Quantcast
Channel: Tradizione Archivi - EreticaMente
Viewing all 537 articles
Browse latest View live

Orlando Furioso (e iniziato): Donà e la filosofia di Ariosto – Giovanni Sessa

$
0
0

Massimo Donà, filosofo veneziano, prosegue nella costruzione del proprio sistema speculativo. Tracciate, ormai da anni, le coordinate generali di una filosofia magico-poietica, che si realizza in un fare (non è casuale che Donà sia, tra le altre cose, un trombettista jazz), nell’ultimo periodo il pensatore le sta applicando all’esegesi di opere del passato, in cui rintraccia consonanze e prossimità alla propria visione delle cose. L’ultimo suo volume orientato in tale direzione è, Di qua, di là. Ariosto e la filosofia dell’Orlando furioso, edito da La Nave di Teseo (pp. 198, euro 14,00). L’autore, more solito, sottrae il capolavoro ariostesco alle consolidate consuetudini esegetiche. A suo dire, l’Orlando è molto più che un poema cavalleresco, in quanto: «Ariosto è tutto nei suoi personaggi, in cui vede riflessa l’impietosa verità del mondo» (p. 12). La lezione del poeta italiano ha agito su Shakespeare, Cervantes e Calderon de la Barca, in quanto centrata sulla convinzione che: «altro non v’è al mondo che un’incessante manifestazione di una sempre identica e lucida follia» (p. 13). Il capolavoro dell’artista emiliano presenta, in alcuni suoi motivi, l’evidente anticipazione di tematiche care al Barocco, pur avendo un antecedente significativo nel Somnium di Leon Battista Alberti, breve Intercenale in cui si narra del paese dei sogni. L’intero volume di Donà è latore di una interpretazione né rassicurante, né armonica del Rinascimento; al contrario, la Rinascenza è letta, in sintonia con Garin e Cacciari, quale essenziale riemersione del tragico. Per Ariosto, l’esperienza della follia trova precipua espressione nella passione amorosa. Il pensiero del poeta, pertanto, deve esser letto in opposizione a Spinoza, in quanto mostra che il mondo è attraversato da forze non normabili. Il principio è: «potenza esplosiva che di ogni ordine costituisce […] una sorta di originaria condizione di impossibilità» (p. 17). Principio gratuito, insensato, che sta al fondo di tutte le cose così come delle simmetrie disegnate dalle diverse forme di conoscenza. Le metafore dell’Ariosto, come l’intero Orlando, sono latrici di un’agnizione del principio inteso come «l’assolutamente lontano» dal positivo darsi del mondo, espressioni del nulla. Per tale ragione, il contatto con il reale innesca nei protagonisti delle ottave dell’Ariosto reazioni disparate. I personaggi sono animati da un’irrefrenabile inquietudo, indotta dalla vicinanza al caos dell’origine: nel mondo ariostesco tutto nega di essere quel che è. L’amore, ricorda Donà, è ritenuto passione atta a renderci compiuti, in realtà, anche in tale stato emotivo sperimentiamo, come mostrano i protagonisti delle mirabolanti e magiche vicende del poema, il limite che frena la realizzazione del nostro desiderare. Preso atto del limite, ne intuiamo, comunque, la possibile superabilità. Con Ariosto, Donà sostiene essere la nostra imperfezione a renderci in-finiti, a costringerci ad una interrogazione e a un percorso di vita aporetici.

Siamo vocati all’incompiutezza, non possiamo raggiungere: «l’altro totale che sempre bramiamo, ma che sempre ci destinerà a fare i conti con un nuovo limite» (p. 21). Per tale motivo le vicende narrate non si concludono e i personaggi sono continuamente depistati. Il vero protagonista del Furioso è l’errante che: «finisce per perdere, prima che la direzione o la meta, prima che l’altro […] sempre e innanzitutto se medesimo» (p. 124). Nel nomadismo erratico delle nostre vite, nessuna ratio ci può tutelare: «l’intrascendibile orizzontalità dei percorsi […] è tale da farci ripetere i medesimi errori» (p. 105). Orlando, dopo la furia, farà ritorno alla grotta in cui tutto aveva preso avvio. L’unico bene a nostra disposizione è la libertà che, per definizione, non può essere entificata, oggettivata, né resa guadagnabile. Nell’esegesi dell’opera messa in atto da Donà, risultano dirimenti, i canti XXIII e il successivo, non casualmente posti a metà dei complessivi 46 che costituiscono il poema. Le due parti, inoltre, contengono due sottosezioni, le vicende inerenti il Palazzo di Atlante e il Mondo della luna. Il primo evoca: «le metafore del fantasma e dell’illusione vitale […] (l’altra) una scettica riflessione sulla vanità del desiderare» (p. 122). In esse, Ariosto disegna uno spazio mobile, un’atmosfera equivoca dove vero e falso si confondono perché il poeta mostra di aver contezza che l’altro non è davvero altro da me e nessun io è identico a se stesso, in quanto agito da forze pulsionali incontrollabili.

E’possibile così comprendere che la follia di Orlando, esplosa per la rivelazione fatta dal pastore al paladino in merito all’amore di Medoro e Angelica, altro non è se non l’estremizzazione del tessuto narrativo dell’opera ma, al medesimo tempo, ne rappresenta il rovesciamento. La follia consente ad Orlando di rinascere a nuova vita, di: «lasciarsi alle spalle un’esistenza […] incapace di riconoscere nel mondo il grande simbolo di qualcosa che forse il mondo stesso propriamente non è» (p. 73). Nelle azioni da questi compiute durante la follia, è possibile rinvenire consonanze con pratiche iniziatiche dei guerrieri antichi. Pratiche magiche, legate al bisogno degli uomini di: «farsi altri da sé» (p. 77), atte ad indurre un rapporto con l’angoscia esistenziale che, alla fine di un iter di solitudine e di confronto con il momento terrifico del reale, consente il suo attraversamento e superamento. La furia di Orlando è trascrizione poetica di ciò che sarà l’eroico furore bruniano: è necessario morire come esseri umani finiti, sperimentanti l’impotenza nei confronti del mondo e unirsi realmente al tutto, sotto forma di potenza ferina. La condizione animale conseguita dal cavaliere, in tre successive fasi iniziatiche, è divina: la potestas dionisiaca custodisce in uno, stante la lezione di Colli, la polarità dell’animale e del dio. Orlando è nudo, dice l’Ariosto: la sua nudità è espressione esteriore dell’aver fatto il vuoto dentro di sé, che ha consentito all’io di integrarsi nel Sé.

Altro motivo centrale dell’Orlando, è il seguente: «nulla di quel che sulla terra vien perduto, è mai realmente perduto» (p. 157). Infatti, sulla terra, dove vige una conoscenza meramente distintiva degli essenti, rimane sempre e solamente la follia, mentre la luna ci mostra, come si evince dall’avventura di Astolfo, il vero volto delle cose, smascherando gli inganni della positività. Il Palazzo di Atlante mette, al contrario, in scacco, la vanità del desiderio. I personaggi non riescono ad uscire dalle sue stanze, in quanto non riconoscono il confine che separa quel luogo appartato dall’esterno. Il giungervi è evento. Quanti abbiano la ventura di avervi accesso possono solo a tratti esser visti o uditi. Essi paiono quelli che noi abbiamo conosciuto prima dell’ingresso nel castello incantato, ma non è così. Hanno perso, come le produzioni d’arte, il tratto della strumentalità e dell’utilizzabilità. La voce di Angelica nel palazzo, come quella degli altri protagonisti del narrato, sono dunque: «espressioni di ni-ente» (p. 187). I personaggi nel palazzo di Atlante mostrano di aver acquisito l’indifferenza di cui nel Novecento ha detto Marcel Duchamp: non vivono più il mondo come altro-da-sé. Tale il lascito di Ariosto, artista e mago.

Giovanni Sessa


Sull’Arcano dell’Urbe – Luca Valentini

$
0
0

Ma ora Apollo Grineo e gli oracoli della Licia mi ordinano di raggiungere la grande Italia; questo il desiderio, questa la Patria” (1)

Domani si celebrerà il 2773° Natale di Roma, MMDCCLXXIII A.U.C, e le consuete manifestazioni pubbliche di tante associazioni che negli anni passati hanno reso omaggio alla nascita di quella che serenamente possiamo definire essere stata la più grande civiltà della storia, per potenza militare, per profondità religiosa, per potestà del proprio ordinamento giuridico, per bellezza del patrimonio artistico e civile, quest’anno non potranno aver luogo per le limitazioni conseguenti alla quarantena imposta a seguito della pandemica da Covid-19. Qualcuno si è ingegnato, come i fraterni amici dell’Associazione Tradizionale Pietas, coordinata dall’archeologo Giuseppe Barbera, e domani pomeriggio alle ore 16 tramite i canali facebook e youtube si svolgerà una videoconferenza – a cui è stata cortesemente invitata la nostra persona, quale relatore, e la Redazione tutta di Ereticamente – sul tema affascinante della tradizione gentilizia ai giorni d’oggi. Ma le ristrettezze di movimento, pur bypassata tramite un uso intelligente della tecnologia, offrono allo studioso ed all’appassionato di materie inerenti le dimensioni dello Spirito un’opportunità imperdibile, quella di ricanalizzare la propria visione del Sacro verso una direzione centripeta e non centrifuga, e, nel caso di specie, di ritrovare il fondamento sapienziale dell’Aeternitas Romae nella sua essenza atemporale, poco legata al culto della polvere, delle ceneri e del stantio cerimonialismo. Tale data fu fissata da Varrone su indicazione di Lucio Taruzio, astrologo di estrazione pitagorica (2), che in verità indicò la data anteriore del 9 Aprile, in cui si sarebbe verificata un’eclisse di Sole. L’ambito essenziale della Romanità deve, pertanto, essere assolutamente espunto da una dimensione temporale o storicistica, ma essere assunta sub specie interioritatis, in un’ottica di perennità trascendente e simbolica del dato empirico o archeologico. D’altronde, lo stesso Tito Livio con la famosa espressione

Non ho intenzione né di confermare né di respingere quelle leggende precedenti la fondazione - o il progetto della fondazione - di Roma, più consone ai discorsi dei poeti che a resoconti affidabili di fatti realmente accaduti”(3),

altro non volle esprimere l’impossibilità di consegnare il tramando tradizionale romano ad una sterile ambivalenza tra catalogazione temporale e annichilimento mitico o fantastico. L’animo profondo e ancora vivente di tale tradizione, allora, può essere ricollegato a due visuali, che non si negano vicendevolmente, ma che si completano organicamente. In primis, vi è quanto espresso da Julius Evola (4), secondo cui la civiltà romana, sorta in piena età oscura quale forma eroica di restaurazione primordiale, raggiunse il proprio apice nella costituzione di uno Stato e nella personalità del suo primo Imperator, Augusto, in cui si rimanifestò ontologicamente l’autorità spirituale di Apollo – Sole, cioè l’idea di un’ecumene universale:

una fides superiore, legata appunto al principio sovrannaturale incarnato dall’Imperatore o dal <<genio>> dell’Imperatore e simboleggiato altresì dalla Victoria come quell’ente mistico, rivolgendosi alla cui statua il Senato giurava fedeltà”.

Quanto, poi, tale universalità sia assolutamente differente dal moderno globalismo di ispirazione cristiana e liberale si evince da preziose pagine di Arturo Reghini dedicate proprio all’universalità romana ed a quella cattolica:

Bisogna assolutamente che anche in Occidente esista ed abbia socialmente il suo posto una vera gerarchia spirituale, esperta nelle scienze sacre; altrimenti invece di civiltà occidentale si dovrebbe parlare di barbarie” (5).

Vi è, inoltre, l’interpretazione filosofica, che tramite il “De re publica” di Cicerone ci conduce direttamente alla concezione platonica dello Stato, intendendo l’intera storia di Roma come una manifestazione tangibile dell’Olimpo realizzatosi sul piano fisico, un’incarnazione vera e propria del principio uranico, che andrebbe a farci interpretare ancora con più consapevolezza le successive parole di Tito Livio:

Sia concessa questa scusa all’antichità, di rendere, mescolando le vicende umane a quelle degli dei, più sacri gli inizi delle città; e se a qualche popolo è giusto concedere di rendere sacre le proprie origini e di rimandare agli dei come capostipiti, il popolo romano ha una tale gloria di guerra che, innalzando il potentissimo Marte a padre suo e del suo fondatore, i popoli della terra sopportano pazientemente anche questa convinzione tanto quanto ne sopportano il dominio “ (6).

L’Aeternitas Romae, pertanto, può essere intesa come l’espressione di una visione del mondo non crepuscolare, una schietta, libera e magica adesione virile ad una filosofia delle vette, quelle interne, quelle interiori, che si realizza concependo l’aggettivo “romano” non come una determinazione di una forma storica o pseudo-religiosa, ma come una qualità dello spirito, anche come una scelta di campo attuale, nel presente, nella vita quotidiana e nell’educazione dei propri figli. L’idea di Roma è l’idea che il suo Natale possa essere vissuto ritualmente, cioè riattualizzato in attualità e cogenza, ogni giorno, ad ogni nuova alba che si consacra e si saluta, una libera adesione ad una spiritualità afferente alla Tradizione eroica e primordiale, che sappia rendere perennemente attuale una visione che non appartiene al tempo, non appartiene, per assurdo, neanche agli Dei, ma è di esclusiva pertinenza di coloro che tramite la lotta sotto le insegne di Marte ed il Sacro, sotto la tutela di Giano e Minerva, possano essere Uomini che vivono e muoiono come Dei, come l’Aquila Mithriaca che sola può guardare fissa il Sole, secondo tre principi fondamentali: quello del Fas/Jus, il diritto sacrale romano, quello della Pietas, quale predisposizione di calma e di dignitosa venerazione verso i Numi, e quello della Salus, la salute pubblica quale virtù sacralizzante e venerata come una Divinità.

Tutto ciò è stato già realizzato, è stato già simbolicamente indicato. Non casuale, infatti, è la doppia interpretazione che si assegna al Sulcus Primigenius, quadrato o circolare, ma come ci indicano attenti studiosi come Kerenyi (La religione antica nelle sue linee fondamentali), Casalino (Il nome segreto di Roma) e Baistrocchi (Arcana Urbis), quadrato e circolare allo stesso tempo, quadrato come il solco segnato da Romolo, circolare come l’aedes di Vesta, vero centro dell’Urbe, secondo le ultime scoperte archeologiche di Andrea Carandini (Il Fuoco Sacro di Roma). L’unione dei due simboli è, quindi, il mandala orientale, ermeticamente la famosa “quadratura del cerchio”, la fissazione, la realizzazione in terra della dimensione sovrasensibile, la manifestazione degli Dei nella storia, Roma come Città degli Dei, la tradizione romana quale viatico sapienziale per la rimanifestazione del Nume dentro di sé, così come prescritto dall’Oracolo di Delfi, lo stesso oracolo che consentì a Marco Furio Camillo, “secondo fondatore di Roma”, di conquistare Veio, dopo un prodigio sul lago di Albano. Si palesa la concezione misterica dello specchio, della realtà fenomenica quale riflesso anagogico della realtà numenica, in cui Simboli, Deità, la stessa Storia sono gli strumenti dell’Arte, gli alambicchi dell’Opera che intende risvegliare uno stato di coscienza preciso, appunto quello del “Romano”, quale Ente che si incarna in una maieutica di stabilità interiore, di catarsi, di Vittoria:

Con potenza vi comando al cospetto di questo sole, per Giove altitonante e per tutti gli altri Dei che puniranno la vostra infingardaggine e il vostro indugio. Credete che gli Dei non si curino di questo? Ecco le lettere sacre agli Dei...Queste sono le cerimonie con cui crediamo di poter mutare le leggi stesse della natura..." (7) .

Il Natale di Roma possiamo allora concepirlo non come una mera data commemorativa di un passato seppur glorioso, ma un luogo dell’anima appartenente a quell’ “illo tempore”, di cui ha scritto spesso un Eliade, in cui il tempo cede il passo all’Eterno, la storia alla Metafisica, in cui è doveroso saper ritrovare il Centro:

Romolo o, meglio Romo, come giustamente lo chiama Ignis con arcaica etimologia, è l’esponente supremo di questo destino di stirpe, di questa forza: la folgore che sprizza dall’addensarsi delle nubi gravide di incoercibili forze“ (8).

La forza evocata marzialmente, arietina nel suo senso altamente alchimico e trasfigurante, accolta e ridestata tramite la Venus che da Genetrix diviene Victrix, si sintetizza nella Sapienza dei Numi Vetusti, così come espressa nella linea iniziatica occidentale dell’ermetismo italico e napoletano, in quella Deità, Minerva, in cui la Mens, l’Intelligenza di Giove ha, sola, la potestà di agire attivamente sul mondo e sugli uomini, secondo una celebre indicazione virgiliana: ”Mens agitat molem” (9). Si dovrebbe indagare con maggiore profondità, a tal proposito, quanto esposto da Cicerone sull’esistenza di ben 5 differenti rappresentazioni mitiche del dio Mercurio (10), che non solo possono far tornare alla mente la connessione tra tale Nume e l’ambito dei Misteri sia eleusini sia egizi, essendo lo stesso Arpinate a connetterlo con Persefone e con Toth, ma anche alla multiformità del Mercurio dei Filosofi, come espressione della seminazione gioviana ed alchimica del Cosmo. L'idea della sua eternità si assume come continuo superamento del limite naturalistico da cui sorse, è l’espansione ab aeterno del Limes, come ci rammenta l’antropologo Maurizio Bettini (11), divenendo l’Urbs Orbs, la Citta Mondo, Roma Idea Universale Imperitura: è lo sviluppo palingenetico dei Numi Arcani dell'Urbe, che anagogicamente si identificano per ascesa all'Uno del Tutto, che è la Potenza inespressa prima di Giove, prima di Giano, il cerchio universo di Luce che è Axis Mundi nel Pantheon. Roma, quindi, è Libertà, nel suo senso più altamente metafisico, cioè realizzativo. Roma, quindi, non è superstizione, non è ignoranza, non è ipertrofia dell'ego, è, al contrario, la costante pratica della Modestia, la "Occulta Urbe … del buon senso e della Verità”  di Giuliano Kremmerz (12). Roma è Virtù ed Etica. Roma è Vittoria ermetica e trasmutazione del Ferro in Oro. Roma è, infine, secondo l’insegnamento di Elio Aristide, un’entità spirituale che la retorica, l’eloquio non possono che sminuire nella sua radicale essenza, nella vivente perennità:

Cantando le lodi dell’Urbe, oggi e sempre, tutti sminuiscono più che se tacessero, perché col silenzio non la si può far diventare né maggiore né minore di quella che è, e la conoscenza ne resta inalterata, mentre i discorsi raggiungono lo scopo contrario di quello prefisso: con tutte le loro lodi, non riescono a dare un’idea adeguata di quello che ammirano” (13).

Note: 1 - Virgilio, Eneide, IV, 345 – 347; 2 - Plutarco, Vite Parallele, Romolo, 12 - 2; 3 – Tito Livio, praefatio di “Ab Urbe condita”, I, 7; 4 – Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, parte seconda, 9 capitolo, sezione b “il ciclo romano”; 5 – Arturo Reghini, Tradizione Romana e Scuola Italia, a cura dell’Associazione culturale IGNIS, Crotone 2006, p. 105ss; 6 – Tito Livio, op. cit., I, 8; 7 - Giordano Bruno, Cantus Circaeus, N 193, Opere Mnemotecniche; 8 – Fabrizio Giorgio, Roma Renovata Resurgat, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2011, vol. II, p. 368; 9 – Virgilio, Eneide, VI, 727; 10 – Cicerone, De Natura Deorum, III, 56 11 – Maurizio Bettini – William M. Short, Con i Romani, un’antropologia della cultura antica, Edizioni Il Mulino, Bologna 2014, p. 101ss; 12 - Giuliano Kremmerz, I Dialoghi sull’Ermetismo, in La Scienza dei Magi, vol. III, Edizioni Mediterranee, Roma 2001, p. 66; 13 – Elio Aristide, In Gloria di Roma, Edizioni Roma 1940, p. 65.   Luca Valentini

La leggenda di Roma in Giustiniano Lebano – Dana Lloyd Thomas

$
0
0

Ricorrenze come il 21 aprile rappresentano l’occasione per tante riflessioni. Vista la natura straordinaria dei tempi in cui viviamo, tralasciamo i pur affascinanti connotati di tale celebrazione in materia di liturgia politica, per passare agli aspetti più profondi. Qualcuno si chiederà: viviamo in un mondo ipertecnologico, non sarà cosa desueta parlare di Romolo e Remo, di Nume tutelare, di Natura e di Salute come valore spirituale e non comemero processo meccanicistico? La risposta è decisamente No. Anche dal momento in cui l’organizzazione delle società umane, come si è sviluppata fino ad oggi, ha trovato nella superbia e nell’ipercomplessità il suo tallone di Achille.

- Tutela dei luoghi fisici e sottili Con il Natale di Roma si celebra la fondazione Romulea dell’Urbe, ed è la festa della dea Pale, che tutela la Natura, gli allevamenti e il bestiame; i versi su Pale nel IV libro dei Fasti di Ovidio evocano un magico mondo, arcaico e bucolico, ma pur sempre presente. Romolo è una figura marziale, collegato ad un Marte che tutela i campi contro i pericoli; quindi in assoluta sintonia con la figura femminile Pale. Dal punto di vista esteriore, giova osservare come, ancora oggi, nel territorio della Città di Roma e più in generale del Lazio, vi siano produzioni agricole importanti, a differenza di molte “città metropolitane” in altri Paesi (1). Il 28 aprile, poi, arrivano i Ludi Florealis per celebrare la natura gioiosa della Primavera. Il culto delle divinità tutelare del luogo e delle messi talvolta resiste, in qualche modo, nell’Italia provinciale e rurale, nella forma dei Santi Patroni. La tradizione tibetana vivente ha conservato invece un articolato sistema per ricollegare il regno dell’uomo con quello, in genere invisibile ma potentissimo, dei signori della terra, dell’acqua e dell’aria (2). Tale tradizione presenta sicuramente risvolti di grande interesse anche da noi.

Intanto gli eventi richiedono un intervento “gentile”; non occorre chiedere il permesso a nessuno per andare a porre un fiore, oppure ad offrire una coppa di acqua fresca per esprimere la propria gratitudine alla Terra che ci da il sostentamento, nonché le stesse sostanze di cui è fatto il nostro corpo. La tutela della Terra si ricollega alla tutela della salute: nella tradizione la salute si articola in più elementi che sono quegli stessi che compongono l’universo. Pale, secondo Ovidio, protegge non solo i campi ma anche la salute di uomini e greggi, che dovevano vivere in armonia, aspetto che richiama simili riferimenti nelle preghiere tibetane agli esseri del mondo intermedio che talvolta dimorano in luoghi tangibili ben precisi.

- Tutela dei luoghi metafisici Le celebrazioni fondative presentano l’occasione per tornare all’originario impulso, all’avviamento di un percorso; nel caso di Roma, come in tutte le civiltà sacrali, la percezione di tali energie ci arriva solo in forma allegorica e frammentata, e occorre rivolgersi alla “religio”, per “rilegare” questi lampi di luce. Com’è noto, della Roma Prisca sappiamo ben poco: già ai tempi dell’Impero, quella fase si raccontava come un’epopea non solo arcaica ma anche arcana. Ciò perché la fondazione è un atto di intenzionalità, spiegato successivamente nel linguaggio del mito. Per citare un’analogia agricola, nel seme dell’intenzione, si nasconde il fiore intero, il frutto e i fiori della nuova stagione. I lettori di queste righe sanno bene che il mondo bucolico cantato da Virgilio, da Properzio, da Ovidio non è solo un nostalgico richiamo ad un’epoca apparentemente più semplice rispetto alla complessità della vita dell’Urbe storica, ed alla sua fase espansiva, politica e culturale, nel mondo. Il richiamo è piuttosto all’essenzialità del rapporto tra il mondo delle apparenze e quello sottile; un rapporto che non è tuttavia “semplice” per coloro i quali, guardando le espressioni “statiche”, letterarie ed archeologiche della sapienza romana, enon sempreriescono a districarsi tra racconti apparentemente incomplete e contraddittorie.

Crediamo di trovare in Giustiniano Lebano uno dei sommi interpreti della Roma arcaica come realtà “dinamica”; egli aveva capito bene la necessità di non fermarsi all’aspetto esteriore del mito, quella della “greta favola” della Lupa che poppava i Gemelli trovatelli che poi divennero due capitribù, grezzi e litigiosi; l’unico aspetto possibile secondo i “grammatici”, di ieri e di oggi (3), esecrati da Domenico Bocchini nel Geronta Sebezio. Secondo questo approccio, è impossibile scindere tra l’esame dell’aspetto palese ed esteriore e l’indagine del “mondo occulto” (4).

Per la fortuna di noi posteri, Lebano ha aperto qualche squarcio su questi misteri nella Leggenda di Roma (5), “simbolo dell’Ara Arcana” richiamato da Platone nel Cratile, una sfera in cui si comunicava “tramite caratteri, e raggi telegrafici di Luce”. Romolo e Remo non sono affatto singoli individui ma due Caste. Romolo è la Reggia di Giove, il Senato Superiore: “Quivi erano i Numi Imperanti che disponevano la somma del Governo Romuleo”. Il Senato Minore, di importanza non inferiore, detto Remo “perché guidava la Barca della Repubblica”; esso risiedeva nell’Antro Bovario, “il quale stando nel Tenebrore veniva dalla Fantasmagoria illuminato nella Specola Sovrana”. E si prosegue con altre considerazioni ancora.

Che cosa sono le “fantasmagorie” e i “raggi di Luce” nelle dinamiche dell’Ara Arcana lebaniana? Saranno forse quello che si potrebbero chiamare, con un linguaggio aggiornato, il governo del mondo materiale e sottile attraverso l’intenzionalità alla quale è possibile attingere nel mondo delle cause, per compiere opere, in conformità col divino, nel “tenebrore” della vita terrena? Quale sarebbe invece il destino di chi, entrato nell’arcano, si azzardasse a compiere atti “titanici” contro la legge divina?

Noi rispondiamo: “La Spada della Giustizia punisce i Giganti”.

 

Note:

1) Quell’ipotetico interlocutore potrebbe chiedere, ma che cosa mi dovrebbe importare di campi e di bestiame? In realtà basterà guardarsi intorno: si corre già da oggi verso la riorganizzazione del mercato alimentare, al livello mondiale e le nazioni stanno riscoprendo all’improvviso che assicurarsi l’approvvigionamento alimentare il più autonomo possibile non è più uno sfizio ma una necessità; argomento che vale anche dal punto di vista delle energie sottili, visto che ogni luogo della terra possiede una carica magnetica diversa che accomuna abitanti e colture. 2) Per un raro intervento comparato tra Tibetologia e Romanologia, cfr. Sandro Consolato, “Gter-ma tibetani e “cose fatali” romane, “La Cittadella”, nuova serie, numero 06, aprile-giugno 2002. 3) Si veda la recente interpretazione cinematografica. 4) Desta meraviglia la persistenza dello scientismo materialistico ottocentesco, ampiamente superato dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, tra coloro i quali non credono senza “toccare con mano”, per poi essere i primi a lamentarsi quando, col telefonino, si trovano fuori dal campo dei raggi... invisibili. 5) La Leggenda di Roma, in “Politica Romana”, 8/2008-2009.

  Dana Lloyd Thomas

What is actually The IP Address – Pick the IP Address

$
0
0
There ought to be an selection for changing the account email, future to the electronic mail deal with. I would like to modify my latest password. What ought to I do?Please log into your account and simply click ‘Update Info’ which is located at the best remaining hand corner, in the ‘Account Menu’ box. There […]

test

Per una metafisica dell’umiliazione: la via della mortificazione del Sé nella mistica sufica – Emanuele Franz

$
0
0

E chi vede ancora se stesso come un essere libero e autonomo,

decade allora dal grado di coloro che conoscono la Verità

(Abd al-Rahman Al-Sulami – “La scala di Luce”- Leone verde edizioni 2006 pg. 60)

 

I miei lettori abituali noteranno che la mia ricerca e i miei interessi non si fermano a una o due religioni ma si estendono a tutte, convinto che unire sia innalzarsi. Sono infatti dell’idea che esista una specie di codice racchiuso nei mistici di ogni tempo, un codice perenne e universale e che trascende pertanto i singoli aspetti istituzionali di un determinato culto. Chi divide è simile a colui che non riconosce che tutti i colori vengono dalla medesima Luce. Sull’argomento che qui mi propongo di trattare mi sono già espresso in approfondite ricerche, ad esempio nel mio studio “L’umiliazione come pratica religiosa” ¹ in cui affrontavo il ruolo dell’automortificazione come Simbolo che ha accompagnato svariate pratiche mistiche, dai Miti Greci ai mistici cristiani medioevali fino alle pratiche dello Sivaismo Tantrico. Altrove, nel mio studio sulla “Sottomissione alla donna e ideale cavalleresco” ² ho evidenziato la similitudine di certe pratiche di sottomissione all’ideale femminile della letteratura cavalleresca del IX secolo in Europa con il fiorire in Kashmir del Tantra, quasi che appunto, come ho cercato di evidenziare, in più civiltà e in luoghi distanti emergesse un unico codice sovrastante. Voglio ora ritornare sull’argomento, portando l’analisi a conseguenze ancora più profonde e a partire dalla prospettiva della mistica Islamica.

Dopo aver iniziato a leggere gli scritti di Abu ‘Abd al-Rahman al-Sulami ho avuto delle fortissime emozioni: la scuola Sufi dei Malâmatî, da questo Mistico portata al vertice cristallino della sua espressione, si è sviluppata nel IX secolo a Nishapur nell’attuale Iran. Eterodossa, ai margini dell’Islam tradizionale e dell’Officio di Culto istituzionale, vissuta da una cerchia di uomini dediti a quel principio della “dissimulazione dell’atto interiore” tanto simile, parrebbe quasi identica, a certe sette fiorite nelle scuole del Tantra del Khasmir, si veda ad esempio la più estrema delle sette di sādhu ovvero quella degli Aghori, fondata da Kina Ram, un asceta del XVIII secolo. Essi ricercano l’illuminazione seguendo, tra i comportamenti di Shiva, quelli che sono considerati come i più fuori dalla norma, ovvero suscitando il disprezzo della società comune per essere puri asceti. Non dissimile l’atteggiamento non solo della scuola Sufi Malâmatî, che insegna, a “non frequentare chi mostra piacere in vostra compagnia, propendendo invece per la frequentazione di chi vi disprezza” ³ ma anche a certe squisite vette letterarie dell’amor cortese dei trovadores, sempre del IX secolo nell’Europa del nord dove troviamo un Lancillotto che si copre di pubblico scherno per sublimare nell’estasi amoroso la sua elevazione. Karl Jaspers, definirà come “Periodo assiale” l’epoca intorno al 300 avanti Cristo, che vide una presa di coscienza dell’Essere quasi contemporanea in India, Cina, Palestina, Iran e Grecia. Ebbene qui nel IX secolo, questo io affermo con convinzione inaudita, siamo di fronte a uno snodo universale, una rivoluzione della sensibilità umana che ha portato alla scoperta di quella κένωσις di cui parlava anche San Paolo, ovvero dello svuotamento di sé, e sto parlando di una sorta di “metafisica dell’umiliazione” in cui l’uomo, spogliatosi del suo amor proprio, giunge a Dio attraverso la de-sostanziazione di sé stesso e, in ultima analisi, del mondo.

Il Malâmatî doveva in primo luogo cercare di non discutere con la gente per quello che essi dicevano di lui, né offendersi per essere criticato o disprezzato, ma anzi fare di tutto per attirare il biasimo della gente, senza che tale azione fosse in sé un peccato grave o un’offesa, ma solo un espediente per essere respinto. Quel che sta alla base di tale pratica, da intendersi come una pratica di perfezionamento interiore, e quindi ristretta a un contesto religioso (Ci si guardi bene dal fraintendere tali pratiche o di utilizzarle al di fuori dell’opportuno contesto!) è il non rivelare fuori di sé ciò che è la propria stessa interiorità onde tutelarla dal pericolo, scontato, dell’autocompiacimento.  Al-Sulami riporta il concetto secondo il quale: “Iddio non guarda il vostro aspetto o le vostre azioni, guarda invece i vostri cuori”. C’è, d’altra parte, qualche richiamo analogo pure nei Vangeli, sia nella massima: “non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (Mt 6,3) ma, più inerente ancor alla via del Biasimo Sufi, il noto: “Se uno ti vuole togliere la tunica, tu lasciagli anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne due” (Matteo 5,40-41). Pure in un certo senso questa “dissimulazione dell’atto interiore”, tanto amabilmente delineata dalla mistica islamica, trova tracce del Mito Greco. Si pensi all’espressione di Eschilo, nelle Coefore (903) quando scrive: “Fatti pure nemici tutti gli uomini, ma non gli Dei”. Egualmente Al-Sulami dice dei mistici Sufi che: “La loro realtà esteriore si prodiga per le creature mentre il loro segreto interiore resta preservato per il Vero” (“La scala di Luce” pg.63).

Il concetto di biasimo (malâma) trae la sua origine sostanzialmente da un passaggio coranico in cui viene menzionata “l’anima che biasima se stessa” (al-nafs al-lawwâma) (Cor. 75: 2). Il senso del biasimo allora, nella prospettiva del perfezionamento propria dei Malâmatî, era sia l’esporre sé stessi al biasimo degli altri ma anche oculare uno stato interiore. Al-Sulami è chiaro su questo punto, tanto da dire che: “Coloro che portano il nome di Malâmatî mostrano agli altri ciò che hanno di brutto, e nascondono le cose belle, quindi le genti li riprovano per la loro apparenza” (“I custodi del segreto” pg.23). Il significato profondo di tale pratica, è lo stesso mistico Sufi a dirlo: l’adepto, con la pratica, estingue gradualmente le sue caratteristiche individuali, venendo infine “privato anche di sé stesso”, allo scopo supremo di conoscere l’Altissimo attraverso una logica che ai non iniziati appare paradossale. Scrive infatti Al-Sulami: “La realtà di ogni cosa si realizza per mezzo del suo opposto (…) conoscerai Dio solo tramite la negazione di ciò che non è Lui” poiché “solo quando ci si dimentica di sé stessi si conosce il Signore” (“La scala di Luce” pg.94). Si penetra, pertanto, attraverso questo totale abbandono di sé, a un rilascio completo per penetrare in una dimensione estatica, di pienezza. D’altra parte certi aspetti del misticismo islamico, come abbiamo detto, rientrano a più riprese nelle scuole mistiche di diverse religioni, a prova, più che evidente, che una sola Luce si è manifestata nei Saggi di tutti i tempi.

“Dio ha messo noi apostoli all’ultimo posto, resi spettacolo al mondo (...) soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, insultati, calunniati...siamo divenuti come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti” (1 - Cor4, 9-13). Il precedente passo di San Paolo dalla lettera ai Corinzi è esemplare sul significato dell’umiliazione come pratica religiosa. E il parallelismo con certe pratiche tantriche è d’obbligo, si noti infatti il Tantra quando dice: “Agisca, insomma, dimodo che ottenga il disprezzo. Disprezzato, infatti, il saggio raggiunge la perfezione dell’ascesi” (Pāśupata Sūtra III). Egualmente per il Mistico Sufi l’amor proprio è un velo che ci separa dalla verità. Sempre Al-Sulami informa l’aspirante che: “Fra i vari aspetti dell’educazione spirituale vi è l’umiliazione dell’anima, poiché infatti per onorare più di ogni altra cosa la propria anima si perde interesse per la via spirituale (“La scala di Luce” pg. 79)

Ma pratiche simili si trovano anche in talune vie ascetiche della Chiesa ortodossa russa, in quella che viene chiamata la “stoltezza in Cristo” poiché l’asceta che ne intraprende il cammino è “uno stolto in Cristo”, o “pazzo di Dio”. Gli stolti in Cristo sono asceti o monaci russi che abbandonano la sapienza umana per scegliere la “sapienza del cuore”. Essi si aggirano per le città vestiti di stracci, mortificando il corpo attraverso digiuni e lunghe veglie e dormendo all’aperto.  Anch’essi, come già nei Sadhu indiani, o nei Malâmatî, in certi casi sono anche oggetto di pubblico disprezzo, quest’ultimo talvolta da essi ricercato come ulteriore mezzo di ascesi. Pure, come ripeto, è da scongiurare il pericolo di un facile fraintendimento e di una decontestualizzazione di tali pratiche, essendo del tutto prive di senso qualora espropriate del contesto cui sono sorte, ovvero quello iniziatico, erano infatti pratiche destinate ai pochissimi, poche decine di discepoli, addestrati da anni di pratiche. Parallelismi, d’altronde, con altre usanze mistiche, fioriscono a ogni riga. Quando Al-Sulami scrive che: “le azioni cattive delle persone nei riguardi del discepolo sono da considerarsi buone” e che gli atti di obbedienza vanno condotti nel modo “più puro possibile, ma poi considerati come i più impuri che siano” stiamo scorgendo tecniche iniziatiche già conosciute dai Tantra Buddhisti per superare la dualità mentale di puro-impuro, gusto-disgusto, bello-brutto e così via. Altrove infatti ho trattato l’argomento del “disgusto volontario” nella pratica Tantrica. ʸ Alla stessa stregua del compiere atti disgustosi per arrivare a quella indifferenza del sentire, egualmente la via del Biasimo si propone di giungere a uno stato di quietudine di fronte al turbamento del mondo dei sensi, che è quello dell’apparenza. E la pratica è quella di provocare volontariamente una tensione che metta alla prova l’Ego, e su questo, leggendo Al-Sulami, pare chiaro, quando afferma che: “i Malâmatî scelgono l’opposto di ciò che vuole la loro anima (…) per far cadere la considerazione, la stima e lo sguardo rispettoso del mondo nei loro confronti (…) fino a considerarsi miserabili e umiliarsi.”

E ancora, al livello più alto della loro annichilazione, in cui: “Mostrano agli altri ciò che può farli scadere ai loro occhi, ovvero ciò che genera disprezzo e repulsione e spinge gli altri a respingerli” (“I custodi del segreto” pg.32 e 40). Tale atteggiamento doveva rivelarsi a partire dal livello più basilare della vita del Sufi, dal confondersi fra le gente comune, vestendo con vesti da poco, e perfino nell’alimentazione, infatti: “Essi hanno la pratica di accettare il nutrimento quando in ciò c’è umiliazione” (“I custodi del segreto” pg.33). Sembrerà, agli occhi della sensibilità comune, che queste pratiche siano assurde, del tutto irrazionali, e, non a caso, erano riservate a una ristretta cerchia di uomini dediti ad agire in modo da sconvolgere il loro essere in modo profondo e radicale, certo, in modo “assurdo” agli occhi dei più, come, d’altronde, in moltissime scuole mistiche. Ionesco diceva che è nell’irreale che affondano le radici del reale.

Presumo la maggior parte delle persone cerchi un senso all’assurdo dell’esistenza nella razionalità e nell’ordine, nella regola, nella forma; il problema è che così facendo si determina uno scarto, uno iato, con la natura stessa dell’universo, che, per dirla alla Bergson, presenta un più alto ordine di associazione. In sostanza, capisco sia un arabesco di termini, pure squisito, l’ordine sarebbe incoerente con l’irrazionalità sovrastante. Se salvezza può esserci quindi, è nell’assurdo stesso. Non si può far fronte alla follia se non con la follia stessa, e, nel paradosso, essa diventerà coerenza, quindi, luce nella luce, essa diventerà “Significato”, e questi è riposto in un Essere che trascende la logica umana. Quello che accade alla psiche in una fase estrema come quella del biasimo, o dell’umiliazione estrema, sempre che tale atto sia un atto religioso e non fine a sé stesso, è una sorta di travaso ontologico della psiche dall’In Sé al fuori di sé.  Mi spiego meglio, Jean-Paul Sartre nel suo -L’essere e il nulla- lo avrebbe indubbiamente definito come: “Il tentativo della coscienza di ridursi a nulla, riducendosi a oggetto soffocato dall’abissale soggettività dell’Altro”, soltanto che quello che io voglio qui azzardare è che appunto tale svuotamento non sia soltanto uno svuotamento dell’Io ma anche delle cose del mondo. Il mondo stesso, al limite della mortificazione, viene de-sostanziato agli occhi dell’Iniziato. Come avviene per un vaso di cui si travasa il contenuto, rimanendo vuoto e permettendo quindi che l’Altro entri dentro di Sé, così l’uomo schernito, coperto di ridicolo, superato il limite della vergogna che lo annienta, opera un travaso dell’Io per lasciare soltanto il Vaso. Il contenuto è fuori gioco lasciando soltanto il contenente. Il contenuto, l’Io, principio maschile, si è svuotato lasciando al Vaso (o Atanor degli alchimisti, qui principio femminile) la capacità ricettiva e lunare di accogliere l’Essere intero, non più come forma condizionata, ma come Essere Assoluto.

È la metafisica dell’umiliazione, ovvero sia un processo sovra individuale, oserei dire cosmico, in cui l’Essere rientra in sé stesso, si riappropria di Sé stesso, dopo la sua scissione originaria nell’Io. Al-Sulami racconta di quando il Profeta chiese: “Cos’hai conservato di quel che ti apparteneva?” e la risposta fu: “Iddio l’Altissimo”. In altre parole, dopo aver perduto tutta la rappresentazione mentale di noi stessi attraverso l’umiliazione, dopo aver quindi perduto l’effimero e l’illusorio attraverso la derisione di noi stessi, non può che rimanere, come dice Al-Sulami, “ciò che non perisce, ciò che permane per sempre, poiché Iddio è colui che permane, è Colui che non è mai cessato e non cesserà mai di essere”.

  Note: ¹ https://www.ereticamente.net/2017/07/lumiliazione-come-pratica-religiosa-emanuele-franz.html ² https://www.ereticamente.net/2019/07/sottomissione-alla-donna-e-ideale-cavalleresco-emanuele-franz.html ³ Al-Sulami; “I custodi del segreto”, a cura di G. Sassi, Milano, 1997 pp. 31 ʸ https://www.ereticamente.net/2018/04/lurinoterapia-secondo-i-tantra-emanuele-franz.html Bibliografia: - Abd al-Rahman Al-Sulami “La scala di Luce”- Leone verde edizioni, 2006 - Abd al-Rahman Al-Sulami “I custodi del segreto”, a cura di G. Sassi, Luni Editrice, Milano, 1997 - Pāśupata Sūtra; Boringhieri 1962 a cura di Raniero Gnoli.   Emanuele Franz

Un urlo sulle rovine – Giovanni Sessa

$
0
0

Crisi, per l’europeo moderno, è davvero parola chiave ed irrinunciabile. Da più di un secolo, dal momento in cui Oswald Spengler pubblicò il monumentale, Il tramonto dell’Occidente, siamo null’altro che abitatori della crisi. Da un punto di vista generale, sorvolando sulle numerose concause storiche a monte del processo di decadenza, non si può non concordare con chi ha sostenuto che, in fondo, la crisi altro non è che il risultato del venir meno delle premesse ideologiche dell’Illuminismo. Centrale, in tale progetto ideologico, fu il tentativo di: «subordinare la Natura […] di reimpostare la natura […] sul modello della Ragione». In tale tentativo prometeico era implicita la volontà di modificare, di cambiare la stessa natura umana. Il Cesarismo, auspicato da Spengler quale possibile rimedio all’ineluttabile tramonto dell’Europa, ha segnato di sé la storia e gli uomini nel ventennio tra il 1920 ed il 1945 ma, alla fine del conflitto, la sua sconfitta è risultata irrimediabile. In ogni caso, l’esperienza dei fascismi europei, tentò di mettere in atto, una rettifica dei processi di decadenza, nel senso indicato da Evola nel 1934 in Rivolta, con la tematizzazione del ciclo eroico. Fino ad allora, la letteratura della crisi ed il pensiero negativo si erano mossi tra dicotomie quali quelle di Kultur (Civiltà) e Zivilisation (Civilizzazione), nelle quali, da una parte venivano colti i tratti negativi, massificanti ed economicistici del presente, esperito quale guénoniano Regno della quantità e: «dall’altra il loro opposto positivo […] epoche di civiltà ed epoche di cultura». Tale tendenza, dopo il secondo conflitto mondiale, nei pensatori antimoderni e critici del presente, si esasperò, pur trovando in alcuni di essi potenziali interpreti di un possibile Nuovo Inizio: il loro sguardo sul mondo non era, sic et simpliciter, retroflesso, rivolto al passato, ma mirato a rintracciare, nel presente, energie spirituali e politiche per modificare lo stato delle cose. Ci riferiamo, in particolare, a due libri che si richiamano reciprocamente nei contenuti e nelle titolazioni: Gli uomini e le rovine di Julius Evola e Le scuderie dell’Occidente. Trattato di morale di Jean Cau, che qui introduciamo. Il titolo che abbiamo dato a queste note, Urlo sulle rovine, fu utilizzato dall’autore per un paragrafo di quest’opera.

Ci pare che, per presentare degnamente questo volume al lettore di oggi, e per poterne così rilevare il tratto attuale e profetico, sarebbe sufficiente utilizzare le parole che il Principe Junio Valerio Borghese spese per il libro di Evola: «Lo spirito che anima questa coraggiosa parola rivolta essenzialmente agli uomini - nella loro virilità, nella loro dignità personale e civile, in una parola nell’aspetto superiore del loro essere - troverà largo consenso in tutti coloro che come noi, credono che non di solo pane vive l’uomo, che lo sviluppo e l’affermazione della personalità umana è possibile solo attraverso una visione eroica della vita, che il fattore economico è importante ma non prevalente e tantomeno esclusivo nel fare la vera Storia». Il filosofo tradizionalista dette alle stampe, Gli uomini e le rovine nel 1953, facendo i conti con la fine di un mondo, e rivolgendosi a quanti, nello sconquasso generale indotto dalla sconfitta, erano in grado di «restare in piedi tra le rovine». Cau scrisse il suo libro vent’anni dopo, negli anni Settanta: in quel frangente si manifestò un’accelerazione senza precedenti dei processi dissoltivi che determinarono la nascita di ciò che, in sociologia, è stata chiamata la società liquida e post-moderna. Da allora viviamo permanentemente nello Stato di crisi. Sono venute meno le «certezze» della modernità solida e, a tutta prima, sembrerebbe, come sostenuto da Bauman, sia svanita definitivamente ogni grande narrazione, sia essa rivolta al futuro o al passato. Da qui il tratto individuale, da anarca, assunto dall’urlo che Cau ha lanciato dalle pagine de Le scuderie dell’Occidente.

Del resto, anche Evola, dopo aver sperato in una ripresa politica nell’immediato nel 1953, notava al contrario, in termini realistici, nella Nota introduttiva dell’edizione del 1958 del suo libro: «Il presente libro fu scritto non senza relazione con una determinata situazione italiana […] Purtroppo le possibilità che sembrava si delineassero non hanno avuto sviluppo alcuno e il processo di franamento politico e morale […] è continuato». Preso atto di tale contesto storico-esistenziale, Cau, negli anni Settanta, comprese essere un’impossibilità: «ragionare di dentro alla ragione del giorno d’oggi e scoprire, nel Sistema, un rimedio ai nostri malanni […] Per cavarci di lì bisogna pensare l’opposto. E dopo tutto che importa se l’avvenire ci dà torto?». Quello del francese è un antimodernismo radicale, meglio, come si vedrà nel prosieguo di queste pagine, un urlo sulle rovine: «di lupo a cui riempie la gola la morte che l’avvolge», coraggioso ululato di chi ha deciso di non arrendersi. Lo scrittore transalpino si paragona ad una cellula che: «entro un corpo, rifiuti la decrepitezza e la morte del complesso», laddove il corpo è quello flaccido della società borghese e dei suoi valori in disfacimento, che divengono il principale obiettivo critico del polemista.

L’urlo sulle rovine di Cau, la sua protesta spirituale, prima che culturale e politica, di cui le pagine di questo volume si fanno latrici, è il risultato della sua ascendenza contadina, di un’infanzia rurale, povera, semplice, sensibile al corso della natura, ai suoi ritmi. Un’educazione sentimentale quella di Cau, di cui egli ci dice in passaggi carichi di emozione e di nostalgia, ne Le scuderie dell’Occidente. E’ bene, par avere acconcio accesso ai contenuti del volume, partire da lì, dai paesaggi naturali ed interiori della Linguadoca e dal Midi di Jean Cau. Jacques Maritain, filosofo cattolico, a conclusione del Concilio Vaticano II, sentì la necessità di scrivere un libro che mettesse in guardia la Chiesa dai rischi neomodernisti, cui andava incontro. Si tratta de, Il contadino della Garonna. Ecco, il libro che il lettore ha tra le mani, vuole metterlo in guardia dalla deriva nichilista che si annunziava fin dai primi anni Settanta, e che oggi assedia le nostre vite con estrema virulenza. Nelle sue pagine aleggia il ricordo di un mondo altro, quello che Cau conobbe in Linguadoca, attorno al focolare familiare. Cau nacque l’ 8 luglio 1925 a Bram, nei pressi di Carcassonne, nella regione dell’Aude, nel Sud della Francia: «I miei avi, non ne dubito, sono contadini fin dalla notte dei tempi, e la nobiltà del mio ceppo e della mia razza sta in ciò, che non abbiamo mai acquistato né venduto nulla». Queste parole marcano il tratto anti-borghese del nostro autore che, di seguito, in questi termini presenta i propri antenati. Il nonno paterno Michele, forte come una quercia ma, al contempo, mite, gli trasmise l’amore per i cavalli. Il cavallo fu compagno d’avventure dell’infanzia dello scrittore. Amava strigliarlo nelle scuderie, mentre l’animale: «voltava ogni tanto la testa e diceva la sua amicizia coi suoi larghi occhi umidi»: il nobile quadrupede assumerà ben presto, nell’immaginario dello scrittore, le fattezze del destriero del Cavaliere di Dürer, simbolo della visione del mondo di Cau.

Il Cavaliere è l’alter ego di Cau che, isolato, lanciava l’urlo contro il tempo in cui gli era stato concesso di vivere. Marcello Veneziani ritiene che: «Il cavaliere di Dürer, riletto da Cau, costituì un breviario del pessimismo eroico che animò la gioventù di destra degli anni Settanta. Era la cultura aristocratica della nobile sconfitta, eroica e disperata, che si nutriva dell’Autarca di Evola e dell’Anarca di Jünger, il ribelle che passa al bosco». Quello di Cau più che pessimismo eroico fu, per chi scrive, «realismo eroico», in quanto il Cavaliere-Eroe è colui che, agendo, ridona forma al mondo, confrontandosi criticamente con ciò che il pensatore francese definì l’anti-vita, lo spirito che sempre nega, incapace del Si alla terra di cui disse Nietzsche. La vita per Cau non ha valenza morale, ma estetica. Per questo, al primato della «verità», nota de Benoist, egli: «oppone il reale».

Giovanni Sessa

(estratto dalla prefazione al libro di Jean Cau, Le scuderie dell’Occidente. Trattato di morale, in questi giorni nelle librerie per OAKS editrice).

Ade è più grande di Zeus – Vittorio Varano

$
0
0

Si parla tanto del dovere di salvare vite umane, e lo si fa derivare dal valore della vita umana, che andrebbe difeso, e si dà per scontato che salvare vite umane sia un sistema per difendere il valore della vita umana, appare a tutti talmente evidente che sia così, che a nessuno viente in mente di perdere tempo e dedicare impegno e consumare energie e sprecare sforzi a compiere la fatica di sollevare la questione e porre in dubbio e mettere in discussione - ma ogni parolone ( e “valore” è tra tutti uno dei più oni ) o espressiona ( e “valore-della-vita” è tra tutte una delle più one ) o espressionona ( e “valore-della-vita-umana” è tra tutte una delle più onone ) dovrebbe essere equiparata alle keywords politically incorrects che se inserite all'interno di un testo digitato sulla tastiera di un computer o di un telefono cellulare smartphone o di qualunque altro apparecchio ricetrasmittente connesso online in rete s'impigliano tra le sue maglie, vengono intercettati dai filtri automatici dei social-network e dei motori di ricerca, fanno scattare i sistemi di controllo di internet, e inviano il segnale d'allarme alla DIGOS ( Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali ), alla magistratura inquirente, alla polizia postale, ai servizi segreti ( Agenzia informazioni e sicurezza esterna, Agenzia informazioni e sicurezza interna, Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, Centro intelligence interforze, Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, Raggruppamento unità difesa, Reparto informazioni e sicurezza, Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica... ), insomma, alcuni dei principali ficcanaso e rompicoglioni di questo mondo, tra cui sono inclusi quelli precedentemente elencati, ma con l'aggiunta di Amnesty International, Anti-Defamation League of B'nai B'rith, ANPI ( Associazione Nazionale Partigiani d'Italia ), Bilderberg Club, Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, Corte internazionale di giustizia ( Tribunale internazionale dell'Aia ), Emergency, Goi ( Grande Oriente d'Italia ), Greenpeace, Médecins sans frontières, Opus Dei ( Prelatura della Santa Croce ), Save the Children, Trilateral Commission, UNESCO ( United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization ), UNHCR ( United Nations High Commissioner for Refugees), UNICEF ( United Nations International Children's Emergency Fund ), WWF ( World Wildlife Fund )... - ogni volta che ci si imbatte in uno di quelli che se ne riempiono la bocca perché hanno un buon sapore o in uno di quelli che lo fanno perché sanno che ci sono quelli che se ne lasciano riempire le orecchie perché suonano bene, bisognerà imbavagliarlo come per bloccare il sanguinamento linguistico con una benda, e portarlo non nella prima sala operatoria del corridoio del più vicino pronto soccorso ospedaliero perché venga sottoposto ad intervento urgente per impedirne il decesso per emorragia oratoria, né davanti al Politbjuro di qualche democratico partito post-/pseudo- comunista perché venga querelato e censurato e costretto alla ritrattazione dai commissari del popolo membri di qualche ufficio politico di qualche comitato centrale, né davanti ad un qualunque Sant'Uffizio perché subisca un interrogatorio da parte di inquisitori istruiti ed intellettualmente dotati nel corso del quale si verifichi l'ortodossia della dottrina da lui dichiarata e descritta durante il suo discorso, ma in udienza in occasione di un'adunanza del capitolo generale degli eruditi affiliati dell'Accademia della Crusca, che avanzeranno nei suoi confronti un'unica piccola pretesa : che sia capace di fornire una definizione esatta della terminologia utilizzata, specialmente il significato del vocabolo “valore”, di cui ci si può correttamente servire soltanto secondo due modalità : in quella soggettiva in sinergia con tre particelle ( la preposizione “per”, un pronome personale e una voce del verbo “avere” ) è sinonimo di amore, affezione, attaccamento ( “qualcosa ha valore per qualcuno” = “qualcuno ci tiene a qualcosa” ) e in questo caso non c'è possibilità di condivisione : per il buono “la vita umana ha valore” ( = “il buono ci tiene alla vita umana” ) e per il cattivo “la vita umana non ha valore” ( = “il cattivo non ci tiene alla vita umana” ); nell'altra ( la sola in cui svolga una funzione comunicativa nel corso di una conversazione che non sia compresenza di monologhi esprimenti emozioni opinioni e preferenze personali ma scambio di sapere su argomenti motivi e ragioni ) è un indicatore quantitativo che misura un rapporto di proporzionalità inversa : “questo ha valore” = “di questo ce n'è poco” ; “qualcosa ha valore” è una constatazione di scarsità.

L'idea che la vita umana abbia valore è anacronistica, non nasce da una condizione naturale che rimane sempre uguale, ma è legata ad una situazione storica in cui gli esseri umani non si contano a miliardi ma a migliaia. Attualmente la vita umana non ha più nessun valore. Questo è un dato di fatto oggettivo. Non dipende dal sistema economico né dal sistema politico né dal sistema sociale né dal sistema religioso. Gli esseri umani vengono sfruttati perché sono sostituibili, sono sostituibili perché possono essere scartati, possono essere scartati perché sono superflui, sono superflui perché superano il numero necessario. Nell'Età dell'Oro gli esseri umani erano più vicini agli Dei perché erano più simili agli Dei. Ma perché nell'Età dell'Oro gli esseri umani erano più simili agli Dei ? Perché erano alti ? Perché erano belli ? Perché erano buoni ? Perché erano forti ? Perché erano giusti ? Perché erano grandi ? Perché erano saggi ? Perché erano sani ? No – perché erano pochi ! Quando sono pochi, gli esseri umani somigliano agli Dei, perché gli Dei sono pochi. Chi attribuisce un valore alla vita umana e soccorre persone in pericolo, crede di comportarsi in modo coerente con le proprie convinzioni, invece ottiene l'effetto contrario : salvando vite umane contribuisce a mantenerne alto il numero – e basso il valore ! La dismisura demografica determina uno scambio di segno tra il polo positivo e il polo negativo nel rapporto tra datori-di-vita e datori-di-morte. Nell'antichità venivano considerati eroi, commemorati e celebrati, gli uomini uccisori di mostri, ma adesso sarebbe più ragionevole conferire un riconoscimento ufficiale ( Croix de Fer Pour le Mérite o Knight's Cross of the Iron Cross o Grand Cross of the Iron Cross o Star of the Grand Cross of the Iron Cross o Destroyer War Badge o Minesweeper War Badge o Pilot/Observer Badge o SS-Ehrenring o Honour Roll Clasp ) ai mostri mangiatori d'uomini ; e fondare un ordine nobiliare composto esclusivamente da membri scelti non tra quelli di un popolo eletto o di una razza superiore caratterizzata dal colore dei capelli, degli occhi, della pelle e del sangue, ma da esemplari della loro specie ; e istituire un apposito albo d'onore in cui iscrivere i loro nomi e registrare le loro gesta ; ed aprire università con facoltà disumanistiche e dipartimenti di ricerca sul passato, dove il ruolo di professore sia riservato a loro e il nostro si limiti a quello di studente, e la figura del portaborse sia simile a quella di chi fa volontariato autentico, offrendo un servizio gratuito dal cui svolgimento non si ottenga niente in cambio, né remunerazione né ricompensa né rimborso, e non consenta in alcun modo di fare carriera ; e adibire gallerie d'arte ed intere ali di musei ad ospitare i loro ritratti dipinti e scolpiti. Serve un revisionismo storico più drastico di quello di Ernst Nolte e David Irving sulla seconda guerra mondiale, più audace dell'analisi del tramonto dell'occidente svolta dagli esponenti della rivoluzione conservatrice ( Arthur Moeller van den Bruck, Stefan George, Hugo von Hofmannsthal, Ernst Jünger, Carl Schmitt, Werner Sombart, Oswald Spengler, Gottfried Benn, Thomas Mann, Ernst von Salomon, Martin Heidegger, Ernst Niekisch, Othmar Spann ), più radicale della rivolta contro il mondo moderno portata avanti dagli aderenti al perennialismo degli autori che appartengono al gruppo dei rappresentanti della tradizione ( René Guénon, Martin Lings, Titus Burckhardt, Frithjof Schuon, Julius Evola, Ananda Coomaraswamy ), accogliendo accanto a quelle di costoro la concezione di René Girard, secondo cui le cose nascoste sin dalla fondazione del mondo sono i capri espiatori ( fatti scomparire, nascosti, idealmente sepolti, per fare da fondamenta alla comunità da cui vengono espulsi, nel corso di riti sacrificali che corrispondono alla posa della prima pietra nella cerimonia inaugurale con cui si cominciano i lavori per la costruzione di un edificio importante, o pubblico, come uno spazio sacro, una chiesa, un convento, un eremo, un monastero, un tempio, o un luogo istituzionale, come la sede di un governo, di un ministero, di un municipio, di un parlamento, di un tribunale, o privato, ma di proprietà di una persona o di una famiglia prestigiosa ) elencabili, in accordo con la prospettiva biblica adottata dal filosofo francese, in abbandonati, accusati, affamati, afflitti, alcolisti, alcolizzati, alienati, allucinati, alternativi, analfabeti, anormali, anticonformisti, appestati, asociali, assetati, autistici, avvinazzati, babbei, bagasce, balbuzienti, baldracche, barboni, battuti, battone, beoni, bisognosi, buttati, caduti, caffeinomani, calpestati, calunniati, cani, carcerati, cardiopatici, catturati, ciechi, clandestini, cocainomani, condannati, contestatori, cretini, criminalizzati, culattoni, deboli, deficienti, dementi, demonizzati, depravati, depressi, derelitti, devianti, diabetici, dimenticati, disabili, disadattati, discriminati, diseredati, disoccupati, disperati, disprezzati, dissenzienti, diversi, drogati, ebeti, ebrei, effemminati, emarginati, ermafroditi, esclusi, estranei, eunuchi, fessi, finocchi, fobici, folli, froci, fumatori, giramondo, gitani, gobbi, handicappati, idioti, ignoranti, ignorati, imbecilli, incapaci, inconsapevoli, incurabili, indebitati, indegni, indemoniati, indesiderati, indigenti, inetti, infantili, inguaribili, innocenti, insani, insonni, insultati, introversi, invalidi, invertiti, isterici, lebbrosi, lesbiche, malati, maniaci, matti, mendicanti, mentecatti, mignotte, migranti, minorati, miseri, monchi, mongoloidi, muti, naufraghi, negri, nemici, nomadi, nullafacenti, nullatenenti, obesi, offesi, omosessuali, oppositori, oppressi, orbi, orfani, ostacolati, ostaggi, osteggiati, ostracizzati, paralitici, paranoici, pazzi, pederasti, perdenti, perseguitati, pervertiti, pezzenti, porci, posseduti, poveri, prigionieri, profughi, puttane, reietti, ribelli, ricchioni, rifiutati, rifugiati, rottinculo, scacciati, scansati, scartati, schiacciati, scemi, schiavi, schizofrenici, sciancati, sconfitti, scrofe, sfaticati, sfruttati, sofferenti, sordi, spastici, storpi, stranieri, sviati, svitati, timidi, tisici, tossicodipendenti, torturati, troie, tubercolotici, ubriachi, ubriaconi, ultimi, umiliati, vagabondi, vedove, vigliacchi, vittime, visionari, zingari, zoccole, zoppi, eccetera ( cioè : i soliti... ) - mancano i mostri ! Sono loro i primi ad essere stati rimossi, non solo dal catalogo degli immolati, ma dalla lista degli aventi-diritto-alla-vita ; loro che erano i regolatori dell'equilibrio omeostatico dell'ecosistema ; loro a cui uomini-cani chiamati eroi hanno dato la caccia come a gatti con la conseguente crescita esponenziale della popolazione di uomini-topi.

La somiglianza tra la nostra e la sorte di quei roditori ( come sottolineato da Robert Burns nella quartina “I migliori piani dei topi e degli uomini, / Van spesso di traverso, / E non ci lascian che dolore e pena, / Invece della gioia promessa!” che ha suggerito a John Steinbeck l'associazione mentale che dà il titolo ad un suo romanzo ) consiste in quell'eterogenesi dei fini la cui realtà anche Goethe ha non soltanto sostenuto ma addirittura sollevato dal piano terreno a quello sovrannaturale, ma unilateralmente : per erratacorrigere avrebbe dovuto introdurre nel Faust uno spirito speculare a Mefistofele che asserisce «Sono una parte di quella forza che desidera eternamente il male e opera eternamente il bene», che affermasse «Sono una parte di quella forza che desidera eternamente il bene e opera eternamente il male» ; Elefotsifem accudisce, aiuta, aizza, arringa, assiste, conforta, consiglia, consola, convince, cura, custodisce, difende, esalta, esorta, giustifica, guarisce, guida, incoraggia, ispira, istiga, istruisce, persuade, protegge, pungola, sorregge, sostiene, spinge, sprona, stimola i volontari di growl, grunf, oink, ong, onlus. Benefico e benevolo non sono sinonimi. I buoni sono benevoli ma non benefici. La logica ha due parti : la logica dell'identità ( governata dal principio di non-contraddizione ) e la logica dell'inferenza ( governata dal principio di ragion-sufficiente ) ; la logica dell'inferenza è alternativa alla logica dell'identità, e il modo dell'alternativa è l'avversione. La legge di causalità è legge di contrarietà, perché se non lo fosse sarebbe governata dallo stesso principio che governa la logica dell'identità ; ma se fosse governata dallo stesso principio che governa la logica dell'identità, la logica dell'inferenza coinciderebbe con la logica dell'identità, e la dimensione dell'accadere e dell'agire coinciderebbe con la dimensione dell'essere ; ma se la dimensione dell'accadere e dell'agire coincidesse con la dimensione dell'essere, la dimensione dell'accadere e dell'agire non esisterebbe. Ogni cominciamento conduce ad una conclusione contraria. Il processo di causazione è capovolgimento. Ogni causa produce un effetto che ad essa si oppone. È stato Elefotsifem a dire : « Siate fecondi, crescete, moltiplicatevi e riempite la terra ». È stato Elefotsifem a dire : « Ed io stabilirò il mio patto fra me e te; e ti accrescerò grandissimamente ». È stato Elefotsifem a dire : « In quanto a me, ecco, è con te che io faccio il mio patto : Tu diventerai padre d’una moltitudine di nazioni ». È stato Elefotsifem a dire : « E ti farò moltiplicare grandissimamente, e ti farò divenire nazioni ». È stato Elefotsifem a dire : « Ed io fermerò il mio patto fra me e te, ed i tuoi discendenti dopo di te, per tutte le loro generazioni ». È stato Elefotsifem a dire : « guarda il cielo e conta le stelle , se puoi contarle… così numerosa sarà la tua stirpe.. ». È stato Elefotsifem a dire : « Renderò la tua discendenza come la polvere della terra: se uno può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti. ». Elefotsifem non è il Sommo Dio, ma il Dio che fa la somma. Siccome lo 0 non c'è, “Egli crea” “fa sì che esista”, perché far-esistere = far-continuare-ad-esistere, perché “fa sì che esista” = “fa esistere ciò che altrimenti non esisterebbe” = “fa esistere ciò che anteriormente non esisteva”, perciò far-esistere = far-cominciare-ad-esistere, ma cominciare-ad-esistere è un cambiamento che non può accadere perché non può verificarsi perché non può avverarsi perché non può avviarsi, perché avrebbe il punto d'inizio collocato nello 0 - ossia in un posto che non sta da nessuna parte. Siccome non c'è l', “Egli crea” = “fa sì che cresca”, perché se esistesse l', essendo irraggiungibile, tutti i punti sarebbero equidistanti da esso, perciò non sarebbe possibile alcun aumento, perché aumentare significa muoversi-verso-il-massimo, e il massimo sarebbe l', e non ci si può muovere verso qualcosa a cui non ci si può avvicinare, e non ci si può avvicinare a qualcosa la cui distanza da ciò che gli va incontro non può diminuire. Elefotsifem è l'Accoglitore, l'Accrescitore, l'Associatore, l'Aumentatore, il Duplicatore, l'Ingranditore, il Moltiplicatore, il Radunatore, il Ripetitore, il Seminatore, il Sommatore, eccetera ; l'Altro è il Diminuitore, il Dispersore, il Divisore, l'Eliminatore, l'Esaminatore, il Falciatore, il Limitatore, il Mietitore, il Potatore, il Respingitore, il Riduttore, lo Sceglitore, lo Scartatore, il Selezionatore, lo Sforbiciatore, il Sottrattore, il Tagliatore, il Toglitore, eccetera. Gli obiettivi che orientano le loro volontà sono i due estremi dell'esistenza : il minimo e il massimo ; le due divinità si muovono ed agiscono all'interno di un sistema di riferimento che può essere raffigurato da un triangolo scaleno, dove ogni lato rappresenta un volume ed ogni angolo un valore ( o viceversa ) : il lato minore è opposto all'angolo minore e il lato maggiore è opposto all'angolo maggiore. Il volume è il contenuto di una superficie esposta, la vita si svolge nella sfera di quello che appare ; chi dà la vita non dà valore ma volume ; chi dà valore non è chi dà la vita ma chi dà la morte. Il reato “omissione di soccorso” andrebbe abolito per lasciare campo libero e far posto a “negato colpo di grazia”. I grandi della storia non sono stati Abraham Lincoln, Actarus Duke Fleed, Albert Einstein, Alessandro Volta, gli Apostoli di Cristo ( Andrea, Filippo, Giacomo, Giovanni, Matteo, Pietro, Simone, Tommaso, etc. ), Archimede, l'Armata Brancaleone, Charles de Batz de Castelmore d'Artagnan e i tre moschettieri ( Olivier Athos de Bragelonne de la Fère, Porthos du Vallon de Bracieux de Pierrefonds, René d'Herblay Aramis de Vannes ), re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda ( Galvano, Lancillotto, Parsifal, Tristano, etc. ), l'Erbiano Pelleverde Atréju, Barack Hussein Obama, Biancaneve e i sette nani ( Brontolo, Cucciolo, Dottolo, Eolo, Gongolo, Mammolo, Pisolo ), Bill Gates, Big Jim e Barbie, il capitano Achab, Capitan Harlock, Carola Rackete, l'Hidalgo Alonso Chisciano ( Don Chisciotte della Mancia "Il Cavaliere dalla Trista Figura" ), i Nove Viandanti della Compagnia dell'Anello ( Frodo Baggins, Samvise Gamgee, Meriadoc Brandibuck, Peregrino Tuc, Aragorn “Grampasso” ( il Dunedain Numenoreano Thorongil "Aquila della Stella", Elessar Telcontar di Gondor ), Boromir, Gandalf, Gimli, Legolas Thranduilion ), la Compagnia di Gesù, i Compagni del Profeta, Conan il Cimmero di Hyboria, Cristoforo Colombo, Diana Frances Spencer “Lady D”, Dylan Dog, Elvis Aaron Presley ( “The King of the Rock and Roll”, “Elvis the Pelvis” ), Enrico Fermi, Ernesto Guevara “el Che”, Erwin Rudolf Josef Alexander Schrödinger, Euclide, Evita Perón ( Eva María Ibarguren poi María Eva Duarte de Perón ), Ferdinando Magellano, Flash Gordon, Franklin Delano Roosevelt, Galileo Galilei, George Soros, Giacobbe e i suoi figli ( Giuseppe e i suoi fratelli ( Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Dan, Neftali, Gad, Aser, Issachar, Zabulon, Beniamino )), Gino Strada, Guglielmo Marconi, Greta Thunberg, He-Man e She-Ra, Hiroshi Shiba, gli Imam dell'Ahl al-Bayt ( al-Murtaḍa, al-Mujtabā, Sayyid al-shuhadāʾ, Zayn al-ʿĀbidīn al-Sajjād, al-Bāqir, al-Ṣādiq, al-Kāẓim, al-Riḍā, al-Taqī, al-Naqī, al-ʿAskarī, al-Mahdī ), Indiana Jones, Ippocrate, Isaac Newton, James Clerk Maxwell, James Douglas Morrison (detto Jim ), il dottor Jekyll, Kenshiro di Hokuto, Johannes Kepler ( Giovanni Keplero ), John Fitzgerald Kennedy “JFK”, John Winston Lennon, Mikołaj Kopernik ( Niccolò Copernico ), Louis Pasteur, Luke Skywalker, Malcolm Little “Malcolm X” ( El-Hajj Malik El-Shabazz, “Detroit Red” e “Omowale” ), Marco Polo, Mark Zuckerberg, Marilyn Monroe ( Norma Jeane Mortenson Baker ), Martin Luther King, Martin Mystère, Michael Jackson, Mohandas Karamchand Gandhi “ il Mahatma”, Nelson Rolihlahla Mandela, Niels Henrik David Bohr, Peter Pan, Robin Hood, Sandokan “la Tigre dell'isola di Mompracem dell'arcipelago della Malesia”, Sherlock Holmes, Stephen William Hawking, Steve Jobs, Tarzan delle Scimmie ( John Clayton III Visconte di Greystock ), Madre Teresa di Calcutta ( Anjezë Gonxhe Bojaxhiu ), Tex Willer, Thomas Alva Edison, Tycho Brahe, Vasco da Gama, Werner Karl Heisenberg, Sir Winston Leonard Spencer Churchill, eccetera, ma il khalīfa Abu Bakr al-Baghdadi “Abū Duʿāʾ”, Al Capone ( Alphonse Gabriel "Scarface” ), l'Arabo Pazzo Abdul Alhazred autore del Necronomicon ( «Non è morto ciò che in eterno può attendere, e con il passare di strani eoni anche la morte può morire» ), il “Führer und Reichskanzler” Adolf Hitler ( «Ein Volk, ein Reich, ein Führer» ), “Aleister” ( Edward Alexander ) Crowley, Annihilus da Arthros dei Tyrannian la "Morte che cammina", Antonin Artaud, il Maharathi Ashwatthama dei Kaurava, Attila “flagellum Dei”, Augusto José Ramón Pinochet Ugarte, Lavrentij Pavlovič Berija, Caronte, Cerbero, Chizuo Matsumoto ( Shōkō Asahara dell'Aum Shinrikyō ), Dart Fener, gli Dei Esterni ( Azathoth “Il Dio Cieco e Idiota, Colui che dimora negli abissi, Il Ribollente Caos Nucleare, Il Demone Sultano”, Nyog' Sothep “La Nebbia Senza Nome”, Nyarlathotep “Il Caos Strisciante, Il Messaggero di Azathoth”, Shub-Niggurath “La Capra Nera, La Moglie di Colui che non deve essere nominato”, Kizuzu “Le braccia del caos, l'ambasciatore del male”, Yidhra “La Strega dei Sogni”, Yog-Sothoth “Y'AI'NG'NGAH/YOG-SOTHOTH/H'EE-L'GEB/F'AI TRHODOG/UAAAAH” ), Donatien-Alphonse-François de Sade il “Divino marchese”, il conte Dracula, Herbert Kappler, Erich Priebke, le Erinni ( Aletto, Megera, Tisifone ), Erwin Johannes Eugen Rommel “la volpe del deserto”, Freddy Krueger “the Nightmare”, Friedrich von Junzt ( autore del Libro Nero “Unaussprechlichen Kulten” ), Galactus ( Galan “il divoratore di mondi” ), Gaio Cesare Germanico ( Caligola ), Georges Albert Maurice Victor Bataille ( “Pierre Angélique”, “Lord Auch”, “Louis Trente” ), Georges Ivanovič Gurdjieff ( “Il Greco nero”, “Il nipote del principe di Mukhran“, “La tigre del Turkestan” ), Muʿammar Gheddafi ( Guida e Comandante della Rivoluzione della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista ), Gilles de Montmorency-Laval ( “il Maresciallo” Gilles de Rais ), i Grandi Antichi ( Cthulhu Il Dormiente di R'lyeh "Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn", Tsathoggua Il Dormiente di N'kai, etc. ), Grigorij Efimovič Rasputin, Lex Luthor, Lucky Luciano, Sesto Vario Avito Bassiano ( Eliogabalo ), Otto Adolf Eichmann, il “Generalisimo de los Ejércitos” Francisco Paulino Hermenegildo Teódulo Franco y Bahamonde “Caudillo de España por la gracia de Dios”, Hannibal Lecter, la Regina Himika del popolo Yamatai ( "i nostri occhi sono i primi a vedere il Regno del Drago, Padrone del Tempo e dello Spazio. Grande Drago, degnati di mostrarti a noi nel Fulgore di tutta la tua Potenza. Neghini, Neghini, Nasanucolò. Neghini, Neghini, Nasanucolò.. Neghini, Neghini, Nasanucolò..." ) e i suoi tre ministri ( Ikima, Amaso e Mimashi ), Heinrich Luitpold Himmler, Howard Phillips Lovecraft, mister Hyde, Reinhard Tristan Eugen Heydrich, Iosif Vissarionovič Džugašvili ( Stalin ), Isidore Lucien Ducasse “Conte di Lautréamont”, Jean Genet, Jack lo squartatore, il Mostro di Firenze e i suoi “Compagni di merende”, The Manson Family, Josef Mengele, Junio Valerio Borghese, Morgoth Bauglir "il Costrittore" ( Melkor Fiamma-di-Udun ), Lafayette Ronald “L. Ron” Hubbard, Louis-Ferdinand Céline ( Auguste Destouches ), Lucio Domizio Enobarbo ( Nerone ), Osama Bin Laden, Pinhead “the Hellraiser”, Re Vega e i suoi tre ministri ( Hydargos, Gandal e Zuril ), Ṣaddām Ḥusayn ʿAbd al-Majīd al-Tikrītī, Sauron di Mordor, Sauzer di Nanto, il sacerdote sazoriano Nekuroma ("Grande Scorpione Kaos, Blasfemo Signore dei Neri Spazi Inabitati, tu che sordo, muto, cieco, dirigi le lugubri melodie delle Stelle morte, Padrone delle Vuote Solitudini, ti scongiuro.. dai a questo mostro il tuo Potere"), Surtur di Múspellsheimr, Slobodan Milošević, Tamerlano ( Timur-e lang "lo zoppo" ), Thanos il più forte della stirpe degli Eternals, Temüjin “Gengis Khan”, Tomás de Torquemada, Totò Riina û curtu “la Belva”, Unabomber ( Theodore John "Ted" Kaczynski ), Victor Von Doom di Latveria il “Dottor Destino”, Victor von Frankenstein, Vlad III Tepes di Valacchia “l'Impalatore”, Yukio Mishima ( Kimitake Hiraoka ), eccetera.

Ad essere utili all'umanità non sono gli abbienti, gli agenti ( scelti, segreti, spaziali, speciali, etc. ), gli ambientalisti, gli amministratori-delegati, gli amministratori-di-condominio, gli animalisti, gli artisti, gli assistenti ( sanitari, scolastici, sociali, etc. ), gli astronauti, gli atleti, gli attivisti-contro ( -contro-l'-antisemitismo, -contro-i-cambiamenti-climatici, -contro-la-dittatura, -contro-la-fame-nel-mondo, -contro-il-fascismo, -contro-il-femminicidio, -contro-la-guerra, -contro-l'-omofobia, -contro-la-pena-di-morte, -contro-il-razzismo, -contro-la-tortura, etc. ), gli attivisti-per ( -per-i-diritti-africani, -per-i-diritti-alieni, -per-i-diritti-arcobaleno, -per-i-diritti-asiatici, -per-i-diritti-australiani, -per-i-diritti-civili, -per-i-diritti-colorati, -per-i-diritti-degli-uguali, -per-i-diritti-dei-diversi, -per-i-diritti-di-tutti-gli-esseri-viventi, -per-i-diritti-europei, -per-i-diritti-extraterrestri, -per-i-diritti-femminili, -per-i-diritti-gialli, -per-i-diritti-giuridici, -per-i-diritti-infantili, -per-i-diritti-neri, -per-i-diritti-omosessuali, -per-i-diritti-politici, -per-i-diritti-rosa, -per-i-diritti-sociali, -per-i-diritti-sudamericani, -per-i-diritti-umani, -per-i-diritti-verdi, etc. ), gli attori, gli avvocati, i banchieri, i barbieri, i baristi, i beatniks, i benefattori, i benestanti, i benpensanti, i blogger, i borghesi, i bravi-bambini, i broker, i burocrati, i calciatori, i camerieri, i campioni, i cantanti, i carabinieri, i cardiologi, i caritatevoli, gli chef, i chirurghi, i clementi, i coach, i cocchi-di-mamma, i colleghi-di-lavoro, i combattenti, i commendatori, i commensali, i commercialisti, i commercianti, i commessi, i commissari, i compaesani, i compagni ( -di-ballo, -di-gioco, -di-letto, -di-studio, -di-viaggio, etc. ), i compassionevoli, i condottieri-di-popoli, i conduttori-di-programmi ( radiofonici e/o televisivi ), i consiglieri, i consolatori, i consumatori, i counselor, i creativi, i cugini, i curatori ( -di-edizioni, -di-esposizioni, -di-collane, -di-collezioni, -di-raccolte, -di-rubriche, etc. ), i datori-di-lavoro, gli ecologisti, gli esploratori, i familiari, farmacisti, le femministe, i figli-dei-fiori, i figli-di-papà, i filantropi, i fratelli, i frati, i genitori, i giudici, le guardie giurate, i guaritori, gli hobbit, gli industriali, gli impegnati ( culturalmente, moralmente, socialmente, politicamente, etc. ), gli impiegati della pubblica amministrazione ( comunali, provinciali, regionali, statali, etc. ), gli imprenditori, gli influencer, gli insegnanti, gli intellettuali, gli inventori, i medici, i misericordiosi, i missionari, i monaci, i nipoti, i nonni, i notai, gli obiettori-di-coscienza, gli opinion-leader, i pacifisti, i parrucchieri, i personal-trainer, i poliziotti, i pompieri, i pranoterapeuti, i prefetti, i presidenti, i preti, i pretori, i procuratori, i professori, i progressisti, i proprietari, gli psicanalisti, gli psicoterapeuti, i radical-chic, i ragazzi-di-buona-famiglia, i ricercatori, i sacerdoti, i salvatori, i santoni, gli sciamani, gli scienziati, gli scopritori, gli scrittori, i soccorritori, le sorelle, le star-di-Hollywood, gli stilisti-di-moda, i trader, i vigili-del-fuoco, i vigili-urbani, i vip, i volontari-della-protezione-civile, etc. ma le arpie, gli assassini, gli attentatori, le baccanti, i barbari, i black-bloc, i bombaroli, i cannibali, le chimere, i dark, i dinamitardi, i demoni di Dostoevskij, i draghi, i fantasmi, i gilet-jaune, i goblin, i golem, i grifoni, i kamikaze, i lemuri, i licantropi, le menadi, i necromanti, i nichilisti, gli orchi, i pirati, i piromani, i poltergeist, i punk, i rettiliani, i satanisti che celebrano cerimonie culminanti in sacrifici umani, i satiri, i serial-killer, gli skinhead, i sicari, i sileni, le sirene che sarebbe il caso che si ricordassero che hanno il compito di mettersi a cantare ogniqualvolta avvistano un'imbarcazione in avvicinamento ed alzare la voce per attirare l'attenzione dei marinai per alterarne le percezioni e i pensieri cosicché le loro mani ricevuti comandi confusi dalle menti fuorviate da cui sono controllate e fatte muovere finiscano per rivolgere le vele e ruotare il timone in modo tale che le manovre in mezzo agli scogli abbiano come esito che non saranno gli abitanti del regno di Demetra ad accoglierli ma quelli di quello di Poseidon ( senza fare eccezioni discriminatorie per quelle salpate dalle spiagge dei paesi bagnati dalle acque della parte meridionale del Mediterraneo, né favoritismi nei confronti degli equipaggi europei, né trattamenti privilegiati rispetto a quelli riservati ai passeggeri africani ), gli squilibrati che escono improvvisamente armati fino ai denti dalle loro case e compiono stragi e poi i giornalisti intervistano colleghi di lavoro e vicini di casa che rispondono cadendo dalle nuvole e con la sguardo di chi si sveglia indolenzito sul pavimento e non si spiega come ha potuto rotolare giù dal letto durante il sonno e seguitare a dormire “Ma chi se lo sarebbe mai aspettato ! Sembrava un tipo così a posto ! Così normale ! Così comune! Era uno come ce ne sono tanti ! Era uno come tutti gli altri ! Era uno di noi ! Ci salutava sempre ! Così educato ! Così onesto ! Così ordinario ! Nessuno si accorgeva di lui ! Nessuno lo notava ! Era come se non ci fosse ! Era come se non esistesse !“, gli stalker, le streghe-fabbricatrici-di-filtri/pozioni/veleni, i titani, i tritoni, i troll, i vampiri, i vandali, eccetera.

I luoghi di aggregazione dove si supera l'egoismo individuale svolgendo attività socialmente utili e sviluppando qualità e virtù civiche come la collaborazione e la reciproca fiducia, non sono il branco dei boy-scouts, il café chantant, il café-concert, il café philosophique, il centro d'ascolto, il club privé, la comunità di Emmaus, la comunità di Sant'Egidio, la confraternita sufi ( tariqa di tasawwuf ), il consultorio familiare, l'Équipe Nôtre-Dame, l'Esercito della Salvezza, il Lions Club, la loggia massonica, il night club, l'oratorio parrocchiale, il partito politico, la Proactiva Open Arms, il Rotary Club, il salotto letterario, la Sea-Watch, il sexy shop, il sindacato dei lavoratori, eccetera, ma i gruppi clandestini e/o ermetici e/o esoterici e/o eversivi e/o extraparlamentari e/o fuorilegge e/o golpisti e/o iniziatici e/o insurrezionalisti e/o paramilitari e/o rivoluzionari e/o segreti e/o sovversivi e/o terroristici : Action directe, Al Qaeda o Al-Qāʿida, Avanguardia Nazionale, Black Legion, Blood & Honour, Brigate Rosse, Combat 18, Dāʿish o Daesh ( al-Dawla al-Islāmiyya fī l-ʿIrāq wa l-Shām ) o ISIS ( Islamic State of Iraq and Syria ), ETA ( Euskadi Ta Askatasuna ), GAP ( Gruppi d'Azione Partigiana ), Gladio ( «Silendo libertatem servo» ), Hamās ( Harakat al-Muqāwama al-Islāmiyya , Movimento Islamico di Resistenza ), Hermetic Order of the Golden Dawn, Hezbollah ( Ḥizb Allāh, Partito di Dio ), IRA ( Irish Republican Army ), Ku Klux Klan, Lotta Continua, Lotta di Popolo, Lupi Grigi ( Ülkü Ocakları), NAP ( Nuclei Armati Proletari ), NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari ), OLP ( Munaẓẓamat al-Taḥrīr al-Filasṭīniyya), Ordine nero, Ordine Nuovo, OTO ( Ordo Templi Orientis ), P2 ( Propaganda massonica ), Pasdaran ( sepāh-e pāsdārān-e enghelāb-e eslāmi, Corpo delle guardie della rivoluzione islamica ), Potere Operaio, Prima Linea, RAF ( Rote Armee Fraktion / Banda Baader-Meinhof ), Settembre Nero, i Talebani, eccetera. In origine ci fu un rovesciamento. Tutto ha avuto inizio con un'inversione. A sostituire Saturno non è stato il suo primogenito ma l'ultimo nato. Quando il teofago è stato costretto da Zeus a rivomitarne i fratelli, questi sono usciti dal suo stomaco nel modo in cui una fila di automobili esce da uno stretto vicolo cieco : a marcia indietro, ad uscire per ultima è la macchina entrata per prima, e viceversa. Il tempo non è lineare ( come gli uomini moderni credono che sia ) né circolare ( come gli uomini moderni credono che gli uomini antichi credessero che fosse ) ma alternato, oscillatorio, come il moto di un pendolo o di un'altalena. Secondo la dottrina esposta da Esiodo, inizia a partire dal punto più alto un processo di discesa/decadenza che va dall'età dell'oro all'età dell'argento, poi dall'età dell'argento all'età del bronzo, poi dall'età del bronzo all'età del ferro, e una volta concluso il “giro di giostra”, se ne comincia da capo un altro. Ma mentre il passaggio dalla prima alla quarta età si svolge gradualmente ( per tappe intermedie ), sembrerebbe che quello dalla fase finale di un ciclo al principio di quello consecutivo sia una sorta di salto. Qui c'è qualcosa di strano. Qualcosa che manca. Mettiamoci alla sua ricerca. Ma cosa cerchiamo ? Un elemento mancante ? O piuttosto un rapporto ? Guardiamoci attorno, e cerchiamo una relazione con un elemento che forse, dopotutto, non è affatto mancante, e forse neanche lontano, ma solo spostato da un lato, magari di poco, e messo da parte, in un angolo. Cerchiamo un collegamento, una corrispondenza. Guardiamo allora accanto, e tutto ci si fa più chiaro se consideriamo che i due diversi discorsi ( il racconto del divoramento-e-rivomitamento e quello della caduta ) sono fatti dallo stesso autore, e perciò potrebbe essere ( è anzi altamente probabile ) che siano paralleli : come Saturno rivomita per primo il figlio che ha divorato per ultimo, poi per secondo rivomita quello che è stato il penultimo a venire divorato, e via di seguito, così dall'età del ferro si torna all'età del bronzo, poi dall'età del bronzo si torna all'età dell'argento, poi dall'età dell'argento si torna all'età dell'oro, e solo a quel punto si comincia un altro giro. Ciò significa che il giro non è un cerchio ma un semicerchio, o comunque un arco di cerchio, compreso tra due estremi ( uno maggiore e uno minore, uno migliore e uno peggiore, uno superiore e uno inferiore ) e lo scorrimento del tempo non è come quello di un fiume uno scivolamento che va sempre dalla fonte verso la foce, perché la fonte non è sempre la fonte e la foce non è sempre la foce, ma ciascuno dei due limiti svolge alternativamente una volta la funzione di fonte e una volta la funzione di foce : la fonte non è sempre in vetta e la foce non è sempre a valle, ma se questa volta la fonte è in vetta e la foce è a valle, vuol dire che la volta prima la fonte era il mare e la foce era il monte, e la volta dopo, di nuovo, la foce sarà il monte e la fonte sarà il mare.

Ciò significa che hanno parzialmente ragione ( perché provvisoriamente ) sia i progressisti che i regressisti. Come in una clessidra al cui interno, invece che sabbia, ci sia limatura di ferro, e che abbia come coperchio superiore una calamita elettrica, che si accende, affinché risalga, quando l'ampolla si è svuotata, e si spegne quando si riempie, la sua corsa non sarebbe sempre una caduta, ma verrebbe condotta, a seconda di qual'è la forza a cui è sottoposta, una volta verso il basso dall'attrazione gravitazionale, più debole ma ininterrotta, e una volta verso l'alto dal campo magnetico, intermittente ma più intenso. Si ha così la conciliazione, nella figura del conducente d'autobus ( che prende il posto di Apollo o Helios pilota del carro del sole che sorge sempre a est e tramonta sempre a ovest ) alla guida di una vettura che fa la spola tra un capolinea e l'altro, della concezione lineare e di quella circolare del tempo, che si contrappongono perché apparentemente il tempo lineare è un tempo aperto e il tempo circolare è un tempo chiuso. Sembra che la chiusura del tempo circolare sia una conseguenza della sua curvatura, ma una deviazione costante è identica alla durata, come lo è la dirittura, e dunque non se ne distingue. La chiusura coincide con la continuità : è aperto ciò che è spezzato ; aprire è rompere. Solo nel tempo alternato si può entrare, e soltanto dal tempo alternato si può uscire, perché solamente il tempo alternato ha quei due punti di stop-e-dietrofront. Zeus divide il mondo in parti disuguali, e le distribuisce fra sé e i suoi fratelli in ordine di valore decrescente : comincia da se stesso ( che è l'unico a non essere stato divorato da Saturno perché è il suo ultimo figlio, quello che chiude la serie ) a cui riserva la migliore, e continua assegnando la successiva al fratello che viene fuori per primo dallo stomaco del padre ( che è il suo primo fratello nel senso che è il più prossimo a lui, perché è quello che è nato subito prima di lui, non perciò il primo figlio del padre, ma il penultimo ), poi l'ulteriormente successiva a quello dopo ( che è quello ancora prima ), e a quello che appare appresso a tutti gli altri appartiene il fondo : Ade è l'Invisibile in quanto “infine”, in effetti, significa “mai”. Zeus è un usurpatore non soltanto nei confronti di Saturno che ha spodestato, ma anche nei confronti di quello che ne sarebbe stato il legittimo erede. Il derubato è l'unico a non essere diviso dal detronizzato : le due vittime, dal vincitore, vengono insieme relegate nello stesso luogo, l'uno come padrone e l'altro come prigioniero.

Quello che sembra il sovrano supremo è soltanto l'autore del primo sopruso compiuto, e nonostante il successo del colpo di stato, la sua assunzione al trono non è a tempo indeterminato, e la massima autorità, seppur nascosta, è rimasta comunque a Saturno, che la esercita attraverso Ade, che consuma la costruzione di Zeus come un orologio le cui lancette costringe a ruotare al contrario, per sfuggire all'azione corrosiva che le insegue. Ad essere raggiunta e rapita è la prima ora, quella che più in là non può arretrare, messa con le spalle al muro perché non ha nulla dietro di sé ( il solo muro che in nessun modo sia possibile buttare giù è uno che non c'è ), il fiore colto così presto che neppure appena sbocciato ma mentre lo sta facendo : è la fanciulla Persefone, che sta giocando in giardino insieme ad Artemide e Atena. Ade, che potrebbe, non le prende tutte, ma ne punta una a colpo sicuro, oggetto di una preferenza precisa, quella che preleva ha qualcosa che, ai suoi occhi, la rende speciale rispetto alle sorelle, a cui, a uno sguardo più superficiale, che non fosse quello del signore delle profondità sotterranee, sembrerebbe somigliare, prescelta perché prevale sulle altre per la superiorità della sua perfezione e per una maggiore purezza, quella che porta via con sé è una porzione particolarmente prelibata di un pasto che prevede parecchie pietanze, e la sua prediletta non sta tra quelle già preparate, presenti sulla tavola apparecchiata, ma viene portata, non posta in un piatto appoggiato sopra un vassoio, ma dentro un braciere, uscita dalla cucina non proprio pronta ma all'incirca, predisposta per esserlo, propensa a trasformarsi, sul punto di diventarlo, non più cruda e non ancora cotta. Essendo Zeus il signore della molteplicità e della fecondità, tra i suoi figli si formano suddivisioni e sottinsiemi di fratelli/sorelle la cui aria di famiglia varia aprendosi a ventaglio in un'ampia gamma di gradazioni che va dall'affinità tra i gemelli Apollo e Artemide, all'antipatia tra alleati tra i quali c'è accordo sul cosa ma non sul come ( ad esempio tra Atena e Ares, entrambi signori della guerra - quello è il colore, ma ciascuno lo ha con la sua sfumatura : lei strategia, lui sfondamento ), fino all'antagonismo tra avversari antipodici come Afrodite e le tre vergini Artemide, Atena e Persefone. Il trio è compatto soltanto nel contrapporsi alla quarta, in quanto la sola caratteristica che le accomuna è quella che suscita l'ira e l'ostilità della dea dell'amore, capace soltanto di rapporti fondati sulla passione ed esclusa da qualunque gruppo di amiche, e a maggior ragione da uno le cui componenti fanno doppiamente a meno dell'amore : all'interno, fra loro, perché non sono amanti ma amiche, e questo prescinde dall'amore ; all'esterno, con altri, perché non hanno un costo ( non sono in vendita, né per un cliente, né per un corteggiatore ) e questo respinge l'amore. La verginità di Artemide e Atena è relativa : Artemide la cacciatrice è chiusa all'amore ma aperta all'agire, Atena la conoscitrice è chiusa all'amore ma aperta al sapere. La verginità di Persefone è assoluta, verginità all'esistenza, chiusura alla vita : prole snaturata di un padre mondano ( espansivo, esibizionista, esuberante ), è fuori dal mondo ; nella rete delle relazioni parentali occupa un posto a parte, perché non ha preso dai suoi genitori : la sua fisionomia, influenzata da caratteri ereditari recessivi, ricorda più quella di suo nonno, e quindi, anche se indirettamente, di uno dei suoi zii ; tanto più legata a una persona quanto più ne è lontana, è nipote più che figlia ; immune al contagio per contatto, più che con chi, con la sua conversazione e la sua vicinanza, le fa compagnia ( ma senza mai comunicarle qualcosa che la coinvolga, qualcosa che valga la pena ascoltare, qualcosa che richieda una risposta, qualcosa con cui si possa concordare o a cui si debba controbattere, e invece le bocche si aprono a vanvera, come se chi chiacchiera facesse un esercizio di respirazione, come quello fosse il solo sistema che conosce per non soffocare ) ha confidenza coi due membri di cui non ha mai visto nemmeno l'immagine in qualche ritratto di famiglia, con cui non ha mai parlato e di cui nessuno le ha parlato mai, perché sono quelli che non vengono mai invitati a partecipare a concili e conviti, a festeggiamenti e banchetti, a celebrazioni e ricorrenze, a compleanni e matrimoni, a duelli e divorzi, perché c'è di mezzo la storia di un vecchio torto perpetrato a loro danno, un testamento tradito, un'appropriazione indebita, il ramo principale della dinastia infangato per coprire l'infamia di tutte le diramazioni collaterali, discendenti dai cadetti, coalizzati contro il capostipite, con la montagna di melma e di merda sotto cui è stata sommersa la tenuta fondiaria del proprietario terriero, il suo castello trasformato in cimitero monumentale, i corridoi in catacombe, le antiche pareti del palazzo utilizzate come fondamenta e il vecchio tetto come pavimento su cui i burini-arricchiti/cafoni-rifatti edificarono la loro nuova reggia.

La giustificazione ufficiale è che fu necessario dichiarare l'infermità mentale del nonno e farlo rinchiudere in un manicomio criminale con l'accusa di cannibalismo. Gira questa diceria, e chi la fa circolare, se durante i suoi parecchi passaggi nei paraggi, nessuno si accorge che arriva ed accorre a trattenerla prima che raggiunga una vicinanza eccessiva alla sorgente della voce, si volta dall'altra parte per non emettere onde sonore in una direzione che intersecherebbe quella seguita da lei, che bisogna salvaguardare dalla scoperta dell'incresciosa vicenda del mangiamarmocchi, affinché non ne sia scandalizzata, magari addirittura sconvolta, e rimanga rinchiusa nell'infantile incoscienza, che la fantasia delle persone adulte immagina contenta, perché non essendovi più confinate, non ne percepiscono più la natura costrittiva, che lo sguardo attuale, ampliato da esperienze posteriori, applicato a ritroso al ristretto orizzonte di allora, scrostando, del rivestimento appiccicato alle pareti, la stratificazione che all'epoca era consistita in un intonaco di ostacoli ottici e in una verniciatura di accecante opacità, ha trasformato in vetrate che la luce può attraversare, e sono portate a fare l'addizione tra il ricordo delle cose passate e il rimpianto per le occasioni perdute, compiendo un'operazione manipolatoria di matematica mnemosensoriale, il cui risultato è una confusione tra i modi verbali indicativo e condizionale, ottenuta saltando il congiuntivo, che ne è il collegamento, cancellato come un'opzione non obbligatoria, e per adattare l'uno all'altro, il primo è riplasmato in base al secondo, la speranza spostata, ogni aspettativa non più un'anticipazione ma un adempimento, ciò che ci si augura una cosa già accaduta. Zeus racconta come sono andati i fatti : ha salvato quasi tutti i suoi fratelli, perché è arrivato in tempo per tirarli fuori dallo stomaco del padre, prima che venissero digeriti, ma non abbastanza da salvarli tutti, perché quello che era stato il primo ad essere inghiottito, aveva trascorso lì dentro più tempo degli altri, e i succhi gastrici lo avevano ucciso. Li ha salvati tutti tranne uno, perché li ha trovati tutti ancora vivi tranne uno, e quell'unico, appena tirato fuori e trovato morto, l'ha subito sepolto. Ma Persefone ha il sospetto che l'abbia soppresso lui, che il suo cuore non avesse cessato di battere, e non fosse affatto un cadavere, ma un corpo ancora animato, ad essere messo nella bara, e calato nella fossa ; che Ade venne chiuso vivo da Zeus nella cassa da morto, e sigillato per soffocarlo, approfittando del fatto che era caduto in un sonno così profondo da sembrare non un dormiente ma un defunto, e non si era difeso, come se davvero l'abbassamento delle sue palpebre non fosse dipeso dal buio, di cui era saturo lo spazio, pieno di occhi sbarrati, contenuto nello stomaco satollo di Saturno, simile a quello a cui è dovuto il ristoro notturno, e fosse invece immerso in quel riposo definitivo a cui nessuno stimolo può più arrecare alcun disturbo. Sotto l'adipe che tiene tiepido l'addome, Ade dorme. Siccome è l'unico che non ne è uscito sveglio, cosa gli sia successo durante quel lungo soggiorno, è un segreto che Zeus non ha rivelato a nessuno, non perché l'ha riservato a se stesso, ma perché non l'ha strappato al suo depositario, che ne è il dispensatore, che lo custodisce e lo può confidare, ma decide a chi no e a chi sì, e a che condizioni : in quale maniera, in quale momento, per quale motivo ( se per guadagno, a chi è disposto a dare quello che gli viene chiesto in cambio ; se per giustizia, a chi se ne dimostra degno ; se per generosità, a chi è in grado di star fermo tutto il tempo che necessita per fare da traguardo al movimento del regalo che gli hanno o gli dev'essere gettato ) ; ma per farselo svelare l'avrebbe dovuto svegliare ; affinché gli potesse spiegare in quale accezione del termine risulterebbe maggiormente esatto definirlo in letargo piuttosto che in agonia, avrebbe dovuto sprecare l'occasione favorevole alla sua uccisione, quella in cui facilmente sarebbe riuscito a legarlo, perché non essendo in sé non avrebbe reagito, e perciò lo poteva legare senza doverci lottare. Ciò che ha rinunciato a sapere è il significato dello spettacolo a cui assiste : quello non è lo spegnimento conclusivo di chi dà l'addio al suo calore organico, e innescando la spartizione di se stesso nei suoi costituenti basilari, e il loro sparpagliamento, va incontro alla piena sparizione, né quello ciclico di chi periodicamente dà l'arrivederci al freddo ambientale, e l'avvio alla sospensione metabolica, saltando una stagione, come una stazione tagliata e staccata dalla mappa della linea ferroviaria ; non è un coma irreversibile ma irripetibile : la catalessi della crisalide, il cui bozzolo è lo stomaco del padre, incubatrice dove avviene la seconda gravidanza, quella successiva al parto, in cui l'apparato digerente maschile prende il posto dell'apparato riproduttore femminile, l'esofago sostituisce l'utero, e la membrana della cavità della pancia paterna la placenta. Fra i figli di Saturno, Zeus e Ade sono gli estremi, ossia i due unici. Saturno è il dio del tempo e il tempo è fuoco. Dentro di lui è come un calderone dove quella gestazione è come una cottura che solo nel caso di Ade si è conclusa, invece Zeus è crudo, in quanto è il solo a non essere stato neanche infornato. Ma contrariamente a quella comune in cui il cibo viene reso commestibile, in questa cucina diventa indigesto. La seconda nascita neutralizza la prima. La prima è il passaggio da una negazione a un'affermazione : da non-vivente a vivente ; la seconda è il passaggio da un'affermazione a una negazione : da che-si-può-mangiare ( = mortale ) a immangiabile ( = immortale ). Saturno è il dio del tempo e il tempo è un treno ; il suo ventre è un vagone in cui si trovano tre passeggeri : uno guarda fuori dal finestrino, uno tiene davanti agli occhi la mappa in cui manca la meta, uno ha le palpebre abbassate. Quando il treno si ferma alla stazione dove Zeus è appostato e sta aspettando, il passeggero che guarda fuori dal finestrino lo vede e scende. Il passeggero che guarda fuori dal finestrino è il presente, i fratelli che Zeus trova svegli. Non è chiaro se il passeggero con le palpebre abbassate abbia chiuso gli occhi per un colpo di sonno o perché si è sentito male ed ha avuto un mancamento ed è svenuto o se ha avuto un arresto cardiaco o un collasso o un colpo apoplettico o un infarto, ma in ogni caso, a scanso di equivoci, viene soccorso ( cioè sottratto allo spazio da cui è sorretto dentro la cabina, e sommato a quello poco discosto che lo aspetta appena dopo il predellino alla fine del corridoio che attraversa la carrozza del convoglio, sotto la pensilina che sovrasta la banchina dirimpetto al binario ) ; il passeggero con le palpebre abbassate è Ade, il passato. Il passeggero che tiene davanti agli occhi la mappa in cui manca la meta è il futuro, che non si può fermare perché non si accorge di essere arrivato ; perché quando il treno rallenta, e si sente la voce che parla dal megafono dar l'annuncio che si avvicina al tal luogo che si chiama in tal modo, controlla sulla mappa e non lo trova ; e siccome il nome pronunciato non è una parola come FINE o META o MORTE, non capisce che quella è la sua destinazione ed interpreta, fraintendendone il senso, la stazione di sosta come battuta d'arresto trascorsa in una sala d'aspetto i cui frequentatori sono occupanti abituali stabili, e passanti le poltrone le pareti il pavimento... ; rimane sul treno che riparte ; e poiché resta - procede. Si va avanti non per inerzia ma per disattenzione e dimenticanza. La gente vive non perché abbia una “ragione per” ( o ci sia una “forza che spinge a” ) farlo, ma perché scorda d'essere morta. La metempsicosi non è vita proseguente ma morte prolungata. I rincarnati ci mettono millenni a morire. I rincarnati non sono i ritornati-alla ma i rimasti-nella.

Come i prezzi rincarati non sono “di nuovo cari” o “un'altra volta cari” ma “ancora più cari” e “sempre più cari”, così i rincarnati non sono “di nuovo carnei” o “un'altra volta carnei” ma “ancora più carnei” e “sempre più carnei”. L'oblio è l'attributo della vita, e la memoria della morte. Nel mondo dei vivi ciascuno è cosciente soltanto di ciò che lo circonda e lo concerne. Persefone passa giorni o mesi o anni a ripetere al suo rapitore che non può stare con lui perché sua madre ha bisogno di lei. A sua volta Ade passa giorni o mesi o anni ad offire una melagrana alla sua ospite obbligata, che rifiuta di mangiarla, perché la voce di Demetra, che piange e la chiama, le ha tolto l'appetito. Lui le spiega che a stomaco vuoto non ce la farebbe a coprire in salita la stessa distanza percorsa in discesa con la pancia piena. Ha a disposizione 2 cose capaci di fornirle energia sufficiente : una è quella che già le ha proposto, e l'altra è il fiume Lete ( non c'è bisogno di berne tutta l'acqua : ne basta una goccia ; ugualmente, non c'è bisogno di mangiare tutto il frutto : ne basta un chicco ) ; fra l'acqua del fiume e il frutto dell'albero esistono 2 differenze, una secondo l'effetto, e una secondo l'esempio : la differenza secondo l'effetto è che l'acqua del fiume fa dimenticare e il frutto dell'albero fa ricordare ; la differenza secondo l'esempio è che gli altri scelgono l'acqua del fiume. Persefone stacca un chicco alla melagrana e lo ingoia. Saluta suo zio, ma il suono che sente uscire dalle proprie labbra non è quello che pensava di pronunciare : attraversandone la bocca impregnata del sapore sprigionato tra la sua lingua e il palato dal succo schizzato sulle sue gengive dal chicco spremuto tra i denti, l'addio ( che è il saluto che si rivolge prima di allontanarcene a chi si abbandona con l'idea di non incontrarlo mai più ) si è trasformato in un arrivederci. Persefone è stupita da quella parola imprevista, ma un'ulteriore sorpresa sorpassa quella iniziale : il fatto che lui non lo sia. Perché prova che sapeva. La memoria è conoscenza del passato, non nel senso che sia conoscenza che ha per oggetto il passato, ma nel senso in cui la visione panoramica è conoscenza di montagna : quella che ottiene chi si mette in un posto di osservazione elevato come la cima di un monte. Così la memoria è la conoscenza che ottiene non chi si volta indietro verso il passato e lo guarda, ma chi si trasferisce dentro il passato. Come chi sta su una vetta montana può volgere lo sguardo all'orizzonte verso uno qualunque dei 4 punti cardinali o in una qualunque delle 4 direzioni intermedie insieme a cui costituiscono i petali della rosa dei venti puntati come gli indici di una mano ad 8 dita, così chi occupa una posizione arretrata lungo la linea dell'eternità può applicare la sua facoltà mnemonica come uno di quei 3 su 5 che sono orientabili ( la vista, l'udito, l'olfatto ) perché non sono sensi di prossimità ( il gusto e il tatto ) ad una qualunque delle 3 porzioni del tempo. Non è suo fratello Apollo ad invasare le sacerdotesse degli oracoli ( la pizia, la sibilla, etc. ) ma il fratello di suo padre. Apollo non è il dio dell'ispirazione ma dell'espressione : non il suggeritore che dalla buca nel palco sussurra all'attrice la parte da recitare, ma l'oratore che declama la versione verbale dei gesti e della mimica facciale di una scena muta, fornendone la traduzione simultanea nella lingua parlata dal pubblico in platea. I loro santuari sorgono in luoghi dove si aprono crepacci nella crosta terrestre da cui cominciano cunicoli che scendono fin nelle viscere del globo, collegando le 2 dimensioni reciprocamente ortogonali : la superficie orizzontale del pianeta ( parallela al cielo, che ne è l'estremo superiore, ma solo nel senso di strato più esterno ) e la profondità verticale. Il passato è ciò che il tempo ha portato dove il suo fluire finisce e depositato sul suo fondo fermo. Ade è l'unico fra i figli di Saturno il cui processo di crescente permanenza non è stato interrotto dall'intervento di Zeus, che sembrò salvifico ma fu sabotatore. Perciò è divenuto il passato in persona, sovrano della verità, che si scrive ἀλήθεια e si legge indimenticabilità. Persefone va via chiedendosi cosa la possa spingere e per quale ragione può avere attuazione quell'augurio e lei si potrebbe recare a quell'appuntamento, e non gliene viene in mente nessuna ; ma a casa la trova : non hanno sentito la sua mancanza. Ad accoglierla non è uno sbalordito bentornata ma un banale buonasera, come se appena poche ore prima, ad accompagnarla alla porta a cui si avvicinava per uscire subito dopo aver fatto colazione, fosse stato il solito buongiorno. Come se non avesse passato giorni o mesi o anni a ripetere al suo rapitore che non poteva stare con lui perché Demetra aveva bisogno di lei. E il lamento materno ? Un'invenzione della sua immaginazione ? O piangeva per motivi suoi ( la vecchiaia, una malattia, etc. ) ? La percezione giusta ma sbagliata l'interpretazione ? Per accorgersi che qualcuno non c'è bisogna averne memoria. Ma chi vive è ( participio passivo del verbo prendere : ) preso dal presente ( : participio attivo del verbo prendere ) ; la vita è menzognera a causa della sua mutevolezza, bugiarda come una banderuola al vento, e traditrice. Fedele è soltanto la morte, che una volta che ti abbraccia non ti lascia mai più. Quando lei era laggiù si ricordava di loro che erano quassù e non si ricordavano di lei che era laggiù, ma ora che lei è quassù si ricorda di lui che è laggiù, e sa che lui che è laggiù si ricorda di lei che è quassù. E la aspetta. Per lei il vincolo della famiglia è simile a un fermaglio che sostituisce la rilegatura mancante al copione della sua commedia, sola cornice comune ( in una biografia si trova un po' di tutto, tranne una trama ) che assicura, pur nel costante cambio di costume, se non coerenza, coesione alle battute successive e allestimenti per i vari atti che ne sono i tanti quadri quotidiani, e fa sì che sia leggibile senza sfasciarlo sfogliandolo e spargerne le pagine. Ancora per poco. Si adempie così la profezia che Prometeo incatenato affidò ad Hermes affinché la riferisse a Zeus, a proposito di nozze il cui frutto sarà la fine del suo dominio. Poiché alla richiesta di fornire una spiegazione convincente e comprensibile alle sue parole il titano si era rifiutato di rispondere altrimenti che ribadendo il minaccioso avvertimento, il messaggero ha fatto l'ambasciata lasciando a quel comunicato l'ambiguità caratteristica di ciò ch'è attinto all'archivio anteriore, in condizioni di conservazione ottimizzate per consegnarlo alla lettera, senza una macchia né refusi testuali, con i segni di punteggiatura inalterati, corrispondenti alle interiezioni e interruzioni e intonazioni originarie del discorso orale, senza aggiustare un apostrofo o un accento né aggiungere un commento o una nota chiarificatrice, cadendo nello stesso errore ( commesso da colui che subiva il castigo per aver rubato il fuoco agli dei per regalarlo agli uomini ) : credere che sia possibile l'applicazione di una forza che non implichi un'appropriazione dell'oggetto, ma che ne permetta il passaggio da un punto ad un altro, senza che nessuno dei piani infiniti a cui appartiene il segmento che li unisce faccia da superficie d'appoggio per lo spostamento, e nemmeno lo spazio tridimensionale vuoto che ci sta avvolto attorno gli rimanga appiccicato addosso, e che il suo portatore non abbia bisogno di stringerlo tra i polpastrelli o sorreggerlo col palmo dell'arto afferrante, come se lo si potesse togliere a chi ce l'ha ma senza prenderlo, e porgerlo a chi ne è privo ma senza tenerlo. L'effetto è che sull'Olimpo non hanno capito. Eccetto Persefone, adesso, in quest'attimo esatto.

Ed ora che le è risalito in gola si rende conto che a lui quell'addio non l'ha detto, sia per sostituirlo con un arrivederci, sia per tenerselo, per conservarlo nei propri polmoni, perché è riservato a loro, a quelli che sono quassù : « Addio miei genitori ! Addio miei fratelli ! Addio mie sorelle ! Addio ! Da oggi Zeus ha una figlia in meno, ma da domani Ade avrà una sposa ! Addio ! Da oggi gli dei hanno una principessa in meno, ma da domani i morti avranno una regina ! Addio ! » La profezia di Prometeo non è un'apocalisse messianico-millenarista come la predicazione di Gioacchino da Fiore circa la sequenza delle epoche da quella del Padre a quella dello Spirito Santo attraverso quella del Figlio ( come se Gesù di Nazareth, invece che “nessuno va al Padre se non attraverso il Figlio”, avesse detto : “nessuno va dal Padre allo Spirito Santo se non attraverso il Figlio” ), che annuncia un Diluvio-Universale o la Fine-del-Mondo e il Giorno-del-Giudizio. Il governo di Zeus ( come quello del demiurgo Yaldabaoth nello gnosticismo di Basilide, Carpocrate, Cerinto, Elcasai, Eracleone, Mani, Marcione, Teodoto, Valentino e altri, o di Brahma declassato a divinità di second'ordine e rango inferiore rispetto alla sua prefigurazione vedica Prajapati, sia nella dottrina del Buddha Gautama Siddhartha Sakyamuni che nella concezione shivaita ) non ha un termine cronologico ma un limite cosmologico. Il frammento di Eraclito di Efeso « Ade e Dioniso sono lo Stesso » può avere il generico senso immanentista/monista/panteista che gli viene di solito dato, oppure potrebbe avere un significato specifico ( che non riguarderebbe una presunta identità tra tutti gli dei, ma in particolar modo tra quei due ) analogo all'affermazione « Io e il Padre siamo Uno », fatta da Cristo a titolo proprio e col verbo coniugato al plurale ma in prima persona, non riferita all'umanità o all'universo come archetipi dell'inconscio collettivo, canalizzazioni di angeli custodi e spiriti guida, costellazioni familiari, cronache dell'akasha, legami karmici, legge dell'attrazione, sincronicità delle coincidenze significative, e blablabla... Quando venne alla luce Dioniso, Zeus se ne attribuì la paternità, e lo registrò all'anagrafe facendolo risultare come nato da Semele, un'amante che aveva carbonizzato e incenerito per evitarne l'autopsia, che se fosse stata effettuata, non riscontrando tracce recenti di parto, avrebbe confutato la sua certificazione. Dioniso è figlio di Ade e Persefone, ed è il dio dell'allucinazione, della cattiveria, della collera, del deliro, del dilaniamento, della disperazione, della distruzione, del divoramento, del dramma, del dubbio, dell'ebbrezza, dell'eccesso, dell'entusiasmo, dell'estasi, dell'euforia, della follia, della malvagità, della mania, dell'orgasmo, dell'orgia, dell'ossessione, della rabbia, del sadismo, del suicidio, della vendetta, della violenza... - tutti effetti che la morte ha sulla vita, tutti gli aspetti che assume la morte apparendo alla vita, incontri della vita con la morte in cui s'imbatte, incursioni della morte che irrompe nella vita, punti esclamativi curvi, piegati, storti, che non danno voce solo all'ammirazione, alla meraviglia, alla sorpresa, allo stupore, ma insieme all'orrore e al terrore ( il “Timore e Tremore” di Søren Kierkegaard ), e somigliano al punto interrogativo che chiude la vita, che è una domanda, la cui risposta è l'essere-per-la-morte di Martin Heidegger, e ( parafrasando il nome dell'arcangelo Michele, epiteto = “Chi come Yahweh” ) la cui formulazione è : « Chi più di Zeus ? »

Vittorio Varano

L’epopea di Gilgamesh – Luigi Angelino

$
0
0

“Epopea di Gilgamesh” è il titolo attribuito dagli studiosi moderni ad un ciclo epico di ambientazione sumerica, che risale in maniera presuntiva a circa 4.500 anni fa, in quanto la data di elaborazione più probabile è individuata tra il 2.600 ed il 2.500 a.C.. Il poema fu redatto in caratteri cuneiformi su tavolette d'argilla e ne esistono diverse versioni, pervenute fino ai nostri giorni seguendo varie provenienze. Il ciclo epico narra le gesta di Gilgamesh, re sumero di Uruk, nipote di Enmerkar e figlio di Lugalbanda. Di tale opera la versione più conosciuta è quella che fu elaborata per la biblioteca del re assiro Assurbanipal (1), attualmente conservata nel British Museum di Londra, anche se sono stati analizzati dagli esegeti alcuni frammenti di testi derivanti da altre ricostruzioni più antiche. Il ciclo epico di Gilgamesh, composto secoli prima dell'Iliade e dell'Odissea, costituisce il più antico e significativo esempio di elevazione spirituale della civiltà umana, capace di influenzare tutte le culture successive ed, in particolare, la sapienza biblica. Alcune tavolette cuneiformi riportanti le vicende di Gilgamesh sono state scoperte nella penisola anatolica, redatte in lingua ittita ed hurrita, evidente dimostrazione di come fin dall'antichità sia stata avvertita la ricchezza dell'ispirazione dell'opera (2). Le fonti storiche che riguardano il testo sono abbastanza complesse, abbracciando un periodo di tempo di ben duemila anni, anche se quella considerata più attendibile è il poema originario in lingua sumera, con la successiva versione in lingua accadica. Quest'ultima è considerata la base per le traduzioni moderne, mentre la composizione originaria in lingua sumerica serve per lo più allo scopo di chiarire alcuni dubbi interpretativi. Il nucleo più antico dell'epopea è considerato come una raccolta di storie separate e si fa risalire alla terza dinastia Ur, mentre la versione accadica dovrebbe essere stata redatta all'inizio del secondo millennio a.C., quando alcuni anonimi autori utilizzarono il materiale raccolto per formare un'epica unitaria. Secondo la tradizione, la versione standard, formata da dodici tavole, sarebbe stata fissata da Sin-leqi-Unnini (3) tra il 1300 ed il 1100 a.C., per poi finire nella prestigiosa raccolta della biblioteca del re Assurbanipal a Ninive. Per quanto riguarda il ritrovamento del capolavoro sumerico, in maniera estremamente sintetica si può dire che esso fu scoperto nel 1853 dall'archeologo Hormuzd Rassam e nel 1870 ne fu pubblicata una traduzione in inglese da parte dell'assirologo George Smith, alla quale seguirono molte altre versioni nelle lingue moderne. Circa vent'anni fa, Andrew George ha pubblicato una versione critica del poema, presentando il testo delle dodici tavolette in lingua originale, con a fianco la traduzione in inglese (4).

La trama del poema, nella sua versione originale, racconta delle vicende di Gilgamesh, re di Uruk, la cui storicità è molto controversa. Egli è presentato, all'inizio, come un re oppressore, contro il quale la popolazione invoca l'aiuto degli dèi. Questi, allora, decidono di creare il “guerriero primitivo”, Enkidu, inviandolo nella città di Uruk per tenere testa al tremendo sovrano. Dapprima Enkidu apprende le pratiche amorose ed i primi rudimenti della civiltà, unendosi alla prostituta sacra (5) Samhat, in un percorso di ascesi simbolica di acquisita consapevolezza. Così istruito, Enkidu raggiunge Uruk dove conosce il re ed ha con lui un violento, ma leale combattimento. La lotta è ad armi pari e ciascuno dei contendenti riconosce l'altissimo valore dell'altro, stringendo una solidissima amicizia, da alcuni autori accostata a quella di omerica memoria tra Achille e Patroclo. Gilgamesh convince Enkidu a seguirlo nella foresta dei Cedri per sconfiggere il mostro Humbaba. Dopo un duro scontro, il mostro viene immobilizzato e chiede clemenza a Gilgamesh che si lascia quasi impietosire. L'amico, tuttavia, lo convince delle parole menzognere del prigioniero e lo spinge ad ucciderlo. Rientrati ad Uruk, Isthar (6), dea dell'amore, si invaghisce perdutamente di Gilgamesh, ma il re la rifiuta e la schernisce, ricordandole il triste destino incontrato da tutti i suoi precedenti spasimanti. Allora la dea, ferita ed umiliata, si rivolge al dio del cielo An, che, dopo molte esitazioni, manda il Toro Celeste per punire lo sfrontato Gilgamesh. Il sovrano di Uruk ed il suo fedele compagno riescono a sconfiggere e ad uccidere il Toro celeste, ma tale azione suscita la riprovazione del consiglio degli dèi che decide di punire con la morte uno dei due eroi. La scelta ricade su Enkidu che, colpito da una malattia mortale, dopo dodici giorni di atroci sofferenze e di accorate suppliche all'amico Gilgamesh, perde la vita. Il re di Uruk è disperato per la perdita dell'amico e, dopo avergli celebrato un sontuoso funerale, non riesce a darsi pace per la sua morte, decidendo di intraprendere la strada per conoscere il segreto dell'immortalità. A questo punto, Gilgamesh parte vagando per la steppa, alla ricerca di Utanapsistim, l'unico sopravvissuto al diluvio universale, a cui gli dèi avevano consentito di vivere in eterno. Il viaggio di Gilgamesh diventa irto di ostacoli e più avventuroso, dovendo superare la montagna protetta dagli uomini-scorpione ed il mare della morte, per raggiungere il grande Utanapistim. Questi, allora, gli racconta del diluvio universale e dell'esistenza della pianta dell'eterna giovinezza, nascosta in fondo al mare. Dopo essersi di nuovo messo in viaggio, Gilgamersh la recupera dagli abissi ma, sulla via del ritorno, mentre sosta presso una pozza d'acqua per le purificazioni, un serpente mangia la pianta, rinnovando la sua pelle. Persa la speranza dell'immortalità, Gilgamresh si dispera, ma raggiunge la consapevolezza dell'inesorabile destino mortale degli uomini. La XII tavola appare alquanto slegata dal resto della trama, poiché, come in una sorta di flashback, narra della caduta dei preziosi strumenti di guerra di Gilgamesh negli inferi e del recupero di questi da parte di Enkidu. Nonostante le raccomandazioni ricevute, Enkidu viola le regole del mondo dei morti e non può tornare più nel mondo dei vivi, anche se Gilgamesh ottiene dagli dèi il consenso per incontrare l'ultima volta l'amico che gli racconta dell'inevitabilità del destino umano.

Prima di passare ad una breve rassegna sulla struttura del testo e sui suoi significati simbolici, mi preme sottolineare le notevoli relazioni di alcuni temi presenti nell'epopea di Gilgamesh con i testi biblici, in special modo con il libro della Genesi. Si pensa che alcuni temi siano diventati così diffusi in ambito mesopotamico da influenzare tutte le popolazioni della medesima area geografica, in particolare gli Ebrei durante il periodo di deportazione babilonese (7). Sappiamo infatti, con ragionevole certezza, che la redazione del torà pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia Masoretica e dell'Antico Testamento della Bibbia cristiana, fu fissata proprio in tale contesto socio-culturale. Vi sono numerose assonanze e similitudini, nella trama e nei personaggi, come il Giardino dell'Eden, il Diluvio Universale, la figura del serpente et cetera. Peraltro, il riferimento al diluvio universale è presente nelle testimonianze di tutte le antiche civiltà, al punto da far pensare ad un archetipo unico, come eco di un'ancestrale reminiscenza, alla quale tutte le generazioni successive avrebbero attinto. Dando uno sguardo alla struttura del poema, è d'obbligo precisare che i popoli del vicino oriente non erano soliti dare un titolo alle opere letterarie e tanto meno era diffusa la consuetudine di segnare il nome degli autori. Come abbiamo detto in apertura, “Epopea di Gilgamesh” è un titolo coniato dagli esegeti moderni, mentre gli scribi babilonesi e, prima di loro, quelli sumerici, usavano citare le opere letterarie nei cosiddetti “cataloghi”, a noi pervenuti in numero notevole, che riportavano la riga iniziale del testo (8). Nel caso della versione canonica del poema di Gilgamesh, avremmo potuto trovare l'iscrizione: “Sha naqbaimuru” (di colui che vide ogni cosa). In pratica le opere erano contrassegnate con l'incipit del testo di riferimento, come è stato riscontrato con i libri della bibbia ebraica. Ciò che rendeva complicata l'identificazione di un'opera era il fatto che molto spesso l'incipit era simile per molti testi, utilizzando espressioni idiomatiche, un po' come il “c'era una volta” che anticipa ogni fiaba. Oltre all'utilizzo dei cataloghi, per indicare le opere custodite in una biblioteca, gli scribi avevano l'abitudine di annotare alcune osservazioni al margine di ogni testo. A questa tipologia di annotazione, gli studiosi moderni hanno attribuito la definizione di “colofone” (9). Di solito le annotazioni erano apposte alla fine di ogni tavoletta, quando l'opera risultava troppo lunga. Un colofone poteva contenere molteplici informazioni, davvero importanti per capire il contenuto e l'origine di un'opera. Nel caso specifico, una costante di tutti i colofoni ritrovati, oltre alla già citata prima riga, è stata l'aggiunta “serie di Gilgamesh”.

E' importante notare che, mentre nei colofoni della versione classica appare la scritta “serie di Gilgamesh”, in quella ittita si legge “canto”, una precisazione forse molto più assimilabile ad un vero e proprio titolo. Una vera querelle è derivata dall'interpretazione del sibillino finale canonico, non particolarmente apprezzato da una parte degli studiosi, perchè ritenuto troppo slegato dal resto della vicenda. A tal proposito sono state riesumate versioni alternative dell'epilogo, appartenenti ad altre tradizioni precedenti o contemporanee, come ad esempio l'elogio funebre alla morte di Gilgamesh. Alcuni preferiscono considerare la conclusione del poema con il ritorno di Gilgamesh nella città di Uruk (10), così come riportato nella XI tavola, richiamando la figura stilistica dell'inclusione: l'opera si aprirebbe con la lode della città di Uruk e si chiuderebbe allo stesso modo. In realtà si tratterebbe di un'interpretazione forzata, in quanto contrastante con la fissazione canonica assira del poema in XII tavole, anche se è quasi certo che quest'ultima sia stata aggiunta da Sinlequiunnini, o da un gruppo di scribi, mitizzati dai posteri nella sua figura. A ben guardare, inoltre, il racconto della morte dell'eroe falserebbe il reale messaggio del redattore. Il suo intento, infatti, era quello di descrivere un percorso di maturazione e di consapevolezza interiore, sottolineando l'acquisita saggezza del sovrano, al termine di tutte le straordinarie peripezie vissute, mentre l'evento della sua morte era dato per scontato.

L'epopea di Gilgamesh è una delle prime riflessioni della civiltà umana sul senso della vita e di conseguenza sul significato della morte, articolandosi con estrema raffinatezza di contenuti su tre temi principali: il viaggio, la tradizione culturale ed il senso della vita. Una gran parte di critici intravede nell'opera un percorso educativo del protagonista, simboleggiato attraverso i luoghi descritti nel testo. La parabola di Gilgamesh doveva servire ai destinatari dell'opera che si accingevano ad intraprendere un percorso per acquisire un grado di consapevolezza superiore. Non a caso Gilgamesh all'inizio è descritto come un oppressore, mentre alla fine del poema si impone come sovrano saggio ed amato dal suo popolo. Ad indicare la vastità delle esperienze vissute dal protagonista è proprio il prologo: “Gilgamesh vide ogni cosa, ebbe esperienza di ogni cosa, in ogni cosa raggiunse la sua compiuta saggezza”. La metafora del viaggio come percorso educativo è rivelata anche dalla doppia scansione temporale in cui si dipana l'intera vicenda: nella prima parte del poema, il protagonista vive in una dimensione irreale, quasi appartata dal resto del mondo, mentre nella seconda parte si muove in un contesto sociale, conquistando la stima e la riconoscenza dei propri sudditi. Il secondo tema è quello culturale, in quanto il poema ci offre un quadro preciso ed, in certi casi, anche dettagliato della struttura sociale sumerica. In particolare, si sottolinea l'importanza della conquista della “scrittura”, come strumento di diffusione culturale e di possibilità di comunicazione duratura e fondante lo stesso concetto di storia. Il prologo non fa che anticipare il gesto che compirà Gilgamesh nell'epilogo, quando avrà acquisito un adeguato livello di saggezza: egli fece incidere tutte le sue fatiche su una stele di pietra. Si può dire che tutta la sapienza sumerica sia racchiusa nella straordinaria scoperta della scrittura, per tradizione attribuita a Enmerkar, nonno di Gilgamesh. Nell'opera si recupera anche il senso degli avvenimenti storici, quando il protagonista disporrà il ripristino degli edifici di culto distrutti dopo il diluvio, divenendo anche il prototipo dell'eroe culturale. Le sue imprese riassumono le conquiste tecniche dell'evoluta ed ancora misteriosa civiltà sumera, come gli scavi dei pozzi nel deserto, il taglio dei cedri da utilizzare come materiale di costruzione, la navigazione a vela et cetera. A questi si aggiungono particolari che descrivano anche il funzionamento della vita quotidiana, come le modalità di accoglimento degli orfani, lo schema del calendario, i costumi sessuali e l'agricoltura (11).

Il terzo tema che informa l'intera opera è quello della ricerca del senso della vita, focalizzandosi sul destino dell'uomo inesorabilmente segnato dalla mortalità. Poetiche e significative sono le parole di Utnapisitim, quando, riflettendo sul mondo, ricorda: “tutto assomiglia alle libellule che sorvolano il fiume, il loro sguardo si rivolge al sole, e subito non c'è più nulla” (tav. X). Lo stesso Gilgamesh, all'inizio del poema, afferma: “L'umanità conta i suoi giorni e qualunque cosa faccia è vento” (tav. II). Gilgamesh non si arrende ai limiti della natura, mettendosi alla ricerca di un antidoto alla mortalità. Le avventure, però, gli insegnano la consapevolezza che tali limiti non devono essere oltrepassati, come si evince dall'accorato appello ad Enkidu nel finale, quando lo esorta a non lasciarsi ingannare dalla speranza di poter lasciare il mondo delle ombre. Sullo sfondo della narrazione, si intuisce la riflessione sumerica sull'esistenza di una forza superiore anche al destino degli uomini, cioè il fato, che sarà poi sviluppata nel contesto culturale ellenico, dove sarà chiamata “moira”, trasfigurata nelle tre divinità (moire) che determinano l'esistenza di ciascun individuo(12). Molto suggestiva è la tesi secondo la quale il viaggio di Gilgamesh andrebbe collocato nelle strade del cielo, piuttosto che tra i monti ed i fiumi della Mesopotamia, interpretando in chiave simbolica i luoghi ed i personaggi incontrati dall'eroe. Uno degli elementi più significativi, da mettere in relazione con il fenomeno della precessione degli equinozi (13) e che farebbe chiarezza sul periodo di effettiva ambientazione della vicenda, è lo scontro con il Toro celeste, inviato per placare le ire della dea Isthar. Al termine della lotta con l'animale, Enkidu gli strappa la coscia ed il membro. Per alcuni studiosi, si tratterebbe di un'indicazione della costellazione del Toro, che non è rappresentata da un esemplare intero, ma tagliato a metà della vita, mancante proprio della parte posteriore. Questa scena vorrebbe raccontarci il passaggio dall'età dei Gemelli a quella del Toro, avvenuta all'incirca nel 4500 a.C.. (14) Non a caso nel racconto, poco dopo l'uccisione dell'animale sacro, Enkidu muore ed il toro, così menomato, viene assunto in cielo. Parimenti, il nome del mostro Khumbaba rievocherebbe la divinità elamitica Hmba, legata a sua volta alla stella Procione, l'alfa della costellazione del Cane Minore, dai Sumeri annoverata tra quelle appartenenti al Cancro. Ed in questo ultimo segno è collocata la porta dello Zodiaco collegata al genere umano, mentre al suo opposto, nel segno del Capricorno, è individuata la porta dove si incarnano gli dèi. Seguendo questa schema, il viaggio di Gilgamesh e di Enkidu potrebbe essere letto come un percorso spirituale dal mondo materiale a quello celeste. Di straordinaria importanza, inoltre, appare la descrizione del passo del monte Masu, alle cui porte sono posti di guardia gli uomini-scorpione. Il termine masu è traducibile come “gemelli” e, tra le “stelle gemelle”, i Babilonesi elencavano la lambda e la ipslon Scorpii, cioè quelle del cosiddetto “pungiglione” della costellazione dello Scorpione. E non bisogna dimenticare che, dal punto di vista astrologico, l'ottavo segno è quello associato alla morte fisica, mentre i successivi quattro sono legati all'elevazione dell'anima per poi portare alla rinascita primaverile dell'Ariete. Nel testo è scritto che Gilgamesh entrò in una oscurità come mai non si era vista prima, che possiamo collocare tra la costellazione dello Scorpione e del Sagittario, con una simbologia quanto mai dettagliata, in cui ricorre il numero 120 (i pali che corrispondono alle remate per raggiungere la destinazione finale), equivalente ai 120 gradi dei quattro segni zodiacali rimanenti, per raggiungere il termine della costellazione dei Pesci, dove lo aspetta Utnapistim, prima della rinascita.

Gli straordinari riferimenti alla volta celeste, contenuti nell'epopea di Gilgamesh, hanno favorito il formarsi di alcune teorie che ritengono la civiltà sumera come diretta emanazione di una più sofisticata civiltà extraterrestre. In particolare, uno dei primi fautori dell'intervento alieno nello sviluppo della vita del nostro pianeta, è stato Zacharia Sitchin (15) che ha avanzato molteplici ipotesi nel suo vasto progetto editoriale. Secondo queste teorie, l'epopea di Gilgamesh, così come altre iscrizioni degli Accadi e dei Sumeri, e perfino i più antichi libri della Bibbia, dovrebbero essere letti come rudimentali documenti storico-scientifici di ciò che era avvento sulla Terra, dopo l'intervento extraterrestre. Si tratta di una problematica interpretativa molto complessa e di difficile semplificazione poiché, secondo tali ricostruzioni, i Nephilim menzionati nella Bibbia dovrebbero essere identificati con gli Annunaki della mitologia sumerica, che letteralmente significa “coloro che sono venuti sulla Terra”. Secondo Sitchin, gli Annunaki sarebbero arrivati dal mitico pianeta Nbiru, quando questo giunse nel suo punto orbitale più prossimo alla Terra, per verificarne l'abitabilità e sfruttarne le risorse. Alcuni ritrovamenti archeologici hanno contribuito ad alimentare le convinzioni sui paleoastronauti, rendendo ancora più affascinante il mistero sulle divinità menzionate nei poemi sumerici, come Enki ed Enlil che non sarebbero altro che personaggi politici e militari di spicco, provenienti dal pianeta Nbiru (16). A Tell-Brak, un sito preistorico sul fiume Khabir, furono ritrovate centinaia di statuette di alabastro, chiamate “Divinità Occhio”, con uno strano copricapo affusolato, dalla forma vagamente umanoide. L'aspetto di tali statuette ha alimentato la fantasia dei sostenitori dell'intervento extraterrestre, che le hanno interpretate come raffigurazioni di creature aliene divinizzate. Lo stesso diluvio universale, presente nelle mitologie di tutte le antiche civiltà mondiali, meritevole di un approfondimento a sé stante, sarebbe derivato da una catastrofe naturale intorno a 13000/12500 anni a.C.. Gli extraterrestri non avrebbero fatto niente per salvare l'umanità, tranne qualche rarissimo esemplare, limitandosi a lasciare il nostro pianeta a bordo delle loro astronavi in direzione di Nbiru, che compirebbe una non identificata orbita intorno al Sole, in una posizione più o meno intermedia tra Marte e Giove. Gli Annunaki tornerebbero sulla Terra periodicamente, ogni 3600 anni, quando l'orbita di Nbiru si avvicinerebbe nel punto orbitale più vcino. La comunità scientifica tradizionale ha sempre respinto questa ricostruzione sull'origine della civiltà umana, anche se negli ultimi anni vi è stata qualche apertura possibilista.

Al di là delle varie teorie sulla simbologia dell'epopea di Gilgamesh, nonchè sulla sua ambientazione in Cielo o in Terra, non vi è dubbio che rimane un'eccezionale opera letteraria in grado di testimoniare l'elevatissimo livello culturale raggiunto dalla civiltà sumera, ancora oggi per certi versi misteriosa, a prescindere dai collegamenti con un eventuale intervento alieno. Le ricerche attuali tendono a dimostrare che i Sumeri, probabilmente di origine indoeuropea, si stanziarono in Mesopotamia molto prima della metà del quarto millennio a.C., così come si credeva fino ad alcuni decenni fa. Ancora oggi non è stato spiegato come mai fossero così abili in numerose arti ed attività tecnologiche, arrivando a costruire splendide e ben strutturate città, come Ur, Uruk, Eridu, Kish e Nippur. Ciò che desta più meraviglia è, comunque, la loro straordinaria conoscenza in campo astronomico ed astrologico. Gli eventi principali della vita di Gilgamesh, delineati con raffinata abilità stilistica, ci conducono nella dimensione diacronica di un mondo sapienziale che ha già raggiunto la consapevolezza della complementarietà tra ciò che è umano e ciò che è divino.

Note:

1 - Assurbanipal fu re degli Assiri tra il 667 ed il 626 a.C.. E' citato nel libro biblico di Esdra; 2 - Cfr. Giovanni Pettinato, I Sumeri, Ed. Bompiani, Milano 2007; 3 - Il nome del mitico scrittore può essere tradotto diversamente, a seconda di come si trascrive. Per la maggior parte degli studiosi, la versione corretta è “il dio Luna è colui che accetta le mie preghiere”; 4 - Cfr. Andrew George, The epic of Gilgamesh, Penguin Press 1999; 5 - Il fenomeno della prostituzione sacra è abbastanza comune nei rituali delle antiche civiltà medio-orientali, fino ad entrare nelle pratiche greco-romane, seppure con costumi diversi; 6 - Isthar era la dea dell'amore, della fertilità e dell'erotismo. A lei era dedicata una delle otto porte della città di Babilonia. Il suo aspetto era nel contempo benefico e terrificante; 7 - L'esatto periodo della deportazione dei Giudei a Babilonia è alquanto controverso. Si stima che sia avvenuto in un periodo compreso tra il VII ed il VI secolo, sotto il regno di Nabucodonosr II; 8 - Cfr. Giovanni Pettinato, La saga di Gilgamesh, Ed. Rusconi, Rimini 1992; 9 - Il termine colofone è di derivazione greca e sta ad indicare le annotazioni a margine dei libri antichi o dei libri moderni, quando essi abbiano ispirazione artistica; 10 - La città di Uruk, fondata dai Sumeri, era situata nella Mesopotamia meridionale. E' considerata la “prima città” strutturata della storia, contenendo gli elementi della stratificazione sociale e della specializzazione del lavoro; 11 - Cfr. nota nr. 2; 12 - Le moire nella mitologia greca erano Cloto, Lachesi ed Atropo (la prima svolgeva il filo del destino, la seconda lo assegnava a ciascun uomo, la terza aveva il compito di recidere il filo); 13 - Sul tema della precessione degli equinozi, cfr. Luigi Angelino, I miti-luci e ombre, Cavinato editore international, Brescia 2018; 14 - Cfr. Renzo Baldini, Analisi di miti ancestrali ed altre ricerche, Centro italiano discipline astrologiche, pubblicazione edita in occasione del III Congresso internazionale FAES- Milano-novembre 2004, pdf. (www.cida,net); 15 - Zacharia Sitchin (1920-2010) ha pubblicato numerosi libri sulla cosiddetta archeologia misteriosa, con particolari interpretazioni rifiutate dalla comunità scientifica tradizionale. Le opere più importanti, per le quali si rimanda ai cataloghi specializzati, sono diventate best-seller, per l'originalità del pensiero; 16 - La comunità scientifica nega l'esistenza dell'ipotetico pianeta indicato da Sitchin, sulla base della mancanza di alcun riscontro astronomico, né tanto meno archeologico. Il termine Nbiru in lingua sumera indicherebbe, invece, un corpo celeste, con ogni probabilità il pianeta Giove.

Luigi Angelino

L’area sacra del Palatino: nuove acquisizioni – Paolo Galiano

$
0
0

Gli scavi archeologici degli ultimi trent’anni hanno consentito di rivedere in modo più ampio e completo la sistemazione della zona sud-ovest del Palatino in corrispondenza dell’area descritta dagli autori romani come quella sacra alle origini dell’Urbe e al suo fondatore: se andiamo all’indietro nel tempo è dimostrata l’esistenza di strutture di templi e di edifici privati risalenti al periodo tra la fine dell’epoca monarchica e la prima fase della Repubblica (1), strutture a loro volta costruite su di una complessa rete di canali e di cisterne scavati nel terreno vergine del colle e su di un abitato stabile sviluppatosi attraverso varie fasi tra il X e l’VIII secolo, a sua volta nato sopra un insediamento che si può datare almeno al Paleolitico Superiore, del quale rimangono numerosi manufatti litici, tutti elementi che attestano il persistere dell’insediamento umano per secoli e millenni fino alla nascita del primo nucleo urbano attribuito convenzionalmente a Romolo (2). L’area sud occidentale del Palatino è stata considerata dall’antichità il luogo più sacro di Roma: qui venne tracciato il solco che ne delimitò i confini e si scavò la fossa del mundus con la quale si strinse il patto con gli Dèi, qui vi furono eretti i primi luoghi di culto accanto alla regia, forse da identificare con la prima delle curiae che costituirono l’ossatura civile della città, la Curia Saliorum in cui erano conservati gli strumenti sacri, i simboli di Marte e il lituo del fondatore. I ritrovamenti degli archeologi tra la fine del XIX e gli inizi del XXI hanno portato alla luce vestigia che confermano le parole di Livio, di Cicerone, di Dionigi d’Alicarnasso ed altri autori, confutando l’accusa di tardiva leggenda avanzata da alcune scuole nei confronti dell’esistenza o meno di una tradizione mitistorica romana sulla cui base identificare i monumenti ritrovati (3). Ma, d’altra parte, che il fondatore si chiami Romolo o con un altro nome, che il tracciato originario sia sulla cima del Palatino o alle sue pendici, che la grotta del Lupercale dove trovarono rifugio i Gemelli si trovi a sud o ad ovest del colle, sono discussioni che non influenzano la realtà di ciò che qualcuno in qualche modo e secondo un qualche rituale ha realizzato in un tempo che può essere situato alla fase finale dell’Età del Ferro laziale (circa tra il 750 e il 650, a seconda delle stime cronologiche - 4) o, ancora prima, all’inizio di essa (circa tra il 1020 e il 950), se si prende come riferimento la capanna più antica del Germalo (5) sulla quale vennero costruite le fasi successive dell’insediamento (6).

Quella che Romolo fonda alla data canonica del 753 è una vera e completa città e non un semplice agglomerato di uomini e di capanne, perché “le più recenti scoperte archeologiche di età regia a Roma attestano, già nel corso dell’VIII sec. a. C. l’emergere degli indicatori – santuari e spazi pubblici e politici [cioè una regia] – ritenuti necessari dalla critica per la definizione della forma urbana” (7), e la città romulea ha i suoi poli fondamentali nell’insieme costituito dalla regia, dal santuario di Marte e di Ops e dal mundus, tre elementi che traggono la loro origine da una realtà precedente, un villaggio della prima Età del Ferro di cui rimane il fondo di una capanna entro la quale vennero costruite la domus regia e il probabile santuario di Marte e Ops, di fronte alla quale si trova la tomba ad inumazione che venne identificata con il mundus romuleo, di cui diremo più avanti. Per comprendere meglio la portata delle scoperte più recenti e limitandoci alla sola area sud-ovest del Palatino, anche se molti altri elementi di rilevante importanza sono comparsi negli scavi che hanno interessato tutto il colle, daremo un sintetico resoconto descrivendo la zona come se fosse suddivisa in tre parti distinte FIG. 1, rispettivamente il settore di nord-est corrispondente al tempio di Vittoria, il settore sud, dove Vaglieri nel 1907 trovò le cosiddette “capanne romulee”, e il settore nord-ovest del tempio della Magna Mater.

(Figura 1 - Pianta dell’area sud-ovest del Palatino: abbiamo suddiviso l’area in tre settori: nel settore nordest b indica il tempio di Vittoria con la fossa ipogea d e le due cisterne f e g, c è il c. d. auguratorium e x, evidenziato dalla stella, il supposto tempio di Juno Sospita/Caprotina, a destra la c. d. “casa di Livia” dove la stella segna il luogo della tomba arcaica con cisterna; nel settore sud accanto alla stella il complesso e “capanne romulee” con n aedes Romuli e tomba-mundus, m le scalae Caci e z la via tecta; nel settore nordovest la stella indica in v l’area del supposto tempio di Pales con l’impronta della capanna e i cunicoli della camera ipogea in prossimità di a il tempio di Cibele con o le dipendenze del tempio (da Pensabene e Coletti, Acqua per gli uomini, modificato).

Settore nord-est: il tempio di Juno Sospita/Caprotina (?), le cisterne e le favissae Nell’area tra il tempio di Vittoria, il c. d. Auguratorium (interpretato ora come la aedicula Victoriae Virginis - 8) e la Domus Tiberiana sono state ritrovate tracce di un’occupazione risalente al Paleolitico Superiore (ed anche di età ancora precedente, stando ad un piccolo numero di manufatti) rappresentata da strumenti litici contenuti all’attuale quota di 42 metri s. l. m. in uno strato di depositi fluviali (9). Lo strato di depositi fluviali, presente sia qui che sul vicino Capitolium, racconta la tormentata storia geologica dei colli di Roma, costituiti da strati di origine fluvio-lacustre su cui poggiano i tufi delle colate laviche del Monte Albano e di nuovo sedimenti fluviali, a causa dell’alternanza di innalzamento ed abbassamento del suolo, fase in cui il Tevere e i suoi affluenti hanno scavato le vallate che separano i rilievi attuali dell’area romana (10). Sopra lo strato preistorico sono state riportate alla luce le vestigia di un grande tempio, di dimensioni maggiori rispetto all’Auguratorium- aedicula che venne successivamente costruito ad un livello superiore, da riferire agli inizi della Repubblica (11) e forse dedicato a Juno Sospita sulla base dei reperti ceramici (antefisse raffiguranti una divinità femminile adorna di corna caprine, il che la rende più vicina alla Juno Caprotina - 12) recuperati da una vicina cavità ipogea (sulla quale successivamente venne eretto il tempio di Vittoria), una favissa contenente materiali probabilmente provenienti dal tempio più antico, tra cui alcuni frammenti nei quali sono iscritte le lettere V e N da riferire al nome Juno o al corrispondente etrusco Uni. Al di sotto del fondo della struttura ipogea sono stati rinvenuti due cunicoli, forse da identificare come arcaiche cave di tufo in quanto non sono state osservate tracce di utilizzo come condotti idrici, a differenza di altri cunicoli quali quelli sottostanti la vicina “casa di Livia” (13) e numerosi altri ritrovati nell’area palatina, foderati con un rivestimento impermeabilizzante (14). A questo edificio templare apparteneva una grande cisterna rettangolare scavata nel tufo del piano originario del Palatino (15), di cui un esempio analogo sembra potersi riscontrare in prossimità della parete ovest della grande capanna protostorica della c. d. “area delle capanne” (16). La presenza di questo tempio del VI secolo forse dedicato a Juno Sospita-Caprotina e la sua successiva sostituzione con il tempio di Vittoria nel 294 fanno pensare all’esistenza sul Palatino del culto di una divinità arcaica risalente ad un tempo ancora precedente, come sembra attestare Dionigi di Alicarnasso quando parla di un recinto dedicato a Vittoria risalente al tempo mitico di Evandro (17), segno del persistere di un culto femminile nell’area sud-ovest del Palatino, ulteriormente confermato dalla fondazione del tempio della Magna Mater nel 204, culto che ha per soggetto una divinità femminile, conosciuta almeno fin dall’età monarchica nelle diverse forme della Ops del santuario della “area delle capanne” di VIII secolo, dell’arcaica Vica Pota (18), in cui nome significa “vittoria e potere”, e di Juno Sospita, analoga alla divinità poliade della città di Lanuvium. Ritorniamo alla cavità ipogea sottostante il tempio di Vittoria: essa fa parte di un ampio e complesso sistema di ipogei e di cunicoli scavati nel tufo del Palatino in buona parte individuato nei recenti scavi: si tratta in parte di cunicoli per l’estrazione del tufo necessario alle costruzioni sacre e profane che vennero erette in quest’area del Palatino tra la fine della monarchia e il periodo alto-repubblicano, in parte di cisterne a cielo aperto o sotterranee, di cui alcune successivamente vennero trasformate in luoghi sacri (19). L’ipogeo del tempio di Vittoria è, come si è detto, una favissa in quanto priva del rivestimento impermeabile caratteristico delle cisterne, probabilmente coeva al tempio di dedicazione ignota visto che l’ipogeo è tagliato dalle fondamenta del successivo tempio di Vittoria di inizio III secolo, mentre per altre tre cisterne, di cui due ritrovate nel 1896 (scavi Gatti) e nel 1907 (scavi Vaglieri) e la terza sotto la c. d. “casa di Livia”, è possibile la loro trasformazione in luoghi sacri, come sarebbe dimostrato non solo dal fatto che esse sono state mantenute intatte non ostante la costruzione di nuovi edifici accanto o sopra di esse (20) ma anche dalla presenza di una piccola fossa votiva contenente ceramica intatta del VI secolo come offerta di fondazione pertinente alla cisterna semicircolare situata presso l’angolo sud-est del tempio di Vittoria e rispettata dal podio del tempio (21).

Per quanto concerne la cisterna sotto la c. d. “casa di Livia” essa è situata presso una tomba ad incinerazione contenente i resti di un giovane di circa 20-22 anni, risalente alla fase Laziale II A2 (corrispondente circa al 980-950): il complesso tomba-cisterna venne inglobato senza che il nuovo edificio intaccasse la preesistente sepoltura (22). La tomba viene considerata “come appartenente ad una figura particolare, che potrebbe aver esercitato un ruolo legato all’àmbito religioso. Questo potrebbe spiegare il seppellimento in un’area, quella del Palatino, parte integrante e centrale dell’abitato già dalla fase II A” (23). Altre quattro tombe protostoriche del X secolo, oltre quelle della nota necropoli del Foro davanti al tempio di Antonino e Faustina, sono state portate alla luce nella zona dell’arco di Augusto, localizzato dal Coarelli tra l’aedes divi Iulii, il tempio dei Castores e quello di Vesta (24), ma per queste tombe non vi sono elementi per pensare ad una loro sacralizzazione, a differenza di quella della “casa di Livia”.

Settore sud: aedes Romuli e mundus L’area delle “capanne romulee” è ben conosciuta a partire dagli scavi del 1907 FIG. 2: essa è costituita dai fondi di quattro capanne di età protostorica, il maggiore pertinente ad una capanna di maggiori dimensioni con orientamento nordovest-sudest, successivamente sostituita da tre capanne, costruite in tempi diversi secondo gli studi della Falzone: stabilire una cronologia assoluta dell’abitato non è possibile, l’unico riferimento può essere dato dai reperti ceramici che possono essere datati tra il Periodo Laziale IIA e IIB (circa tra il 1020 e l’800 secondo la cronologia di Bettelli) (25). Analogamente il vicino sepolcreto, comprendente sia tombe ad inumazione (una seconda fossa rettangolare venne trovata dal Vaglieri ad est di quella poi trasformata in memoria sacra) che pozzetti circolari per le incinerazioni, tutti scavati nel tufo vergine del colle, presenta somiglianze per le dimensioni delle fosse con quello del Foro, di cui è possibile la datazione all’inizio del Periodo laziale AII (quindi intorno al 1020) sulla base dei corredi, che sono invece assenti nelle tombe di quest’area.

(Figura 2 - Settore sud: particolare dei fondi della “capanne romulee”; la stella indica il recinto in cui si trova la tomba-mundus (da Falzone, L’abitato preistorico, modificato).

L’area delle “capanne romulee” e della necropoli protostorica fu in parte ricoperta o distrutta dai successivi rifacimenti dell’area, causati dal grande riassetto urbanistico della regione con la nascita di un abitato a sempre maggiore densità tra la fine dell’età regia e l’inizio della Repubblica, con la sola eccezione dell’area sacra ritenuta in diretta connessione con il fondatore della città (26), area sacra costituita dal complesso mundus-altare-aedes Romuli che, pur essendosi formato pienamente in età repubblicana, rimase integro fino quasi alla fine della Repubblica sia come monumento che come ricordo storico. La sua storia archeologica è lunga e complessa: di fronte ai fondi di capanne portati alla luce nel 1907 FIG. 3 e FIG. 4 Vaglieri trovò una fossa rettangolare (27), pertinente ad una tomba ad inumazione. tagliata nel tufo originario del Germalo e coperta da una lastra di tufo spezzata in due parti che appariva spostata fin dal tempo antico dalla sua posizione originaria FIG. 5, contenente uno skyphos integro del IV sec. FIG. 6 e frammenti di vasi a suo giudizio non assimilabili alla coeva cultura etrusca in quanto essi, secondo le sue parole (28), in parte “mostrano caratteri che ci riportano ad altre famiglie di più antica immigrazione”, tra cui un vaso (29) che per “tecnica e forma non ha riscontro in Etruria ma piuttosto trova somiglianza tra i fittili delle necropoli della regione pontina”. Questa è la tomba che il Di Nardo identificò con la tomba di Ercole, secondo l’interpretazione da lui data della predizione di Carmenta nelle Historiae di Tito Livio (30), con una evidente sforzatura del testo liviano.

(Figura 3 – Il piano delle c d. “capanne romulee” di epoca protostorica conservate fino al tempo della costruzione del tempio di Cibele, quando vennero seppellite sotto la platea del tempio, mentre il complesso mundus-aedes Romuli veniva conservato - foto da Internet).

(Figura 4 - Ricostruzione dell’area della aedes Romuli: 1 la fossa-mundus coperto da 3 la lastra di tufo e 2 l’altare originario; 6 l’altare repubblicano racchiuso nel sacello indicato da 4 e 5 (da Carafa e Bruno, Il Palatino messo a punto, modificato).

(Figura 5 - La tomba-mundus al momento della scoperta nel 1907: Vaglieri notò che la lastra di tufo che copriva la fossa era spostata dalla sua sede come se fosse stata già aperta in passato - Accademia dei Lincei, Notizie degli scavi 1907, p. 193 fig. 9).

(Figura 6 - Il vaso di IV sec. rinvenuto intatto da Vaglieri nella tomba-mundus - Accademia dei Lincei, Notizie degli scavi 1907, p. 193 fig. 10).

In età romulea la tomba divenne un luogo di culto al quale fu annesso un altare, la cui antichità è dimostrata dall’essere anch’esso scavato nel tufo del colle FIG. 7: questo complesso tomba-altare nel tardo VI secolo venne racchiuso in un tempietto e un secondo altare fu eretto sul nuovo livello del terreno ma sempre in corrispondenza di quello originario (31) (come avvenne in àmbito cristiano con gli altari della Basilica di san Pietro costruiti l’uno sull’altro sopra la tomba di Pietro). In seguito, nello stesso periodo, il tempietto con quello che era considerato il mundus di Romolo venne inglobato in un più ampio sacello, che forse conteneva anche il corniolo fiorito dalla lancia scagliata da Romolo sul Palatino al tempo della fondazione di Roma che era conservato presso le scalae Caci: questo complesso, identificabile con la aedes Romuli degli autori latini, rivestiva una tale importanza che per fare spazio alla nuova costruzione venne ridotta l’area sacra di fronte al tempio di Vittoria (32). Ci troviamo quindi in presenza di un complesso analogo all’heroon di Enea a Lavinium, dove intorno al IV secolo su di una tomba dell’Età del Ferro si instaura un culto con l’erezione di una costruzione che racchiude l’insieme della tomba con le offerte votive originarie e quelle deposte nel tempo successivo.

(Figura 7 - Pianta e sezione degli scavi della necropoli ad est delle c d. “capanne romulee” nel disegno del Vaglieri, che le portò alla luce nel 1907: la freccia superiore indica la tomba ad inumazione identificata con il mundus, in basso la freccia a sinistra indica l’altare scavato nel tufo accanto ad essa, quella di destra il successivo altare di età repubblicana - da Vaglieri, Notizie degli scavi, modificato).

Settore nord-est: il complesso capanna-cunicoli-cisterna del tempio della Magna Mater Forse il più rilevante apporto dei recenti scavi è il ritrovamento di una seconda serie di impronte di capanne riferibili al IX-VIII sec. nella regione posta ad ovest del tempio della Magna Mater FIG. 8, contemporaneo a quello delle già note “capanne romulee” a sud del tempio, di cui mantiene lo stesso asse nordest-sudovest; sopra di esse venne costruito un edificio di attribuzione incerta, mentre al disotto di queste capanne erano stati scavati nel tufo vergine del Palatino un complesso così descritto dai suoi scopritori (33): “al di sotto di un nucleo di capanne di cui restano ben conservati il perimetro intagliato nella roccia e le buche dei pali” venne trovata “un’ampia struttura ipogea articolata in più corridoi. Il braccio principale termina in una sorta di vano circolare dal profilo leggermente ogivale, l’imboccatura del quale originariamente comunicava con l’area delle capanne”. All’epoca imperiale risale invece un condotto che metteva in comunicazione la camera circolare, oramai divenuta una cisterna, con il sottostante clivus Victoriae. Nella struttura circolare Pensabene ritiene di poter identificare un mundus e nell’insieme corridoi-camera un templum sub terra, per cui l’insieme costituirebbe un centro sacrale, ancora rispettato al tempo di Adriano, quando vennero costruite le nuove sostruzioni del Palatino le quali lo circondarono senza intaccarlo. Il carattere ctonio del templum sub terra ha a Roma diversi esempi: oltre il mundus che quattro volte l’anno veniva aperto, sono conosciuti l’altare del Terentum dedicato a Dis Pater sulla via Triumphalis, che partendo dalla Porta Carmentalis si dirigeva a Veio (34), e quello di Consus nel Circo Massimo, altari che venivano dissotterrati solo in coincidenza dei riti periodici che si facevano in onore di questi Dèi; a Caere è stato ritrovato un centro cultuale simile, costituito da un lungo corridoio scavato nel tufo che portava ad una camera di forma rettangolare con gli spigoli perfettamente orientati come nel templum in terra e in coelo determinati dall’àugure per la presa dell’auspicium. Se l’identificazione del Pensabene fosse corretta, ciò indicherebbe nel mundus del settore est del Palatino non solo il più antico esempio di questa struttura ma ne farebbe un sicuro segno di una ritualità già ben sviluppata fin dai primordi dell’Urbe. Si abbia presente che “divinità ctonie” non significano di divinità sotterranee pericolose e/o malvagie, ma in esse vanno identificate i poteri di nascita e ri-nascita collegati con gli Antenati (35), a cui è proprio il compito di assicurare l’esistenza dei loro discendenti nel tempo sia come individui (attraverso il germogliare dei frutti e quindi l’alimentazione) sia come gruppo sociale (generazione di nuovi figli) ma anche esistenza sul piano del sacro perché sono essi ad aver compiuto per primi i riti che uniscono nella religio gli uomini e gli Dèi. La possibile identificazione tra mundus sub terra e Lares è confermato dalle iscrizioni del simile templum sub terra di Caere, risalenti all’epoca dei Severi, dalle quali si può concludere che esso nell’epoca romana era sede dei rituali dei Rosalia (36) dedicati appunto ai Lares (37).

(Figura 8 - Settore nordovest: L indica l’area del supposto tempio di Pales con M la camera ipogea e i cunicoli, a destra il tempio della Magna Mater A e in basso le c d. “capanne romulee” J e la aedes Romuli K (da Coletti e Pensabene, Forme rituali, modificato).

Sul piano al di sopra delle capanne alcune resti di mura lasciano ipotizzare l’esistenza di una grande costruzione, che non è ancora possibile interpretare non essendo stati pubblicati integralmente i risultati dello scavo, il cui orientamento risulta parallelo a quello del tempio di Vittoria e divergente rispetto al tempio della Magna Mater. Nella zona ad est di esso sono state ritrovate due piccole costruzioni (anch’esse con asse parallelo sia all’edificio che al tempio di Vittoria) che furono interrate per formare il nuovo piano su cui erigere un edificio probabilmente di servizi per il tempio della Magna Mater: l’obliterazione di esse contiene frammenti ceramici in parte risalenti al periodo protostorico (38): la presenza di questi frammenti coincide con la fase finale di occupazione dell’area delle capanne, che distano circa 50 metri dalle due costruzioni, e trattandosi in gran parte di materiale di natura votiva è possibile ipotizzare che provenissero da una struttura templare esistente sopra di esse. La struttura potrebbe essere identificata con un edificio templare e precisamente con il tempio di Pales (39), che le fonti letterarie pongono in rapporto di vicinanza con quello della Magna Mater, oppure con la Curia Acculeia dove, attesta Cicerone, si eseguivano i riti in onore di Acca Larentia, la nutrice dei Gemelli ritenuta la madre dei Lares, il primo dei quali era detto essere Romolo, la cui aedes si trova non a caso a poca distanza in direzione sud-est rispetto all’area occupata da queste capanne. Se così fosse, sia il tempio di Pales che la Curia Acculeia costituirebbero una fase più complessa del templum in terra dell’area delle capanne del settore ovest, connesse come si è detto ad un probabile culto dei Lares.

Conclusione Sulla base degli ultimi ritrovamenti nell’area sud-ovest del Palatino è possibile ricostruire l’esistenza di un villaggio di X-VIII secolo insediato nella parte meridionale e occidentale del colle a cui corrisponde una necropoli che giunge fino a quella che sarà più tardi la “casa di Livia”, un abitato ben strutturato, nel quale accanto alle capanne si trovano non solo silos per la conservazione delle derrate alimentari ma anche un complesso sistema idrico fatto di cisterne e di canali, indice di un’organizzazione non trascurabile delle familiae abitanti nel villaggio. Probabile l’esistenza di un soggetto a capo di questa società, un re-sacerdote (sulla base di analoghe strutture etno-antropologiche) le cui divinità, ereditate dagli antenati o dai suoi predecessori, erano quelle di riferimento per tutta la comunità; alcuni elementi fanno pensare che una delle capanne del settore sud fosse adibita al loro culto, a cui corrispondeva il possibile templum sub terra pertinente la zona ovest dell’abitato, forse sede di un culto degli Antenati/Lares. A questo primo villaggio fa seguito due secoli dopo, tra la fine dell’età monarchica e l’inizio della Repubblica, la costruzione di uno o forse due templi di grandi dimensioni, dedicati a divinità femminili, Pales e Juno Sospita/Caprotina (?), e la sacralizzazione di una fossa di sepoltura ad inumazione nella quale viene identificato il mundus (o prima ancora l’heroon del fondatore, come a Lavinium?) della città ormai sviluppatasi integralmente, accanto nella quale viene intagliato nel tufo vergine un altare poi sostituito ad un livello superiore con un nuovo altare, a cui fa seguito la costruzione di un recinto o di un sacello che li comprende, costruzione di tale significato da far ridurre l’area del tempio di Vittoria che ha sostituito nel III secolo quello di Juno Sospita/Caprotina. Se a questa ricostruzione della Roma sul versante sud del Palatino si aggiungono i risultati ottenuti dagli scavi di Carandini e dei suoi collaboratori alle pendici settentrionali del colle (40) si ha la visione di una città ben difesa da una cerchia muraria con i suoi luoghi arcaici di culto rappresentati dal primo tempio di Vesta e dalla prima regia, una città fatta di piccole costruzioni e di edifici privati che vanno progressivamente assumendo dimensioni sempre più maggiori, dimore delle grandi familiae, da cui nascerà secolo dopo secolo la classe dei guerrieri e degli agricoltori, degli studiosi e degli artisti che faranno la grandezza dell’Urbe.

Note:

1 - P. PENSABENE, Venticinque anni di ricerche sul Palatino, i santuari e il sistema sostruttivo dell’area sud ovest, in “Archeologia classica”, 53 (2002), pp. 65-136, li data sulla base dei reperti trovati in loco tra il 540 e il 520 (p. 72). 2 - Per inciso, il recente (2019) e pessimo film “Il primo re” dimostra la totale ignoranza di chi ne ha scritto la sceneggiatura (a parte la falsificazione della storia mitica esaurientemente descritta dagli storici fin dal II secolo a. C.), facendo dei primi romani una sorta di rozzi selvaggi di contro alla riconosciuta esistenza di un abitato organizzato e tecnicamente già evoluto da quasi due secoli prima della fondazione della città. 3 - Ad esempio, anche se talune osservazioni in merito alle deduzioni di Carandini sui “sacrifici rituali” e sull’attribuzione di alcune strutture da lui scavate, in particolare alle pendici settentrionali del Palatino, sono valide, Ampolo eccede a nostro parere nel negare in pratica totalmente la coincidenza tra mitistoria di Roma e ritrovamenti (C: AMPOLO, Il problema delle origini di Roma rivisitato: concordiamo, ipertradizionalismo acritico, contesti, in “Annali della Scuola Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia”, serie 5, 5/1 (2013), pp. 217-284. 4 - Per la ricostruzione del susseguirsi delle capanne sul Germalo si veda A. CARANDINI, La nascita di Roma - Dèi, Lari, Eroi e uomini all’alba di una civiltà, Torino 1997, p. 59 nota 53, il quale pone come data di costruzione per la prima capanna-regia il periodo tra 900 e 750 a. C. La cronologia assoluta segue le date secondo le stime dei manufatti in rapporto alla dendrocronologia proposte da M. BETTELLI, La cronologia della prima età del ferro laziale attraverso i dati delle sepolture, in “Papers of the British School at Rome”, 62 (1994), pp. 1-76. Le date salvo diversa indicazione sono da intendersi come avanti l’Era volgare. 5 - Gli studiosi moderni scrivono “Cermalo” ma troviamo più chiaro e significativo il termine “Germalo” adoperato da molti autori romani. 6 - F. COARELLI, Palatium, il Palatino dalle origini all’Impero, Roma 2012, dedica una complessa trattazione al tema se il Germalo vada o meno considerato una parte del Palatino e in quale punto di esso vada individuato il complesso costituito da domus Faustuli e aedes Romuli (da lui considerate una sola entità, p. 132) e curia Saliorum-aedes Romuli- santuario di Marte, identificato con il recinto sacro in cui era conservato il corniolo germogliato dalla lancia scagliata da Romolo (pp. 156-157), luogo che egli ritiene corrispondente all’auguratorium di Romolo (p. 160). 7 - A. CARANDINI, La leggenda di Roma, Milano 2006, vol. I p. 417. 8 - Aedicula eretta Da Catone il Censore nel 193. 9 - P: PENSABENE, Scavi del Palatino I, Roma 2001, pp. 30-31 e nota 20. 10 - R. FUNICIELLO, G. HEIKEN, D. DE RITA, M. PAROTTO, I sette colli, guida geologica, Roma 2006 (I ed. Princeton 2005), p. 40. 11 - P. PENSABENE, C. ANGELELLI, S. FALZONE, F. M. ROSSI, Testimonianze di attività cultuali nell’area nord-ovest del Palatino dalla fine del VII al V secolo a. C., in A. Coletti, S. Mele (editori), Depositi votivi e culti dell’Italia antica dall’età arcaica a quella tardo-repubblicana, Atti de Convegno (Perugia 2000), Bari 2005, pp. 95-109. 12 - Su Juno Caprotina come antica Dèa dell’albero sacro del fico femmina rinviamo a quanto scritto a proposito delle Nonae Caprotinae in P. GALIANO, Il tempo di Roma, Roma 2013, sub voce. 13 - La cosiddetta “casa di Livia”, che continueremo a chiamare così per semplicità, è identificata in realtà come la aedes Caesarum costruita da Tiberio e Livia sul luogo dove sorgeva la parte privata della domus di Augusto, distinta dalla parte pubblica costituita dal grande complesso intorno al tempio di Apollo (P. PENSABENE, F. COLETTI, Acqua per gli uomini, acqua per gli Dèi. Gli approvvigionamenti idrici e i sistemi sanitari sul Palatino a Roma: cisterne, canalizzazioni, vasche rituali, in “Antichità alto adriatiche – Cura aquarum”, LXXXVIII (2008), p. 424). 14 - PENSABENE, Scavi del Palatino I, pp. 35-36; in nota 25 è però specificato che almeno uno dei cunicoli sottostanti la “casa di Livia” non è un condotto idrico ma è forse identificabile come una struttura votiva. 15 - PENSABENE, Scavi del Palatino I, p. 38 nota 36. 16 - S. FALZONE, L’abitato protostorico dell’area sud-ovest del Palatino alla luce delle nuove interpretazioni, in “Mites de fundaciò de ciutats al mòn antic (Mesopotamia, Grecia, Roma). Actes de coloqui”, Barcellona 2001, pp. 269-282, p. 275. 17 - DIONIGI DI ALICARNASSO, Storia di Roma Arcaica (Le antichità romane), a cura di F. Cantarella, Milano 1984, I, 32, 5: “Sulla sommità del colle [Palatino gli Arcadi di Evandro] distinsero un’area per un recinto sacro alla Nike stabilendo anche per questa divinità cerimonie sacrificali annuali, che i Romani celebrano tutt’ora”. Erroneamente PENSABENE et al. Testimonianze di attività cultuali in nota 72 riferisce questa citazione al libro IV, 2. 18 - Un tempio di Vica Pota certamente esisteva secondo Livio Hist, II, 7, 12 ai piedi della Velia in prossimità della domus di Valerio Poplicola e viene posto non lontano dalla regia da L. RICHARDSON jr, A new topographical dictionary of ancient Rome, Baltimore-London 1992, sub voce. “Vica Pota” e “Domus,Valerius Publicola”. 19 - PENSABENE, COLETTI, Acqua per gli uomini, pp. 417-435. 20 - Le due cisterne, pertinenti al tempio di dedicazione ignota sotto il c. d. Auguratorium sono rimaste intatte pur se inglobate nel podio del tempio di Vittoria (F. COLETTI, P. PENSABENE, Le forme rituali dell’area sud-ovest del Palatino, in “Scienze dell’antichità”, 23.3 (2017), pp. 573-578, p. 576): la cisterna coperta ad ogiva ora facente parte dell’angolo nord-est del tempio è tagliata dal muro di fondazione della nuova costruzione, come è successo per la cisterna della c. d. “casa di Livia”, ma in ambedue i casi esse vennero lasciate integre (P. PENSABENE, Venticinque anni di ricerche sul Palatino, i santuari e il sistema sostruttivo dell’area sud ovest, in “Archeologia classica”, 53 (2002), pp. 65-136, p. 68). 21 - COLETTI, PENSABENE, Le forme rituali, ibidem. 22 - COLETTI, PENSABENE, Le forme rituali, p. 579; per il corredo della tomba, costituito da vasi di normale grandezza e miniaturistici, si veda L. ALESSANDRI, Il Latium vetus nell’età del Bronzo e nella prima età del Ferro, Oxford 2013, p. 377. 23 - M. BETTELLI, Roma, la città prima della città, i tempi di una nascita, Roma 1997, p. 217 24 - F. COARELLI, Il Foro Romano, periodo repubblicano e augusteo, Roma 1985, in particola si veda la piana a p. 270. 25 - Un’accurata ricostruzione dei rapporti tra i fondi delle capanne e l’area circostante in FALZONE, L’abitato protostorico, per la possibile datazione p. 278-279; la Falzone invita, nelle sue conclusioni, a “non sovrainterpretare i singoli dati archeologici alla luce di un sistema interpretativo più generale” (p. 280), anche se studiosi attenti come Coarelli, Pensabene, Carandini ed altri sottolineano la concordanza tra i testi degli storici romani e i ritrovamenti archeologici. Come cronologia assoluta, diversa da quella proposta dalla Falzone, si veda BETTELLI, La cronologia della prima età del ferro laziale. 26 - FALZONE, L’abitato protostorico, p. 277. 27 - La misurazione riportata da FALZONE, L’abitato protostorico, p. 278, è di m. 2,05x0,80x0,75. 28 - Notizie degli scavi di antichità comunicate alla R. Accademia dei Lincei, anno 1907, pp. 444-450. 29 - In realtà il vaso è del IV sec. e venne deposto probabilmente come offerta dopo la libagione rituale in occasione della riapertura della tomba tra V e IV sec. quando la tomba venne coperta con una lastra di tufo, proveniente dalle cave di Monteverde e non da quelle del Palatino (P. CARAFA, D. BRUNO, Il Palatino messo a punto. Note e discussione, in “Archeologia classica”, 64 (2013), pp. 719-786, p. 735). 30 - G. DI NARDO, La Roma preistorica sul Palatino, Albano Laziale 1934 (rist. anastatica Roma 2009), pp. 21-29. Le parole pronunciate da Evandro sono così riportate in LIVIO, Hist, I, 7: “Mia madre, veridica interprete degli Dèi, mi predisse che avresti accresciuto il numero dei Celesti e che qui ti sarebbe dedicata un’ara”, ma Evandro più avanti specifica in modo chiaro che “l’ara sarà chiamata Massima”: si tratta quindi dell’Ara maxima del Foro Boario e non di una tomba o altare sul Palatino: si tratta di una delle consuete interpretazioni stiracchiate a proprio uso comuni negli scritti di Di Nardo, Leonardi e altri autori della prima metà del ‘900 seguaci dell’idea della Terra Saturnia.. 31 - A. CARANDINI, Remo e Romolo. Dai rioni dei Quiriti alla città dei Romani, Torino 2006, p.160. 32 - CARANDINI, Remo e Romolo, ibidem. 33 - COLETTI, PENSABENE, Le forme rituali, p. 579. 34 - CARANDINI, La nascita di Roma, pp. 377–380. 35 - A conferma di questo, il templum sub terra di Caere venne affrescato in epoca romana con le immagini dei Lares. 36 - I Rosalia erano festività sia pubbliche che private in onore dei defunti, la cui data di celebrazione era fissata solo localmente (The Oxford classical dictionary, Oxford 2012 s. v.). 37 - M. TORELLI, L. FIORINI, Le indagini dell’Università di Perugia nella Vigna Marini-Vitalini in “Mediterranea”, Atti dell’incontro di studio Roma (CNR) I Febbraio 2008, V (2008), pp. 139-163. 38 - F. M. ROSSI, Indagini nel temenos del tempio della Magna Mater sul Palatino. Strutture murali, materiali e cronologia, in “Suburbium II. Il suburbio di Roma dalla fine dell’età monarchica alla nascita del sistema delle ville (V-II sec. a.C.)”, Roma, 2009 (Collection de l’École française deRome, 419), p. 213-225, p. 221. 39 - Oltre a COLETTI, PENSABENE, Le forme rituali sulla possibile localizzazione del tempio di Pales sul Palatino, di cui la Dèa eponima, si veda F: COARELLI, Palatium, Roma 2012, pp. 197-200. 40 - Non è possibile ampliare questa presentazione on i ritrovamenti dell’area nord del Palatino, per cui rimandiamo al testo, completo da un punto di vista divulgativo, di A. CARANDINI, Angoli di Roma, Roma 2016, con tutti i limiti dovuti all’eccesso di “entusiasmo” dell’autore.

(L’articolo, qui proposto con l’aggiunta di alcune nuove immagini, è stato pubblicato nella prima versione sul sito www.simmetria.org.)

Paolo Galiano

Quinta dimensione – Lorenzo Merlo

$
0
0

Del dopo-virus. Se ne parla con 1.preoccupazione, 2.incertezza,3.fiducia, 4.curiosità 1. La crisi economica che seguirà quella sanitaria sarà più dura di quanto il virus e le politiche della sua gestione abbiano imposto. 2. Non sappiamo a cosa stiamo andando incontro. Sarà tutto diverso o riprenderà tale e quale? Cosa cambierà? 3. Ce la faremo e presto ripartiamo per recuperare il tempo perduto. È stato solo un tunnel. Finirà. 4. Vediamo se la lezione fisica e metafisica imposta dallo stop forzato corrisponde a un passo evolutivo.

Quattro posizioni, non certo tutte, ma sufficientemente emblematiche di quattro psicologie, sentimenti e quindi realtà.Si tratta di modelli, tutti autoctoni, tutti con radici occidentali, già presenti nella nostra cultura: 1. La paura deriva da un dio a noi esterno che per noi sceglie e provvede. Senza però mai anticiparci cosa farà per noi, nonostante le preghiere. È il retaggio del cristianesimo. La morale occidentale ne è pregna. Di base, nessuno può sfuggirle. Chi ritiene di essersi svincolato dalla vischiosa religione, a mio parere l’ha solo sostituita con l’elezione della ragione a supremo e solo riferimento della buona vita e dell’espiazione – nel senso di assoluzione – dai peccati commessi in nome del business. 2. L’incertezza invece, sebbene con forti parentele con la paura, ha più un valore che esprime l’individualismo quale solo riferimento per il pensiero ormai di tutti. Senza la comunità solo i pazzi e gli eroi possono fare i conti con se stessi. 3. Dai giovani arriva l’afflato di speranza e fiducia. Quale momento migliore di una crisi radicalee per rinnovare il mobilio, i programmi, le attenzioni, il futuro. 4. Chi invece si sente in attesa degli eventi per capire come stanno davvero le cose non può che essere ronda di se stesso mentre passa in rassegna tutti gli stati d’animo che lo attraversano. Punti cospicui, di guardia, garitte dalle quali tutti gli orizzonti precedenti si affacciano ad ogni angolo del fortino col quale vorremmo comunque proteggerci e trovare le sicurezze di prima, al momento traballanti anche per il curioso.

Ma c’è un quinto modello di pensiero forse ancora poco presente e considerato. Lo si può vedere, diciamo chiaramente, appena si acquisiranno le doti per la muta. Appena si riuscirà a svestirsi dai drappi in cui alloggiamo dalla nascita. In parte una morte simbolica è necessaria, per accedere a nuova vita, spesso più ricca, nel senso di più adatta a noi. E in generale più adatta a comprendere le dinamiche delle relazioni, della realtà, del mondo. Lo si può vedere a causa della solita prospettiva che ora – gioco-forza, o quasi – ha ruotato il suo sguardo. Fino a ieri aveva sempre puntato a Ovest ora si è girata e guarda a Est. Da una parte c’era sempre stato il cestino pieno del ben di dio, dall’altra solo stranieri gialli senza dignità. È il modello confucianista che si sta prendendo uno spicchio crescente nel giro d’orizzonte. E se lo è preso nonostante l’egemonia occidentale che fino a ieri affermava il suo diritto di prelazione per tutti i posti a sedere in sala. Se la testa d’ariete è economica, ad essa seguiranno modelli di pensiero. Al momento non pare cosa di poco conto.  Hollywood cessarà di diffondere i suoi standard di pensiero. E in poco tempo ¬avremo a che fare col confucianesimo. L’uomo è duttile e accetterà di far sopravvivere la propria azienda con il nuovo ordine. Confucio, il confucianesimo è il primo riferimento culturale per gran parte della cultura cinese.

La dimensione individualista, e le sue derive predatorie, non fanno parte del confucianesimo, così come non c’è un dio col quale instaurare rapporti personali. Non c’è neppure la frammentazione del Tutto. Spirito e materia non trovano separazione e gli opposti non sono che indicatori dell’alternanza di tutte le cose della vita. La ragione non ha il presunto privilegio che le diamo noi di discernere il varo dal falso, il bene dal male. Essa è solo uno strumento non portante di niente se non di se stesso. La tendenza all’equilibrio, alla non prevaricazione, alla disponibilità di vedere sempre la complementarità degli opposti è nello spirito confuciano. Non servono filosofi concettuali per sapere come dirigere la vita e la società perché ognuno ha la responsabilità del proprio ruolo in famiglia, tra amici, tra genitori e figli, verso lo stato e gli altri. E chi dovesse cercare i guadagni personali sostituendoli alla rettitudine, avrebbe i suoi inconvenienti secondo un criterio assai meno tollerante di quello al quale siamo abiti. Non è una religione in senso occidentale ma una serie di indicazioni comportamentali intorno alle quali evidentemente ruota gran parte del pensiero dei cinesi. Sia la Rivoluzione maoista di ieri, che il galoppo capitalista di oggi, pare ne esprimano l’essenza.

I precetti individuati da Confucio – 551-479 a.C. – sono fina dalla sua concezione destinate al miglioramento sociale. Per lui era necessario educale i singoli uomini per realizzare la migliore società. Erano e sono infatti dedicati ai doveri più che ai diritti, sebbene con una accezione organica più che gerarchica. Ognuno sentiva – e sente? – la responsabilità di tutto il contesto sociale. Sommariamente, riguardano la famiglia, l’autorità, lo stato. Tre punti fermi di tutte le relazioni di ogni individuo. Organica in quanto rispettando le gerarchie che ogni relazione comporta si realizza la miglior società. Nessuno si sente escluso dal risultato finale. Una specie di opposto dell’individualismo. Ma detto così, il discorso si presta a facile critica. L’assolutismo cinese è inaccettabile per il pensiero democratico. Bisogna infatti aggiungere i cinque riferimenti che presiedono alla concezione confuciana:

Ren (benevolenza), Yi (rettitudine), Li (lealtà), Zhi (conoscenza), Xin(integrità).

Ognuno, di loro, parla da sé. E ognuno, di noi, volendo, purché con la medesima responsabilità confuciana per la buona riuscita della società, vi troverà spunti di riflessione o rivisitazione di ciò che ha condotto le nostre vite finora. 5 punti che forse ora, pur coniugati attraverso la nostra provenienza superiore, non permettono più di ridere dei cinesi. Forse ora sembrano affascinanti e – perché no?– adatti a fare da quinto modello. Se quanto hanno fatto i cinesi in questi ultimi decenni dovesse proseguire – e vista la pericolante situazione americana, potrebbe essere giusto pensarlo, magari anche moltiplicato –, iniziare a familiarizzare con le abitudini del nuovo padrone potrebbe tornare utile alla sopravvivenza. E, perché no? a valori nuovi o dimenticati.

Lorenzo Merlo

La Conoscenza si trasmette in Silenzio, non attraverso il Silenzio – Valerio Avalon

$
0
0

Lungi dall'essere esaustivo, questa breve divagazione nasce quasi per caso, e necessita per forza di cose di un piccolo preambolo. A volte lo scontro generazionale che si manifesta nel rapporto padre-figlio può indurre (anche involontariamente) a riflessioni di notevole portata. Confrontarsi con chi non si è mai interessato di esoterismo, di metafisica, o anche semplicemente alle possibilità realizzative di una via spirituale, non è cosa affatto semplice e richiede uno sforzo non indifferente. Per vari motivi. Certo, non sarà per tutti uguale, ma nel caso del sottoscritto bisogna partire dall'assunto di base che la comunicazione sarà complicata quasi quanto come se si parlasse due lingue diverse, ognuna sconosciuta all'altro. A questa prima difficoltà, va aggiunto un elemento sociologico dai tratti inquietanti che per il suddetto genitore è comandamento: la "prova televisiva". Cioè, se lo dicono in televisione, se lo mostrano in tv, allora è vero. Fine, punto. Le premesse non sono delle migliori. L'ingrediente finale è una cieca fiducia nelle istituzioni, forgiata in anni di lotte sindacali (quando questo voleva ancora dire qualcosa). Il risultato è una cecità (scusate il gioco di parole) quasi imbarazzante nei confronti della direzione intrapresa dal genere umano negli ultimi decenni. Si arriva a negare la realtà dei fatti, e quando questi non si comprendono allora si bollano velocemente come complotti (anche con una certa ironia, di chi la sa lunga in virtù di una maggiore età ed esperienza; cosa che, per inciso, non metto assolutamente in discussione, ma che allo stato attuale lascia il tempo che trova). In quel momento, di fronte a tali ostacoli, possono verificarsi fenomeni spiazzanti e non comprensibili nell'immediato. Come ad esempio una vocina nella testa che mi sussurra: La Tradizione afferma che "la Conoscenza si trasmette in Silenzio, non attraverso il Silenzio". Cosa c'entra adesso? Cosa vuol dire? La dialettica dell'uomo tradizionale è l'Azione. Non le dichiarazioni altisonanti o gli annunci eclatanti, anche perché alle parole se non seguono i fatti, chi le pronuncia dimostra esattamente ciò che è. Per tentare di comprendere a fondo questa affermazione, mi dico che può essere d'aiuto ragionare sul significato e l'etimologia della parola "Runa". La parola "Runa" deriva dalla radice protoindoeuropea Run e in alcuni casi si considera anche la forma Reu. Queste due radici sono connesse alla magia del respiro e della fonetica (la capacità dell'essere umano di articolare suoni atti alla comunicazione, attraverso la modulazione dell'aria e del respiro, che possono essere riportati in lettere) e generano termini (linguisticamente parlando) interessanti:

MORMORARE - BISBIGLIARE - SEGRETO - URLARE.

Questo è valido per il norreno, il tedesco, l'islandese, lo svizzero, il gaelico, il gallese, il sassone, e via dicendo. Indubbiamente in tutte le antiche lingue nordeuropee di derivazione indoeuropea, la parola "Runa" significa MISTERO - SEGRETO. Quindi, in una certa misura, è come se le Rune già nel nome stesso si portassero dietro la loro funzione e il loro destino. Altre sfumature della parola "Runa" in queste lingue espletano il significato di:

SUSSURRARE - CONVERSAZIONE SEGRETA.

Questi due concetti sono importantissimi e fondamentali nella mitologia nordica, poiché sono strettamente legati al destino e alla sopravvivenza dell'umanità e degli déi. E ora vedremo il perché. Attingendo alla mitologia nordica, sappiamo che alla fine del Ragnarok (e quindi alla fine del computo del tempo stabilito per questo ciclo), dopo che il gigante Surtr avrà incendiato tutto il mondo, sopravviveranno all'ombra di un bosco sacro un uomo e una donna e i figli di Odino e Thor. Questi ritroveranno nell'erba gli scacchi d'oro degli Asi (simbolo della necessità di ripristinare l'Ordine) e le Rune. In più sarà proprio in quel momento che finalmente Baldr potrà tornare dall'Hel.  Nel mito, tra i figli di Odino, Baldr è detto il "luminoso" e il suo simbolo solare è la Swastika. In una delle storie che lo riguarda (di cui consiglio vivamente la lettura), muore trafitto da un rametto di vischio per mezzo di un inganno di Loki. Gli Asi non riuscendo ad avere indietro in nessun modo il corpo di Baldr dai mondi Inferi, preparano la pira funebre. Prima di incendiarla, Odino, suo padre, gli sussurra nell'orecchio i segreti iniziatici delle Rune che nessuno può udire (perché conosce il suo destino e la sua funzione nella prossima Era che verrà). Quindi, grazie a lui e a ciò che custodisce, sarà possibile ripristinare una nuova Età dell'Oro. Come potete vedere tutta questa serie di eventi e simboli sono strettamente collegati tra di loro, e hanno a che fare con il concetto che i segreti iniziatici e le leggi cosmiche dell'Esistenza sono talmente preziosi che non vanno urlati al vento. Ma vanno appunto sussurrati con poesia, magia e delicatezza, nell'orecchio di chi è pronto a riceverli e a sacrificarsi per custodirli. Un po' come Cristo che nei vangeli riporta il monito che "le perle non vanno date ai porci".

Esistono molti altri episodi simili, non solo nella mitologia nordica, ma anche in altre tradizione che riconducono in qualche misteriosa maniera a quella Primordiale Iperborea.  Mi viene in mente per esempio l'eremita Trevizerant che, nel Parzival di Wolfram Von Eschenbach, il nostro cavaliere alla ricerca del Grall incontra in una capanna in mezzo al bosco. Dopo il suo lungo peregrinare e affrontare prove iniziatiche, senza giungere mai alla meta, Parzival troverà il castello del Grall custodito dai Templari solo dopo che l'eremita gli avrà sussurrato i segreti iniziatici nell'orecchio, la sera davanti al fuoco. La mia curiosità è molto eccitata da tante coincidenze in queste due storie, e l'anima è in subbuglio. Talmente tanto che, in un batter d'occhio, mi ritrovo nel lontano Giappone. Quando un samurai, per una serie di vicissitudini che potevano anche non dipendere dalla sua volontà, si ritrovava senza un signore da servire, diventava un ronin. E' a lui che Yamamoto Tsunetomo dedica il suo Hagakure. Opera sulla quale gli aggettivi superlativi possono essere dispensati senza misura. E' una sorta di breviario che raccoglie aforismi, riflessioni e suggerimenti trasmettendo l'antica saggezza del Bushido, la via del guerriero. Ma il titolo completo di quest'opera del XVII secolo è "Hagakure Kikigaki", che tradotto suona come: annotazioni su cose udite all'ombra delle foglie.

E' incredibile, ancora una volta ci ritroviamo di fronte ad una conoscenza iniziatica che viene trasmessa in segreto, sussurrando. A questo punto le sinapsi del mio cervello stanno aumentando la velocità del loro lavoro e vengo ritrasportato nell'area mediterranea, ad Eleusi. Eleusi è una cittadina greca come tante altre, a poco meno di 30 km di distanza da Atene, ma nasconde tutt'oggi segreti che forse non saranno mai svelati. Anticamente era sede del più importante luogo di culto dell'Attica (se non appunto della Grecia intera), e custodisce i resti di un santuario che sorgeva intorno al culto di Demetra e Persefone: i Misteri Eleusini. Tale culto raggiungeva l'apice in due processioni che ogni anno venivano tenute all'Equinozio di Primavera e all'Equinozio d'Autunno: rispettivamente i Piccoli Misteri e i Grandi Misteri. Si andava a piedi in processione fino ad Atene e si tornava. Non sto qui a descrivervi nel dettaglio ciò che avveniva, perché ci porterebbe troppo lontano proprio come accadeva a chi beveva il ciceneo durante tali misteriosi riti. Fatto sta, che nel momento culminante, i saggi, che ricercavano il senso delle cose nella contemplazione, si scambiavano un dono preziosissimo: un chicco di grano. Insieme ad esso, si benedivano a vicenda con l'augurio più grande che conoscevano: "nel silenzio è ottenuto il seme di saggezza". Ancora una volta. Silenzio e conoscenza sussurrata.

Nelle scuole druidiche ancora oggi (e questo lo dico per esperienza personale) viene insegnato che la base fondamentale della "ricerca" è la meditazione del vuoto. La ricerca di un silenzio interiore che tacitando corpo, mente ed emotività, può sollevare i veli di Maya. E chissà quanti esempi ancora non riesco ad agganciare nella memoria, oppure non conosco affatto. In effetti sulla memoria poi ci sarebbe parecchio da dire, ma lo lascio fare a chi è molto più capace di me: Mario Polia. Nel suo testo Exempla (Cinabro Edizioni, 235 pag per un costo di 20€) ci sono elementi illuminanti, che mi aiutano a suggerire un senso a questa divagazione e a tutti voi che avete avuto la pazienza di leggere fino qui. Il nostro autore già dalle prime pagine offre spunti riflessivi notevoli, di cui vi riporto alcuni veloci estratti:

"- la parola del poeta sopravvive ai fatti; - una volta compiuta, l'impresa non deve essere lasciata nascosta nel silenzio; - il superamento dell'oblio permette di attingere alla verità, che è "ricordo"; - occorre tacere e ascoltare; - le Muse parlano nel silenzio; - credere in valori comuni significa essere preparati e disposti a tramandarli "oltre"e "attraverso" la propria persona, come dimostra l'etimo "tradere" che comporta il processo di trans-dare: la consegna di valori ideali testimoniati dagli antenati da trasmettere alle generazioni future dopo averli resi operativi nel presente tramite l'impegno personale; - il tradere diventa educere; - l'azione esemplare possiede una forza trainante che non può essere sostituita né dalla parola né dalle intenzioni".

Torno con la presenza al dialogo in corso con il genitore e con vergogna e rammarico mi rendo conto che alcune menti condannano velocemente tutto ciò che è oltre la loro portata. La vocina nella testa mi sussurra di nuovo: "Sii discreto perché quello che custodisci è di vitale importanza per il futuro dell'uomo... e non tutte le orecchie sono pronte ad ascoltarlo". Allora dico a mio padre: "Finché terremo viva la memoria storica e collettiva della nostra Europa attraverso il ricordo, l'esempio e la narrazione, la Tradizione sopravviverà. Tranquillo pà, non siamo soli. Andrà tutto bene."

Valerio Avalon

Trucco: Arte e Bellezza (Antico Futuro) – Vitaldo Conte

$
0
0

«Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera»

(F. Nietzsche)

1. «Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una» scrive Charles Baudelaire. Questi, nel suo Eloge du maquillage (1863), indica la necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio della mente: «Tutto ciò che è bello è il risultato del ragionamento e del calcolo». L’ipotetico fascino lussurioso di questo artificio è stato in passato, viceversa, condannato da precetti religiosi. Tertulliano (teologo del III secolo d.C.) avverte: «le donne che si opprimono la pelle di unguenti, si tingono le guance di rosso e gli occhi di nero. Ciò che è dato per natura, viene da Dio, ma quello che è artificio, è opera del diavolo».  L’artificio cosmetico, che cerca la possibilità di far assomigliare la persona a una bellezza soprannaturale, è congenito nell’essere umano sin dall’antichità: «L’impulso a decorare il proprio volto e tutto quanto sia a portata di mano è la prima origine dell’arte figurativa. E’ il balbettio della pittura» (A. Loos). Il trucco risulta praticato in tutta l’area della Mesopotamia e del Mediterraneo: come dimostrano le statuette dei Sumeri, scoperte nella città di Ur, con gli occhi decisamente segnati di nero. Questa esigenza raggiunge un sicuro vertice con gli Egizi, in cui il trucco è utilizzato anche per scopi rituali e spirituali. Questi sguardi di-segnati possono «far entrare il corpo in comunicazione con poteri segreti e forze invisibili. La maschera, il segno tatuato, il trucco depositano sul corpo tutto un linguaggio, un linguaggio enigmatico, cifrato, segreto, sacro che chiama su questo stesso corpo la violenza del dio, la potenza sorda del sacro o la vivacità del desiderio» (M. Foucault).

2. Come scrive Paul Valery «quel che c’è di più profondo nell’essere umano è la pelle». Soprattutto quella femminile può costituire un percorso-racconto affascinante di creazione. È espresso attraverso una ricca produzione di opere d’arte, in cui si evidenzia il perturbante riflesso della cosmesi sui variabili modelli della bellezza nei diversi secoli. La pelle, oltre a essere immagine fisica o anatomica, è anche metafora della società e dell’arte. Il Ritratto di Dorian Gray (1891), il romanzo di Oscar Wilde, rappresenta una prima espressione moderna della paura di vedere la propria cute segnata dal tempo: è metafora di un racconto della pelle come pittura nei suoi drammatici confronti fra la vita e la morte.  La Pelle di donna (Identità e bellezza tra arte e scienza) è protagonista di una mostra alla Triennale di Milano nel 2012. In questa si prende in esame anche il rapporto finalizzato alla cosmesi fra l’800 e l’oggi: un percorso documentato nell’ampio catalogo. L’arte ci indica che la pelle non avvolge semplicemente il corpo: lo apre, lo scopre per poi rivestirlo con il proprio immaginario di bellezza che può divenire creazione.

3. Il trucco non è solo un procedimento semplicistico per “nascondere” i segni del tempo: può divenire un artificio di bellezza. È anche una possibilità di modificare il proprio aspetto, fino al tentativo di farlo “assomigliare” alla propria immagine ideale. Ciò può risultare un modo per esprimere un se stesso che si rapporta meglio con la società. L’artista, come ogni creativo, può avvertire questa necessità. Il nostro corpo è, infatti, un organo di comunicazione, che parla di sé agli altri: «ossessionato dalla necessità di agire in funzione dell’altro, ossessionato dalla necessità di mostrarsi per poter essere» (L. Vergine). L’espressione della beauty art può “passare” anche attraverso le punte delle ciglia. Come accade nel sogno-battito dell’artista giapponese Shu Uemura: la sua rivoluzione in questo campo lo qualifica come uno “scultore delle ciglia”: «uno splendido make-up parte da una splendida pelle». Serge Lutens è un iniziatore di questo linguaggio. Nella campagna pubblicitaria di cosmetici del marchio giapponese Shiseido i suoi trucchi evocano una femminilità sognante, al limite dell’art decò, incarnata da donne delicate e lunari con rossetti rossi su pelli bianche che diventano fogli di carta da riso. Coltiva un’ideale di bellezza assoluta in cui il make up si congiunge con il profumo, essendo anche un maestro profumiere di fragranze inconfondibili. Queste vogliono arrivare all’alchimia del sogni per essere “indossati” come abiti.

4. Nel trucco rientra il face painting: la decorazione del volto dalla durata temporanea che, a differenza del trucco cosmetico, utilizza colori vivaci nella ricerca di una metamorfosi che stravolga la figura originaria. Fra le sue tipologie c’è la maschera disegnata sul volto, in cui spesso si riferisce al mondo animale o a quello della molteplice figurazione. Questo disegno ricerca una fusione di arte e vita che possa esprimere una bellezza naturale.  Il face painting, molto praticato ai giorni nostri per i più svariati eventi, ha origini antiche (utilizzato in riti religiosi e nella caccia). Torna di moda negli anni ‘60 con gli Hippies. È usato oggi anche in ambito pubblicitario per immagini di beauty d’effetto, nella moda come trucco artistico. Il suo significato di metamorfosi ha diversi risvolti: religiosi, rituali, erotici. Un suo cultore Craig Tracy afferma: «È mia intenzione di continuare ad esplorare ed espandere le percezioni ed i confini di questa forma d’arte più antica, affascinante e contemporanea».

6. Indico, nel mio libro Pulsional Gender Art (Avanguardia 21 Ed., 2011), fra le nuove espressioni dell’arte corporale, il possibile sconfinamento di questa nell’estetica Body e TransBeauty Art, in cui possono confluire, oltre al Make Up Art e al Body e Face Painting, anche l’Hair Art e la Nail Art con le micro-pitture-sculture. L’Hair Art trasforma i capelli, strumento di segnalazione culturale e personale, attraverso molteplici possibilità: il colore, l’extension smisurato, il taglio e l’acconciatura. Queste espressioni “entrano” in scena nell’evento performativo e nella creazione di una bellezza d’arte di diverse autrici, divenendo corpo-struttura o indumento-ambiente. Ma soprattutto “vivono” nella moda, dove vengono esibite in sfilata acconciature che diventano corporeità scultoree, spesso accompagnate dal make up del volto: mirano a trasformare la modella in una essenza di bellezza oltre l’umano. La modella appare anche nuda, sotto le sembianze di Eva, sfilando coperta soltanto da lunghi capelli biondi: come quella de La nascita di Venere del Botticelli che la Maison di Alta Moda Gattinoni presenta nel 1994. La Nail Art è l’arte della decorazione delle unghie. Può estendersi con estrema fantasia, a completamento del lavoro ricostruttivo, in decorazioni di micro-pittura, accompagnate talvolta da brillanti, pearcing, ecc. La micro-pittura, con i suoi colori acrilici, usa tecniche assimilabili alla pittura. Spesso queste unghie tendono a essere delle estetiche “lame”. La Nail Art può anche espandersi “a dismisura” in barocche efflorescenze, talvolta floreali, che vogliono costituirsi come micro-sculture di Nail Fantasy, al limite del design.

7. La ricerca della bellezza corporea entra oggi in ogni espressione d’arte, anche come narrazione e concetto. Le mie scritture di teoria e di creazione sul corpo “immaginano” di segnare il volto e le mani di donne, attraversando “sguardi” e “unghie” di una bellezza visionaria. Questa seduzione vorrebbe collegare l’eros con l’anima, il reale con l’irreale. L’artista della ritual beauty art può divenire così un body writer che opera sul corpo per mezzo di maschere, cosmetici, smalti e acrilici, materiali vari, scritture pittoriche. Ipotizzo questa possibilità espressiva in alcune manifestazioni attraverso l’artista Tiziana Pertoso con le sue maschere dannate. Nel 2018 presento, a Brindisi, una esposizione di “presenze maschere” sull’Arte Ultima come Antico Futuro. Propongo eventi di arte live a Roma nel 2017-19, ricercando immagini di arte fantastica attraverso le unghie e il trucco di donne che diventano maschere del corpo-anima. Queste incarnano espressioni di una Beauty Art che vuole “vivere” in un evento ritual: ascoltando i moti della psiche e della pulsione, possono estrinsecare la propria don/azione di benessere e di bellezza come arte, in dialettica con l’altro e la società.

NOTA. Dal testo dell’autore Il Trucco e la Pelle della Beauty Art in: Arte e Bellezza, ‘Dionysos’ (Ed. Tabula fati) n. 9, 2020.

Vitaldo Conte

 

Vintila Horia, l’esule eterno – Giovanni Sessa

$
0
0

Una nuova edizione di Considerazioni su un mondo peggiore

La Romania ha svolto, nel corso del secolo XX, nonostante la sua marginalità geopolitica, un ruolo centrale nella cultura europea. A concederle tale primato furono gli intellettuali della «giovane generazione» che si formarono nella prima metà del Novecento e vennero «a ferri corti» con il proprio tempo. Tra essi spiccano i nomi di Eliade, Cioran, Noica, Ionesco. Non certo secondario fu il ruolo svolto, in tale congerie spirituale e creativa, da Vintila Horia, scrittore dalla prosa cristallina ed elegante. Egli fu, fino alla fine dei suoi giorni, coerente rispetto alle scelte ideali messe in atto durante la giovinezza, che difese pagando un tributo salato a tiranni e conformisti. E’ da poco nelle librerie, per i tipi della OAKS editrice, uno dei suoi libri migliori e più profondi, Contro il mio tempo. Considerazioni su un mondo peggiore (per ordini: info@oakseditrice.it, pp.230, euro 20,00). Il volume è accompagnato da un saggio introduttivo di Gennaro Malgieri, che consente al lettore di entrare nei recessi meno noti del mondo dello scrittore. Nato nel 1915 a Segarcea, nella regione romena dell’Oltenia, Horia (pseudonimo di Vintila Caftangioglu) entrò ben presto in contatto con il teologo nazionalista Crainic (pseudonimo di Ion Dobre), intellettuale vicino a Codreanu e alla Guardia di Ferro, nonché teorico di uno stato etnocratico e corporativo, avente il proprio vertice nel monarca. Crainic fu personaggio ambiguo, dal quale Horia si allontanò. Fece bene: il suo mentore, infatti, ricorda Malgieri, all’epoca del comunismo al potere, dalle pagine della rivista, La voce della patria: «tentò di affermarsi come ideologo che poteva riunire i vari partiti ultranazionalisti in un fronte […] al servizio della Romania comunista» (p. XI). La carriera diplomatica portò il nostro autore in Italia e a Vienna ma, alla fine del Secondo conflitto mondiale, subì un periodo di prigionia concluso in un campo di sfollati a Bologna. A Firenze fu folgorato dalla personalità di Papini, del quale apprezzò soprattutto il sentimento tragico della vita, da lui condiviso e alla luce del quale andava oramai elaborando una sorta di pessimismo filosofico cristiano, non dissimile da quello cui guardava con interesse in Spagna, nel medesimo frangente, Miguel de Unamuno. Più in particolare, Papini seppe incarnare: «la purezza del rischio, il coraggio di restare se stesso in un secolo fatto di nauseanti vigliaccherie e di delitti innalzati a modelli d’umanità» (p. XIII).

Tali vigliaccherie, Horia le patì sulla propria pelle nel 1946, quando fu condannato dal Tribunale del popolo romeno ai lavori forzati (in contumacia) per «collaborazionismo» con il Terzo Reich (accusa falsa). Fu così costretto al definitivo esilio. Dapprima si recò in Argentina, poi si trasferì a Madrid. Qui diede alle stampe il suo lavoro più noto, che uscì anche in edizione francese, Dio è nato in esilio. La bellezza tersa delle pagine di questo fantastico diario ovidiano gli valse il Premio Goncourt. Preferì non ritirarlo a causa della bagarre mediatica, suscitata attorno al suo passato politico, dalla stampa gauchiste francese ed europea. Horia era infatti convito, lo ricorda con persuasività di accenti il prefatore, che la letteratura, baluardo della libertà individuale, in Europa era da tempo corrotta dall’ideologia marxista. Diversa la situazione in America latina, come aveva potuto constatare di persona, dove Borges testimoniava che: «lo scrittore […] si regge dritto e occupa una posizione “verticale”» (p. III), quale centro onfalico della vita comunitaria. L’Europa avrebbe dovuto liberarsi dalla nefasta influenza dell’ideologia gauchiste, tanto più che gli intellettuali del dissenso nei paesi dell’Est, andavano dimostrando la «crisi» irreversibile di tale sistema di pensiero. Le relazioni che Horia presentò ai Convegni degli intellettuali di Destra, nei primi anni Settanta, furono sotto questo aspetto, profetiche.

Per entrare nelle vive cose del volume di cui stiamo discutendo, il lettore deve tenere a mente questa asserzione dell’intellettuale romeno: «Io non mi trovo in una posizione avversa al mio tempo, ma allo spirito del mio tempo» (p. VI). L’esilio patito da Horia non fu solo fisico, la lontananza dalla patria romena: egli visse da esule nella modernità, fu esiliato nel «mondo peggiore», il cui tratto fondativo, la «morte di Dio», aveva sterilizzato le capacità creative degli uomini. Vera espressione del moderno per Horia era l’entropia trionfante in esso, la corsa verso il basso, la «thanatizzazione» dell’esistenza, un destino: «al quale non ci si può sottrarre se non abbracciando l’essenza della vita» (p. XXII). In Considerazioni su un mondo peggiore, lo scrittore utilizzò l’universo valoriale di Nietzsche, Dostoevskij, Jünger, Heisenberg e Abellio, per stimolare nei lettori una reazione nei confronti della decadenza. Con Dostoevskij, egli, infatti, sapeva che il «mondo peggiore» non aveva espresso ancora in toto le proprie potenzialità regressive, in quanto: «mi sembra chiarissimo […] che il diavolo lo si trovi nel profondo dell’uomo» (p. V).

Da Abellio aveva imparato a comprendere la volgarità del progresso, che stava conducendo l’umanità verso il disumano, come era possibile evincere dalla tragedia di Hiroshima. Horia ritiene che evidente segno dei tempi, avrebbe dovuto essere ravvisato nella riduzione, perseguita dalla teologia modernista, della dimensione religiosa a fatto sociale. Sappiamo bene che tale deriva non si è ancora conclusa. Per questo, l’esegesi delle pagine di alcune opere di Jünger (Heliopolis, Sulle scogliere di marmo), lo indusse a sviluppare amare considerazioni sulla condizione dell’esilio nel «mondo peggiore»: «quando i personaggi che simboleggiano i valori difesi dallo stesso autore debbono lasciare il loro paese ed andarsene via. Ma verso dove?» (p. VI). Infatti, oltre alla patria esteriore, è oggi venuta meno anche quella interiore: il mondo post-moderno ha liquefatto l’egemonikon. Unica via d’uscita: recuperare, attraverso una cultura liberata dalle scorie ideologiche, il «canone europeo»: «fatto di memorie e di musica, di storie e di illusioni, di combattimenti e di sconfitte […] di glorie serbate per mostrarsi nella luce boreale di un mattino immaginato», chiosa Malgieri (p. VII). Horia ebbe contezza che sarebbe stato necessario ravvivare la Tradizione. Oltre le rovine del presente e il senso di smarrimento dell’uomo contemporaneo, tornerà a mostrarsi allora la «Destra eterna», la cui voce è polifonica e non monodica. Al momento essa si fa sentire nella parola degli scrittori che, come il «contadino danubiano» Horia, ebbero il coraggio di opporsi al «mondo peggiore» per svegliarlo dal lungo letargo. Manca una sintesi politica ed ideale, atta a rendere il tradere di nuovo storia, mondo, vita vissuta.

Giovanni Sessa

La passione di verità di Miguel de Unamuno: un pensatore della singolarità – Giacomo Rossi

$
0
0

Al di là dei cliché interpretativi da troppo tempo consolidati, la filosofia del Novecento è stata caratterizzata da una significativa contrapposizione, che vide schierati, su fronti opposti, pensatori dell’impotenza e filosofi della potenza. I primi, perfettamente inseriti nella linea logocentrica inaugurata, in illo tempore, da Parmenide e tesi ad affermare il primato del concetto, dell’essenza e dell’universale, nei confronti della vita e dell’esistenza che, al contrario, hanno il volto dell’individuale, della nudità e della singolarità. I secondi, decisamente meno numerosi, si fecero latori di un pensare atto a mostrarsi in una prassi. Gli scritti e il dire di questi ultimi hanno carattere comune, manifestano una lotta a mani nude con la verità. Testimoniano quella passione di verità di cui disse, con pregnanza argomentativa, il filosofo ebreo Abraham Joshua Heschel. La loro è «comunicazione d’esistenza», che sospinge il lettore ad una reale trasformazione interiore, al cambio di cuore e di sguardo sul mondo. Tra essi, un ruolo di primo piano, ebbe il basco Miguel de Unamuno. Di questo filosofo è da poco nelle librerie, per i tipi della OAKS editrice, in una nuova edizione italiana, il volume, La tragedia del vivere umano. Il libro è arricchito dalla introduzione di Adriano Tilgher che accompagnava la precedente edizione e dalla nuova prefazione di Giovanni Sessa (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 175, euro 18,00). In realtà, non esiste un’opera del filosofo spagnolo che abbia questo titolo. Esso fu scelto dal traduttore del volume P. Pillepich. Si tratta di una silloge di operette: «filosofiche, la più parte, tra le più vivaci e battagliere […] inedite finora nella traduzione italiana, e tratte dalle opere del pensatore basco» (p. XVII). Una testimonianza di come l’autore cercò nel corso della vita di dare sintesi a ciò che il pensiero moderno aveva diviso: soggetto e oggetto, essenza ed esistenza, vita e pensiero. Da molto tempo di questo autentico filosofo, in Italia si erano perse le tracce: egli è estraneo al clima culturale prevalso nel nostro paese negli ultimi decenni. Usando un’espressione coniata da Cristina Campo, Sessa lo inserisce nella variegata compagnia degli imperdonabili, di coloro che nel nostro tempo vennero ai ferri corti con il senso comune utilitarista e anestetico.

De Unamuno condusse una vita avventurosa: fu docente di letteratura greca e Rettore dell’Università di Salamanca, viaggiatore dall’occhio finissimo, atto a cogliere l’ubi consistam esistenziale dei popoli e dei paesi che ebbe la ventura di visitare. Esiliato dal regime di Manuel de Rivera, fuggì in Francia. Rientrato in Spagna, criticò il «Fronte popolare» ma, nell’anno mirabile 1936, nella prolusione inaugurale che dette avvio all’anno accademico a Salamanca, stigmatizzò: «negativamente ogni forma di fanatismo, di ideologizzazione della vita, manifestando la distanza dal regime (franchista) che, presto, si sarebbe insediato in Spagna con il beneplacito della gerarchia ecclesiastica» (p. VII). Fu, naturalmente, rimosso dall’incarico e chiuse i suoi giorni poco dopo, isolato e sconfortato . La sua patria si avviava verso la devastante guerra civile. Esponente di spicco degli intellettuali iberici della «generazione del ‘98», la sua creatività si riversò in una poliedrica produzione, che spazia dalla filosofia alla narrativa, dal teatro alla poesia, per giungere alla critica letteraria.

Chiosa Sessa: «Il (suo) pensiero è articolato con lucido rigore ma è, altresì, sostenuto dalla forza della passione del vero, sublimata in un distacco esistenziale che ricorda i trattatisti inglesi o la “dipintura dell’io” di Montaigne» (p. IX). La visione del mondo che sostiene le pagine del volume che stiamo presentando è «religiosa», centrata sull’annuncio di una ri-nascita, un incipit vita nova, ben simbolizzato da Don Chisciotte, con il quale de Unamuno andò viepiù identificandosi. Suggerisce Sessa: «Di contro alla “scienza dell’intelletto” che distingue, divide e parla del e sul mondo, Don Chisciotte-de Unamuno propone la “scienza del cuore”, che pensa non con la sola testa, ma con il corpo, con la viva carne, con l’anima» (p. XIII). Don Chisciotte attraversa il mondo da «puro folle», va all’attacco dei mulini a vento, per mostrare la possibilità di un’altra vita agli uomini che muoiono, al contrario, per eccesso di sensatezza, di intelletto. Don Chisciotte-de Unamuno si assume il compito di chiarire che si vive realmente solo quando si nasce in spirito. Quegli ideali appresi dalla letteratura cavalleresca, che i suoi contemporanei di «buon senso» ritenevano morti da tempo, trovano nelle avventure chisciottesche vita nova, mostrano la loro eterna possibilità. A de Unamuno, come al Cavaliere Errante, il mondo appare bisognoso di liberazione dal fenomenico, dalla staticità: i due tendono a dinamicizzare la realtà che loro appare, come rilevato da Massimo Donà, il luogo della «perfetta confusione» degli opposti.

Nell’Introduzione Tilgher rilevò che il pensiero del basco affonda le proprie radici nell’antinomia di ragione e vita: «la prima aspira all’identità, mentre la seconda non è mai uguale a se stessa» (p. XVII). Da tale antinomia non sortisce un vincitore, ma il sentimento tragico del vivere che ogni uomo, come ricordava Pascal, sperimenta nella solitudine angosciosa delle notti agitate. Un filosofare eroico, quello unameano, sostenuto dal tentativo di unire ciò che appare diviso: Essere e Non Essere, Io e Dio. Egli non propone una soluzione definitiva, la sua religiosità è aporetica, è un porsi in cammino. Il suo cristianesimo è tragico e negativo, perfettamente incarnato, come si evince dal più significativo dei saggi della silloge, da Ibsen e da Kierkegaard: «Brand, protagonista di un dramma ibseniano, non fa che posporre sulla scienza la passione di verità che animò Kierkegaard, quella per “una verità ‘sentita’ e non concepita logicamente […] una verità che è vita”, testimoniata dagli eroi» (p. XXI). I solitari e i forti, banditi dalla società moderna in cui trionfa l’utile, occupano il centro della filosofia del pensatore basco: «L’uomo di passione (è) l’unico vero ribelle» (p. XXI). Sessa rileva che, nonostante tali rilevanti intuizioni, l’opzione cristiana ha, in qualche modo, vincolato de Unamuno alla dimensione del tempo, consustanziale alle visioni escatologiche e alle filosofie della storia.

Ciò, precisa il prefatore, è avvenuto solo in parte, in quanto l’atto unameano non si conclude, è aperto: testimonia un’adesione del filosofo alla spinta anagogica dell’utopia classica, non omologabile al perfettismo proprio dell’utopismo moderno. Infatti, nel saggio, A un giovane letterato, compreso in questa raccolta leggiamo: «Le ho sempre augurato speranze che non si realizzino né si dipartano da lei, speranze senza frutto sempre, speranze in eterna fioritura» (p. XXVIII). De Unamuno, nonostante l’opzione di fede, si pose in cammino verso l’eterna primavera della vita. In essa tutto è in fieri, sotto il segno di Dioniso.

Giacomo Rossi

La Sapienza Vedica – Luigi Angelino

$
0
0

Accingersi ad una trattazione del genere, obbliga lo scrivente ad una precisazione di carattere eziologico, significando che la presente sintesi, in considerazione della vastità e della complessità delle tematiche affrontate, cerca di offrire spunti significativi per un successivo approfondimento nei settori di interesse. Quando si fa riferimento ai libri “Veda”, si intende parlare di un'antichissima raccolta di testi, scritta in lingua sanscrita da parte dei popoli “Arii” (1) che colonizzarono l'India settentrionale, divenuta nel corso dei secoli il compendio di quel complesso di dottrine e di credenze religiose denominato “Induismo”. Lo stesso termine di origine sanscrita (lingua indoeuropea come il latino ed il greco) “veda” può essere tradotto con espressioni moderne come “sapere”, “conoscenza”, o anche “saggezza”, corrispondendo all'avestico “vaedha” ed al greco antico “oida”, considerando che in questa lingua, nel periodo arcaico, era presente il “digamma” con suono “v” e che quindi si leggeva “voida”. Gli studi ufficiali ritengono che la letteratura vedica risalga ad un periodo compreso tra il 2300 ed 2100 a.C., quando gli Arii emigrarono verso l'India settentrionale, allora chiamata “Terra dei sette fiumi”, provenendo da un'area geografica più o meno corrispondente all'attuale Afghanistan settentrionale. Quasi in contemporanea, un'altra ramificazione del predetto popolo, gli “Iranici”, invase il territorio dell'odierno Iran, fondando un'altra tipologia di letteratura religiosa che farà parte della raccolta dell' “Avesta” (2), il libro sacro dello Zoroastrismo. Ricostruire gli elementi fondamentali delle credenze di queste antiche popolazioni non è stato molto semplice, anche se gli esegeti hanno individuato nello “Rta”, la legge cosmica, il principio primordiale su cui si basava la loro dottrina (3).

Come si diceva in apertura, l'esatta datazione dei Veda costituisce un argomento molto controverso, anche se gli studi più accreditati la collocano intorno al ventiduesimo secolo a.C., con un'ampia estensione di composizione durata più di mille anni, fino all'undicesimo secolo. Qualche teoria minoritaria individua l'inizio dell'elaborazione dei Veda intorno al sedicesimo secolo a.C., considerando gli Indoari una popolazione parzialmente autoctona. Entrambe le teorie indicano più o meno l'anno mille a.C. come periodo di completamento della vasta opera. Non mancano autorevoli studiosi che ritengono il libro sacro induista di gran lunga più recente, riferendo di una probabile stesura tra il sedicesimo ed il quinto secolo a.C.. Di seguito ci soffermeremo sulle ipotesi che datano la più antica composizione dei Veda in un'epoca molto più antica, addirittura intorno all'8000 a.C., come retaggio di un'antica civiltà scomparsa, le cui tracce sono riscontrabili, in diverse forme, nei racconti mitologici di popolazioni sparse nei più lontani territori del nostro pianeta. Passando ad una veloce analisi dei testi che compongono la raccolta vedica, seguendo il filone interpretativo tradizionale, si ritiene che la parte più antica sia rappresentata dal “Rgveda”, a cui poi seguirono altri tre “libri”: “Samaveda”, “Yajurveda”, “Atharvaveda”. Nel particolare, questi testi ci offrono anche un quadro storico degli “Indoari”, descritti come nomadi guerrieri impegnati in sanguinosi conflitti con le etnie locali, definite come eredi della “Civiltà della valle dell'Indo”. I “Veda” ci presentano le popolazioni originarie di quei luoghi, come stirpi dalla pelle scura, chiamate “dravidiche” con il moderno linguaggio tassonomico, mentre gli autori, gli Indoari, definiscono sé stessi “arya” (nobili). In più, i testi raccontano che i riti religiosi furono introdotti dagli invasori, in quanto gli indigeni non avrebbero venerato divinità vere e proprie, limitandosi all'adorazione di un “fallo” eretto, in sanscrito denominato “lingam”. Alcuni studiosi hanno evidenziato la conferma della veridicità di tali narrazioni, dopo la scoperta nella valle dell'Indo di oggetti dalla forma fallica, considerati peraltro segnali anticipatori del successivo culto del “Lingam” che si diffonderà nella dottrina shivaista (4). Se vogliamo distinguere il contenuto essenziale dei quattro testi vedici, partiamo innanzitutto dal “Rgveda”, l'opera letteraria indoeuropea più antica a noi pervenuta. Il testo si compone di ben 1028 inni, chiamati “sukta”, traducibile in “ben detto”, a sua volta formati da 10462 strofe in diversi stili metrici, a cui è stata attribuita la denominazione di “mantra”, o quella di “rks”, ossia “versetto”, “invocazione”. Gli inni menzionati sono suddivisi in dieci libri, chiamati “mandala” (cicli), ciascuno di ampiezza, struttura e datazione a sé stante. Si tratta, pertanto, di un insieme di insegnamenti compositi, nati dalla tradizione culturale degli Indoari, senza alcuna preoccupazione di resa editoriale. Nel “Rgveda” sono contenute numerose testimonianze del culto sacrificale degli Arii, con costanti riferimenti alle divinità di Agni, Rta-Varuna e Soma, a cui si aggiungono i successivi inserimenti di entità guerriere, come Indra, il dio del fulmine (5). Il secondo testo, il Samaveda, trae origine direttamente dal Rgveda, consistendo in 1875 strofe, di cui molte sono ripetizioni della raccolta sacra precedente. Si tratta di un insieme di “mantra” cantati da un sacerdote e dai suoi tre assistenti, pervenuto ai nostri giorni in differenti versioni, anche se la più nota è quella che distingue due raccolte: il “Purvacika”, formato di 585 inni, suddivisi in quattro sezioni e lo “Uttarachika”, in cui si raggruppano 400 canti rituali da recitare al suono di peculiari melodie. Il terzo testo, lo “Yajurveda” riassume, in pratica, l'intero sistema rituale vedico, riportando distinte formule attinenti ai sacrifici, sia sotto forma di litanie che di inni. Dello “Yajurveda”, se ne dispongono due versioni quella “Krsna” (nera) e quella “Sukla” (bianca). E' un testo elaborato in parte in prosa ed in parte in poesia, rappresentando la più antica opera letteraria in prosa redatta in lingua sanscrita. Di grande importanza è anche il quarto testo, l' “Atharvaveda”, che si presenta come un trattato sulle formule magiche e sulla medicina. In realtà è una raccolta molto particolare, in quanto contiene sia formule positive (atharvan) che negative (angirga), molto diffusa nell'ambiente popolare. All'inizio l'Atharvaveda non fu considerato sacro, ma poi fu compreso nella letteratura religiosa, diventando perfino un autorevole manuale di riferimento per i “brahmani” (6).

E' necessario chiedersi a quale tipo di conoscenza i “Veda” possano riferirsi. Come abbiamo visto in precedenza, il termine “veda” può essere tradotto come “conoscenza” o “saggezza”. Non si tratta, tuttavia, di una conoscenza teorica, ma di una forma di conoscenza fondata sulla percezione, a cui l'uomo si avvicina nello stato di pura coscienza. La sapienza vedica si basa, dunque, sulla libertà e sull'intelligenza creativa dell'essere umano. E' indicativo come gli autori abbiano sottolineato che nei Veda si possa intravedere sia l'ispirazione divina che l'elaborazione umana, attribuendo ad essi una duplice denominazione: “nitya” (eterni) ed “apauruseya” (inventati dall'uomo). I seguaci dell'Induismo, con un'immagine di grande poesia, tipicamente orientale, definiscono i “Veda” come il respiro di Dio, da cui deriverebbero, per mezzo di molteplici suoni divini, i mantra da recitare. Seguendo la concezione vedica, l'Universo sarebbe formato da cinque elementi o stati della materia, derivanti dallo squilibrio primordiale nella forma del suono OM (7). Pertanto il suono rappresenterebbe l'energia primordiale, con la capacità di concretizzarsi nella realtà sensibile. La sapienza vedica attribuisce molta importanza alla tensione uniforme degli opposti, una forma di “simmetria assoluta” che darebbe luogo ad un meccanismo oscillatorio formato da tre fasi diverse: la propulsione, la resistenza ed il punto di equilibrio (rajas, tamas e sattva in sanscrito). Da questi tre momenti iniziali, si formerebbero i cinque elementi (etere, aria, fuoco, acqua e terra), nell'ordine crescente di densità. La sequenza descritta determinerebbe il fatto che l'elemento meno denso, l'etere, sarebbe racchiuso in tutti gli altri elementi, costituendo stati vibrazionali della materia in stretta connessione con i nostri sensi. E' importante sottolineare un altro principio della conoscenza vedica, in relazione all'elemento dell'etere, da non assimilare al significato del “vuoto”, ma al substrato che permette agli altri elementi di esistere, in pratica una specie di contenitore che permetterebbe alla vibrazione primordiale di esistere e di generare l'intero universo. A tale proposito, è stato osservato che l'udito è proprio il primo dei cinque organi di senso che comincia a svilupparsi nel corso della vita fetale, rappresentando, pertanto, la prima possibilità di contatto con l'esterno. Da questa constatazione, alcuni studiosi ritengono che gli altri organi di senso riescano a svilupparsi elaborando le informazioni uditive. La moderna fisica ha confermato scientificamente l'intuizione degli antichi autori dei “Veda”, stabilendo che la realtà è intrinsecamente formata da vibrazioni. Secondo la Teoria delle Stringhe, nella meccanica quantistica, è appunto lo stato vibrazionale di una stringa che incide sulle proprietà della materia. Per questa teoria, le forze fondamentali della natura si identificano in particelle come delle corde, stringhe appunto, monodimensionali e vibranti, infinitamente piccole che si propagano nello spazio ed interagiscono fra loro, formando la rete della realtà sensibile (8). E' incredibile riscontrare che una visione simile era presente già nell'antichità: nei sistemi di conoscenza tradizionali, infatti, il suono e la parola sono collocati all'origine dell'universo (confronta ad esempio la “parola” creatrice di Jahvè nella religione ebraica).

Gli studiosi del pensiero Orientale hanno considerato la letteratura vedica, come una specie di progresso dal panteismo naturalistico ad un pensiero più maturo e strutturato. Nei quattro antichi libri, è già possibile intravedere alcuni principi della metafisica induista successiva, anche se non mancano teorie che si riferiscono ai Veda come al compendio di una sapienza molto più arcaica. L'autore Aurobindo (9) interpreta i “Veda” in chiave ermetica, come la veste “essoterica” di una conoscenza “esoterica” più profonda riservata solo a pochi, ammantandosi di simboli che si riassumono in azioni liturgiche e sacrificali che, per certi versi, ricordano i misteri eleusini di ambiente ellenico. In particolare, vorrei accennare al rituale del “Soma” (10) che, nel suo aspetto più materiale e sensibile, consiste in una bevanda ottenuta dalla spremitura di una sostanza vegetale, così come descritto dal “Rig-Veda”. Si tratterebbe di una pianta che produceva un succo di colore scuro, i cui residui venivano poi risciacquati per estrarre la parte restante della stessa pianta. A ciò si aggiungeva una filtrazione mediante uno strato di pelo di pecora ed il succo veniva poi bevuto, a volte da solo, a volte con una miscela di latte o di miele. Gli esegeti hanno inteso la pianta appartenente alla famiglia dei vegetali “psicoattivi”, che inducevano negli assuntori un particolare stato allucinogeno. Non bisogna, tuttavia, fermarsi a valutare soltanto quest'aspetto, pur ragionevolmente importante, ma sottolineare la ricerca di uno stato di coscienza primitivo che consentisse all'officiante ed ai partecipanti ai rituali di entrare in contatto con l'energia primordiale dell'Universo. Nell'insieme si celebrava un vero e proprio banchetto sacro durante il quale, oltre alla bevanda misteriosa, frutto della spremitura della pianta del Soma, si consumava la carne degli animali sacrificati (almeno un capro ed una vacca sterile), in aggiunta ad altre pietanze delle diverse tradizioni geografiche. Si intravedono notevoli parallelismi con i culti dell'Orfismo greco che influenzarono il rituale antropofagico dell'eucaristia cristiana (il corpo ed il sangue di Cristo).

Negli antichi testi indo-ariani è possibile apprendere un particolarissimo sistema di calcoli che, in maniera estremamente sintetica, viene definito “matematica vedica”. Alcuni studiosi indiani nel primo ventennio del ventesimo secolo, approfondirono la cosiddetta “saggezza matematica” racchiusa nei Veda e nei loro corollari, pervenendo ad una nuova ed originale teoria matematica, pubblicata per la prima volta nel 1965 con il testo “Vedics Mathematics” (11). In quest'opera, per la prima volta, furono descritte alcune tecniche di calcolo, adatte allo sviluppo di una maggiore elasticità nel ragionamento matematico, proponendo metodi alternativi di risoluzione dei vari problemi. Negli ultimi decenni, l'innovativa disciplina è stata introdotta nelle scuole indiane e l'Università di Nuova Delhi ha organizzato alcuni corsi di “matematica vedica” (12) per rendere lo studio dell'algebra e della geometria più attraente e comprensibile alle menti dei discenti. Tale metodologia è stata adottata anche da alcuni istituti universitari americani. Nel particolare, il concetto della “matematica vedica” si può riassumere nella ricerca della “semplificazione”, con la progressiva ricerca della riduzione dei calcoli complessi, rendendoli ridotti e gestibili perfino con la mente. Gli esempi di procedimento proposti dai Veda, a volte più semplici, a volte più ragionati, gettano una luce del tutto diversa sul concetto di matematica a cui siamo abituati, forse un po' anche forzatamente. Tuttavia, contrariamente a quanto si possa pensare, nei sistemi vedici non vi è nulla di “magico”, in quanto le soluzioni algebriche delineate, per quanto audaci e quasi prodigiose, derivano da fondamenti scientifici precisi. E' necessario aggiungere che la matematica araba, di cui ancora riportiamo i simboli numerici, trasse insegnamenti da quella antica indiana. Gli antichi scienziati delle valli dell'Indo e del Gange furono gli eredi della millenaria conoscenza esoterica dei Veda, sviluppando sofisticate teorie astronomiche e matematiche già a partire dalla fine del secondo millennio a.C., in un'epoca di gran lunga antecedente a Pitagora, Archimede ed Euclide. Brahmagupta (598-668 d.C.) riprese l'antica tradizione vedica (13), presentandosi come il primo matematico a considerare lo “zero” secondo i canoni moderni, riuscendo anche a risolvere importanti problemi relativi alle equazioni di secondo grado ed arrivando a descrivere la forza di gravità, molto prima di Newton. Egli si occupava dell'osservatorio astronomico della città sacra di Ujjain che risale all'epoca del poema storico Mahabharata (14). Secondo la sapienza vedica, tale osservatorio si troverebbe lungo il primo meridiano, da cui si partirebbe per fare riferimento all'intero globo terrestre. Nell'antica civiltà indiana la conoscenza astronomica non era scissa dalle credenze religiose, in modo da ottenere una perfetta armonia astrologico-karmica. L'astronomia vedica riusciva ad intravedere il piano divino nell'architettura dell'universo, a differenza delle scienze moderne, ossessionate dai pregiudizi del positivismo. A proposito della simbologia dello zero, essa fu importata dagli Arabi in Europa, ma la sua origine è senza dubbio indiana. Lo zero, dal punto di vista esoterico e filosofico, rimane un enigma, perchè non indica una quantità determinata ma non è neanche il nulla. In realtà anche il nulla è un'astrazione dell'uomo moderno, già Parmenide faceva notare che il “nulla non esiste”. Se osserviamo con cura il simbolo dello “zero”, notiamo che in sanscrito si scriveva con un piccolo cerchio, espresso poi in ambiente occidentale con una figura ellittica. Salta all'occhio come la grafica dello zero richiami quella dell'infinito, del “Brahman” che sta alla base di tutte le cose, come la stessa energia del vuoto è di supporto fondamentale per la percezione di ciò che è visibile. La matematica di origine vedica è, quindi, anche filosofica, con significati esoterici ed iniziatici, non rappresentando assolutamente una disciplina di meri calcoli astratti.

I “Veda”, soprattutto il testo più antico, il “Rig-Veda”, presentano tanti misteri e coincidenze sconcertanti che fanno vacillare la datazione tradizionale, di cui abbiamo parlato prima. Nel “Rig-Veda” è descritta, ad esempio, un'eclissi solare che, secondo i calcoli, dovrebbe essere avvenuta nel 3900 a.C.. La tradizione induista, infatti, colloca l'elaborazione dei testi sacri in un'epoca di gran lunga anteriore al 2.200 a.C.. Ma, a parte, l'esatta determinazione temporale, gli elementi che destano maggiore meraviglia sono le descrizioni di conoscenze astronomiche molto avanzate, così come racconti di guerre e di macchine volanti, difficilmente concepibili in maniera fantasiosa con dettagli così specifici. In alcuni passi, sembra quasi assistere ad episodi di conflitti nucleari, con la presenza di armi micidiali e sconosciute, mentre velivoli avveniristici solcano i cieli, in una combinazione particolare di leghe metalliche e di nozioni di metallurgia, degne della seconda rivoluzione industriale. Alcuni passi hanno il sapore dei racconti moderni di fantascienza, anche se sappiamo che provengono da una tradizione indiana di migliaia di anni e codificata da ignoti scribi, magari proprio a partire dalla fine del terzo millennio a.C..(15). Nel poema epico nazionale indiano, il “Mahabharata”, si descrivono numerosi conflitti sofisticati e complessi. Del resto, anche se la la cultura occidentale ritiene la civiltà umana nata soltanto qualche millennio fa ed arrivata soltanto oggi alla scoperta dell'atomo, considerando i popoli antichi primitivi e selvaggi, non è detto che ciò corrisponda al vero. Il fatto di pensare allo sviluppo della conoscenza soltanto in maniera “lineare” e non “ciclica” potrebbe costituire una sorta di superstizione occidentale, non ancora capace di comprendere i misteri che si nascondono nel lontano passato.

Il “Vymaanika-Shashtra” (16) è un incredibile manoscritto interamente in lingua sanscrita, tradotto poi in inglese, che narra di vicende lontane circa 15.000 anni, quando sembrerebbe esistita un'avanzata civiltà tecnologica, forse anche più di quella moderna. La traduzione letterale del testo è “Pratiche Aeronautiche” od “Astronautiche”, descrivendo la tecnologia dei Vimana, cosiddette “macchine volanti”, quasi si trattasse di un vero e proprio manuale di costruzione, manutenzione ed utilizzo di antichissimi velivoli. E' possibile riscontrare dettagli tecnici di straordinaria precisione eziologica, soprattutto con particolare riferimento al sistema di propulsione ed a sistemi gravitazionali controllabili con la forza della mente, mediante pratiche di meditazione. A questo punto, si potrebbe pensare a ricostruzioni assolutamente fantasiose e prive di alcun fondamento scientifico. Ed, invece, se paragoniamo tali narrazioni ai moderni studi sulla possibilità di azionare comandi di guida, soltanto con gli occhi o con la voce, ci rendiamo conto come anche nell'epoca attuale, definita del “transumanesimo” (17), si stia intraprendendo il percorso dell'abolizione del “pilotaggio meccanico”. Sono già in fase di sperimentazione alcuni sistemi di “comando” dei caccia, basati solo sul movimento degli occhi del pilota. Non mancano descrizioni accurate delle leghe di metalli adatti alla costruzione dei “Vimana”, elencate nel numero di sedici e con l'importante caratteristica comune di assorbire molto bene il calore. Di particolare importanza è il riferimento presente nel testo ai “sette strati della terra”, dove sarebbero menzionati i metalli utili per costruire le macchine volanti. La chimica moderna individua proprio sette livelli energetici diversi che possono essere occupati dagli elettroni. Si può, a tale proposito, addirittura ipotizzare che gli abitanti dell'India di 15.000 anni fa avessero nozioni dei sette livelli energetici degli elettroni e di come si disponessero nello spazio intorno al nucleo. La scienza attuale ha individuato otto modi possibili di posizionare gli elettroni intorno al nucleo, così come poi tassonomicamente previsto nella tabella di Mendeleev.

Come ho avuto modo di accennare, la concezione del tempo nella letteratura vedica non è lineare, ma abbastanza complessa e sconcertante, per noi figli del razionalismo occidentale. Ad esempio, riveste una grande rilevanza la riflessione sulla creazione che non è concepita come un'azione puntuativa, bensì come una continua ripetizione del momento creativo iniziale, resa possibile proprio dallo scarto di un'idea dello scorrere del tempo in senso unidirezionale e senza possibilità di ritorno. Peraltro, per l'Induismo classico, gli stessi testi Veda non sarebbero stati neanche “scritti” nel senso tradizionale, ma apparirebbero come “eterni” ed “immutati”, che è un po' come dire che vengono continuamente “ricreati”. Lo stesso atto creativo dei libri, pertanto, non andrebbe attribuito ai veggenti, ma essi sarebbero sempre esistiti, in una sorta di realtà atemporale. All'interno di un tempo “acronico”, quasi una contraddizione in termini, non vi è spazio per una narrazione cronologica degli avvenimenti, dove niente si evolve in maniera definitiva o degrada irrimediabilmente, né alcunchè appare irreversibile, in quanto è sempre aperta la “via del ritorno”, cioè di riattualizzare quanto è già accaduto.

Mi piace concludere questa breve rassegna con qualche considerazione sulla lingua sanscrita, un idioma per certi versi ancora misterioso e che è stato oggetto di recenti interessanti e sorprendenti approfondimenti. La lingua sanscrita è una delle più antiche lingue indoeuropee, anteriore al latino e al greco, con le quali condivide numerose caratteristiche comuni. L'etimologia del termine “sams-kr-ta” può essere tradotto con “perfezionato”, assimilabile al latino “confectus” (infatti la radice sanscrita “kt” corrisponde alla latina “fac”). Gli esegeti distinguono due varianti della lingue sanscrita, quella più antica, appunto denominata “vedica”, e quella “classica” di epoca successiva. I primi testi di grammatica sanscrita si diffusero in Europa nel diciottesimo secolo, risultando di straordinaria importanza per gli studiosi di linguistica comparata, alla luce delle evidenti affinità con il latino ed il greco. A differenza di queste ultime due, la cui declinazione prevede rispettivamente sei e cinque casi, la lingua sanscrita prevede ben otto casi (il locativo e lo strumentale). E' ormai quasi acclarato che anche il latino ed il greco arcaici comprendessero questi due casi, poi caduti in desuetudine, come alcune espressioni idiomatiche hanno conservato anche in epoca classica (cfr. il cosiddetto “genitivo locativo” Romae). Attualmente il sanscrito è utilizzato soltanto da alcuni gruppi induisti per celebrare le loro cerimonie e nei testi sacri. Ma è davvero una lingua morta? Alcuni recenti studi hanno evidenziato come il sanscrito appaia un “vero e proprio” linguaggio per i computer, come ha riportato nel 1985 Rick Briggs (18), studioso di “intelligenza artificiale” della NASA. Le reti semantiche dei computer, negli anni Ottanta ancora primitive, apparivano sorprendentemente simili alla struttura della lingua sanscrita. Una tale particolarità potrebbe sembrare casuale, se non si mettesse in relazione con l'ideale di perfezione inseguito dall'antica sapienza vedica. In tale contesto, alla luce anche dei particolari contenuti dei testi, descritti in questa breve sintesi, risulta quasi spontaneo chiedersi quale livello di perfezione avessero raggiunto gli ideatori dei libri vedici, lasciando davvero ampio spazio a supposizioni sulla preesistenza di una civiltà avanzatissima.

Note:

(1) Gli studiosi ritengono che gli Arii abbiano inizialmente formato la civiltà di Andronovo, di matrice indoueropea, nata tra il III ed il II millennio a.C. nell'Asia centrale; (2) L'Avesta è il testo sacro dello Zoroastrismo; (3) Cfr. Cfr. Cerquetti-Karuna-Parana, La millenaria conoscenza dei Veda, Edizioni OM, Bologna 2012; (4) Lo sivaismo o shivaismo può essere considerato un sistema filosofico e teologico sorto nella regione del Kashmir intorno all'VIII-IX secolo, derivante da antiche tradizioni tantriche; (5) Cfr. Rossella Daniela, Induismo-Religiosità, Pensiero, Letteratura, Edizioni Guerini e Associati, Milano 2018; (6) Cfr. Raimon Panikkar, I Veda- Mantramanjari, Ed. Rizzoli, Milano 2001; (7) Om è un termine sanscrito indeclinabile che ha un particolare valore assertivo, posto all'inizio di numerosi testi della letteratura indiana. Per consuetudine, essendo ritenuta una “sillaba sacra”, è pronunciata all'inizio ed alla fine di ogni lettura dei Veda; (8) La cosiddetta teoria delle “stringhe” cerca, in realtà, di conciliare la meccanica quantistica con la relatività, tentando di costruire una “teoria del tutto”; (9) Sri Aurobindo (1872-1950) è stato uno dei più grandi filosofi e mistici indiani dell'epoca contemporanea, considerato perfino una sorta di “avatar”, un'incarnazione dell'Assoluto; (10) La pianta montana del “soma” viene solitamente identificata con una particolare specie di “asclepiadacea” o con una “canna da zucchero”; (11) Cfr. Bharati Krishna Tirtha, Vedic Mathematics, Editore Motilal Banarsidass Publishers, New Delhi 1965; (12) Cfr., Federico Peiretti, Matematica vedica, su areeweb.polito.it, consultato il 4/06/2020; (13) Brahmagupta (598-668) è considerato uno dei più grandi astronomi e matematici indiani, autore di due importanti opere di astronomia e matematica: il Brahmasphuta Siddhanta nel 628 ed il Khandakhadyaka nel 665; (14) Il Mahabharata è considerato il più grande poema epico indiano, unitamente al Ramayana. Sembra che la sua versione finale sia stata perfezionata tra il IV sec. a.C ed il IV sec. d.C., anche se i fatti narrati, secondo la tradizione, risalirebbero al 2200 a.C. circa, nello stesso periodo dell'inizio dell'elaborazione dei Veda; (15) Cfr. Richard Thompson, La civiltà degli alieni, Gruppo editoriale futura, Milano 1999; (16) Si tratta di un testo decisamente misterioso, scritto in sanscrito e risalente agli inizi del XX secolo, ottenuto da un presunto “medium”, tramite “canalizzazione” e scrittura automatica, dove si affermerebbe che i “vimana”, citati nei testi vedici, sarebbero velivoli simili agli attuali razzi; (17) Il transumanesimo è un movimento culturale che promuove lo sviluppo delle scoperte scientifiche e tecnologiche, per aumentare le capacità fisiche e cognitive dell'uomo; (18) Cfr., Rick Briggs, Sanskrit and Artificial Intelligence- Nasa Knowledge Representation in Sanskrit and Artificial Intelligence, 1985.

Luigi Angelino

Sangue e Spirito: la polarità primordiale della Romanità – Giandomenico Casalino

$
0
0

…fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza…” (Dante, Inferno, Canto XXVI, verso 119)

Se Julius Evola, durante l’ultimo conflitto mondiale, ideò e progettò una Rivista bilingue (italo-germanica) dal titolo “Sangue e Spirito”, che poi, a causa di vari impedimenti, non vide mai la luce, vi saranno state delle ragioni legate non solo al momento storico che il filosofo stava vivendo ma, essendo Evola spiritualmente platonico e romano, certamente sarà stato mosso, anche e soprattutto, da “qualcosa” di molto più profondo e sottile, quindi consustanziale alla sua visione metafisica e metastorica che gli ha sempre consentito di essere e di agire da autentica voce profetica, proprio nel significato etimologico del termine. E questo “qualcosa” è, manifestamente, la alternativa complessa e radicale al principio “Blut und Boden” (Sangue e Suolo) ispiratore di gran parte della Weltanschauung nazionalsocialista ma, in una dimensione ancora più interna, è l’evocare quella polarità in quanto Azione magica, cioè fattrice e creatrice, quale Paradigma a cui l’Europa, in quella dimensione temporale, avrebbe dovuto guardare con spirito guerriero nonché asceticamente contemplativo. E quale era tale Paradigma se non quello eterno del Fuoco che, quale Spirito, forgia, forma e governa il Sangue che è Vita e quindi Zoè che deve essere Bìos, se non il Mistero divino di Roma quale supremo Principio Fulgureo mondanizzato? Ecco la potente e luminosa natura sapienziale di Evola, non del tutto “apparsa” a qualcuno, atteso che questi ancora osa grugnire sulla cosiddetta “attualità” del filosofo, come se il Sapere e la Gnosi fossero soggetti alle mode ed alle opinioni degli attuali e, purtroppo, dominanti ominidi.

I Greci per dire Vita hanno avvertito la necessità, nella loro straordinaria ricchezza spirituale, di usare due termini, Zoè e Bìos, i quali, semanticamente, hanno risposto e quindi esaudito quel desiderio insito in quella Domanda filosofica fondamentale avente ad oggetto la differenza ontologica che sussiste tra la Vita quale Potenza cosmica (Zoè) e la Vita quale Atto, Forma (Bìos) e quindi, in senso proprio aristotelico, struttura organica e formalmente gerarchica di individuali realtà viventi; ciò vuol significare che l’Anima del Mondo che è, in Alchimia, il Mercurio e nel Timeo di Platone la Chòra, mentre nella meccanica quantistica è il campo gravitazionale relativistico di “qualcosa” che può essere (?) onde, corpuscoli o particelle ma non è alcuna di queste nello stesso tempo e nel medesimo contesto; ma che è, nella sua sostanza simbolica, la Donna, deve, per necessità cosmica e quindi divina, essere formata, in quanto deve essere fermata, come è fermata la vorticosità della Ruota dal Quadrato nel Mandala, dal Principio che effonde ed imprime in essa il Sigillo onde condurre sempre più in Alto quella Potenza-Dýnamis che di atto in atto, da grado a grado, deve passare da Zoè (Vita priva di Forma, irruente e senza limiti [àpeiron], scatenata, come quella rappresentata sui Sarcofagi romani di età imperiale…) a Bìos che è già Vita individuata (principium individuationis) formata, fissata, coagulata e pronta alla Ascesi verso l’Alto cioè verso il più-che-vita che è lo Spirito quale metavita, l’oltre vita, in quanto eternità della stessa perché suo concetto (direbbe Hegel) quindi la sua sublimazione nell’Idea. Pertanto, parlare, evocare o, quantomeno, invocare la polarità Sangue e Spirito è entrare in una dimensione dell’Essere talmente alta ed onnicomprensiva da dover essere simbolizzata solo dal Cielo e quindi dal Divino, poiché essa è l’Opera eterna quale Legge dello Spirito, come ordine necessario (Anànche ) dell’Universo e nei tempi dello stesso, che governa e forma il mondo dei Viventi tanto nel succedersi dei giorni e delle notti come delle stagioni, quanto nel succedersi delle Civiltà e delle Vite così come nello sbocciare del fiore nel tempo e nella forma dovuti: è lo Spirito, è l’Alto, è l’Intelletto quale Nous cosmico, Mente di Zeus che rinnova in eterno il Rito primordiale con il quale il Demiurgo ordinò cioè diede Forma alle Potenze dell’Essere; e se la Mente è la sede delle Idee, quali Archetipi dell’Essere, allora il Mondo dei Viventi che è il Sangue quale simbolo della Vita medesima, come base, “corpo elementare terrestre” o “materia bruta”, non può che essere la Madre dalla quale si nasce ma dalla quale l’Eroe si emancipa come si emancipa dalla Terra dei Padri e dalla sua Legge onde conoscere, esperimentando, la Legge del Cielo in una Ascesi che non è più la Via dei Padri e del Sangue ma la Via degli Dei e dello Spirito!

Ed in tutta la complessa e diversificata epifania del vivente uomo su questo pianeta, quale sublime Forma, quale divino Mistero ha realizzato nel senso di incarnato questo eterno Archetipo cosmico se non Roma? Chi ha creato ex nihilo, con un Atto d’imperio di natura magica, simile a quello del Demiurgo platonico, l’Ordine dello Spirito cioè dell’Intelletto e quindi dell’Eterno, che pur viaggia e si muove nel tempo ma fuori dal tempo e nonostante lo stesso e che impone il suo Arché come Principio, Comando sopra la Legge della Vita, del Sangue, dei Padri, della Madre e della Terra, se non Romolo, quale Pontefice (facitore di ponti) della Virtus solare nella sua corrispondenza magica Nume-Astro-Metallo, che irrompe nel Mondo, operando in guisa tale da imitare, qui sulla Terra, il Rito Cosmico, affermando così la Legge del Cielo e negando quella del Sangue? Roma, quindi, è lo specchio terrestre in cui si riflette lo stesso Ordine dei Cieli, dello Spirito (e nello specchio Amor è Roma…!) ed è l’unico ed eterno Paradigma, tra tutte le Civiltà del mondo, di questa totale, organica, definita e continua Opera di Alchemica lavorazione dell’Anima dei Popoli quale Vita e Sangue, Zoè e Bìos, costumi, tradizioni religiose, leggi e rituali nonché egoismi, violenze e superbie arroganti, madri dell’odio e della violenza, tutte sollevate ma non negate, conservate ma superate per giungere, associando le Genti al suo Destino, nell’ “oltre”, nell’ “aldilà”, nel più – che – vita dello Spirito, nel metafisico che è il Jus civile in quanto Rito giuridico-religioso che dal jus gentium, che è in sostanza il jus sanguinis e cioè il cosiddetto “diritto naturale”, crea magicamente, e cioè nell’Invisibile, per mezzo di Atti e Parole solenni, consacrate nei formulari pontificali, Forme universali quali tipicità giuridiche metarazziali che, essendo Idee, non sono passioni, abitudini, sentimenti, credenze irrazionali e quindi il mondo del “Sangue e Suolo” in quanto dimensione animico-emotiva, espressione delle potenze della Vita, ma sono, come già insegnavano sia Platone che Aristotele, impassibili, chiare, intelligibili, apollineamente luminose e, pertanto, in virtù della loro natura logica e cioè eterna in quanto frutto dello Spirito, “… la loro sovranità che è quella della Legge è simile alla sovranità divina ed è intelligenza senza passioni, mentre la sovranità dell’uomo concede molto alla sua natura animale…” (Aristotele, Politica, III, 16,1278a).

Roma così è, ancor prima di irrompere nel mondo, il Principio cosmico dell’Ordine e della Legge, Paradigma celeste, come la Repubblica di Platone, che deve essere presente e visibile, qui nel mondo degli uomini, e quale eghemònikon, creare e governare il mondo che è la Res Publica, in quanto Juppiter Optimus Maximus come Idea, con il fine di realizzare, nei limiti delle possibilità umane, la Felicitas in terra ad imitazione della beatitudine divina che è nei Cieli. E la Legge dello Spirito in Roma si afferma sulla Legge del Sangue sin dai suoi primordi: da Romolo che uccide il fratello, colpevole di aver infranto l’Ordine effettuale al Rito al Console Tito Manlio Torquato che, nel 361 a.C., nella guerra contro i Latini, fa giustiziare il figlio, poiché aveva violato la legge, sino a Decio Manlio Ausonio, retore e poeta gallo-romano che nel 360 d.C. scrive: “Sono nato in Gallia ma la mia patria è Roma!” e lo stesso Ausonio, sempre in virtù della Legge dello Spirito, da Quinto Aurelio Simmaco, patrizio romano, filosofo, giurista e retore, appartenente ad una grande ed antica famiglia, prefetto dell’Urbe e princeps Senatus, in una epistola indirizzatagli, è definito: “grande maestro di Latinità e Romanità!”; per giungere al poeta Rutilio Namaziano, gallo-romano anch’egli, il quale nella sua opera “De Reditu”, dedicata a Roma, quale eterna Idea dell’Ordine, della Pace e della Giustizia, afferma e glorifica proprio ed esattamente la potenza dello Spirito della Romanità che “ha fatto una Città di ciò che era un Mondo!” e “di quelle che erano molte e diverse genti ha fatto un unico Popolo!”.

Questo è il Mistero di Roma, poiché è Verità ermetica e metafisica in quanto la vittoria dello Spirito sulla Natura, sulla Vita e sul Sangue, sublimandoli, governandoli, traendoli verso l’Alto è Opera divina, è ciò che gli Dei hanno affidato, quale compito divino, al Popolo Romano ed è ciò che lo stesso ha eseguito nel tempo e secondo necessità. Qui risiede la carica profetica di quel pensiero di Evola e della sua evocazione della polarità “Sangue e Spirito”; per la evidente ragione che nella stessa è manifesta la causa metafisica dell’odio e del terrore che il solo Nome di Roma provoca in coloro i quali hanno da sempre ideato e promosso la perversa ideologia del Mondialismo che è il capovolgimento satanico di quell’Ordine dello Spirito; e nella presente età assiale le sue Tenebre avanzano tanto velocemente da apparire inesorabili, quale dominio essoterico della Vita senza forme e limiti come del Sangue nella sua più animalesca espressione, il tutto con il fine dell’imbestiarsi definitivo ed ultimativo dell’uomo e della donna, sul quale “governerebbe”, nella dimensione esoterica, lo Spirito però nell’orientamento dello stesso verso il Basso, quale metafisica delle Tenebre.

Con quella evocazione pronunciata in quel fatidico “momento”, Evola non solo ci ha parlato non del passato ma dell’Eterno, che è Roma, ma ci ha indicato anche il nostro presente ed il futuro medesimo, nonché la necessità biologica e quindi immunitaria che la Vita ed il Sangue dei Popoli si rivoltino nei confronti di tale oscura ideologia che ha in odio la Forma e quindi la Luce, la quale ha per unico fine ciò che la stessa Natura rifiuta: impedire all’uomo di essere tale e cioè divino in quanto vivente al di là della Vita e Spirito oltre la stessa: l’Oro, che occheggia e luccica tra la feccia, vuole e deve essere visto, riconosciuto, pulito dalle impurità e restituito alla sua primordiale dignità, al suo essere Quello, ab aeterno!

Giandomenico Casalino

Da Platea a Minneapolis, passando per Fiume: dalla Tradizione all’Anti-Tradizione – Federica Francesconi

$
0
0

Esistono nella Storia umana dei“luoghi dello Spirito” indiscutibilmente riconosciuti come tali dai cultori della Tradizione. Eventi, cioè, che incarnano non solo e non tanto lo spirito del tempo, del tempo inteso come un insieme di caratteristiche politiche, sociali e culturali di una determinata epoca storica, ma anche e soprattutto lo Spirito tout court. Ed è attraverso l’estrinsecazione sul piano storico di tali eventi, che manifestano caratteristiche spirituali simili, che è possibile riconoscere e riunificare la Tradizione in un unico patrimonio di valori, in un retaggio ideale che trascende lo spazio ed il tempo. Ma così come è possibile riconoscere gli eventi riconducibili ai vari filoni in cui la Tradizione si è manifestata nel corso dei millenni, è anche possibile, secondo la Legge degli Opposti, che è legge metafisica, riconoscere eventi riconducibili ai filoni dell’Anti-tradizione e della Contro-tradizione, sempre operanti tra le pieghe deviate della Storia umana, oggi più che mai.Il piano fisico, non lo si dimentichi mai, manifesta sempre il piano metafisico, in cui agiscono sia forze uraniche che forze infere. Ho scelto di proposito due eventi storicamente distanti come la battaglia di Platea del 479 a.C. e la presa della città di Fiume del 1919-20 perché fermamente convinta che siano stati epifanie sottili, ovvero forme spirituali, della Tradizione in tutta la sua bellezza. Ad essi ho voluto contrapporre l’evento della distruzione della statua di Cristoforo Colombo a Minneapolis in quanto paradigmatico e rivelatore dello spirito deviato di questi Tempi connotati in senso fortemente anti-tradizionale e contro-tradizionale, per usare una nota terminologia guénoniana.

Ma procediamo con ordine.Partirò dalla battaglia di Platea in cui lo spirito della grecità, a suo volta un elemento della Tradizione eterna, autenticamente rappresentato dalle qualità militari dell’esercito degli Spartani, nonché dal carattere e dalla formazione umana del suo corpo d’élite, gli Spartiati, si manifestò in tutto il suo fulgore. E’ Erodoto a raccontarci in modo sublime lo svolgimento tattico della battaglia. Credendo che l’esercito lacedemone stesse battendo in ritirata, il generale persiano Mardonio ordinò al suo esercito presso la piana di Platea di inseguire i Greci. Fu un errore strategico che decretò, insieme alla battaglia navale di Micale, avvenuta nello stesso giorno, la sconfitta definitiva di Serse. Non solo l’esercito spartano non si dette alla fuga ma, pur essendo in inferiorità numerica e armato peggio rispetto ai persiani, gloriosamente affrontò il nemico. Ciò tuttavia richiese una dose di coraggio e di spirito di sacrificio pari se non superiore alla mitica battaglia delle Termopili. Perché? Affidandosi al responso degli dèi, il re Pausania che guidava l’esercito misto di spartani e tegeati, non avendo ottenuto presagi favorevoli dal sacrificio nel tempio di Hera, diede ordine di “sacrificare” i soldati, i quali nella prima fase della battaglia non reagirono all’attacco feroce della fanteria persiana, gli “Immortali”, numericamente superiore, meglio equipaggiata di loro, ma soprattutto dotata di arcieri sciiti che scagliavano con precisione millimetrica frecce e giavellotti sulla testa degli opliti. Gli opliti guidati da Sparta, obbedendo all’ordine di Pausania di non buttarsi sulle linee nemiche, piantarono a terra la loro lancia. Fu un massacro. Mentre i persiani lanciavano le loro frecce, Spartani e Tegeati cadevano a terra come mosche, rifiutandosi di reagire per obbedire all’ordine di Pausania di non attaccare. Si calcola che morirono in 10.000. Compiuto un nuovo sacrificio nel tempio ed ottenuto un responso favorevole, a quel punto Pausania scagliò il resto dell’esercito contro le linee nemiche. Lo scontro fu lungo e ferocissimo. L’esercito spartano riuscì tuttavia ad annientare buona parte di quello persiano, il quale si dette alla fuga verso l’Ellesponto per raggiungere le navi. Ma, inseguiti dall’esercito spartano, venne trucidato. 80 mila soldati persiani vennero passati a fil di spada.

Perché la battaglia di Platea manifesta in modo esemplare, oltre che la gloria imperitura di Sparta, lo spirito della grecitase, quindi, la Tradizione? C’è qualcosa di spiritualmente commovente, di autenticamente eroico nella decisione del re Pausania di rispettare “il volere degli dèi”, in un’epoca in cui il razionalismo materialista non aveva ancora conquistato la sua egemonia nella storia del pensiero umano. Ad un occhio razionalista tale decisione può infatti apparire come un’azione sciocca ed insensata. In realtà, rispettare il volere degli dèi al punto da sacrificare il destino di una parte del suo esercitoe rischiare di mettere a repentaglio la salvezza dell’intera Grecia dalla minaccia persiana, fu da parte di Pausania un atto di profonda fede nella giustezza della causa della libertà greca e nell’adesione del piano metafisico a tale causa: giammai gli dèi avrebbero abbandonato i Greci al loro destino. Gli dèi, e non la fallace razionalità umana, avrebbero dato a Pausania il segnale di attaccare le linee nemiche al momento giusto. E così avvenne. Compiuto un secondo sacrificio di capre, gli dèi diedero il segnale di attaccare. Il sacrificio di una parte dell’esercito spartano fu provvidenziale per motivare i sopravvissuti a combattere senza temere la morte al fine di onorare i caduti. A Platea si giocò il destino dell’Occidente, minacciato dall’Oriente persiano di essere privato della libertà, sicché il gesto a inizio battaglia degli opliti spartani e tegeati, descritto da Erodoto con dovizia di particolari da epopea omerica, di piantare i loro scudi e le loro spade per terra in ottemperanza al volere degli dèi, che sconsigliavano di attaccare, mentre le frecce del nemico saettavano sopra le loro teste facendo strage di essi, può essere compreso solo facendo riferimento alla profonda spiritualità intrisa di Tradizione a cui gli Spartani si richiamavano.

C’è qualcosa di veramente “divino” in questo affidarsi del re spartano Pausania al “volere degli dèi”. Lo stesso Spirito si manifestò, io credo, nell’impresa di Fiume. Anche i legionari guidati dal Vate rispondevano al “richiamo degli dèi”, ad una presa di coscienza profetica e ad un agire conseguente all’umiliazione dell’Italietta da parte dei vari Mardonio europei, nonché degli Efialte e dei Cagoia nostrani. Come gli Spartani resistettero eroicamente al progetto prima di Dario e poi di Serse di sottomettere la Grecia, così i legionari e tutti gli entusiasti attori dell’impresa di Fiume resistettero eroicamente al progetto delle principali potenze europee dell’epoca di sottomettere l’Italia, che pure aveva pagato durante la Grande Guerra un tributo di sangue enorme. Fu proprio per onorare quel tributo di sangue – furono circa 650 mila i militari italiani caduti nella Grande Guerra – che i legionari dettero vita ad un’impresa disperata, eppure proprio per tale motivo intrisa di epicità e di tragico spirito divino. Come gli Spartani prima di loro alle Termopili, a Maratona e a Platea, i legionari resero il fronte militare di Fiume un luogo dello Spirito in cui pensiero, parola ed azione si fondevano in un’unica realtà che trascendeva la dimensione fisica, assumendo i connotati di una vera e propria realtà metafisica in cui la “voce del tòtheiòn”, del divino come lo chiamavano i Greci, 2500 anni dopo riecheggiava nella genuinità patriottica dei ribelli. Un fronte rivoluzionario permanente in cui riacquistava dignità lo spirito della Grecità, ma soprattutto della Romanitas. Questo fu il fine perseguito dai legionari. Utopia? Utopia è credere che cancellare le testimonianze materiali di secoli di Storia, come sta avvenendo in questi giorni sciagurati in un vortice di furia iconoclasta in tutto l’Occidente in nome della ridicola lotta al razzismo, sia la soluzione all’invidia che certi ambienti culturali di sinistra imbevuti di nichilismo, hanno da sempre provato versoil patrimonio immortale della Tradizione che, stanti i valori e gli ideali a cui essa si richiama, non può non collocarsi sul piano politico a Destra. Naturalmente non la destra liberale, antipatriottica ed antisovranista o falsamente sovranista che oggi spopola in Europa, in particolar modo in Italia. Qui bisogna essere chiari. Destra e Tradizione costituiscono un binomio inscindibile. Ogni autentico valore di Destra dev’essere ancorato alla Tradizione. Non esistono valori autenticamente di Destra che non siano connotati tradizionalmente. E proprio per onorare tali valori che a Fiume si tentò un’impresa che mirava a ridare sostanza alla Tradizione.In primis attraverso la valorizzazione del principio dell’autodeterminazione dei popoli. In pochi lo sanno, ma a Fiume la maggioranza della popolazione era favorevole all’annessione della città al Regno d’Italia. Già il 30 ottobre 1918 il Consiglio della città emanò un proclama in cui si dichiarava favorevole all’annessione all’Italia.

Mutilare la vittoria dell’Italia, mutilare la storia dell’Occidente demonizzandola come una serie infinita di crudeltà impregnate di razzismo. Non è così che si rende giustizia alle vittime. Sebbene l’Occidente nel corso dei millenni si sia macchiato anche – e non solo - di azioni non certo nobili, ridurre la sua storia a una fila sterminata di azioni criminali è operazione sporca sul piano prima di tutto ideale, e quindi metafisico. Ogni fenomeno storico presenta luci ed ombre. Ora, eliminare le luci per puntare i riflettori sulle sole ombre di un fenomeno storico, come per esempio il colonialismo, nasconde la volontà disonesta di ridurre la complessità di quel fenomeno per scopi tutt’altro che limpidi. E che tali scopi siano funzionali ad un inzerbinamento ideologico delle masse al fine di rafforzarne il dominio su di loro, non ci vuole certo un quoziente intellettivo elevato per comprenderlo. Oggi il leitmotiv di certa propaganda mondialista è la demonizzazione della Storia d’Occidente nella sua globalità. A Sparta i bambini nati con malformazioni erano gettati dalla rupe del Taigeto; l’imperialismo romano fu essenzialmente storia di sottomissione di popoli liberi; a Fiume andò in scena il più becero nazionalismo; il sovranismo è rigurgito nazionalista e colonialista. Queste e molte altre le pseudoverità assunte dalla propaganda mondialista allo scopo di gettare una luce fosca su fenomeni storici complessi che presentano sempre un’altra faccia della medaglia, un'altra controparte di verità inaccettabile per chi è avviluppato nelle spire del Pensiero unico. Sparta fu molto più che la pratica di uccidere i bambini malformati. Senza il rigore di Sparta, la ferrea disciplina dei suoi opliti, la rigidità dell’educazione impartita agli spartani fin dalla più tenera età, gli invasori persiani sarebbero mai stati respinti dai Greci? E senza la civitas portata dai Romani in giro per l’ecumene, sarebbe mai esistito un mondo come lo conosciamo oggi? No. In Germania e nel Regno Unito oggi al posto degli effetti della civilizzazione romana avremmo ancora pascoli sconfinati di mucche e maiali. E senza il colonialismo occidentale degli ultimi quattro secoli, che innegabilmente presentò anche aspetti deplorevoli, dunque da condannare sul piano etico, esisterebbe il mondialismo? La stessa civiltà cristiana non avrebbe potuto diffondersi senza la civitas romana.Senza l’occupazione di Fiume, avremmo noi un esempio di realizzazione concreta del principio di autodeterminazione dei popoli, principio tra l’altro riconosciuto e promosso dalla stessa ONU?

Solo gli ottusi votati alla difesa del Pensiero unico, che di ideologia mondialista si nutre, risponderebbero negativamente a siffatta domanda. Rifiutarsi di accettare che la Storia umana è una concatenazione di eventi e che per tale motivo il giudizio etico, che spesso non tiene conto di questo aspetto, spesso non spiega l’intreccio di cause ed effetti tra due eventi storici: ecco dispiegarsi in tutta la sua gravità l’ottusità di quella che il filosofo Nietzsche, non a torto, chiamava non già massa, termine per lui fin troppo nobilitante, ma “plebaglia”, nel senso più spregiativo del termine.Senza Sparta non avremmo mai costruito l’Occidente, inteso non solo come categoria storica e geografica, ma come luogo ideale, generatore e ispiratore di altri eventi storici. Senza l’Occidente colonialista i mondialisti non avrebbero mai potuto costruire il loro nefasto paradigma di in-civiltà. Questa è la verità che chi oggi spacca tutto ciò che può essere spaccato negli USA, arrivando persino a buttare giù le statue degli odiosi protagonisti del colonialismo – che non fa rima con schiavismo –non potrà mai assimilare perché accecato dall’arroganza che emana la sua convinzione di essere culturalmente superiore. Peccato che la comprensione della Storia umana non possa avvenire trincerandosi dietro una corazza di pregiudizi e moralismi spesso inquinati da ideologie impregnate di nichilismo materialistico. Se l’abbattimento della statua di Cristoforo Colombo a Minneapolis da parte dell’esercito degli utili idioti della Contro-tradizione, le truppe cammellate del mondialismo, è la cartina di tornasole della decadenza metafisica dell’Occidente, del suo “tramonto” come avrebbe detto il filosofo della Storia Oswald Spengler, che lo profetizzò oltre 60 anni fa, a tale impianto nichilista non potrà che essere opposta la Tradizione, che è prima di tutto memoria pulita del passato, di ciò che di glorioso e di immortale fecero i popoli occidentali per difendere la libertà dall’oppressione, facendo di essa un luogo dello Spirito a cui richiamarsi nei momenti storici difficili. Fare memoria significa innanzitutto recuperare il senso ideale di eventi storici che possono illuminare la nostra visione del mondo e orientare l’azione quotidiana. Fiume non fu un colpo di mano nazionalista. Fiume fu un evento in cui si manifestò la quintessenza della vera Tradizione d’Occidente, quella stessa Tradizione che nel 1683 diede vita alla battaglia di Vienna nella quale i principali regni europei dell’epoca respinsero l’invasione dei Turchi Ottomani. Se non avessero riconosciuto nei legionari quella genuina tensione ideale, quel generoso slancio patriottico votato al sacrificio, granatieri, bersaglieri ed arditi non si sarebbero uniti alla loro causa disubbidendo così agli ordini dell’Alto Comando italiano. Ben altra umanità, ben altre idealità.

Oggi i luoghi dell’anti-tradizione e della contro-tradizione pullulano senza alcuna resistenza, essendo essi promossi dal mondialismo, che esercita un dominio assoluto sui luoghi del sapere, come le Università. Ed è da tali luoghi del sapere – ma sarebbe di gran lunga più appropriato chiamarli fabbriche del Pensiero Unico – che vengono continuamente sfornate le revisioni della Storia, a cui si abbeverano le greggi dei facinorosi e dei falsi intellettuali progressisti. A questi ultimi è stata affidata dai manovratori mondialisti la missione di abbattere a picconate la memoria storica dell’Occidente attraverso il confezionamento di slogan ridicoli e semplificazioni infamanti. Non passeranno. Platea, Fiume e altri luoghi dello Spirito sono scolpiti nell’anima di chi difende la Tradizione. Ed è occupando idealmente quei luoghi, rivisitandoli e custodendone la memoria che i soldati della Tradizione, che non si piegano al conformismo mondialista, sapranno creare gli anticorpi per resistere al nihildella Contro-tradizione.

Federica Francesconi

Natura, letteratura e musica come rivolta spirituale: intervista ad Andrea Anselmo – Mauruzio L’Episcopia

$
0
0

Intervistiamo Andrea Anselmo, piemontese, "mente" e "Anima" di alcuni progetti di indubbia profondità e spessore culturale: tra Natura, letteratura e musica come "rivolta" spirituale contro le degenerazioni dei tempi attuali.  
  • La musica può avere una valenza “superiore”, in senso iniziatico e di ascesi metapolitca? A tuo avviso, può essere in grado, come un “rito” di risvegliare certe coscienze, anche se di pochi,e fare da reagente alle malattie spirituali della società contemporanea?

"Cioran afferma che la scomparsa del silenzio – dal mondo contemporaneo - è da annoverarsi tra gli indizi rivelatori della “fine”; in altre parole quel “silenzio” in cui si trova la divinità, parafrasando Eckhart, è ormai del tutto assente dalla realtà che ci circonda. A partire da questo dato di fatto si tratta di operare una scelta nel rumore di fondo imperante. Si tratta di “cavalcare la Tigre” dell’assenza del silenzio e saper fare della musica uno strumento in grado di strapparci dall’appiattimento verso il basso e riconsegnarci ad una dimensione elevata e qualificante, tramutando così “il veleno in farmaco”. Quindi la risposta è affermativa seppure sofferta. Questa scelta verso una forma musicale iniziatica, ai fini di quella audizione misticadi cui parla Pio Filippani Ronconi, sia essa derivante da un innatismo o da una educazione, ha un risvolto attivo nella purificazione del singolo. Soltanto a partire da tale catarsi interiore si può pensare ad una “catastrofe”, ovvero ad un rovesciamento dello status quo, che in via preliminare deve rivoluzionare l’interiorità dell’ascoltatore, prima di pensare a qualsiasi risvolto metapolitico".

  • Parlaci del Movimento d’Avanguardia Ermetico: si può considerare un capitolo chiuso, cosa ha rappresentato e quali “obiettivi” è riuscito a raggiungere?

"MDAE trae le sue radici musicali e di line up in un progetto precedente attivo nel biennio 99-00, Sarghnagel,con la sua demo “MunfrinHeidentum” che si poneva come Via monferrina all’allora travolgente Black Metal.  Grazie all’apporto di altri musicisti,a partire dal2005 MDAElavora nella direzione di proporre un proprio stile, sfociato in un decennio di composizioni che, nel nostro piccolo e fatte le debite proporzioni, possono essere ascoltateancor ‘oggi come un approccio piuttosto riconoscibile a questo genere musicale. Difficile parlare in termini di “obiettivi”, intale ambito; forse in alcuni casi la nostra musica è riuscita a toccare le corde profonde di qualcuno tra i nostri ascoltatori,ad accendere una scintilla di quel fuoco sacro ad Agni/Ignis: questo rappresenterebbe per noi già un grande risultato".

  • E invece, il nuovo capitolo: Comando Praetorio. In cosa si differenzia dal vecchio progetto musicale e perché hai sentito l’urgenza di iniziare un nuovo percorso “creativo”?

"Anche Comando Praetorio si avvale dell’esperienza di diversi musicisti oltre al sottoscritto ed inizia le sue attività nel 2012 con la finalità di avere un impatto più diretto e violento rispetto a MDAE, nonché liriche più oscure e parzialmente derivanti da una integrazione tra parti vocalideath metal e un impianto musicale black/ambient. Il primo EP, per quanto grezzo e diretto, ha raccolto qualche buon riscontro ma soltanto dopo 4 travagliati anni di composizione siamo riusciti ad arrivare ad un full, “Ignee sacertà ctonie” che è uscito per l’ottima etichetta italiana ATMF nel dicembre del 2019. Comando Praetorio ha un grande pregio dal mio punto di vista, è ancora più underground e quindi si adatta maggiormente alla mia natura riservata".

  • Parlaci brevemente delle iniziative in cui sei coinvolto, a partire da Polemos Forgia Editrice.

"Polemos nasce nell’agosto del 2014 quando, durante un soggiorno “tra gli orsi” del parco dello Yosemite, ricevetti dall’Italia, particolarità dell’archeofuturismo, uno scritto di F Boco intitolato “Polemos”. All’epoca con Francesco, al quale mi lega una amicizia ventennale nata proprio in ambito musicale estremo, pensavamo di costituire a partire da quel manifesto, una rassegna editoriale che facesse sì che il black metal e la cultura estrema in generale tornassero “a fare paura”. Così Polemos vede la luce come un “MicroMega dei cattivi”, dove ospitare saggi e interviste di carattereartistico e filosofico che nessun altro si sarebbe mai sognato di pubblicare. Ma non solo: sullo stendardo di Polemos campeggiano le tre C di Cultura, Culturismo e Clan.Queste devono essere rinsaldate in formazioni claniche autonome rispetto all’ordine costituito dal moralismo borghese e dal suo bisogno di sicurezze, di svago e di stordimento. A partire dalla fine del 2019 Polemos è poi diventata “Forgia Editoriale” dando alle stampe la prima traduzione italiana dal francese di “Loki” del Prof. J. Haudry; un’opera significativa nel suo restituire questa divinità norrena del fuoco alla sua originaria appartenenza indoeuropea, strappandola dalle interpretazioni cristianeggianti e sataniche tanto in voga tra i movimenti pseudo tradizionali contemporanei. La prossima offensiva vedrà la traduzione - per la prima volta nel nostro paese - di “Mightis Right” di Ragnar Redbeard: un feroce e a tratti infame pamphlet che pochi avrebbero il coraggio di stampare".

  • Ritieni che il Black Metal sia stato, in qualche modo, addomesticato finendo con il recitare un “copione” innocuo e stereotipo che fa raggranellare qualche soldo (con un business di nicchia) ma non esercita alcuno stimolo di “terrorismo culturale”? O ritieni che, invece, ci siano realtà estreme di questa musica che possono recitare un ruolo verace e controcorrente?

"Concordo, in linea generale quantomeno, sull’addomesticazione subita dal BM. Altresì ritengo che nell’underground e in particolare “nell’underground dell’underground” ci sia ancora spazio per musica di grande livello unita a quella attitudine di “terrorismo culturale” di cui parli, l’unica realmente consona al genere. Andando con ordine, occorre prendere atto della situazione scevri da idealizzazioni e nostalgismi: la maggior parte dei grandi nomi ha attitudini da rockstar fatte di “sesso droga e rock n’roll”, che vanno quasi sempre di pari passo con uscite musicali decisamente scadenti e concettualmente innocue. Nulla della magia di un tempo sembra rimanere nelle loro composizioni, spesso mere scuse per fare tour in cui racimolare qualche cachete fare festa come le masse dalle quali ci si vorrebbe allontanare (a parole). Purtroppo non soltanto i grandi nomi ma anche una fetta dell’underground scalpita per il suo momento di notorietà e per ritagliarsi il suo posto al sole, tradendo l’elitismo del vero black metal. Anche a livello di visione del mondo ormai, i compromessi con il cristianesimo e i bizantinismi sono all’ordine del giorno persino nelle band underground, complice talvolta la mancanza di un rigoroso senso critico da parte del pubblico che tutto avvalla, senza saper o voler ravvisare i corto circuiti ideologici o le palesi incoerenze attitudinali di alcuni. Qualcos’altro attende però nell’ombra, sul lato notturno della realtà: indipendentemente dal sottogenere,esiste infatti un sottobosco di band coerenti, per lo più del tutto sconosciute ma degne di assoluto supporto e rispetto, in grado di unire produzioni e attitudini realmente oscure, radicali ed elitarie,tali da non scendere a patti con i bizantini del XXI secolo".

  • Che ruolo ha la Natura nella tua musica o nella tua visione del mondo? Ha un’influenza, come artista ma anche nella tua vita personale e quotidiana?

"La maggior parte delle musiche composte da MDAE e CP traggono origine dal costante rapporto con l’ambiente montano, con le attività escursionistiche e talvolta alpinistiche dei vari membri coinvolti. Nel mio piccolo, l’assidua frequentazione dell’alta montagna ha avuto il suo acme nel periodo 2004 – 2017 durante il quale ho avuto modo di vivere e lavorare in Valle d’Aosta, potendo così acquisire alcuni rudimenti di arrampicata e di passare dal semplice escursionistico all’alpinismo, attraversando così i primi ghiacciai, conquistando le prime vette oltre i 4.000 mt e passando nottate solitariein bivacco. Anche lo studio dei resti dei culti litici precristiani, in area alpina e pedemontana, ha avuto un grosso impatto d’ispirazione, non soltanto a livello lirico. Non bisogna però confondere la frequentazione della wildernerss con uno squilibrato culto matriarcale o con una riduzione naturalistica del paganesimo e delle tradizioni precristiane, come fanno i movimenti wicca o tutti coloro che ignorano la lezione fondamentale degli studi indoeuropei. D’altro canto la metamorfosi del clima (gli impianti di risalita che fino a trent’anni fa servivano come skilift oggi giacciono abbandonati e scheletrici su prati erbosi che non conoscono neve neppure in pieno inverno; sfidando ogni negazionismo climatico), l’inaridimento, la siccità, il Natale 2020 in maglietta maniche cortenonché l’inquinamento delle acque, sembrano davvero rappresentare tangibilmente la premonizione nietzschiana del “deserto che avanza”. Il rifugio, simbolico e spirituale, è la foresta, il bosco oscuro già additato dagli inquisitori cristiani come sede dell’arcano e di ciò che ci ricongiunge alle nostre radici. È il culto dell’Albero presso i Longobardi a Benevento, estirpato dalla desertificazione nazarena.Non a caso la natura selvaggia è oggi additata con sospetto dagli integralisti abramitici nemici del corpo, della sensualità e della materia; così si torna a considerare i predatori come “animali nemici del popolo” di sovietica memoria: Lupi, orsi e così via, ridotti a poche centinaia di esemplari e che qualcuno vorrebbe nuovamente portare alle soglie dell’estinzione.  Questa squilibrata ipertrofia del lato solare e diurno è in netta contrapposizione – con buona pace dei tradizionalisti – con l’autentica, equilibrata ed originaria bipartizione della funzione sovrana indoeuropea. Questa infatti conosceva sia divinità del cielo Diurno – come Dyaus Pita, Iuppiter, Zeus e Tiwaz – così come divinità notturne eppure sovrane, più inquietanti ma anche più antiche, come Varuna, Urano e Wodanaz".

 
  • Ti riconosci in qualche forma specifica di Religiosità? Che ruolo ha o deve avere nella tua ottica?

"Senza una visione verso l’alto e una discesa dall’alto di una qualificazione realmente superiore ogni tentativo di spezzare le catene della modernità difficilmente può avere il crisma dell’autenticità. Altresì, purtroppo, le radici spirituali che ci riconnetterebbero all’autentica Origine, sono state in gran parte recise dalla gigantesca operazione di infiltrazione e sostituzione operata “dalla religione venuta a prevalere in Occidente”, il cristianesimo. La distruzione della spiritualità greco romana, operata nel periodo tardoantico, passava dalla devastazione delle immagini degli Dei alle quali si offrivano sacrifici: per questo le turbe di fanatici del deserto, ebbri del risentimento dei malriusciti, si scagliarono sfregiando i visi più belli che il mondo avesse mai conosciuto, abbattendo e disperdendo l’immenso patrimonio artistico greco romano, al fine di privare gli antichi culti delle loro fondamenta. La distruzione della biblioteca di Alessandria e del novanta per cento della letteratura antica sono un dato di fatto incontrovertibile.  Provoca una enorme commozione la scoperta di statue e altri reperti interrati od occultati all’epoca, al fine di non venir distrutti dai fanatici cosmopoliti, come quei parabolaniche misero a morte l’astronoma Ipazia. La Storiala scrivono i Vincitori e questo vale per i fanatici Cristiani del Tardo Impero, così come per i Bizantini dell’alto medioevo che devastarono l’Italia pur di sconfiggere gli eretici Ostrogoti o per i Franchi, braccio armato del Papato contro i Sassoni pagani e i Longobardi. E per tutti questi motivi non è il cristianesimo a cui si può guardare per una palingenesi, se non in rari casi di mistici in odore di eresia, come Meister Eckhart. Cristianesimo il quale peraltro, grazie al “pontificato” di Bergoglio, sta tornando alle sue origini cosmopolite e degradate: ci si augura che presto possa andare incontro alla sua nemesi e che si presenti la possibilità di inverare la massima: “a ciò che sta per cadere si dia una spinta”. Il termine di Pontefice si rifaceva,prima che divenisse una carica proprio alla religione di Cristo, al Ponte Sublicio e al farsi tramite verso gli Dèi: oggi il ponte voluto dalla Chiesa è quello verso il cosmopolitismo, l’appiattimento e la globalizzazione. Preso atto di questa gigantesca perdita non ci resta che farci interpreti, spiritualmente, di un nuovo inizio oltre le forme passate, che inveri nuovamente lo spirito dell’Origine: così come i rshi ebbero la visione fondamentale dei Veda (latino Video), poiché infervorati dal tapas (latino tepeo), il calore prodotto dall’intensa attività ascetica così noi dobbiamo farci i nuovi vaticinanti (latino vates, germanico Wodanaz, gallese gwawd). I Druidi erano astronomi, matematici e filosofi, non fricchettoni wicca: costoro sono da intendersi etimologicamente, sempre come il sanscrito veda e il latino video, Dr-vid: coloro che vedono rettamente.  Solo tramite la purificazione e la rivoluzione interiore e microcosmica sarà possibile una catastrofe o rovesciamento a livello macrocosmico. L’età dell’oro rifiorisce in primis nella nostra interiorità purificata.

  • Cinema, musica, libri: quali sono i tuoi modelli e quali sono, secondo te, gli spunti necessari per un mondo non conforme?

"Ci tengo a sottolineare che oggi è doveroso per coloro che vogliono superare forme nostalgiche o stereotipe saper guardare oltre gli steccati e abbeverarsi così da più fonti, pur nel rispetto della qualità e dell’onestà intellettuale. Grandi pensatori italiani, come il marxista Costanzo Preve, rappresentano in tal senso un ottimo esempio di coraggio intellettuale. Anche questo è un modo per superare le angustie del XX secolo nella direzionedel nuovo inizio e verso nuove sintesi. Fatta questa doverosa premessa vorrei menzionare un altro mezzo non incluso nel tuo elenco: la fotografia. In ogni disco, congiuntamente con gli altri membri delle band nelle quali ho avuto modo di suonare,abbiamotentato corredare le parole e la musica ad una coerente espressione fotografica e visuale, nel tentativo difficile eppure affascinante di creare un’opera d’arte totale (fatte ovviamente le debite proporzioni e con tutta l’umiltà del caso). Per quanto riguarda gli studi inodoeuropei credo che siano imprescindibili tre grandi autori francesi: Dumezil, Benveniste e Haudry. La loro lettura è davvero basilare per chiunque voglia approcciare la mitologia e le forme di spiritualità precristiane. A livello filosofico, mi sono dedicato con grande passione ad autori quali lo Junger degli “Scritti Politici e di Guerra” nonché di “Eumeswil”, l’Heidegger dei famigerati “Quaderni Neri” e Giorgio Locchi: quest’ultimo sta godendo fortunatamente di una preziosa opera di riscoperta. Ci terrei a sottolineare l’importanza – anche per il riflesso che hanno avuto nei dischi di MDAE-di autori quali Cioran, Borges e Pessoa. Quest’ultimo, al quale mi lega peraltro il destino funesto della professione contabile, che redasse ai margini dei fogli di partita doppia gli appunti che formeranno poi le pagine immortali del suo “Libro dell’Inquietudine”; sempre Pessoa, nella sua veste di esoterista in grado di correggere Crowley e di organizzare con lui la beffa di Boca do Inferno. Oppure Borges, il grande poeta argentino, che volle conoscere quei contadini rimasti pagani d’Islanda. Parlando di ermetismo poi, come dimenticare Meyrink o il Gruppo di Ur? Ultimo per menzione, ma non per importanza nella mia formazione personale, è certamente H.P. Lovecraft che, con i suoi Dèi esterni ed alieni, ha saputo descrivere un tratto del terrore divino e della disperazione metafisica dell’uomo, meglio di tanti altri più celebrati autori. In campo musicale credo ci sia da tenere sempre ben aperte le porte della percezione verso generi quali il Dark Ambient, l’Industrial in tutte le sue sfaccettature – death industrial, powerelectronics, noise - ed il Neo Folk: radicalismo, oscurità ed eversione culturale si trovano in questi generi non meno che nel metal estremo".

  • È possibile ispirarsi concettualmente e spiritualmente ad esperienze passate senza però scadere nell’alienazione del passatismo nostalgico e senza sottovalutare comunque i mezzi che la scienza mette sempre più a disposizione, usandoli come “mezzo” di corto-circuito invece che come fine sterile?

"Credo che la risposta “Archeofuturista” sia la più grande arma concettuale a nostra disposizione in questo ambito, in grado di effettuare una feconda sintesi tra la tradizione e i nuovi mezzi tecnologici.Per questopoderoso strumento intellettuale dobbiamo ringraziare il compianto G. Faye. Senza contare come già la figura dell’Arbeiterjungeriano ne anticipasse i contenuti:le schiere di “Artefici” (cit.) dai tratti irrigiditi in maschere metalliche, forgiate nel fuoco della distruzione, che costituivano un Ordine monastico in grado di utilizzare la tecnica per mobilitare il mondo, erano in potenza una prefigurazione dell’Archeofuturismo di Faye. La figura dell’Arbeiter fu così seminale che persino Evola gli dedicò un apposito volume, che per molti versi già contiene alcuni degli spunti per l’uomo differenziato che “cavalca la Tigre” ".

  A cura di Maurizio L'Episcopia  

Sull’Impero e la democrazia – Stefano Moggio

$
0
0

La democrazia non può che essere la forma di Governo dell’età ultima, difatti è il “dèmos” [δῆμος], la folla errante e pettegola, indemoniata – come indica l’etimo della parola stessa – e quindi divisa, a contendersi il potere, la reggenza della Nazione (che oggi più non è, essendo sostituita dallo Stato, con tutto ciò che tale cambiamento implica e su cui non ci soffermeremo in questa sede); è il popolo (dal latino “poples”, ovvero “ginocchio”), colui che arranca sulle ginocchia, piegato, a decidere quale autorità dovrà tenere la frusta, mentre nella forma più alta di Governo, nell’idea di Stato che trascende se stesso portando seco ogni suo membro, non può ravvisarsi che l’Impero: qui, il vero Popolo, unito, non disperso in tante fazioni contrastanti – specchi per le allodole della diabolica democrazia –, agisce come un unico organismo, unito e armonico, al medesimo tempo coeso seppur nella divisione di differenti ruoli all’interno del macro-organismo imperiale (ruoli assegnati per vocazione, secondo la tradizione dei mestieri antichi).

Ogni individuo adempie con gioia al proprio dovere, non per sé né per l’Imperatore – che è figura simbolica e analogica essendo il suo ruolo semplicemente quello di rappresentare il centro dell’Universo, l’axis mundi, il perno attorno a cui tutto deve girare, principio ordinatore del cosmo, anch’esso soggetto alla Legge – ma per il bene della comunità, che UNITA, senza bandiere, senza fazioni, senza lotte di classe, senza partiti, lavora e gioisce nella reciproca diversità e condivisione dei beni, essendo il servizio offerto alla Comunità – e non a sé e per sé – opera d’altruismo e d’Amore che eleva gli animi di chi in tal senso operi, affratellando uomo a uomo, donna a donna, come la cellula del corpo umano che pur agendo da cellula secondo il ruolo assegnatole dalla Natura, diviene “Uomo” in quanto la sua azione permette all’Uomo di esistere.

Così la concezione primordiale ed aurea dell’Impero – lungi dall’essere assimilata a perversa tirannide, sua degenerazione – è la più elevata forma di Governo e di coesione sociale, volta all’altruismo, al bene comune, alla vera nobilitazione tramite il lavoro, poiché questo non viene fatto per profitto – il lucro economico essendo di secondario interesse o addirittura assente – bensì per servire la causa superiore del Bene della Comunità e, tramite questo servizio, trascendere ogni sensazione di appropriazione e possesso, di ritorno per sé soli, di arricchimento personale, in un’azione che volge parimenti verso l’Alto e verso il prossimo, essendo il suo frutto raccoglibile da chiunque, azione che induce così alla rinuncia verso ogni brama e finalità personale.

L’operato di ognuno non è per sé soli ma per la comunità intera, il sudore del lavoro versato sotto il vessillo imperiale, che affraterna ogni essere in un altruismo letteralmente cattolico (dal greco “katholikós” [καθολικός], ovvero “universale”), è spinto dall’Amore per l’Umanità intera verso cui non ci si sente separati ma parti integranti: per questo motivo io  ritengo che solo quando l’Aureo Impero risorgerà, si porrà fine a questa Età Oscura, e l’Umanità tornerà ad essere UNO.

Stefano Moggio
Viewing all 537 articles
Browse latest View live