di questa divinità, bisogna analizzarne almeno quattro:

- Mimir e la fonte della conoscenza (di cui accennavamo all'inizio); - il risveglio della Volva (la veggente) nell'Hel ("il mondo di sotto") e le sue profezie; - la morte del figlio Baldr; - e in ultimo (ma non per ultimo), l'auto impiccagine rituale alla quale si sottopone appendendosi all'Yggdrasill.

Analizzeremo sommariamente nell'ordine i primi tre, per concentrarci sull'ultimo. In uno dei suoi tanti viaggi, Odino si spinge fino nello "Jotunheimr" (la terra dei giganti), luogo parecchio pericoloso per un dio degli Asi. Una volta qui, raggiunge "Mimisbrunnr" - la fonte della conoscenza custodita da suo zio Mimir - che sgorga proprio in uno dei tre luoghi conosciuti in cui affondano tre delle molte radici dell'Yggdrasill. Vuole attingere all'acqua della fonte per berne un sorso e accrescere la sua conoscenza. Lo zio gli chiede qualcosa in cambio e lui gli dona un'occhio strappandoselo; d'altro canto la legge di base di tutti i misteri iniziatici che appartengono alla mitologia nordica è "un dono per un dono". Più sarai pronto a donare, maggiore sarà ciò che avrai in dono. Beve, taglia la testa di Mimir (alla quale continuerà a chiedere consigli e ad interrogarla sulle più disparate questioni) e se la porta via insieme al calice con il quale ha attinto al pozzo. Successivamente (ma lo scorrere del tempo nel mito ha un andamento tutto suo particolare, percui potrebbe essere avvenuto anche prima, o addirittura nello stesso momento) lo ritroviamo ad affrontare un viaggio nell'Hel, il mondo di sotto (un pò come l'Ade della mitologia greca, tanto per intenderci), dove risveglia dal sonno dell'oltretomba una Volva - una veggente - e la interroga sulle origini del cosmo, di tutto il creato, degli dèi, degli uomini e del futuro che attende l'universo e tutti loro.

La Volva lo accontenta e, partendo dal Vuoto Primordiale che pervadeva il Cosmo all'inizio del tempo, chiude il suo racconto con la descrizione del "Ragnarok": quando il computo del tempo stabilito per la durata di questo ciclo giungerà al suo termine, una battaglia apocalittica investirà tutti i mondi conosciuti, i legami di sangue verranno meno e i fratelli si ammazzeranno tra di loro, finché sulla piana di Asgard ogni dio combatterà con la sua nemesi e perirà. Mostri di ogni sorta - lupi, draghi, serpenti, giganti, etc. - si scontreranno con Odino, Thor, Tyr, Freyr, gli dèi tutti e le schiere di tutti i guerrieri raccolti sui campi di battaglia dall'inizio del tempo dalle Valchirie e radunati nel Valhalla. All'ultimo, giungerà un gigante di fuoco di nome Surtr che incendierà tutto il mondo. Ma quando le fiamme si saranno estinte, la terra riemergerà e tornerà ad essere verde e bella, le messi cresceranno rigogliose e all'ombra di un bosco sacro si saranno messi in salvo un uomo e una donna insieme ai figli di Odino e di Thor; questi ultimi ritroveranno tra l'erba gli scacchi d'oro con i quali giocavano tutte le mattine gli Asi (simbolo del ripristino di un nuovo ordine), le Rune (le chiavi di accesso alle leggi dell'Esistenza) e il Mjollnir, il martello del dio Thor (arma usata per difendere l'ordine dal caos e simbolo di fertilità). Infine tornerà dal regno dei morti Baldr, figlio solare e luminoso di Odino che detiene i segreti delle Rune. Lo so che stiamo andando parecchio per le lunghe, ma ci siamo quasi. Fate ancora un piccolo sforzo e seguitemi fino alla fine.ì Anzi, stringiamo proprio: il terzo evento assolutamente da tenere in considerazione è proprio la morte di Baldr, figlio di Odino e divinità solare, che viene ucciso tramite un inganno ad opera di Loki. Non riuscendo in nessun modo a farselo restituire da Hel (colei che regna nel mondo di sotto), Odino prima di incendiare la prima funebre sussurra nell'orecchio del figlio i segreti delle Rune che nessuno può udire, perché sa (grazie alle profezie della veggente) che Baldr tornerà per governare nella prossima Era. Ed eccoci finalmente giunti a quello che può essere considerato il vero cuore sciamanico, iniziatico ed esoterico di tutta la mitologia nordica: la conquista delle Rune da parte di Odino tramite auto-impiccagione rituale. Ci troviamo di fronte ad uno degli argomenti - quello delle Rune - più controverso, bistrattato e desacralizato in assoluto negli ultimi anni da parte di filologi, newager, santoni improvvisati e sciamani dell'ultimo minuto. Ormai abbiamo visto di tutto, mancano solo le Rune aromatizzate all'origano per condire le pizze del Conad e siamo al completo. Purtroppo non confido che il trend migliori, ma, a maggior ragione, diventa nostro compito occuparci di divulgare correttamente il mito, perché il mito è la porta d'accesso ad una conoscenza superiore. Cosa che, detta francamente, in effetti potrebbe aiutarci a migliorarci molto come esseri umani e Uomini.

Inizialmente abbiamo individuato le peculiarità che caratterizzano questa divinità: l'Estasi e il Furore. Peculiarità che vanno intese come potenza metafisica e capacità di intercettare le manifestazioni del "Sacro" provenienti da altri mondi, mondi che sono anche al di fuori dello schema cosmico delimitato dall'Yggdrasill e dai suoi nove regni. Facendo leva su queste caratteristiche e sui requisiti che solo lui detiene, Odino si reca presso un altro dei luoghi conosciuti dove affonda la seconda radice dell'albero cosmico e che si trova in Asgard. Una volta giunto lì, si appende a un ramo a testa in giù e vi rimane per nove giorni e nove notti, senza poter consumare né cibo né bevande di sorta.  Nella stanza 138 dell'Havamall (carme contenuto nella raccolta di antichi poemi epici nordici conosciuta come Edda Poetica, o Canzoniere Eddico) è lo stesso Odino che parla e ci dice:

"Lo so che sono stato appeso al tronco scosso dal vento nove intere notti, da una lancia ferito e ascrificato a Odino, io a me stesso su quell'albero che nessuno conosce dove dalle radici s'erga." E ancora subito dopo nella stanza 139: "Con pane non mi hanno saziato né con corni potori: in basso spiando guardavo. Trassi su le Rune gridando le trassi e ricaddi di là."

Odino, sacrificando se stesso a se stesso, alla fine stabilita per il supplizio autoinflittosi, scorge sul fondo del pozzo, dove affonda, la radice dell'Yggdrasill le Rune; ne comprende il significato e con un ultimo sforzo, gridando, le corde che lo imprigionano al ramo si sciolgono e lui riesce ad afferrare i sacri simboli che custodiscono i segreti dell'Universo e dell'Esistenza tutta. Ma non le trattiene per sè: le dona agli uomini con il monito di usarle secondo i suoi insegnamenti. Chiaramente bisogna essere consapevoli che tutti gli argomenti toccati meriterebbero un approfondimento, ma, per arrivare finalmente in fondo al nostro ragionamento, quello che abbiamo ci basta. Possiamo quindi concludere che Odino, nonostante la sua complessità e il carattere sfuggente delle sue azioni, è una divinità profondamente generosa. Ciò che lo muove, al di sopra di tutto, è la necessità impellente di mettersi in vantaggio sugli eventi svelatigli dalla Volva per poter preparare al meglio il rifiorire dell'Età dell'Oro che tornerà alla fine del Ragnarok. Lui, e solo lui, ha tutti i requisiti per riuscire nell'impresa e si fa carico di questo pesante fardello, che non può condividere con nessun altro. Con la conquista definitiva della conoscenza attraverso il possesso delle Rune, egli è finalmente diventato il dio supremo della magia e della guerra, è sia poeta/mago che guerriero. Egli è ciò che incarnavano i Rex del passato: sacerdote e aristocratico combattente. E se è vero che esistono misteriosi e profondi rapporti tra la poesia e l'attività guerriera (come testimoniano tutte le antiche tradizioni, anzi più si rimonta lontano nel tempo alle radici della Tradizione, tanto più tendono a coincidere), allo stesso modo esistono misteriosi e profondi rapporti tra poesia e memoria; tra memoria e conoscenza, e infine tra conoscenza e verità. E la verità non può essere creata o inventata, ma può solo essere ritrovata e ricordata. Tenere vivi i legami con la Memoria Ancestrale, con il passato, con gli antenati, attraverso il sangue e la memoria, è l'unico modo possibile per attingere alla conoscenza, che è verità. E se questa legge è valida per il padre degli déi, figurarsi se possiamo anche solo immaginare che non lo sia per noi mortali.

Ecco dunque che alla luce di questa analisi, emerge tutta la forza rivoluzionaria della figura di Odino: proprio come uno sciamano che si sacrifica e dedica tutto se stesso per risanare il proprio popolo, lui impiega tutte le proprie energie per opporsi ad un ordine che sta ormai decadendo in un caos autodistruttivo, per fornire a chi verrà dopo le chiavi per tornare al punto d'origine e ad un assetto primordiale. Il mito, infine, svolge anche una funzione pedagogica e formativa per un individuo appartenente ed aderente ad una determinata Weltanschauung, visione del mondo e della vita che riunisce donne e uomini in comunità di popolo.

Nota bibliografica : per chiunque fosse interessato ad un approfondimento, si suggerisce l'ottimo testo di Mario Polia, "Furor: guerra, poesia e profezia", edito da Il Cerchio-Il Corallo, 1983 (copertina evidenza nell'articolo). Valerio Avalon

Una nuova Medusa appare a New York – Giuseppe Barbera

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Nella capitale del commercio internazionale è stata esposta una statua di Medusa che ribalta il mito: qui non è il mostro ad essere vinto da Perseo ma viceversa l’eroe è decapitato dalla Gorgone. L’autore dell’opera è un artista italo-argentino di epoca contemporanea, Luciano Garbati, che ha ribaltato il lavoro del Cellini per celebrare la condanna di Harvey Weinsten, reo di numerosi stupri. Certo per un tradizionalista esprime un concetto strampalato: per gioire della punizione di un uomo che ha lasciato spazio alla tracotanza ed agli istinti, si espone l’immagine della vittoria di colei che rappresenta l’affermazione di tracotanza ed istinti nell’anima! Nonostante ciò bisogna ammettere che la medusa del Garbati è effettivamente un’opera d’arte, ciò è indiscutibile: riflette i movimenti di pensiero dell’epoca contemporanea, tecnicamente espone bene l’anatomia di un corpo che dopo un atto di sforzo cerca il riposo; i serpenti malvagi divengono una capigliatura morbida, il sesso scompare come a voler significare la sessualità perduta delle donne che hanno subito abusi, l’intera posa esprime la raggiunta soddisfazione per la vendetta ottenuta. Chiaramente il lavoro di Garbati si rivolge ad un mondo che ha perduto il valore del mito, anzi a malapena lo conosce e quando ne sente parlare ne riceve comunicazioni alterate. Sono numerosi infatti i testi neopagani scritti da autori profani, negli Stati Uniti d’America, che cercano di interpretare la sacralità antica cogliendo cantonate incredibili e distribuendole come interpretazioni valide ed accettabili. Tra queste va per la maggiore l’idea che molti miti rappresentino l’affermazione di società patriarcali a discapito di precedenti società matriarcali. Ovviamente tutto ciò si discosta fortemente dalla realtà storica e dai valori intrinseci del mito. Innanzitutto l’eredità di una società patriarcale ottocentesca deriva da secoli di cristianesimo, religione che nell’imporsi ha dettato nuovi comportamenti sociali, molti dei quali giustificati dalla misoginia di alcuni suoi scritti, atteggiamenti che entrarono in conflitto con la società antica, che invece dava alle donne ruoli ben diversi da quelli raccontati: basti pensare ai numerosi sacerdozi femminili del mondo antico, ai ruoli di numerose poetesse, filosofe e scienziate del mondo antico, di cui poco sappiamo a causa di una damnatio memoriae nei riguardi dei ruoli femminili applicata proprio dalle nuove società cristiane.

Precedentemente a queste non esistevano società patriarcali o matriarcali, bensì società diverse tra loro, tra queste spicca ad esempio quella romana, profondamente incentrata sul valore della complementarità dei generi: l’uno non poteva vivere senza l’altro ed entrambi i generi dovevano rincontrarsi per riscoprire l’androginia della Monade, ossia la forza primordiale che diede avvio al mondo. Lo stesso concetto di divinità in senso assoluto trascendeva dalla semplicità di un genere, ma ascendeva all’idea dell’androginia: basti pensare all’inno orfico dedicato a Zeus dove si esplica che Zeus è la divinità unica, che ogni divinità è una differente manifestazione di Zeus e che Zeus è contemporaneamente sia maschio che femmina. Dunque non esisteva nella teologia dei culti antichi la predominanza di un genere su di un altro, bensì si raccontava più e più volte della coesistenza dei generi e dell’unione di essi. Le sopravvivenze culturali del mondo antico, nel corso dei tempi dell’era cristiana, si manifestano nelle cosiddette scienze ermetiche ed alchemiche, dove l’obiettivo del “filosofo” praticante è quello di ritornare alla Monade riconquistando la condizione dell’androginia primordiale, frutto dell’incontro del maschio con la femmina, del Re con la Regina, del Sole con la Luna, dell’oro con l’argento, ossia dello spirito con l’anima. Ovviamente la mitologia antica era il sistema teologico di base, con il quale si cercavano di dare una serie di profondi insegnamenti etici, che celava importanti misteri relativi alla realizzazione spirituale dell’essere umano. Essa però necessitava di uno strumento fondamentale: l’interpretazione. Tramite essa si potevano conquistare le comprensioni di atteggiamenti e riti che consentissero il raggiungimento dell’aspirata realizzazione spirituale. Platone dedica particolare attenzione a questo strumento, definendolo utile e valido nel momento in cui diveniva “esoterico”, ossia quando si applicava una lettura che entrasse nel profondo e non rimanesse nell’esterno.

Ancora oggi questo strumento rimane validissimo per l’interpretazione del mito e la conquista dei riti misterici celati in esso. Nell’epoca odierna, fondata sull’egualitarismo, purtroppo molti si arrogano il merito di aver interpretato il mito ed esternano e diffondono riti che invece creano sui praticanti squilibri cognitivi comportamentali. Ad esempio esistono individui che hanno creato riti dove si onora Medusa a discapito di Perseo, convinti di riscattare un’ancestrale dea Madre, occultata e nascosta dal patriarcato cattolico! Per quanto essi reinterpretino a loro modo il mito, per quanto essi diano valori nuovi e differenti a quelle figure, esse comunque mantengono i valori originari e pertanto quei nuovi praticanti evocano le forze caotiche e disordinate rappresentate da Medusa, a discapito della salubrità del proprio spirito che, decapitato, non troverà la purezza dell’anima simboleggiata da Andromeda. Ne consegue che dall’esecuzioni di tali riti inventati a tavolino, le persone ne escono fortemente squilibrate e spesso è capitato che venissero taluni presso i templi della Pietas per correggere i propri errori e ritrovare l’equilibrio. Ma ricalchiamo un attimo il mito per risolvere l’errore interpretativo, che nasce da una superficiale e limitata visione di esso. Il limite principale proviene dallo scontro tra Perseo e Medusa, il quale non viene collocato da questi nuovi analisti nel suo racconto, ma ne è estratto, isolato e dunque depauperato della sua profondità.

Perseo rappresenta lo spirito dell’essere umano, che deve condurre la persona al raggiungimento della Sapienza, elemento sotto la tutela di Minerva, la dea nata dal capo di Giove, che tutela l’eroe, ossia colui che persegue l’Amor delle origini, l’Eros di cui parla Platone che smuove il Caos del principio del tempo e delle cose per creare l’ordine. Andromeda è l’anima pura, che ognuno di noi ha sin dall’inizio della propria vita, ma essa viene esposta alle passioni del mondo, data in sacrificio dagli uomini volgari e timorosi del sacro, che verrà mangiata dal mostro proveniente dal mare, qualora Perseo non dovesse riuscire a liberarla. Per compiere tale atto eroico, Perseo deve avvalersi del cavallo Pegaso, che può nascere solo dal sangue della Medusa. Quest’ultima era una fanciulla vergine devota di Minerva, alla quale chiese di avere la Sapienza: la Dea la accontentò inviandole il Dio Nettuno, il quale le avrebbe trasmesso il sapere del mondo con un atto d’amore, ma la giovane gorgone non comprese che tutto ciò era il risultato di quanto lei aveva chiesto alla Dea bensì pensò che tutto stesse accadendo per un desiderio illecito del dio del mare, così la ragazza corse nel tempio, presso la Dea, per chiederle di fermare gli ardori amorosi del Dio. Purtroppo ciò creò una hybris, perché senza rendersene conto la ragazza credeva di sapere meglio della Dea cosa stesse accadendo, voleva mettere una divinità contro l’altra, e peccò di ingenuità: infatti richiesta la Sapienza, ebbe la presunzione di immaginare lei come dovesse avvenirne l’acquisizione, ponendosi inconsciamente al di sopra della divinità. Tutta questa incoscienza dimostra che Medusa chiese il “sapere” quando ancora non era pronta per riceverlo, dunque fu “tracotante”, e tale carenza di preparazione si dimostrò quando la ragazza ebbe paura di Nettuno. Lì sta la hybris di Medusa, nell’aver voluto tutto e subito. Questi sentimenti espressi nel comportamento di Medusa avvengono all’interno della persona: ma se tramite il proprio spirito (Perseo) si taglia la testa alla Medusa (il prodotto mostruoso di chi riceve un sapere quando ancora non ne è degno ed oltretutto disegna quanto ricevuto, creando una serie di pensieri errati rappresentati dai serpenti al posto dei capelli), allora si ottiene il cavallo alato, ossia lo strumento intellettivo che consente di vivere un Eros (che non significa sesso come insegnano i moderni, ma Amore che coinvolge tutti i corpi dell’individuo: fisico, animico, intellettivo, spirituale) sano capace di farci ascendere nei cieli. Grazie al Pegaso lo spirito dell’eroe può raggiungere l’incatenata anima pura e liberarla dal mostro delle acque (passioni) comuni. Il mostro può essere pietrificato dal mostrare la testa della gorgone decapitata: significa che  l’individuo che uccide i moti passionali della tracotanza egoica e della confusione animica, non si lascia tangere dal pensiero collettivo volgare ed evita che esso divori la sua anima.

L’arte è tale quando è lo specchio dei tempi, dunque la statua di Garbati ribadiamo che è una vera e propria opera d’arte, poiché (inconsciamente ?) rappresenta la società attuale: caotica, aspira impreparata alla sapienza, vuole avere tutto e subito, pietrifica ed uccide gli eroi che provano a decapitarla, rifiuta l’Amore sacro, si rifugia nel tempio della Sapienza (spacciandosi infatti come società scientista), muove continuamente pensieri velenosi per confondere chi le si avvicina, rifiuta di specchiarsi e vedere se stessa per non morire. Le passionalità caotiche del tempo moderno certamente entrano in conflitto con una spiritualità ferma, sana e rispettosa del mondo naturale; tutt’altro la società contemporanea vive della distruzione della natura, dell’uccisione di una famiglia di cinghiali per non affrontare la spesa di spostarli dal parco cittadino al bosco più vicino, dell’abuso di potere e dello stupro, della tutela dei criminali e quant’altro di ingiusto, nascondendo il tutto sotto un ipocrito velo di perbenismo e giustizialismo garantista, dove i condannati non sono altro che soggetti ieri appartenenti ad una cricca ma poi fuoriusciti dalla medesima: semplici capri espiatori.

(in foto il Tempio di Minerva edificato a Pordenone dall'Ass. Tradizionale Pietas)

Il mito è eterno ed oggi viviamo nell’epoca della Gorgone: ma è scritto che un Perseo taglierà la testa della Gorgone, guidato dalla divina Minerva.

Dott. Giuseppe Barbera Archeologo Presidente Associazione Tradizionale Pietas Rettore del Tempio di Giove a Roma

Il mito dell’uomo selvaggio (Parte II^) – Walter Venchiarutti

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La derivazione rinascimentale: l’uomo dei boschi nella tradizione alchemica

Tra i vari personaggi che popolano le facciate di una dimora del XV sec. a Thiers, pittoresca cittadina francese del Puy-de-Dôme, vi è una particolare statua intagliata in legno che raffigura un uomo di alta statura, irsuto, vestito di pelli e villoso; da cinque secoli si appoggia ad un lungo bastone e con sguardo emblematico sembra osservare il passante. La vecchia costruzione prende nome da questa raffigurazione ed è chiamata “la casa dell’uomo dei boschi”. Fulcanelli dedica un capitolo della sua importante opera a questo strano bassorilievo (Fulcanelli, Le dimore filosofali Vol. I, Roma 1973).

Viene scartata a priori l’ipotesi che la figura possa identificarsi come una corrente rappresentazione di S. Cristoforo, per la mancanza del piccolo Gesù, abitualmente portato sulle spalle del santo. Il vestito scimmiesco escluderebbe lo status del gigante cristiano Offerus prima della conversione e l’albero sradicato nella leggenda mal si combina con il bastone del “selvaggio” che termina con una testa scolpita. Secondo l’autore ci troveremmo di fronte alla dimora di uno sconosciuto alchimista.

La testa di donna riprodotta nel bastone evidenzierebbe “la madre dei pazzi”, cioè la scienza ermetica mentre il soggetto in questione viene a configurare l’Uomo Saggio, archetipo della semplicità nel vestire e nella trascuratezza della persona, come mostra la pettinatura scarmigliata e la barba incolta.

Queste prerogative confermano: disprezzo per le frivolezze degli uomini e appoggio continuo sulla sapienza (il bastone).

La posizione occupata e l’alta corporatura gli consentono una attenta osservazione in rapporto alla fragilità degli esseri umani. Così deve essere l’alchimista “…un sapiente dallo spirito semplice, attento scrutatore della natura che cercherà di imitare come la scimmia imita l’uomo”.

L’individuo pazzo che si pone al di fuori delle norme e convenzioni che regolano il consorzio civile è il rappresentante simbolico del “mercurio filosofico” sintesi stessa della disciplina ermetica, principio della vitalità che anima tutte le cose. È interessante notare l’affinità tra il mercurio chiamato il Pazzo della Grande Opera, a causa dell’incostanza e della volatilità, con la prima carta dei tarocchi, detta il Pazzo o l’Alchimista.

Mercurio “È l’agente universale della Natura, il messaggero degli dei, vale a dire l’intermediario indispensabile alle manifestazioni dell’esistenza…” e da mediatore universale “...penetra tutti gli oggetti ed unisce tutti gli esseri con vincoli di una segreta simpatia” (O. Wirth, Il simbolismo ermetico, Roma 1978).

Analogamente l’Uomo dei Boschi, rappresentante del mercurio, pazzo della natura, araldo mistico, compie il ruolo di anello di congiunzione tra l’uomo e Dio. Anche l’iconografia privata e pubblica del Cinquecento a Crema non era affatto estranea alle contaminazioni alchemiche (W. Venchiarutti, L’ombra di Rodolfo II e il mondo degli alchimisti padani nelle committenze di Francesco Tensini, in Insula Fulcheria n XXXVII, Crema 2007). Nelle formelle fittili rinvenute presso il Duomo della città di Crema è riprodotta la filiforme fattezza di un essere per metà uomo e per metà vegetale, rappresentante di quella categoria di guardiani della soglia intrisi di sacralità pagana.

Queste rappresentazioni sono coeve e strettamente imparentate con le “maschere lignee dei Visconti” fogliate e leonine che propongono fattezze antropomorfe, collocate sulla testata esterna delle travi, in qualità di antefisse, a sostegno del tetto del Vecchio Palazzo Visconti a Brignano Gera d’Adda. La loro riproposta estetica, come per le grottesche del salone Pietro da Cemmo (sempre a Crema) avviene considerando la loro simbologia scaramantica fondata sul timoroso rispetto e venerazione augurale ereditata dalle antefisse di origine greca e romana (P. Wuilleumier, Taranto dalle origini alla conquista romana, Taranto 1987).

 

La derivazione in seno alla tradizione popolare cremasca dell’uomo selvaggio: folletto arrogante, eroe civilizzatore, saggio troglodita intelligente

Uno speciale tipo di uomo selvatico in formato ridotto è il Salvanél, specialista nel procurare guai riesce con incredibile destrezza ad introdursi nelle case, nelle stalle e combinare dispetti a non finire sbeffeggiando indistintamente uomini, donne, bambini ed animali. Questi ultimi più degli esseri umani, innervosendosi inspiegabilmente sanno fiutare la sua presenza. Le donne sono spesso oggetto delle sue intraprendenti intemperanze e questo diavoletto combina loro dispetti di marca sessuale come “sollevar le gonne, nascondersi nel pitale, toccare i seni ecc.” (G.L. Beccaria, I nomi del mondo, Torino 1995). È da notare l’assonanza con il termine vernacolare “visinèl” fatto corrispondere ad un soggetto particolarmente vivace e intraprendente. Durante i giochi tra fanciulli, le ragazze cremasche facendo roteare la gonna che si allargava a campana esclamavano: “O visinèl ve sota 'l me guarnèl” (O birichino vieni sotto la mia gonna).

Secondo i più accreditati studi storiografici le origini della città di Crema, come nucleo urbano dotato di una certa rilevanza strategica e politica, vengono fatte risalire al XI sec. grazie all’immigrazione di abitanti provenienti in buona parte dai monti e dalla pianura bergamasca.

La migrazione interna con direzione Nord-Sud in Lombardia è un fenomeno molto antico e complesso riguardante non solo i ceti nobiliari. Una continuità millenaria ha coinvolto un considerevole numero di allevatori - pastori interessati al fenomeno della transumanza (M. Corti, L’alpeggio nelle Alpi lombarde tra passato e presente, in SM Annali di San Michele, vol. 17, 2004).

I campi della pianura, irrigati con le acque delle risorgive o fontanili, d’inverno conservavano una temperatura superiore a quella esterna e facilitavano così la crescita anticipata e abbondante del foraggio. In aprile/maggio l’erba cresceva abbondante e in anticipo grazie alla pratica delle marcite.

I bergamini malghesi dalle valli bergamasche (Val Taleggio, Valle Imagna, Val Seriana e Brembana) e bresciane (Val Camonica, Val Trompia) venivano con i loro armenti a svernare in pianura durante i primi mesi dell’anno e il bestiame era nutrito con erba fresca. Il soggiorno temporaneo era regolamentato e i rapporti con gli stanziali erano già fissati negli statuti municipali cinquecenteschi. I patti stabiliti tra contadini locali e bergamini/malghesi/transumanti prevedevano: campi concimati e “formaggio salva” in cambio di pernottamento nelle stalle e diritto di pascolo.

Il latte prodotto in sovrabbondanza veniva “salvato”, destinato cioè alla produzione di un formaggio a pasta cruda che per tale motivo ha preso il nome di “salva”. Il salva è un formaggio dal sapore asciutto, ottenuto dalla lavorazione di latte crudo e oggi costituisce il “prodotto tipico a denominazione d’origine protetta” del Cremasco.

Bergamì (berg-man/berhamino/uomo del monte, provenienti dalle valli e montagne bergamasche) e i Malghés (uomini delle mandrie da latte) nell’immaginario collettivo degli stanziali a causa della parlata strana, usavano un dialetto dai suoni gutturali e incomprensibili, acquisivano lo status di orde selvatiche. Questi uomini primordiali vestivano in modo arcaico, portavano scusàl (grembiule), tabàr (mantello), cappelli scuri di feltro, grossi orecchini d’oro, sapèi (zoccoli di legno), camişòt (lunga camicia), e un lungo bastone. Per i modi frugali e schivi fornivano l’archetipo del diverso, dell’altro, dell’uomo selvatico dei boschi, il silvano che ricoperto di pelli, armato di bastone, conosce i segreti del caglio naturale e animale, delle tecniche per trasformare il latte in formaggio e farlo durare (stagionare). Il paragone di questi strani foresti con l’uomo selvatico non appare di certo casuale. Oltre alle evidenti identità materiali i comuni saperi, riservati alle conoscenze casearie, alle modalità rivolte a governare gli animali, utilizzare erbe e frutta rendono convincente il confronto.

Dalle valli bergamasche lungo le aste fluviali del Serio, dell’Oglio e dell’Adda i migranti temporanei percorrevano con mandrie e greggi dai 100 ai 140 km con tappe di 20 km giornalieri. I periodi della transumanza prevedevano la discesa invernale (8 mesi da settembre ad aprile) e la risalita estiva (4 mesi da maggio ad agosto). Questi spostamenti temporanei sono durati fino agli anni Cinquanta mentre negli ultimi tempi avvenivano grazie all’ausilio di camion.

  Le caratteristiche dell’uomo selvatico

Il selvaggio dei boschi svolge una primitiva funzione nel ricompattare la comunità, tenendola unita e lontana dal pericolo dovuto alla disgregazione e dalla confusione dei ruoli. Gli viene riconosciuta la mansione di mediatore dei tre mondi: animale-umano-divino.

Grazie alle disparate provenienze ha attinto altrettanti attributi, mansioni e qualità a cui di volta in volta è stato preposto.

Non è un selvaggio nel senso proprio del termine perchè esercita la condotta contraddittoria di catalizzatore del sacro e del profano:

  • non si lava, non si rade ma sotto un aspetto rozzo e ripugnante nasconde timidezza con chi è gentile nei suoi riguardi.
  • Il troppo isolamento ha prodotto in lui un impoverimento delle capacità comunicative che viene scambiato per infantilismo e stupidità. Tuttavia le comunità concordemente gli riconoscono metodologie estremamente professionali ed avanzate nel trasmettere conoscenze naturali, nei misteri della malgazione e della lavorazione dei latticini.
  • Pur preferendo l’indipendenza e il romitaggio il selvatico avverte di tanto in tanto il bisogno di socializzare con l’uomo. Esce allo scoperto ma quasi subito le sue reazioni e i suoi modi lo costringono ad abbandonare in fretta ogni consorzio umano.

Allo stesso modo una ulteriore aporia è costituita dal fatto che nonostante la riconosciuta assenza di regolare istruzione questo essere, ancorato ad una tradizione arcaica, permane straordinariamente dotato di superiori cognizioni pratiche. Si identifica con il depositario di conoscenze, il sapiente dei boschi, qualità che istintivamente gli provengono dal vivere un rapporto rispettoso con gli animali e con la natura. L’uomo evoluto non ha saputo conservare questo equilibrio benché abbia sviluppato importanti conoscenze tecnologiche. Le esperienze dell’essere primitivo si basano sulla conoscenza appropriata delle virtù medicinali di erbe con cui si nutre e si cura. Sa scegliere con perizia la bontà delle bacche commestibili da quelle velenose, distingue i frutti di cui si ciba, ha acquisito la capacità di trasformare quasi magicamente il latte prodotto dai suoi armenti in prelibato formaggio e spesso di questo sapere fa dono agli uomini, dimostrando una generosità e una disponibilità non sempre ricambiate. Le leggende narrano che gli uomini hanno imparato da lui a fare il burro, il latte, hanno appreso la tecnica di produrre formaggio e avrebbero appreso, se il destino l’avesse permesso, anche l’arte più straordinaria di trasformare il siero in olio per lampade e in cera. In altre versioni l’uomo dei boschi non è selvatico e non così selvaggio poiché dimostra saggezza e possiede qualità che farebbero di lui, in ambito agricolo, un provetto colono: pratica l’apicoltura, è veggente un po’ mago e astronomo, sa leggere nel cielo il corso dei pianeti e riconosce le stelle. L’affinata sensibilità gli consente di essere buon metereologo e di poter prevedere le variazioni climatiche. Queste prerogative hanno finito per assimilarlo alla personalità del mago Merlino che nel ciclo arturiano prende forma nel satiro silvestre (M. Riemschneider, Miti pagani e miti cristiani, Milano 1973).

Il suo patrimonio sapienziale si estende alle tecniche estrattive ma teme i prodotti della civilizzazione e soprattutto non sopporta le macchine di qualsiasi genere. Gli umani avrebbero appreso dal Selvadech le tecniche per estrarre dalla terra minerali utili e metalli preziosi. Tali prerogative lo apparentano a nani e a gnomi che nella tradizione nordeuropea vengono da sempre considerati autentici specialisti della metallurgia.

L’uccisione alla fine del carnevale o la cacciata segna la completa sparizione del selvaggio dal consorzio degli umani. Il rituale del capro espiatorio celebra il conseguente rifiuto delle pratiche naturalistiche. La vittima predestinata con il suo sacrificio permette la prosecuzione della specie, il ristabilimento del patto di amicizia con la divinità. Se il selvatico è stato visto come uno dei lontani progenitori che hanno portato alla definizione della figura di arlecchino nel teatro della commedia dell’arte, diventa suggestiva l’ipotesi secondo cui l’immaginario collettivo contadino possa aver mutuato da lui le numerose tipologie collegate alla tradizione carnevalesca, proponendo una nutrita serie di figure: brut, crapón, sapór e gagèt (W. Venchiarutti, Il carnevale cremasco ieri e oggi, Crema 1997). Tutti questi personaggi hanno notevolmente contribuito a permeare le leggende e sviluppare in aneddoti narranti le storie di un essere rustico, che viveva una esistenza solitaria e adamitica allo stato semiselvaggio, a metà strada tra l’animale e il divino, in stretta simbiosi con l’habitat naturale.

 

Le derivazioni moderne del mito: l’uomo dei boschi in bilico tra idealismo fascista e ecologismo antiutilitarista

La duttilità di cui ha saputo dar prova il singolare protagonista della storia popolare applicata alle recenti categorie umane non cessa di sorprendere nella sua funzione di trait d’union tra natura-cultura, passato-presente. Con l’avvento della modernità l’impronta del selvaggio/selvatico sembra essere riuscita a superare gli stretti limiti imposti dalle opposte filosofie di pensiero, giungendo a valicare i tradizionali steccati imposti dalla tradizione e ristabilendo le caratteristiche degli antitetici personaggi.

Nella galleria degli archetipi politici il nostro protagonista sembra uscire da uno dei tanti bozzetti che hanno vivacizzato la produzione grafica futurista. Ad esempio non sorprende l’apparentamento con l’uomo nuovo idealizzato nell’era fascista, che si muove baldanzoso, sorretto dalla maschia gioventù, nella sua pelliccia-camicia nera, in compagnia dell’inseparabile bastone/manganello. Come lui preferisce vivere pericolosamente da antiborghese e anticapitalista assomma lo sprezzo del pericolo all’esaltazione della forza. Lo regge una straordinaria volontà di potenza, finalizzata a percorrere traguardi ambiziosi e pericolosi. Le sue preferenze vanno alla semplicità rurale dello strapaese, segue il codice etico antimoderno e anticonsumista del ribelle papiniano (G. Papini - D. Giuliotti, Dizionario dell’omo salvatico, Firenze 1923), è avulso dalle regole comuni, si riallaccia ad una economia antimercantilistica e autarchica della vita, intollerante verso ogni tipo di promiscuità-compromesso, ben determinato negli obiettivi da raggiungere. Anche in arte come nella letteratura del ventennio non è casuale che riviste d’avanguardia artistica e letteraria si identifichino non solo nominalmente nel “Selvaggio”. Il riferimento specifico è alla testata “Il Selvaggio” (1924-42) diretta da Bencini e Maccari.

Anello di congiunzione tra sacro e profano “l’uomo silvestre” è al tempo stesso animale e uomo, uomo e Dio, assurge nel contempo al compito di proteggere e attaccare la comunità. Pur essendo estraneo al consorzio degli alfabetizzati, con il suo prorompente ecologismo, con l’esercizio dei principi antiutilitaristi assurge a nume tutelare della conservazione naturalistica e dei costumi tradizionali nei confronti di una società ormai in balia dell’omologazione esasperata e dall’abuso nauseante dei mezzi di comunicazione di massa. L’uomo selvaggio rappresenta l’ultimo difensore della natura, avverso e immune dai numerosi tentacoli grazie ai quali l’inquinamento urbano sta facendosi strada nelle metropoli. La sua immagine costituisce l’esempio di una diversità atemporale, sempre valida contro ogni forma di compromesso consumistico e di devastazione ambientale. Monito di una ingenua e utopistica saggezza da cui perviene il messaggio: il selvatico salvifica e salva.

In netta antitesi con le precedenti versioni negative il nuovo ruolo bonario svolto dal silvano riassume tutte le caratteristiche dell’incorrotto amico della natura, signore degli animali.

É un antesignano dell’antropologia classica a riconoscere il debito che oggi l’uomo deve tributare al cosiddetto primitivo:

Grande è la gratitudine che dobbiamo ai lavoratori oscuri e dimenticati di cui la lunga energia e il pensiero paziente ci han fatto quel che siamo … Il disprezzo, il ridicolo, la ripugnanza e il biasimo sono troppo spesso il solo riconoscimento concesso al selvaggio e ai suoi costumi… (ma) … le nostre somiglianze con i selvaggi sono ben più numerose delle differenze” (J.G. Frazer Il Ramo d’oro, Vol. II, Torino 1965).

Il fenomeno storico della scoperta delle Americhe ha inciso sul tradizionale corpus delle leggende pagane e cristiane che narrano episodi riguardanti il “rustico della selva”. Sensibili interpreti della nuova esperienza (G. Cocchiara, Storia del folklore in Europa, Torino 1971) hanno celebrato il mito del buon selvaggio. Pur partendo da osservazioni realistiche entrano in azione nuove concezioni utopistiche: la primitività equiparata alla bontà. Paragonato ai Greci ed ai Romani il selvaggio diventa eroe, è felice perché vive in una società dove non esiste il mio e il tuo, non si impongono leggi se non quella della morale naturale, non esiste la sofferenza, il tormento della vanità, il tarlo dell’ambizione, la smania della ricchezza. In seno al gruppo tribale è perseguito l’aiuto reciproco.

L’impatto-disturbo che comporta l’apparizione di questo ribelle nella normalità sociale equivale sempre a qualcosa di traumatizzante. La forza primordiale, la simbiosi naturalistica, l’isolamento individualista che ne costituiscono l’essenza lo pongono in netta antitesi con “l’uomo comune”, immerso nella struttura sociale urbanizzata, abituato alle raffinatezze della civiltà, alla lotta per il predominio ambientale, alla promiscuità metropolitana.

Le sue prerogative sono i presupposti di un’etica abbandonata ormai da millenni, oggi riscoperte da chi rievoca mai sopite suggestioni legate ad un interminabile primitivo passato ricco di emozioni contrastanti.

Anche dal punto di vista ideale le scelte dell’Uomo Selvatico si prestano per esser suggestivamente equiparate allo stile di vita che regge il comportamento del “Waldgang”. In stretto contrasto con le priorità espresse dai suoi simili anche l’anarca jungeriano (E. Junger, Trattato del ribelle, Milano 1990) “passa al bosco” e sfida la società diventando un “Ribelle”.

Il bosco rappresenta sempre il luogo mitico delle fiabe ancestrali, dove i bambini si perdono, prosperano i lupi e le streghe divorano gli uomini, ma nel contempo sa offrire rifugio a chi non è più in grado di tollerare i condizionamenti del conformismo corrente. Si tratta comunque di un percorso arduo e pericoloso, di una rinuncia ai comfort ed alla sicurezza che possono esser affrontati solo da chi opta hic et nunc per la libertà come principio e come via.

Lo stile di vita arcaico, l’instabile precarietà del fuorilegge affascinano e al tempo stesso definiscono un modello superato dalle successive conquiste e migliorie messe a disposizione dal progresso, divenute irrinunciabili per l’uomo moderno. Tuttavia pesa ancora l’allontanamento dal quel cordone ombelicale che univa il primitivo alla confidenza con i segreti della terra madre.

La vera intolleranza verso questo ispido soggetto, ciò che spaventa, non solo a livello fisico, ma anche mentale è il fatto che con le sue frequenti apparizioni mette in serio dubbio i principi razionali e la bontà delle scelte operate dall’uomo moderno. Scricchiolano le prerogative di una società che ha accantonato la spontaneità e la naturalezza mettendo al primo posto l’ingentilimento artificiale dei costumi e che nella scelta di comodità materiali ha sacrificato le conoscenze istintive, impoverito o perso ogni sensibilità spirituale.

La condotta semplice dell’uomo dei boschi, richiama articolati comportamenti oggi dimenticati ma che si riaffacciano puntualmente nei momenti critici. Se queste credenze popolari venissero finalmente considerate senza pregiudizi di condanna semplicistica o di imparziale apoteosi ma con il rispetto che gli studiosi del folclore locale meritano non mancherebbero le sorprese, gli aiuti e i suggerimenti forniti da una saggezza millenaria, un sostegno gratuito non disprezzabile anche per un futuro tecnologicamente avanzato.

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  • Roda R., Pomponsco. Silvan sulla luna, Ferrara 1999.
  • Sacchi R., Migrazioni iconografiche e vicende storiche dell’Uomo Selvatico, in Mondo popolare in Lombardia- Sondrio e il suo territorio, Milano 1995.
  • Togni R., L’uomo selvatico nelle immagini artistiche e letterarie, in Annali S. Michele, n 1, Trento 1988.

Dall’Uomo nuovo della Tradizione all’Ultimo uomo dell’era Covid: un secolo di degenerazione antropologica – Federica Francesconi

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Se c’è un motto che racchiude l’essenza dell’ideale dell’Uomo nuovo dal punto di vista tradizionale questo è senz’ombra di dubbio il celebre Memento audere semper coniato nel 1918 da Gabriele D’Annunzio. Per il Vate ricordarsi di osare ciò che per l’uomo comune è inosabile significava sentire dentro di sé “l’idealità del mondo”, cioè sentire di essere tutt’uno con il principio vitale che anima l’universo intero e spezzare così il confine artificiale creato dalla mente fallace tra l’io e il mondo. Fu questa concezione vitalistica dell’essere umano che lo spinse a osare l’impresa di Buccari in cui eroismo, disprezzo della morte e amore patriottico portato fino alle sue estreme conseguenze si fusero per creare un evento di epica bellezza che trascese lo spazio ed il tempo. Per D’Annunzio l’Uomo nuovo non poteva essere forgiato utopisticamente attraverso il richiamo teorico a un’ideologia. No, l’Uomo nuovo doveva essere generato dal sangue versato per un ideale. Per il Vate era l’esperienza del sacrificio di sé, il donarsi anima e corpo a una causa, che avrebbe plasmato la nuova umanità. La I Guerra Mondiale e poi l’impresa di Fiume furono per D’Annunzio e per quanti vi aderirono il battesimo di fuoco della nuova umanità, esperienze trasfiguranti e rigeneranti che impressero una svolta nel carattere di una parte dell’italianità imborghesitasi dopo decenni di politica attendista e molliccia.

Se c’è, invece, un’epoca in cui la degenerazione antropologica di fine ciclo cosmico ha preso piede questa è proprio quella che stiamo vivendo, con la sua inarrestabile deriva liberticida in nome di una tanto fasulla quanto irraggiungibile prevenzione sanitaria e con la riduzione dell’essere umano a cavia su cui sperimentare perversi protocolli sanitari. E se è esistito un pensatore che ha previsto le tendenze disumanizzanti dell’epoca attuale questo è stato Nietzsche, il filosofo dell’antimodernità. Nella prefazione al suo capolavoro, Così parlo Zarathustra, Nietzsche profetizzò l’avvento di un prototipo di umanità che descrive in termini molto plastici: “Prossimo è il tempo del più spregevole tra gli uomini, che non saprà neanche più disprezzare se stesso. Ecco, io vi mostro l’Ultimo uomo. […]Nessun pastore: un sol gregge! Ognuno vuole la stessa cosa, ognuno è la stessa cosa: chi la pensa diversamente ripara volontario al manicomio”. Qui Nietzsche sembra profetizzare l’avvento dell’egualitarismo e del Pensiero unico inventati dalle liberaldemocrazie occidentali, che non ammettono alcuna forma di dissenso. Chi si discosta dal pensiero conformistico dell’umanità-gregge è considerato un folle da emarginare ed isolare socialmente. E ancora: “Noi siamo assennati e sappiamo tutto ciò che è avvenuto; abbiamo dunque diritto d’irridere ogni cosa. […] Si hanno i propri svaghi del giorno, e quelli della notte; ma si tiene in gran conto la salute”. L’Ultimo uomo ha particolarmente cara la salute. Come non riconoscere in questa immagine l’attuale ossessione del genere umano per il contagio da Covid? Il suo rinunciare a diritti e libertà, fino a pochi mesi fa percepiti come intoccabili, in nome di un’immaginaria purezza? L’Ultimo uomo è colui che secondo Zarathustra, la voce narrante dietro cui si nasconde il filosofo tedesco, pensa di aver inventato la felicità. Egli è felice della sua pochezza e mediocrità, si accontenta di svaghi illusori e salutismo e non sa più “generare una stella danzante”, non sa più “che cos’è amore, che cos’è creazione, che cos’è brama, che cos’è un astro”. Nietzsche ci sta dicendo in pratica che l’Ultimo uomo non è più capace di desiderare. La parola “desiderio” deriva dalla radice latina de-sidera, che letteralmente significa “mancanza di stelle”, e allude quindi al non riuscire più ad avvertire la privazione di qualcosa che potrebbe condurre al Bene. L’Ultimo uomo pensa di vivere la migliore e la più appagante delle vite, non aspira più a qualcosa che la potrebbe completare e arricchire, ripiegato com’è nel godimento di piccoli e passeggeri piaceri che lo portano a rinunciare a volere intensamente altri orizzonti di senso e di azione. Ma desiderare che cosa? Per esempio il cambiamento e il miglioramento di sé, del genere umano e del mondo intero. Senza desiderio non c’è consapevolezza della propria condizione di schiavitù. I milioni di uomini occidentali che in questo

momento di transizione epocale vivono terrorizzati e semireclusi a causa dell’emergenza Covid non sono più capaci di desiderare il Bene e la Bellezza, non li sanno più nemmeno concepire sul piano immaginativo. Per loro le stelle si sono spente, esiste solo un eterno presente fatto di igienizzazione, mascherine chirurgiche e rinuncia progressiva alla libertà. Le assonanze tra l’Ultimo uomo nietzschiano e l’attuale umanità irretita dalla paranoia da contagio sono a dir poco inquietanti. L’Ultimo uomo è l’incarnazione del canone inverso della pòlis: se per Platone la politica è sostanzialmente basiliké techné, ovvero arte suprema della sovranità esercitata mantenendo un equilibrio tra bene individuale, bene comune della collettività e giustizia, oggi questo equilibrio è stato rovesciato a favore di una (in)giustizia che non tiene più conto tanto del bene comune quanto del bene dell’individuo. Oggi la più potente menzogna seduttiva esercitata da una politica mercenaria del dispotismo dell’Alta finanza è quella secondo cui la privazione di fette sempre più consistenti della libertà individuale è legittimata dalla preservazione della salute collettiva. Si tratta di un vero e proprio ricatto che agisce sulla psiche già di per sé fragile dell’Ultimo uomo: sotto la copertura ideologica della difesa della salute si privano i cittadini dei loro diritti inalienabili, non ultimo il diritto ad immaginare altri presenti, altri futuri. L’autoreferenzialità del potere politico, economico e scientifico è tale che può essere assimilata al concetto di hybris della tradizione sapienziale greca. Ma se il potere è libero di esercitare a briglie sciolte la hybris, l’arroganza che gli deriva dal suo essere autoreferenziale, è perché l’uomo contemporaneo è alienato da se stesso. Il processo di alienazione dell’essere umano è iniziato secoli fa e non è riconducibile solo ed esclusivamente, come sosteneva il materialismo dialettico, alla sfera terrena dell’esistenza. L’alienazione riguarda anzitutto e soprattutto il piano spirituale dell’Essere, e colpisce la capacità dell’uomo di generare “stelle danzanti”, cioè la sua innata disposizione “erotica” a volere, a lanciarsi verso mete in apparenza irraggiungibili. Oggi a dominare sono la passività, la rassegnazione, l’accontentarsi di una vita miserabile in nome di una falsa sicurezza sanitaria. L’essere umano vive sempre più isolato dai suoi simili in una bolla virtuale lontano da relazioni umane soddisfacenti. Intere sfere dell’esistenza dell’attuale umanità sono ormai avviate sulla via della virtualizzazione: il lavoro, le amicizie, la sessualità. Lo smart working, i Social Network, You Porn sono diventati la cifra attraverso cui misurare l’alienazione umana. Si tratta di un processo che il Covid ha indubbiamente accelerato, ma che era in essere ben prima della diffusione della falsa pandemia e che affonda le sue radici nella perdita della capacità di de-siderare, cioè nella perdita della capacità di entrare in contatto con altre dimensioni dell’Essere. L’Ultimo uomo è un uomo a una dimensione, un uomo che è spinto a ritenere razionale, e quindi accettabile, cioè che della società ipertecnologica non è razionale. Gli attuali processi digitalizzanti della società postmoderna con le loro false promesse di emancipazione e miglioramento della vita sia individuale che collettiva hanno trovato nell’Ultimo uomo la perfetta cavia sperimentale, il supporto umano ideale per imporsi senza resistenza in una società già scossa da una crisi economica senza precedenti.

Siamo distanti anni-luce dall’ideale antropologico che a partire dal primo quarto del secolo scorso prese il nome di “Uomo nuovo”. Che cos’era l’Uomo nuovo? Era un progetto formativo mirante a forgiare una nuova collettività, un nuovo corpo sociale, una nuova “razza” spirituale, una italianità più consapevole, secondo presupposti antitetici a quelli borghesi incentrati sull’individualismo e sulla riduzione ad oeconomiam di tutti gli aspetti della vita umana. L’Uomo nuovo doveva diventare padrone del suo destino, mosso da un indomito dinamismo che lo poneva al di fuori degli schemi socialmente usuranti e limitanti dell’ideologia borghese. Non casualmente il paradigma dell’Uomo nuovo nacque e si propagò in Europa, in particolare in Italia, dopo la durissima esperienza della I Guerra Mondiale con il suo carico di speranze frustrate e di ribellione contro i valori borghesi, ritenuti non a torto responsabili della catastrofe umana e spirituale a cui i popoli europei, disorientati e indeboliti, erano andati incontro. Dopo la pausa del Ventennio il progetto pedagogico dell’Uomo nuovo venne definitivamente liquidato dalle sinistre pseudoprogressiste come retaggio di un’epoca demonizzata dalla storiografia ufficiale e sbrigativamente relegata nell’alveo dei totalitarismi. A quel punto a partire dal Dopoguerra l’avvento dell’Ultimo Uomo profetizzato da Nietzsche non incontrò più alcuna resistenza. I segni della presenza in mezzo a noi dell’Ultimo uomo, “la più disprezzabile tra le razze”, per usare le parole del filosofo tedesco, sono sotto i nostri occhi. Un’umanità che ha paura della sua stessa ombra, votata al più bieco materialismo, senza alcuno slancio spirituale ed ideale, tutta protesa a godere dell’immediatezza e convinta per giunta di aver inventato la felicità ma eternamente infelice. Oggi vediamo questa umanità che ha perso la bussola ed è acerrima nemica di ogni sano idealismo, piegarsi ubbidiente alla dittatura sanitaria. Un’umanità schiacciata, umiliata, vessata che, come dice Zarathustra, non sa più nemmeno provare disprezzo per la condizione miserabile in cui si trova. E’ innegabile che la falsa pandemia da Coronavirus abbia impresso un’accelerazione all’avvento dell’Ultimo uomo, che pur di sopravvivere, pur di non morire, accetta di tutto, persino di essere ridotto ad automa privato di tutti i diritti e di tutte le libertà. Siamo agli antipodi dell’idea dell’Uomo nuovo, improntato al dovere etico di fuggire la paura della morte, anzi, di cercarla con tutti i mezzi e tutte le forze come realizzazione concreta dell’ideale in cui crede, sia esso la difesa della Patria o dell’ideologia politica di appartenenza, come meta finale di una vita vissuta in accordo alla propria visione del mondo.

Ed è proprio la mistica del sacrificio di sé, da non intendersi ingenuamente come autolesionismo o rassegnazione passiva, l’asse portante dell’ideale dell’Uomo nuovo. Un’incarnazione concreta di tale mistica è riscontrabile, oltre che nell’impresa di Fiume, anche nella battaglia di El Alamein, di Bir el Gobi e in altre imprese militari in cui l’Uomo nuovo del Ventennio dette prova di “essere” e non di “avere” come imponeva l’ideologia borghese. La missione dell’Uomo nuovo ruotante attorno al triplice imperativo Dio-Patria-Famiglia, nell’epoca del controllo digitale totalitario è stata sostituita dall’obbedienza cieca ed irrazionale al dio mercato, dall’adorazione dell’idolo dell’economia disumanizzante, dal cosmopolitismo apolide e dall’avversione per i legami sociali. Ci troviamo davanti a una mutazione antropologica di portata epocale in cui tutti i valori che fino a poco tempo fa avevano tenuto insieme, almeno in Occidente, un’umanità estremamente divisa, sono rigettati in nome di una globalizzazione che predica non solo il piegarsi ma anche lo spezzarsi del baricentro interiore. Il motto Flectar ne flangar, “mi piegherò ma non mi spezzerò” è solo un ricordo nostalgico appartenente a un’epoca mitica. E così le centrali di potere sovranazionali, vere azionatrici delle leve di tutti i cambiamenti, spesso in peggio, che coinvolgono l’intero globo, hanno preparato astutamente da almeno un secolo il terreno per far accettare all’umanità nel modo più naturale possibile la desacralizzazione della Patria, spazzata via dalla globalizzazione a trazione neoliberista. Oggi il massimo dell’offerta sacrificale che gli ultimi uomini arrivano a concepire come forma di ubbidienza cieca a un regime sanitario totalitario, che ogni giorno che passa li priva di un pezzetto di dignità, è “state a casa”. E così, se l’Uomo nuovo del Ventennio fu lo sbocco di un’umanità temprata dalle sofferenze e dai sacrifici della guerra, che dire dell’Ultimo uomo contemporaneo se non che è lo sbocco naturale dell’ultima fase dell’Età Oscura? Ma noi, uomini e donne che non si piegano e non si spezzano di fronte all’inevitabile tracollo della civiltà, sappiamo che ad ogni Età Oscura segue ciclicamente una nuova Età dell’Oro, in cui un’umanità ripulita dalle scorie del materialismo risorgerà dalle ceneri nella sua sfolgorante bellezza. L’Uomo della prossima Età dell’Oro che verrà, come profetizzato dal poeta latino Virgilio nella IV Egloga, “riceverà la vita dagli dèi, e vedrà gli dèi/ mischiati agli eroi ed egli stesso sarà visto da essi/ e reggerà il mondo pacificato dalle virtù del Padre”. Dunque, armiamo le nostre anime di inosabile e abbeveriamoci, noi uomini e donne rimasti ancora in piedi sulle rovine della civiltà, alla fonte della Bellezza, e che il nostro ubriacarci di Essa faccia da esempio e da monito a un’umanità derelitta che ha perso se stessa e il ricordo della sua missione nell’universo, in modo che ognuno di noi, come un secolo fa il Vate, possa dire a se stesso, fiero di se stesso: “Io ho quel che ho donato”. Quel che ho donato all’ideale, alla causa, a me stesso e all’Assoluto, e che qualsiasi diavoleria il potere di questo mondo inventi, non mi sarà tolto per l’eternità, varcando così le Età, i mondi e gli ultramondi.

Federica Francesconi

Il nido dell’anima – Rita Remagnino

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Nel dare il triste annuncio di una morte che ci ha toccato da vicino gran parte di noi si lascia sfuggire la formula consolatoria “[tizio] è volato via”. Ma «volato» dove? Nel paradiso della Bibbia abitato dagli angeli? Nel jannah del Corano allietato dalle 72 vergini (eloquente numero precessionale)? Perché, allora, svariate generazioni di umani hanno pronunciato le stesse identiche parole molto tempo prima che i luoghi paradisiaci venissero inventati? Fino a che punto tutte queste persone erano consapevoli di essere le occasionali protagoniste di una recita millenaria?

Se di fronte a domande del genere proviamo imbarazzo, chiediamo aiuto a qualcuno che in passato (il presente è distratto) tentò di darsi delle risposte. I Sabei di Harran, per esempio, un popolo che sfornò svariate generazioni di astronomi e autorevoli traduttori dei principali testi ermetici. Ancora nel Medioevo la città di Harran veniva considerata uno dei Centri Tradizionali più importanti dove il cosiddetto «Popolo del Libro» - così lo definì il Corano - continuava a parlare la lingua delle stelle e celebrava cerimonie rivolte a qualcosa definito il «Mistero del Nord» e considerato la Causa Prima, la manifestazione di dio stesso, il Centro da cui irraggiavano tutte le manifestazioni cosmiche prima di diventare principi divini.

Secondo queste genti lo spazio celeste occupato dalla Stella del Nord, o Stella Polare, era il punto di partenza delle anime dei nascituri che scendevano sulla Terra e il punto di arrivo delle anime dei defunti che salivano in Cielo. Tale credenza, già vecchia di millenni, arrivò a cascata a Mandei, Yezidi, Yaresan, fino agli Arabi pre-islamici che nei loro rituali collegavano direttamente il Nord all’«uccello della creazione». Vi accennò anche Confucio nei Dialoghi, citando gli attributi di un buon sovrano: “Chi governa con la virtù è paragonabile alla stella polare, che resta immobile al suo posto, mentre tutte le altre ruotano intorno.

Immobile per modo di dire, perché questa luce materiale e spirituale non illuminò ininterrottamente il cammino dell’uomo. Ad esempio circa 18mila anni fa, dopo il picco di massima estensione della glaciazione, quando il cielo parve schiarirsi leggermente, come se stesse avvicinandosi l’alba, prima indicazione del fatto che il buio inverno stava allentando la sua presa, i gruppi umani in uscita dagli antri sotterranei troppo a lungo abitati al posto della Stella Polare trovarono ad attenderli soltanto oscurità.

Misteriosamente, la Stella del Nord era sparita e nessuno sapeva dire dove fosse andata. Brillavano in compenso nello spazio lasciato vacante alcune stelle circumpolari che giravano intorno al Polo Nord celeste (rimasto in prossimità della Via Lattea nel periodo 20.500-13.200 a.C.) e non venivano mai viste tramontare. Una particolarità ritenuta eccezionale e ricca di significati, che fece guadagnare loro il titolo di «instancabili».

Spiccava tra i nuovi barlumi la Costellazione del Cigno, governata da Venere secondo la tradizione stellare classica, al cui interno si scorgeva una croce visibilissima nonostante la luminosità della circostante Via Lattea: le stelle comprese fra Deneb e Albireo formavano il braccio verticale mentre quelle fra Gienah e Rukh costituivano le «ali». E’ probabile che tale disegno celeste abbia ispirato molte simbologie successive, compresa la croce di Cristo, ma qui la storia si farebbe troppo lunga e rischieremmo di perdere il filo del nostro discorso.

Nel punto più scintillante di questo tracciato stellare c’era Deneb, che virtualmente baciava l’orizzonte settentrionale nel punto più basso del suo transito, sul meridiano nord-sud, la linea immaginaria con cui gli astronomi vedevano tagliare in due il cielo. Sessantamila volte più luminosa del sole, ormai era lei la più bella del reame. Motivo per cui col passare del tempo i popoli la identificarono con la Croce del Nord, mentre i sapienti custodi di antiche conoscenze incorporarono «la rosa più bella sulla croce» nelle loro riflessioni metafisiche. Prese spunto da simili considerazioni l’anonimo estensore del Fama Fraternitatis Rosae Crucis che nel 1614 annunciò il ritorno della luce dopo il buio (spirituale) causato dal peccato di Adamo?

Patrimonio comune dell’emisfero settentrionale e legato ad evidenze astronomiche il culto del Cigno si diffuse a macchia d’olio, toccando il suo massimo di espansione nel periodo 16.500-14.300 a.C. Nell’emisfero meridionale il Cigno non era circumpolare, la sua visibilità era scarsa, motivo per cui le suggestioni da esso prodotte ebbero sui popoli del sud pochi effetti culturali e religiosi.

Diversa era la situazione nella parte superiore del globo, dove i costruttori pre-diluviani lo «pietrificarono» addirittura nell’ubicazione di molti siti megalitici, tutti perfettamente allineati con questa costellazione: da Göbekli Tepe a Newgrange e Avebury, dai complessi di tumuli e terrapieni di Newark, in Nordamerica, a La Venta e Cuzco, passando dalla piana di Giza (che riflette esattamente il sorgere del Cigno intorno al 10.450 a.C.), fino all’Europa dove il Cigno era presente in varie strutture rupestri.

Deriva probabilmente da questa credenza l’uso antico di mettere un uccello sulla cima dell’albero cosmico, simbolo universale dell’axis mundi, o sul bastone dello sciamano che virtualmente lo percorreva durante i suoi stati di trance. Richiami a tale visione cosmologica sono rintracciabili un po’ dappertutto, dai celebri rilievi rupestri di Lescaux al geroglifico della «pertica» su cui è posato il grande Falco Divino descritto nei Testi di Edfu, dalla «manifestazione della resurrezione del primo mondo sacro» alle tombe degli yakuti, fino alla sommità dei totem dei Pellerossa.

Al di fuori dell’archeologia astronomica si tende ad interpretare tutti questi «uccelli appollaiati su assi» come disegni simbolici dell’«anima-uccello» in procinto di spiccare il volo per l’Altro Mondo. Il discorso non fa una grinza, ma potrebbe essere più completo se si considerasse anche l’aspetto astronomico che stava alla base dei ragionamenti che diedero origine a queste rappresentazioni. Mai dimenticare che gli antichi più antichi usavano la «lingua delle stelle» per parlare di cose serie, lasciando quella delle parole all’ordinario e al quotidiano.

Non fu certamente in nome di una semplice idea che a partire da 17mila anni fa tanto i popoli del mondo uraloaltaico quanto quelli amerindi presero a celebrare su larga scala iniziazioni sciamaniche attorno al «sacro palo». In quel periodo l’asse celeste - prolungamento immaginario dell’asse terrestre - era ancora attaccato alla Via Lattea e l’umanità vedeva quel collegamento come «il palo» di ascesa e discesa attraverso cui lo sciamano poteva entrare in contatto con il «punto» della Creazione. In seguito la precessione lo allontanò dal Cigno, spingendolo in direzione di Vega e della Lira, ma ormai la simbologia legata all’«uccello della creazione» si era impressa in modo indelebile nell’immaginario di mezzo mondo e vi rimase per millenni. Permanendo in minima parte ancora oggi, e a nostra insaputa, altrimenti non diremmo di una persona appena defunta “tizio è volato via”.

Rimane ufficialmente un mistero con quali strumenti l’antenato antidiluviano osservasse la vasta regione oscura generata al centro da polvere e detriti cosmici e allineata al piano galattico. Ma lo ha fatto e su questo c’è poco da discutere. Possiamo soltanto immaginare la sua meraviglia nel vedere al posto del faro spento che per millenni aveva guidato il cammino degli Avi (la Stella Polare) il Cigno celeste che letteralmente «volava giù» da una zona dov’erano concentrate quasi tutte le creature alate del planetario. Tranne il corvo.

Risale a questo periodo l’idea che lassù potesse trovarsi il «nido» delle anime? A causa di tale credenza molti sciamani «misero le ali» e aggiunsero il piumaggio al loro abbigliamento, diventando così uomini-uccello? In Siberia, nella Valle di Angara, gli archeologi hanno ritrovato un gran numero di ciondoli di avorio di mammuth, vecchi cioè di svariate migliaia di anni, ognuno modellato sotto forma di un cigno in volo con un’elaborata incisione della testa e del collo, le ali mozzate e un foro sulla coda che fungeva da apertura per il laccio con cui sistemarlo attorno al collo.

La funzione di quei talismani era probabilmente quella di ricordare all’uomo che li indossava da dove era venuto e dove sarebbe andato. Simboleggiavano il «luogo della creazione», cioè lo spazio cosmico dove gli Spiriti s’incarnavano prima di scendere sulla Terra e si disincarnavano dopo la morte fisica del corpo. Dal Cigno l’anima prendeva forma, al Cigno l’anima faceva ritorno.

Nel continente americano a fare le veci del Cigno c’era la «costellazione della Zampa d’Uccello». Un asterismo legato sia alla Stella del Mattino che alla Via Lattea e considerato anch’esso una specie di autostrada celeste a due corsie in una delle quali scendevano le anime dei nascituri che stavano per incarnarsi sulla Terra mentre nell’altra salivano i morti che, sotto forma di uccelli, tornavano alla base di partenza.

Persino gli egiziani dinastici, che notoriamente non furono dei campioni di astronomia, scrissero nei Testi delle Piramidi (2.200 a.C. circa) che le anime accedevano all’Aldilà, il Sekhet-Aaru, letteralmente i «campi di canne», dopo essere divenuti akh, cioè «spiriti gloriosi», «stelle imperiture», «stelle indistruttibili», «le grandi stelle nel cielo del Nord», e la meta era raggiungibile salendo una «scala» invisibile in quanto spirituale.

Nell’Egeo la credenza giunse in Età Classica insieme ai Pelasgi, chiamati «Cigni», una stirpe alquanto misteriosa indicata come «la madre» dei troiani (detentori dei segreti del Fuoco), nonché l’ispiratrice della dama dei cigni, Nemesi, o Leda a secondo del mito.

In Italia un rapporto speciale legò i Pelasgi agli antichi Liguri, i quali sarebbero stati i primi indigeni dell’Italia centro-settentrionale, nonché gli «italiani» più influenti dei tempi remoti. Ancora nel VII secolo a.C., elencando i popoli più rappresentativi della sua epoca, Esiodo citava (oltre naturalmente ai Greci) gli Sciti a nord, gli Etiopi a sud e i Liguri ad ovest. Resti di mura pelasgiche sono state rinvenute in Valle Argentina, tra Taggia e Triora, come a San Giorgio, un antico «castelliere» ligure che fu poi campo romano e saraceno. Tutti luoghi in cui si praticava probabilmente il culto del Cigno introdotto dai Pelasgi.

Narra un mito ripreso in seguito da Esiodo, da Ovidio e da Virgilio nel decimo libro dell’Eneide, che Fetonte, figlio del Sole, volle guidare il carro del padre ma non possedendo la necessaria esperienza salì troppo in alto e precipitò nelle acque del Po. Il re dei liguri, Cicno, parente di Fetonte, fu tanto sconvolto da quella tragedia che ne morì, venendo quindi trasformato in cigno. L’inaspettato trapasso impressionò enormemente le sorelle di Fetonte, le quali, a furia di piangere, divennero pioppi e le loro lacrime solidificandosi formarono gocce di ambra.

Il racconto potrebbe essere il retaggio di un fatto realmente accaduto: colpiti da un cataclisma che interruppe in qualche modo il regolare transito del sole, i Liguri perdettero prematuramente il loro re, al quale ne subentrò un altro portatore del nordico emblema (l’ambra) del cigno, forse un pelasgo. A quanto pare neppure i Cigni comprendevano più fino in fondo la complessità di una conoscenza maturata migliaia di anni prima, e nel tentativo di conservare almeno un barlume di memoria dovettero condire i suoi derivati in salsa epica.

Mentre noi moderni ci siamo buttati sul favoloso. Non paghi di affermare che i defunti “volano via” senza avere la più pallida idea di ciò che stiamo dicendo, raccontiamo ai nostri cuccioli la leggenda della cicogna bianca che porta i bambini tenendoli col becco in un fagottino che poi cala nei comignoli delle case. Qualcuno penserà anche che si tratti di una trovata di Walt Disney, ma quella dolce cicogna in realtà è un cigno. Lo rivelano culture meno contaminate della nostra, come ad esempio quelle del Baltico, presso le quali non si parla di «cicogne» bensì di «cigni-spedizionieri» che recapitano i neonati a domicilio.

Da radici tradizionali di ordine astronomico germogliò dunque l’idea di «scala delle anime» di cui il Cristianesimo fu l’ultimo fruitore. Giacobbe sogna una scala su cui gli Angeli vanno e vengono in un sali/scendi spirituale che unisce il Cielo alla Terra. Sotto l’aspetto simbolico non ci sono contraddizioni, né differenze tra il concetto di «scala» e quello di «strada» in quanto entrambe le vie permettono lo spostamento ideale da un punto all’altro di un percorso.

Su e giù. Dentro e fuori dal «buco» formato da Deneb nel centro della Via Lattea. Anticamente transitavano per quel «varco», o fenditura, non solo le anime degli umani nati e morti ma anche i Grandi Spiriti che abitavano nell’ultramondo, i quali scendevano sulla Terra a piacimento calandosi lungo l’asse celeste (un palo sciamanico in piena regola) formato dalla Croce del Nord.

Con un occhio al benessere fisico della persona gli yogi indiani ipotizzarono invece l’esistenza nel corpo umano di un ascensore psicospirituale, la kundalini-shakti, che risalendo il canale energetico principale (lo sushumna) lungo la spina dorsale arrivava fin sulla cima della testa (sahasrara chakra), dove si fondeva con Shiva. Mentre oggi l’unica «scala» che sembra interessare alla gente è quella sociale, non essendo più lo scopo di ogni singola vita l’evoluzione spirituale e personale dell’individuo ma la speranza di diventare Qualcuno in tempi brevi, possibilmente facendo soldi a palate.

Il tutto con beneficio d’inventario, s’intende, perché anche chi aspira a vivere nel lusso più sfrenato spera poi che al momento opportuno la sua anima “voli via” per fare ritorno a casa. Segno evidente che il pensiero tradizionale è radicato nella nostra cultura, e dentro di noi, più di quanto ognuno sia disposto ad ammettere.

Nonostante oggi vada di moda dubitare del passato, criticare ogni idea pregressa, mettere davanti a tutto Sua Santità la Scienza, che ha sempre ragione, anche quando sbaglia. E’ difficile di questi tempi toccare temi tradizionali quali la credenza antica nell’esistenza di un «passaggio spirituale» nella Fenditura del Cigno, o l’abitudine dei Sabei di Harran di dormire con la testa posizionata a Sud per fare buoni sogni e maturare idee sagge, in modo da alzarsi l’indomani nella posizione corretta: il Nord, la direzione della Creazione, fonte di luce (spirituale) e di potere.

Può darsi che i predecessori fossero degli ingenui mentre l’attuale umanità sia più realista del re. Tutto è possibile. Compresa l’esistenza di un uomo precedente capace di percepire l’unità del cosmo quale accordo armonico delle sfere celesti. Fatto sta che i fasci impetuosi di Cygnus X-3, una stella della Costellazione del Cigno collassata all’incirca 40.000 anni fa, continuano imperterriti a colpire il nostro pianeta. E non stiamo parlando di una stellina qualsiasi ma di una delle sorgenti più luminose di raggi gamma ad alta energia della galassia. Una causa tra le più potenti in quanto a emissione di raggi X e di onde radio su una «stella massiccia» in possesso di una massa che è dieci volte quella del sole.

Neanche un miracolo potrebbe permettere a una radiazione cosmica di questa portata di colpire la Terra senza provocare conseguenze sulla vita dei terrestri, che sono in primo luogo «corpi elettrici» la cui «tensione» è strettamente legata al magnetismo circostante. Quali ripercussioni dobbiamo dunque aspettarci? La DMT, o «molecola dello Spirito», ne viene potenziata? L’accesso alla «coscienza espansa» è facilitato?

Questi fasci luminosi viaggiano a una velocità prossima a quella della luce insieme a incredibili energie cinetiche la cui complessità strutturale è ancora al vaglio degli studiosi, che per il momento si limitano a dire che «il profilo dei Cygnet non corrisponde ad alcuna particella conosciuta». Non è chiaro come riescano a penetrare nella roccia terrestre, nonostante i 30.000 anni luce di lontananza, né perché si manifestino al suo interno sotto forma di «lampi di luce».

Effetti ottici di questo tipo crearono nel sottosuolo i misteriosi «portatori della luce della conoscenza» incontrati dagli sciamani paleolitici? Sulla scia di ricordi ancestrali i monaci ortodossi del Monte Athos continuano a calarsi nelle caverne sotterranee per ricevere «il dono della luce di dio»?

Posseduti dalla smania di chiarire tutto, come se ciò fosse possibile, noi moderni ci siamo premurati solo di mettere nero su bianco che i fasci di luci di plasma indipendenti non scaturiscono da alcuna fonte ultraterrena, per cui non ci sono «scale» da salire o scendere. Fa specie tuttavia che essi provengano da un’area visibile, altro particolare degno di nota, in cui vivono i nostri gemelli Kepler-452b e Kepler-186f. Due esopianeti che si trovano entrambi nella costellazione del Cigno e orbitano attorno al loro Sole nella cosiddetta zona abitabile, in quella regione cioè che si trova alla giusta distanza perché un pianeta in movimento attorno a una stella possa avere acqua liquida sulla sua superficie, e quindi, potenzialmente, ospitare la vita.

A noi sedicenti padroni della Terra, nonché aspiranti coloni del Sistema Solare, costa parecchio dover ammettere di essere «piovuti» su questo pianeta da chissà quale galassia sotto forma di particelle organiche elementari che le forze elettriche presenti nell’Universo hanno fatto viaggiare attraverso lo spazio. Ma così stanno le cose, a quanto pare. Ne consegue che un’infinità di risposte covano ancora sotto la cenere in attesa che l’uomo risvegliato della prossima Era trovi il coraggio di voltarsi indietro e riaccenda le domande giuste.

Rita Remagnino

Riflessioni sulla vita noetica – Marco Calzoli

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Il termine “idea” deriva dal greco con il senso di “forma”. Le nostre idee hanno la caratteristica di costituire la forma con la quale vediamo il mondo. Senza idee, il mondo costituisce un magma indistinto. Sono le idee che danno al mondo la intellegibilità, l’ordine, la struttura razionale. Ogni persona ha in media 6.200 pensieri al giorno. Spesso sono in sintonia, ma a volte è possibile che creino tra loro disarmonia. Contraddizioni tra ciò che siamo e come appariamo, conflitti di motivazione, fino alla malattia mentale vera e propria. Quando sperimentiamo un disagio interiore i nostri pensieri non sono allineati tra loro ma tendono a divergere, in maniera anche molto contraddittoria. Il compito della psicoterapia è quello di riallacciare le connessioni perdute tra parti di noi stessi e tra noi e il mondo esterno. L’analisi della nostra vita, che possiamo fare anche da soli, serve non solo a curarci ma anche a capire chi siamo veramente. La scoperta di noi non avviene sempre e, quando avviene, è, come diceva Jung, una grazia e allo stesso tempo una maledizione. È una grazia perché diveniamo noi stessi, ma è anche una maledizione perché siamo costretti a isolarci dal gregge al quale apparteniamo. Nei primi anni di vita le connessioni cerebrali vanno incontro a un grande modellamento sulla base dell’esperienza. Ciò struttura il cervello in una maniera unica da persona a persona. Per questo abbiamo tutti idee diverse gli uni dagli altri. Spesso le idee divergenti tra persone si scontrano tra di loro anche in maniera violenta. Nei primi secoli i cristiani erano perseguitati e lo sono ancora oggi. Giustino diceva però che i cristiani sono come un albero: se è potato con il martiro ne crescono nuovi rami, cioè nuovi cristiani. L’Islam è stata una grande piaga in Europa soprattutto nel passato. Spesso lungo la costa tirrenica, ma anche in quella adriatica dell’Italia, ci sono ancora molte torri. Servivano ad avvertire la popolazione dell’arrivo dei turchi, che saccheggiavano e massacravano intere città. Addirittura papa Leone X incontrò per caso a Roma il celebre corsaro ottomano Barbarossa che era sbarcato per perlustrare il territorio in vista di una conquista, ma riuscì a fuggire con il cavallo. Barbarossa poteva rapire il papa ma non lo fece per lasciare l’onore della cosa al sultano in una successiva battaglia. Cristianesimo e Islam costituiscono un chiaro esempio di come le idee sono tra loro divergenti. Non è facile aderire alle idee che si professano e tutti se ne accorgono. Abbiamo dentro di noi un fuoco sacro quando le pensiamo ma è molto difficile essere coerenti con noi stessi. Soprato di Pafo è stato un poeta comico greco vissuto tra IV-III sec. a. C. I suoi frammenti sono tutti tramandati da Ateneo. In uno di essi Soprato voleva mettere alla prova gli stoici e la loro vita dedita alla filosofia, alla filologia e alla pazienza. Mentre arrostiscono nella tortura e ritirano la gamba che sta bruciando, dovrebbero essere venduti perché non conoscono il vero pensiero!

Gli epicurei sostenevano che gli Dei siano impassibili. Contro questa tesi Lattanzio nel De ira Dei espone molte argomentazioni. Come dimostra la Bibbia, il Dio adorato dai cristiani ha dei veri sentimenti di bontà. Ora, secondo Lattanzio, la bontà verso i buoni deve avere un corrispettivo speculare: la giustizia verso i cattivi. Se Dio è buono, è anche giusto. In 6, 1 Lattanzio afferma: “Siccome Dio è mosso dalla benevolenza, è necessario che sia oggetto all’ira”, consequens esse ut irascatur deus, quoniam gratia commovetur. In questa tesi “è riposta l’intera essenza della religione e della pietà”, summa omnis et cardo religionis pietatisque versatur. Tuttavia oggi il cristianesimo e le varie religioni tendono a rinnegare il passato ed apparire più concilianti, come quando alcune religioni nel passato perseguitarono i jainisti indiani, considerati fanatici, ma oggi sembra che li lascino in pace. Anche se ci sono a volte alcuni punti in comune tra le varie religioni. Basilio Magno (Omelia I sull’Esamerone) scriveva che Dio “creò” per intendere che la sua opera creatrice non finiva con solo questo mondo. E curiosamente anche l’Islam ha una visione simile, che compare molte volte nel Corano, a cominciare dalla sura 1,1: “Lode a Allah, Signore degli universi”, rabbi l-‘ālamīna. Essere coerenti con noi stessi è una cosa molto difficile perché il mondo delle idee di rado coincide con quello della realtà materiale. La materia, la ricchezza e gli svaghi ci allontanano dai tesori interiori. Per questo Jung diceva che niente ci isola di più del potere e del prestigio. Finiamo con lo smarrire la rotta, perdiamo la nostra anima, non siamo più noi stessi. Le idee tuttavia servono per vivere. Per esempio le leggi nascono dal mondo delle idee e servono per farci vivere in pace e in libertà. Cicerone (Pro Cluentio 53. 156): “Siamo schiavi delle leggi per poter essere liberi”, legum … omnes servi sumus ut liberi esse possimus. I cabalisti insegnano che le risposte sono sempre a portata di mano, ma noi non siamo disposti a riceverle. Le idee vere, quelle che ci guidano nella vita, sono intuizioni sempre presenti in noi, ma non vogliamo vederle. Abbiamo una voce interiore che ci guida sempre, che gli orientali chiamano Osservatore e gli occidentali Coscienza morale. Spesso le idee coincidono tra loro, è in buona sostanza il fenomeno della intersoggettività. Nelle varie culture si parla sempre, nell’uomo, di livello corporeo, livello mentale, livello spirituale. La mente è individuale, invece lo spirito ci apre a dimensioni collettive, transpersonali e divine. La cultura norrena presenta questa terminologia:

 
  1. Corpo: Mott, Megin, Ond;
  2. Mente: Odr, Hugin, Munin;
  3. Spirito: Hamr, Lett, Orlog, Hamingja.
 

La nostra anima sta a metà tra la materia e il mondo non materiale. Da una parte abbiamo facoltà mentali che nascono dalla materia, dall’altra facoltà spirituali incorruttibili che ci avvicinano agli angeli. Sul versante dello spirito sta la libertas selectionis, la libertà di scelta tra bene e male, che, al di là delle contingenze e delle opinioni fugaci, è il giudizio che noi facciamo del mondo nella sua essenza. Galilei scriveva spesso che la mente di Dio ha creato il mondo che ci circonda, quindi la mente umana, fatta a somiglianza di quella del Creatore, può conoscere il mondo. Oggi i filosofi della scienza sostengono che l’uomo può conoscere con la propria mente solo la realtà materiale. Ciò che oltrepassa la materia va oltre la mente razionale e può essere intuito solo dallo spirito. Le persone hanno una conoscenza intuitiva di Dio, che non è razionale, ma spirituale. “Consideriamo fuor di dubbio che gli uomini abbiano in sé, per naturale sentimento, una percezione della divinità. Infatti, Dio ha impresso in tutti una conoscenza di sé stesso, di cui rinnova il ricordo, quasi a goccia a goccia”.[1] Conosciamo la matematica in un modo (con la mente razionale), ma intuiamo Dio in un altro modo (con lo spirito). È la stessa differenza tra il fare un’equazione matematica e lo scrivere una poesia. Per fare un’equazione ragioniamo, per scrivere una poesia sentiamo e trasferiamo a parole quello che abbiamo sentito. Per questo si dice che nella poesia c’è l’Assoluto, quel “succo” o in sanscrito rasa dei pensatori indiani, gustando il quale è possibile addirittura raggiungere il nirvāṇa. Cosa che rende tale una vera opera poetica? L’indiano Mammaṭa rispondeva così: Il suono e il senso uniti, senza errori, dotati di virtù, con o talora senza ornamenti. Si dice che l’emozione estetica (rasa) abbia luogo nello spettatore (rasika) attraverso l’azione di questi elementi:

 
  1. Elementi determinanti (vibhāra): l’intreccio narrativo, il tema, e così via;
  2. Elementi conseguenti (anubhāva): manifestazioni intenzionali di sentimenti come gesti o tono della voce;
  3. Stati emotivi (bhāva): che appartengono ai personaggi teatrali oppure della poesia;
  4. Emozioni involontarie (sattvabhāva)[2].
 

Alberto Magno osservava alla fine del suo De unitate intellectus: l’anima “in sé è incorruttibile e permanente, sebbene sia corruttibile secondo l’essere di alcune delle sue facoltà”, secundum se est incorruptibilis et permanens, licet secundum esse quarundam potentiarum sit corruptibilis. Detto in altri termini, secondo lo stoico Diogene di Babilonia (fr. DB 30 von Arnim), l’anima deriva sia dal nutrimento del corpo sia dallo spirito. La filosofia indiana distingue una parte imperitura della nostra anima, detta ātman e che coincide con Dio (Brahman), e una parte che passa, transeunte, che scomparirà con il finire della illusione materiale. Anche Agostino dice che, confronto a Dio, tutte le cose “non sono” (Confessioni XI, 4: nec sunt). Il filosofo indiano Gautama (Nyāya Sūtra III, 2, 24) riconosceva che esistono anche alcune qualità transeunti dell’anima che però è imperitura, quindi esistono delle conoscenze che subiscono un processo di distruzione, come un suono viene distrutto da un altro suono. Ciò che è nel mondo non è ciò che è sacro e quindi appartiene ad un altro mondo. Nei trattati sui rituali vedici loke, “nel mondo”, si distingue da kratau, “relativo alla cerimonia sacrificale”. Nei Veda il composto lokāloka compare una sola volta e per indicare la contrapposizione tra ciò che è nel mondo e ciò che non lo è[3]. Ātman è talmente diverso dal mondo che è la Beatitudine stessa. “La Beatitudine è fatta di tutte le sue possibilità, si potrebbe dire che ne sia la somma stessa”[4]. In India il primo modo per parlare del Brahman è di intenderlo come la parola dei Veda. I Veda sono veri perché parlano degli dei e dei riti. Il dio non può esistere senza il sacrificio. Il sacrificio acquista verità solo se si pronuncia l’esatto nome del dio. Gli dei non sono veri in quanto tali: l’efficacia del sacrificio e la realtà degli dei è data da una energia che promana dal sacrificio stesso, dalla sua esatta esecuzione e dai nomi giusti. Tale è la dottrina della scuola detta Pūrvamīmāṃsā[5]. Kauṣītaki-Brahmaṇa VI, 11: “Ci sono due piste del sacrificio: l’una è percorsa dalla parola, l’altra dal mentale”. La parola è costituita dai nomi degli dei e dalle formule, invece il mentale dagli atti, intesi come viventi nella mente dell’officiante. Quindi la totalità del sacrificio è formata da parola e silenzio[6]. Secondo altre concezioni indiane, gli dei esistono veramente. Quindi si ottengono benefici se con la parola li onoriamo e se con la mente li studiamo regolarmente, come lascia capire il finale del Bhagavata Purana. La parola e lo studio sono ponti mediante i quali la nostra anima si apre al mistero, ai piani superiori, catturando quella luce che è benefica se non vitale.

Per i popoli antichi il sacro non era “mistero” come lo intendiamo noi oggi, ma era l’essenza del reale, l’ordine cosmico, che tuttavia non era completamente palese. Ogni cosa ha un quid di sacro che la rende viva. Su questo sfondo in cui tutto è sacro, ci sono persone o momenti che esprimono maggiormente il sacro, ed è per esempio il sacerdote nella antica religione greca. “Egli ricorda il rapporto personale che il dio ebbe con gli uomini in questo luogo, alimenta tale rapporto attraverso il sacrificio, in una sorta di agape; egli fa dell’atto di grazia eccezionale (che risale all’evento mitico) qualcosa di eterno e indimenticabile, mantiene viva la memoria della divinità riguardo a ciò che essa a quel tempo promise”[7]. Tutto è quindi concatenato assieme e ogni parte dell’universo si regge mediante innumerevoli rapporti reciproci. Nell’Atharva-Veda (XI, 4, 21) ci sono queste parole:

  ekaṃ padaṃ not khidati salilad dhaṃsa uccaran yad anga sa tam utkhiden naivadya na svaḥ syāt na ratrī nahaḥ syān na vy ucchet kada cana.  

“Il cigno, levandosi in volo, non estrae il suo unico piede dall’acqua. Se egli appunto lo estraesse, non ci potrebbe essere né l’oggi né il domani; non ci sarebbe né la notte né il giorno; non sorgerebbe mai l’aurora”. Nel Vijñānabhairava (XXXIII) è scritto: “Per colui che mediti come … la realtà di tutto questo, sin nelle sue infime parti e in ogni dove, sia sempre Śiva, si realizza il grande risveglio”. “Secondo la mitologia hindu l’universo non ha sostanza. La materia, la vita, il pensiero non sono che relazioni energetiche, ritmo, movimento e attrazione reciproca. Il principio che dà origine ai mondi, alle varie forme dell’essere, può dunque essere concepito come un principio armonico e ritmico, simboleggiato dal ritmo dei tamburi, dai movimenti della danza. In quanto principio creatore, Śiva non profferisce il mondo, lo danza”[8]. Anche la mentalità dei primitivi vede uno stesso principio, mana, presente in tutti gli esseri e in tutti gli oggetti. Uomini, animali e piante vivono e muoiono e le pietre partecipano a questa vita come le ossa del corpo partecipano alla vita dell’organismo[9]. Tutto ha un denominatore comune: il divino, il Brahman. Per questo chi ha nella mente solo il Brahman ha tutto e non può avere alcun timore di alcunché. Gauḍapāda (Āganaśāstra I 25):

  yuñjīta praṇave cetaḥ praṇavo brahma nirbhayaṃ praṇave nityayuktasya na brayaṃ vidyate kvacit.

“Bisogna volgere la mente sul suono significante (OM) perché esso è il Brahman, nel quale non c’è timore. E non c’è alcun timore per colui che è sempre concentrato su di esso”. Presso alcune culture il centro di tutto era la stella Sirio. Essa aveva uno strano comportamento astronomico: estremamente regolare. Alla base di questo fenomeno astronomico, che gli antichi ben conoscevano, la stella Sirio o Sothis o Stella Cane era considerata una divinità potentissima e gerarca rispetto alle altre. Aveva anche connotati metafisici. Era il vero perno di tutto l’universo[10]. Per questo motivo tutti i popoli parlano del sacro e degli dei. Solo la modernità è atea o agnostica nel senso che noi oggi intendiamo. E sempre per questo motivo le storie antiche sembrano ripetersi in un continuo sincretismo. Per esempio il racconto della creazione della Genesi è posteriore alla stesura del canone dei pianeti, dei giorni e degli dei. Infatti, Dio prima crea la luce, poi divide le acque, quindi crea i pascoli e dopo i corpi celesti. È strano questo ordine, ma si giustifica pensando che i primi quattro dei-pianeti dell’antichità sono: Sole (che governa la luce), Luna (governa le acque), Marte (i pascoli), Mercurio (dio degli astri)[11]. Il canone dei pianeti è semitico ma non ebraico, poi fu mutuato anche dai Greci.

  NOTE [1] G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, vol. 1, Torino 2009. [2] A. K. Coomaraswamy, La danza di Śiva, Milano 2011. [3] C. Malamoud, La danza delle pietre, Milano 2005. [4] R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Milano 1992. [5] C. Malamoud, Cuocere il mondo. Rito e pensiero nell’India antica, Milano 1994. [6] C. Malamoud, Femminilità della parola. Miti e simboli dell’India antica, Roma 2008. [7] F. Nietzsche, Il servizio divino dei Greci, Milano 2012. [8] A. Daniélou, Śiva e Dioniso. La religione della natura e dell’eros, Roma 1980. [9] L. Lévy-Bruhl, L’anima primitiva, Torino 2013. [10] G. de Santillana, H. von Dechend, Sirio, Milano 2020. [11] R. Graves, La Dea Bianca. Grammatica storica del mito poetico, Milano 1992.   Marco Calzoli

Dal focolare al focolaio – Rita Remagnino

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Platone chiamava gli dèi theoí, da theîn, «correre», ritenendoli il frutto di un tempo remoto in cui la divinità s’identificava con «il sole e la luna e la terra e gli astri e il cielo», elementi perennemente in moto. Come i popoli indoeuropei impegnati nella conquista dell’Eurasia, che non a caso scelsero di farsi rappresentare e proteggere dal re degli astri: il sole. Una potenza imbattibile e aggressiva, luminosa e incandescente, protettiva e pericolosa al tempo stesso, sublime incarnazione del legame naturale fra il mondo «sensibile» e il mondo «sovrasensibile».

Virtualmente la sua luce attiva, dinamica e legata al quotidiano grazie alla presenza del fuoco, era l’ideale per riorientare una società umana che sembrava avere perso la bussola. Puntando in primo luogo sul concetto di «casa», da intendersi non più soltanto sotto forma di edificio di pietra o di legno in cui si cercava riparo dall’azione esercitata dagli agenti atmosferici ma piuttosto come «focolare», sede privilegiata del clan famigliare.

Attorno a quest’idea la cultura indoeuropea organizzò l'intera mitologia di Agni, la divinità vedica (forse introdotta in India dai popoli Arii) da cui partì la più antica manifestazione religiosa del brahmanesimo. Emanazione del focolare domestico in cui vegliava in continuazione come luce perpetua nelle tenebre della notte Agni era il «testimone» al quale nulla poteva essere nascosto, il garante dei giuramenti, il mediatore del Sacro che raccoglieva offerte e suppliche indirizzando le preghiere.

Ciò non significa che i nostri antenati fossero dei «primitivi» adoratori di un Elemento, ossia di un fenomeno naturale. Il fuoco perenne da essi custodito nei luoghi di culto, o alimentato nel focolare domestico, non era l’elemento igneo in quanto tale bensì il simbolo e la manifestazione dell'eterno potere di dio, della forza della vita sulla morte, della luce dell'intelligenza che annientava la tenebrosa ignoranza.

Dal centro della casa il Signore del Focolare alimentava l'intuizione intellettuale che elevava lo Spirito permettendo all’«illuminato» di conoscere qualcosa della divinità suprema, o, talora, di sentirne il richiamo. Sotto questo aspetto egli era la coscienza che vigilava dal cuore-tabernacolo di ciascuno e in veste giudicante non poteva essere sempre buona, né cattiva. Un principio che tradotto in parole povere suona così: ti proteggo, ma occhio a come ti comporti!

Traspare dalle immagini che ritraggono Agni la «doppiezza del giusto», protettivo ma severo come un buon padre di famiglia. Sotto i capelli fiammeggianti ci sono infatti due teste, una mano stringe un ventaglio che sventolando alimenta le fiamme e l’altra tiene il cucchiaio sacrificale. Lingue, gambe e braccia variano da 3 a 7, i numeri sacri degli Arii. Talvolta lo si vede accompagnato da un ariete, un richiamo all’inizio dell’anno indù, che comincia quando il Sole entra in Ariete, ma anche un riferimento all’Età dell’Ariete (4.380 - 2.220 a.C. circa), l’epoca in cui probabilmente si sviluppò questo culto.

Per dirla in breve Agni era «uno di casa», sebbene i popoli indoeuropei intrattenessero con tutti i loro dèi, e non solo con questo, un rapporto familiare ed intimo, quasi «affettivo», scevro da sentimenti di terrore, incomprensione od oppressione. Il devoto si rivolgeva ad essi con un tono confidenziale, usando una lingua che comprendeva i diminutivi e le lusinghe, parlava con ognuno come si fa con una qualsiasi persona autorevole, con un venerando antenato, o con un importante fondatore di clan e lignaggi. Se doveva rimproverare al dio qualcosa lo faceva senza peli sulla lingua. L’essere soprannaturale non lo intimidiva.

Un po’ come il Don Camillo dei romanzi di Giovannino Guareschi, che parlava con Gesù sulla croce quasi fosse un rispettabile conoscente, non lesinandogli musi e ripicche. Quel dio così umano era uno che s’interessava di tutto e di tutti, di un famigliare ammalato come della moria delle vacche, rassegnandosi persino ad essere sostituito dalla «tavola calda» modello Lercaro e relegato in un angolo, vicino alla porta, in modo che i parrocchiani gli voltassero le spalle.

 Allo stesso modo di Purusha che all’inizio dei tempi era stato Prajapati, il «padre di tutte le creature», le divinità indoeuropee furono i «padri», gli «antenati», i legislatori, gl’inventori della nuova tradizione sociale basata sulla stirpe che all’insegna del fuoco spirituale riordinò la società eurasiatica dopo millenni di matriarcato e di famiglie allargate in cui la madre era sempre certa mentre sul padre si poteva discutere.

Nel mondo cosiddetto «patriarcale» di quei giorni lontani la cura dei congiunti e di coloro ai quali si era uniti da vincoli di sangue stava in cima alla scala delle priorità. Nell’ordine venivano poi le persone meritevoli, gli appartenenti alla stessa stirpe, gli stranieri. Grosso modo era questa la «gerarchia dell’amore» vigente nella società indoeuropea. Un tema ripreso in seguito da Tommaso d'Aquino, il quale dirà (Summa teologica, II-II, q.26) che il più amato in assoluto deve essere dio, in secondo luogo l’uomo è tenuto ad amare sé stesso, poi viene l’Altro più prossimo ed infine il proprio corpo.

Il rispetto di questo «ordine della carità secondo natura» era di fatto il riconoscimento della presenza del divino sopra ogni cosa e dell’indiscutibilità della famiglia. Il Creatore aveva fatto in modo che l’uomo amasse dio, sé stesso, i famigliari, i simili e da ultimo lo sconosciuto. Pensavano la stessa cosa Dostoevskij e Leopardi, sottolineando che l’amore astratto per l’umanità era un chiaro sintomo di distacco e indifferenza nei confronti del prossimo.

Chi meglio di noi può saperlo e confermarlo. Tutti conosciamo qualcuno che promuove a parole l’accoglienza indiscriminata di chiunque voglia entrare nel suo paese ma ignora che il vicino della porta accanto giace morto in casa da una settimana. Una contraddizione nella quale l’antenato indoeuropeo non sarebbe mai caduto, dato che per lui la stirpe famigliare e i parenti più prossimi stavano alla base di tutto, anche della guerra. Ogni uomo e ogni dio esistevano in quanto «figli di …» e la loro vita acquistava valore quando era il risultato di parecchie generazioni. Meglio ancora se di un certo lignaggio, frutto magari di una lunga discendenza.

Esisteva nella visione del mondo dei popoli che gettarono le basi della nostra civiltà un concetto poi clamorosamente dimenticato dalla cultura occidentale: essendo per natura un «animale socievole» l’uomo non esiste come «unità monade», ma nasce e cresce solo all’interno di una famiglia che allargandosi diventa comunità. A loro volta le varie comunità si definiscono attraverso una costellazione più o meno grande di genius loci che formando un contesto ecocentrico di tradizioni sorelle si esprime in una rete territoriale ben riconoscibile.

Riassumendo: senso di appartenenza, famiglia, patria, tradizione. Valori capovolti dalla società caotica dell’Età Oscura, ultimamente impegnata nell’opera di trasformazione del sacro focolare domestico in «pericoloso focolaio». C’è sempre di mezzo il fuoco, con la differenza che le nuove fiamme infettano anziché purificare. I bambini contagiano i genitori, che contagiano i nonni, che poi muoiono. Un’aura sospettosa avvolge la «casa», ultimo baluardo della civiltà, mentre la sostanza ignea si confonde con correnti più grossolane.

Annichiliti dalla paura molti individui già carenti di testosterone perdono la capacità di ragionare. Tra consanguinei ci si guarda in cagnesco. Aumentano ansie e insicurezze, frustrazioni e depressioni, con somma soddisfazione delle case farmaceutiche che sentitamente ringraziano la loro buona stella. Nel contempo spadroneggia la narrazione della Tecnocrazia dominante amplificata da un mainstream mediatico ossessivo e martellante. Attenzione cari cittadini del mondo, la famiglia non è più un luogo sicuro! Solo le istituzioni lavorano per il vostro bene. Al momento non ci sono risultati apprezzabili per quanto riguarda sanità, trasporti, edilizia abitativa, urbanistica, lavoro, infrastrutture e così via, ma vi promettiamo che domani andrà meglio.

Il popolo comprende le ragioni del pubblico alle prese con una «realtà complessa», come si dice oggi per giustificare la propria inadeguatezza, non dimostrandosi altrettanto indulgente verso il privato, considerato la causa di ogni male. Chiude il cerchio la tipica accettazione democratica dei nati nel Novecento, disposta a minimizzare soprusi e atti di gratuita brutalità che avvengono quotidianamente nelle strade per dare risalto alle sporadiche «violenze in famiglia».

Era prevedibile che dopo dio dovesse morire la famiglia, da decenni bersaglio dell’occhiuta intellighenzia di sinistra. Un tempo cuore della società e sede obbligata della celebrazione del Sacro questa struttura naturale e primordiale ha perso colpi anche a causa di un cristianesimo male interpretato (ed infine degenerato) che ha materializzato l’idea di un sistema patriarcale creato appositamente per sopraffare e schiacciare la donna.

Per carità, abusi in ambito famigliare ce ne sono stati eccome. Ma questo non autorizza a ignorare il ruolo di prim’ordine rivestito dalla donna nelle grandi civiltà del passato. Non esisteva nella mentalità degli Antichi la predominanza di un genere su di un altro ma semmai l’aspirazione spirituale a ricomporre l’androginia originaria.

Argomenti ostici per l’umanità dell’Età Oscura, incapace di comprendere persino il senso di una struttura elementare come quella basata sulla famiglia, oggi nel mirino del potere massonico-finanziario che controlla l’economia, i governi, l’informazione pubblica, la tecnologia, la scuola e l’ambiente. Non c’è dubbio che l’inaspettata (?) comparsa della pandemia da Covid-19 rappresenti la sua grande occasione. Adesso o mai più.

Finalmente la galassia progressista può gridare all’universo che il focolare domestico è come la corazzata Potëmkin del ragionier Ugo Fantozzi, oltre che un ente anacronistico da archiviare. Nessuno di questi tempi può rimanere fedele alla propria famiglia troppo a lungo. Gli impegni esterni non si contano, come gli spostamenti e i trasferimenti, l’allontanamento di giovani e vecchi dal proprio focolare è diventato pertanto necessario.

Cosa avrebbero dovuto fare, allora, i «custodi del focolare» che ri-disegnarono la civiltà in Eurasia? Riusciamo a immaginare le condizioni-limite in cui maturò il mito di Agni e si diffuse il suo culto? Pensiamo che le narrazioni tradizionali si divertissero a disegnare allegorie raccontando che il Signore del Focolare non temeva di mettersi in viaggio insieme ai suoi fedeli, giovani e vecchi, quando un popolo era costretto a trasferirsi altrove?

Questa è cronaca, non mitologia. Intorno a 7mila anni fa la pressione del mare fece cedere la diga del Bosforo, spingendo molte genti verso la Pianura Gangetica, e circa 5.600 anni fa il Mediterraneo si riversò nel Mar Nero, facendo alzare il Golfo Persico di tre metri. Gli spostamenti causati da forza maggiore (e che forza!) erano all’ordine del giorno, eppure non c’era stirpe in fuga che dimenticasse di portarsi dietro la «brace di famiglia», né di alimentarla con cura durante tutto il tragitto.

Una volta che il gruppo giungeva poi a destinazione chi di dovere, cioè il Padre, costruiva per prima cosa il Focolare in cui si deponeva ritualmente il «fuoco dinastico» e solo in un secondo momento il clan procedeva alla costruzione della casa vera e propria destinata ad alloggiare la famiglia. Si comportavano nello stesso modo i Navaho e altre tribù nomadi di nativi americani (per via della comune eredità ricevuta dai primi civilizzatori scesi dall’Artico?), i quali abbinavano la costruzione della capanna all'accensione del primo fuoco.

La sequenza non variava se al posto del capofamiglia c’era un re che doveva trasferire il suo popolo in un altro luogo. Il «regno» era in fondo una grande «casa» con a capo un re-padre i cui sudditi erano i figli. Non appena il sovrano prendeva possesso delle nuove terre conquistate egli fondava pertanto il «fuoco nuovo», figlio del «fuoco nazionale», e solo dopo questa cerimonia ufficializzava l'acquisizione di una provincia.

Sacralità del «focolare» era sinonimo di unità. Rappresentava lo spirito della famiglia, del gruppo, della stirpe. È incredibile che un passo dopo l’altro si sia arrivati all’accettazione passiva di precetti disgreganti quali “tenete la mascherina anche in casa” (non parlate), “eliminate le principali occasioni di socialità” (evitate amici e parenti), “combattete le aggregazioni superflue” (quelle tra esseri umani).

Si sta realizzando il sogno dei «padroni e filantropi» impegnati nella creazione di una nuova antropologia sociale, cioè nella «sostituzione emotiva» del focolare domestico con Stati e Mercati, virtualmente predisposti a soddisfare la maggior parte dei bisogni materiali dell’uomo.

Inutile dire che il fine ultimo di queste entità irreali non è la crescita di ogni singolo famigliare-persona, come lo era per il buon padre di famiglia, bensì la messa a punto di una massa indistinta di consumatori. Fate le vostre scelte e sposate chi vi pare, è la direttiva diffusa a reti unificate. Comportatevi come vi piace, anche se gli altri vi guardano storto. Toglietevi tutte le voglie, fa niente se dovrete pagare debiti per tutta la vita. Sotto forma di assistenza (reddito minimo garantito) penseremo noi, Stato e Mercato, a prenderci cura di voi. Vi forniremo cibo, riparo, istruzione, salute, assicurazione e protezione, proprio come una mamma e un papà.

Peccato solo che questi surrogati siano incapaci di creare legami forti. Il massimo che possono fare è promuovere «comunità immaginate» che per un periodo limitato nel tempo conterranno milioni di estranei uniformati alle esigenze commerciali dell’impero globale. E poi? Qualcuno ha idea di cosa avverrà dopo il crollo del castello di carte?

L’uomo può dirsi felice solo quando è inserito in un gruppo coeso e solidale di cui si sente parte. La comunità vive in interiore homine, per dirla con Agostino. Soli soletti si rimane al palo, che è per l’appunto il luogo in cui ci troviamo adesso, continuamente divorati dal desiderio di qualcosa che manca ma non si riesce a identificare. Mentre i nostri antenati dopo aver dotato la «casa comune» delle travi portanti (dio, famiglia, patria) non nutrivano desideri particolari, aspettandosi dal futuro solo il proprio Destino. Se hai un motivo valido per vivere puoi sopportare praticamente ogni cosa, scrisse Nietzsche, ma se non ce l’hai il tuo travaglio sarà terribile, per quanto confortevole la tua esistenza materiale possa essere.

E’ ipotizzabile dunque che prima o poi l’antico ritorni in una forma diversa ma sempre uguale nella sostanza. Già oggi i manifestanti che affollano le piazze d’Europa stanno chiedendo più famiglia e più lavoro, cioè maggiore cura del «focolare domestico» (tutela di bambini e anziani) e libertà d’impresa. Per il momento c’è solo una protesta generica contro l’imposizione di misure liberticide e l’instaurazione di una dittatura sanitaria. Mancano elementi per parlare di reali prospettive antimoderne. Ma le richieste sono chiare e rivendicano affetti, cultura, diritti, tradizioni, ideali.

Può darsi che la meta sia ancora lontana, o forse no. È possibile che costituzioni più attente verso l’ordine naturale, come ad esempio quella russa promulgata il 3 luglio 2020, abbiano infine la meglio sul pensiero unico mondiale. Chissà. Di sicuro la Storia è una spirale che conosce flussi e riflussi, balzi in avanti e ristagni, intervallati ogni tanto da clamorosi scivoloni o imprevedibili salti di qualità. Inspiegabilmente nel suo «farsi» la macina del tempo produce continue analogie e similitudini, corrispondenze e somiglianze. Non ci sarebbe nulla di strano se l’uomo di domani ri-scoprisse che essere conservatori non significa dipendere da ciò che è stato ieri, ma vivere ciò che è eterno.

Rita Remagnino  

Il simbolismo dell’Albero – Massimo De Magistris

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“Io so che esiste un frassino chiamato Yggdrasil, un alto albero, bagnato di bianca brina; di là derivano le rugiade che cadono nelle valli e sempre verde sta presso la fonte di Urdh”

 

In questo testo dell’Edda, raccolta di mitologia norrena, il Cosmo è visto in forma di Albero gigantesco. Questa immagine, come a fondo ha rilevato Mircea Eliade, trova numerosi paralleli in diverse tradizioni culturali e religiose; infatti si possono incontrare alberi sacri, riti o simboli di natura vegetale nella storia di innumerevoli tradizioni di molti paesi anche senza che questi abbiano sperimentato una qualsivoglia forma di contatto. È ricca l’iconografia, l’arte popolare, la metafisica e la mistica arcaica di ogni latitudine di questo imponente elemento naturale che da sempre ha suscitato nell’uomo stupore e ammirazione. Suggestive, ad esempio di tale atteggiamento, le note parole di Seneca al suo Lucilio:

Se si presenterà al tuo sguardo un bosco folto di vecchi alberi, più alti dell’ordinario, i cui fitti rami, coll’intrecciarsi gli uni agli altri, tolgono la vista del cielo, l’altezza di quella foresta, il mistero del luogo, lo spettacolo impressionante dell’ombra così densa e continua in mezzo alla libera campagna, ti assicureranno della presenza di un dio” (Lettere a Lucilio, 41).

Ma che funzione ha l’Albero, la vegetazione o un simbolo vegetale nell’economia di una tradizione? Cosa rivela di particolare e cosa vuole significare? Affidandosi alla Sapienza che ha animato il sentire di popoli anche molto differenti tra loro, è effettivamente riscontrabile un accostamento saldo tra l’Albero e un significato di natura cultuale. In molte culture l’Albero rappresenta un microcosmo compiuto, in altre è icona del Cosmo stesso nella sua interezza (come l’esempio riportato nell'Edda), in altre ancora rimanda al simbolismo della vita, della fecondità del Reale oppure alla fonte dell’immortalità. Non ultimo e particolarmente diffuso è il rinvio al Centro del Mondo, pilastro dell’Universo o simbolo della resurrezione continua della vegetazione, della stagione primaverile o della rigenerazione stessa dell’uomo. È evidente la ricchezza di significati che l’Albero richiama, in particolare la ciclica rinascita del Cosmo che apparentemente, ciclicamente, sembra sfiorire e morire, ma poi prontamente si risveglia e rigenera in una continuità senza interruzione di fasi crescenti e decrescenti. Per la mentalità arcaica non esiste natura senza simbolo che la richiami: l’Albero, nello specifico, non è mai venerato in quanto tale, quale che sia la sua tipologia o quale sia la cultura che ne pratichi il culto, ma sempre e solamente per quello che “rivela” di altro: superando ciò che manifesta, l’Albero diventa così oggetto religioso, carico ontologicamente di forze sacre. È, infatti, verticale, cresce, perde il fogliame e lo recupera rigenerandosi (potremmo dire che muore-risorge ciclicamente); gli antichi non potevano rimanere indifferenti o ciechi di fronte a questa realtà a cui hanno subito attribuito un carattere metaforico-simbolico. Infatti, la contemplazione delle pure funzioni biologiche e naturali della vegetazione, ad un occhio “attento” rivelava un valore mistico, perché in esse si ritrovavano le operazioni stesse dell’intero Cosmo. Per la coscienza religiosa di moltissimi popoli, va ribadito, l’Albero è l’Universo stesso: lo ripete e lo riassume mentre lo simboleggia.

Ragionando in prospettiva globale, potremmo dire che se il Tutto esiste all’interno di ciascun frammento è perché ogni frammento ripete in sé il Tutto. L’Albero si inserisce in quest’ottica: come riflesso del Tutto (il Cosmo), ripete in sé l’andamento del Tutto. Come elemento che si rigenera periodicamente, manifesta la potenza sacra nell’ordine della Vita, che opera incessantemente e ovunque. Un’interessante rappresentazione di questo concetto ci perviene dalla cultura indiana. Nelle Upanişad, l’Universo intero è proprio un Albero rovesciato che affonda le sue radici nel Cielo e stende i suoi rami sulla Terra intera (Rgveda 1,24,7). Rappresenta la manifestazione del Brahman Assoluto nel Cosmo, in cui il Tutto attinge l’Essere dall’Uno/Spirito, sprofondando in esso allegoricamente le radici. Senza tale linfa, nulla sarebbe e nulla sussisterebbe. O meglio: laddove questa Origine fosse dimenticata o non conosciuta, ogni vita sarebbe solamente illusione e alienazione, frammentazione e separazione dall’organicità del Tutto.

Il che significa: sarebbe Nulla. Analogamente, nella Bhagavad-gita, l’Albero cosmico richiama anche la condizione dell’uomo nel mondo: anche qui l’uomo non si può pensare distaccato dal Cosmo, ma come sua manifestazione, come epifania dell’Unico Brahman. La separazione dalla vita del Tutto è quindi impensabile. Certamente questa prospettiva si riverbera anche in tradizioni successive. Ad esempio nel discorso che nel vangelo di Giovanni Gesù rivolge ai suoi discepoli viene usata proprio la stessa analogia “vegetale”: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 4-6).

Per concludere questo breve itinerario alla ricerca di una comprensione più complessa della realtà, possiamo affermare che Nulla esiste separato dall’Albero; fuori dalla Vita, nulla può sussistere.

Fonte copertina: Wikipedia
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